Tra Soul E Blues, E Che Qualità! John Nemeth – Memphis Grease

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John Nemeth – Memphis Grease – Blue Corn Music

Sempre per il famoso assioma che sapere i nomi dei musicisti che suonano in un disco non sia importante, vediamo chi appare in questo Memphis Grease, il nuovo eccellente (e qui mi scopro subito) album di John Nemeth. Si fanno chiamare The Bo-Keys, in onore dei vecchi Bar-Kays (captata l’assonanza?) e come lascia intuire il titolo del disco vengono da Memphis; Tennessee, sono bianchi e neri, come è sempre il caso in queste formidabili formazioni e sono guidati da Scott Bomar, che è il bassista e anche il produttore, nonché quello che li ha assemblati per accompagnare Sir Mack Rice (un degno epigono Stax di Wilson Pickett, basti dire che ha scritto Respect Yourself e Mustang Sally), poi il gruppo ha proseguito registrando alcune colonne sonore tipo Hustle & Flow e Soul Men, oltre all’ottimo disco di Cyndi Lauper Memphis Blues. 

Gli altri sono anche meglio: Howard Grimes, il batterista, suonava nei dischi della Hi Records con Al Green e Ann Peebles, Mark Franklin, Kirk Smothers e Art Edmaiston erano con Rufus Thomas, Bobby “Blue” Bland e sempre Al Green, Joe Restivo e Al Gamble, sono più giovani, come Bomar, ma hanno già un pedigree notevole. Tra i vocalist coinvolti c’è anche l’ottima Susan Marshall. Se Nemeth, nativo dei dintorni di Boise nell’Idaho, ma da molti anni residente nella calda California si è trasferito a Memphis un motivo ci sarà, qualcosa che si respira nell’aria, per le vie, negli studi di registrazione. Il nostro amico, cantante ed armonicista, era già bravo di suo, come dimostrano i precedenti otto album, tra cui il notevole Name The Day, uscito nel 2010 per la Blind Pig, ma in questo album fa un ulteriore salto di qualità.

La quota blues è sempre presente, ma arricchita da una abbondante dose di soul e R&B di grande qualità, originali e cover indifferentemente, se vi sono piaciuti i dischi recenti di Boz Scaggs e Paul Rodgers, o amate gente come James Hunter, Shirley Jones, Eli “Paperboy” Reed (bravissimo, peccato lo conoscano in pochi), e quindi sia blue-eyed soul che veri soulmen di colore, non abbiate problemi, questo è il disco che fa per voi. Three Times A Fool, il brano che apre il disco, è una canzone scritta da Otis Rush, ma da come i musicisti la prendono di petto, infarcita di fiati e con ritmi errebì carnali, avreste potuto trovarla su un disco d’epoca di Albert King, magari su Stax, con l’armonica al posto della proverbiale chitarra e una voce nera come il carbone. Saranno anche “revivalisti” questi musicisti, ma viva il revival se è così bello, Joe Restivo, per non sbagliare, ci piazza comunque un assolo di chitarra di quelli tosti e tirati https://www.youtube.com/watch?v=09X2TtizZLo .

Sooner Or Later è un delizioso mid-tempo soul, con fiati sincopati e la voce vellutata di Nemeth che titilla i vostri padiglioni auricolari https://www.youtube.com/watch?v=OccUNl4EHSM , mentre Her Good Lovin’ è un funky-blues di quelli duri e puri con la chitarrina di Restivo e l’organo di Gamble che spingono la voce di John verso le vette dei grandi neri del passato, senza dimenticare di soffiare con gusto nella sua armonica. Stop, il pezzo di Mort Shuman e Jerry Ragovoy, avrebbe potuto, come Piece Of My Heart, Try, Cry Baby, Get It While You Can, far parte del fantastico repertorio di Janis Joplin, invece la cantò “solo” Howard Tate e apparve in Supersession di Al Kooper & Mike Bloomfield , Nemeth la interpreta alla grande e Restivo ci piazza pure un bel assolo di chitarra, di quelli fulminanti. If It Ain’t Broke è una ballata deep soul, di quelle da tagliarsi le vene, con il nostro John che canta come fosse Al Green reincarnato in un corpo bianco, falsetto incluso, una meraviglia.

 

I Can’t Help Myself torna verso tematiche più errebi, grinta della ritmica e dei fiati, organo e chitarra d’ordinanza e vai! Poi c’è una cosa meravigliosa: una versione di Crying, proprio quella di Roy Orbison, trasformata come solo Otis Redding o qualche altro genio dei tempi, avrebbe potuto farla ai Muscle Shoals, sul finire degli anni ’60, da brividi, sentire le liriche classiche in un ambito soul è una delizia assoluta! Anche solo per questo brano il disco varrebbe il prezzo di acquisto, ma pure il resto non scherza, My Baby’s Gone sta ancora tra blues e R&B sanguigno, con l’armonica che pennella, Testify My Love addirittura va verso il gospel più celestiale, Bad Luck Is My Name è un altro funky-blues fiatistico e sanguigno, mentre Keep The Love A Comin’, è solo un bel pezzo di blues, fatto come Dio comanda e anche Elbows On The Wheel è su queste coordinate, ritmi funky e suoni blues, con corettini immancabili, anche se siamo nelle normalità, in confronto ad alcune perle di questo Memphis Grease. Che però ha un ultimo colpo di coda, con un’altra ballata languida come I Wish I Was Home dove si gusta ancora una volta il perfetto phrasing della voce di John Nemeth, l’intonazione impeccabile, se preferite in italiano. Se vi piacciono il soul e il blues, meglio se insieme, ultimamente di dischi così belli ne escono pochi.

Bruno Conti

Meglio La Figlia…Heidi Feek – The Only

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Heidi Feek – The Only – Western PinUp Records

Una delle regole auree quando recensisco qualche disco (ma anche negli ascolti privati, sin dai tempi del vinile) è quella di ascoltare prima e leggere poi, per avere un giudizio sgombro da condizionamenti. Certo le note di copertina, per i titoli, eventuali musicisti ed ospiti ed i testi, si leggono mentre si ascolta il CD. Ma nel caso di questa giovane (e assai carina) Heidi Feek le informazioni sono veramente scarse, rete esclusa, dove si trova tutto. The Only dovrebbe (lo è, poi ho verificato) essere il suo album di esordio e la mia prima impressione ascoltandolo, sin dalla canzone di apertura, I Like The Way, lo giuro sul manuale delle Giovani Marmotte, è stata quella di trovarmi di fronte ad una novella Neko Case (quella più country alternative del primo periodo), accompagnata dalla band di Chris Isaak e con molte similitudini anche con Patsy Cline e Roy Orbison. Per cui mi ha fatto poi molto piacere verificare sul suo sito che la ragazza si è autodefinita: “un misto dell’estasi di Patsy Cline, la carica emotiva di Chris Isaak e le balle di Neko Case”.

E tutto calza a pennello, la giovin signora è veramente brava, bella voce (retaggio familiare, è la figlia di Joey+Rory, un duo country-bluegrass che negli ultimi anni ha pubblicato una serie di buoni album, l’ultimo, lo stesso giorno di uscita di questo The Only), molti anni on the road proprio con i genitori per affinare le sue qualità ed una notevole freschezza, nonché una buona penna, a giudicare dalle canzoni contenute nell’album.

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E’ ovvio che ormai nulla si crea e nulla si inventa, ma se ciò che fai lo esegui bene è già è un buon punto di partenza. E qui ci siamo! Registrato negli studios di Nashville dal profetico nome Welcome To 1979 (quello mi era saltato subito all’occhio leggendo le note, pensavo fosse una cantante dedita alla musica anni ’70 e in effetti qualcosa c’è), co-prodotto con il babbo Rory (che firma con lei anche gran parte dei brani), con un manipolo di validi musicisti in cui spicca la chitarra elettrica di Jeremy Felzer (che suona anche con Caitlin Rose, un’altra di quelle brave), che nella band svolge il ruolo che fu di James Calvin Winsley nei primi quattro e migliori dischi di Chris Isaak, con un sound riverberato e meraviglioso che ci riporta agli anni ’50 e ai primi anni ’60. Dopo la movimentata apertura, i ritmi si fanno più rilassati in Someday Somebody, con il “chitarrone” di Felzer che ben si accoppia con una pedal steel e le tastiere che sono gli altri elementi portanti del sound del disco e  la voce mi ricorda quella di una delle due cantanti dei Fleetwood Mac, ma Christine McVie che non viene mai citata a favore di Stevie Nicks, pur avendo la voce migliore, anche se forse meno caratteristica. 57 Bel Air ha quell’aria Orbison/Elvis anni ’50 ma con un suono anni ’70, appunto molto Fleetwood Mac epoca West Coast. The Only ha qualche la cadenza alla Patsy Cline, o meglio, molto vicina alla prima Neko Case quando era una piccola Orbison in gonnella.

Berlin, sempre in una atmosfera molto ricca di riverberi, introduce anche qualche elemento jazzy and blues, con un bel lavoro delle tastiere e nel suo essere vintage ha comunque un “feel” contemporaneo, come tutto il disco peraltro, raffinato e ricercato, ma con la giusta dose di pop, come usavano fare ai tempi tutti i nomi citati, perché non è un delitto, se ben fatto. One Night With You si candida per qualche futura colonna sonora di Quentin Tarantino, chitarra acustica che affianca la solita elettrica svisata, contrabbasso anche con archetto, un drumming molto composito, la pedal steel sullo sfondo e un’atmosfera molto noir che potrebbe ricordare certe cose di Anna Calvi, cantata con gran classe. Pretty Boy, sempre a proposito di Fleetwood Mac, ha un groove che ricorda moltissimo Rhiannon, completa di breve assolo alla Lindsey Buckingham, sempre se l’avesse cantata la voce più profonda di Christine McVie.


Take It Slow è una bella ballata molto sixties e There Lives A Fool, viene da ancora prima, con la già citata Cline nel DNA, quel country pop di gran classe che allora usava. I Don’t Know About You è nostalgia allo stato puro, West Coast, ma di quella dei Beach Boys, surf-pop con un pizzico di Anka e Sedaka. Per l’unica cover del disco cosa ti va a pensare la geniale figlia d’arte? Ragazzi, che ne direste se facessimo una bella versione di Heartbreak Hotel? Ma rallentata, moolto rallentata, non tipo la versione di John Cale, stiamo dalle parti di Chris Isaak, non potendo competere con la voce di Orbison, facciamola ad una tonalità molto più bassa. E sapete una cosa? Funziona, come tutto il resto del disco. Vedremo come evolverà la sua carriera, per il momento, promossa!

Bruno Conti  

Giù Il Cappello Davanti Al Bisonte! Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill

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Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill – Reprise/Warner 2CD

Lo dico subito così mi tolgo il pensiero: questo è il miglior disco di Neil Young da 22 anni a questa parte, cioè da Ragged Glory, anch’esso guarda caso inciso in compagnia dei Crazy Horse.

Non che in questi anni il canadese non abbia fatto dei bei dischi, anzi, in alcuni casi si è espresso tra l’ottimo e l’eccellente (il recente Le Noise, ma anche Prairie Wind, Broken Arrow e Chrome Dreams II erano a mio parere grandi album), ma con Psychedelic Pill (primo disco di materiale originale insieme ai Crazy Horse dal 2003, Greendale, un disco per molti irrisolto ma che a me era piaciuto molto) siamo decisamente su un altro pianeta.

E’ chiaro ora che Americana, il disco uscito quest’estate sempre in compagnia di Frank “Poncho” Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina, nel quale Neil rivisitava a modo suo alcuni classici della musica popolare statunitense (e non solo, basti pensare a God Save The Queen), era una sorta di riscaldamento in previsione di questo album: ebbene, in Psychedelic Pill (non un gran titolo, e la copertina è anche peggio) Young ritrova quella ispirazione e quella continuità dei tempi belli, con una serie di canzoni di primissima scelta, eseguite con la solita maestria (e con il tipico suono quasi da garage band degli Horse) ma con un feeling in dosi da cavallo, anzi da bisonte, visto di chi stiamo parlando.

Ancora prima dell’uscita del disco, su internet impazzavano le notizie sulla durata dei brani, soprattutto Driftin’ Back, che apre il disco: più di ventisette minuti, di gran lunga la canzone più lunga mai messa su disco da Neil, ma anche altri due brani superano il quarto d’ora ed uno “solo” gli otto minuti.

Ebbene, di certo qualcuno parlerà di ripetitività ed autoindulgenza: non date retta, qui c’è solo grande musica, non un secondo di noia, in pratica più di ottanta minuti di goduria pura.

Prendete proprio la già leggendaria Driftin’ Back: dura quasi mezz’ora, ma credetemi non me ne sono accorto! Inizio acustico affascinante, poi la band entra quasi di soppiatto alla fine della prima strofa e da lì il quartetto non si ferma più: bella melodia, assoli continui di Young, ma il suono è fluido e rilassato, anche se il ritmo è cadenzato. Di sicuro una delle canzoni dell’anno.

Psychedelic Pill, la canzone, è quella che mi piace meno (ma è anche la più breve, circa tre minuti e mezzo): chitarre dure, voce quasi filtrata, un brano “normale”. Con Ramada Inn (quasi diciassette minuti) ricomincia lo sballo: fluida, lirica, armoniosa, ricorda capolavori del passato come Cortez the Killer, mentre la più breve Born In Ontario è saltellante e decisamente orecchiabile, con i tre cavalli pazzi che non perdono un colpo e Neil che arrota da par suo.

Il primo CD, circa cinquanta minuti, è finito, ed io mi sarei anche accontentato, ma ancora non sapevo che il secondo è ancora meglio.

Certo, non c’è un brano alla Driftin’ Back, ma la qualità media è addirittura superiore, a partire da Twisted Road, una rock song molto immediata con un testo nostalgico che parla di Bob Dylan, Roy Orbison e Grateful Dead, ed un canto appassionato da parte di Young.

She’s Always Dancing è uno dei brani meno nominati negli articoli che ho letto finora, ma forse è quello che preferisco: le chitarre qui si induriscono leggermente, ma è il modo con cui Young suona che è sublime, non sarà un mostro di tecnica, ma sopperisce con dosi di pathos immense, e poi ha uno stile che riconosci dopo due note (qui alcuni passaggi mi rimandano a Like A Hurricane).

For The Love Of Man è un lento, sempre elettrico ma con accompagnamento leggero, e toni quasi gospel, ma ha una delle melodie più suggestive e toccanti mai scritte dal nostro: qualche brividino lungo la spina dorsale è garantito.

Chiude la maestosa Walk Like A Giant (altri sedici minuti), una cavalcata possente ed un refrain splendido, un’altra delle candidate al premio di miglior brano del disco (alla fine c’è anche spazio per una ghost track, cioè una versione di Psychedelic Pill con un mix alternato, molto migliore anche nella parte vocale).

Che altro dire? Per me, un mezzo capolavoro: a quasi settant’anni Neil Young è ancora un numero uno.

Marco Verdi

Anche Per La ELO Sono 40 Anni…E Jeff Lynne Si Fa In Due!

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Jeff Lynne: Long Wave

Jeff Lynne/ELO: Mr. Blue Sky – The Very Best Of Electric Light Orchestra – Frontiers Records CD

Prima precisazione (lo so, non si comincia una recensione con una precisazione, ma il titolare di questo Blog mi ha concesso piena libertà…): sono sempre stato nel dubbio se dire “gli” ELO o “la” ELO, e alla fine ho optato per la seconda, in quanto Orchestra in greco (lingua dalla quale deriva) è una parola femminile (fine della lezione).

Seconda precisazione: gli anni sarebbero 41 (infatti il primo album, l’omonimo Electric Light OrchestraNo Answer in America – è del 1971), ma mi sembra che nell’ultimo periodo artisti e case discografiche con gli anniversari non vadano molto per il sottile.

Come avevo già accennato nella mia recensione dell’ultimo disco di Joe Walsh, Analog Man, ho sempre avuto una predilezione per Jeff Lynne, sicuramente poco condivisa tra i frequentatori abituali di questo Blog (ma chi non ha dei piaceri “proibiti”?): secondo me il fatto di essere stato per anni il leader della ELO, cioè uno dei gruppi di maggior successo commerciale degli anni settanta, gli ha inviso gran parte della critica musicale “colta”, che ha finito per sottovalutare la sua grande abilità come songwriter pop e, soprattutto, come arrangiatore e produttore (il Washington Post lo ha addirittura recentemente messo al quarto posto tra i produttori musicali più importanti di tutti i tempi, mica bruscolini…). Certo, alcuni arrangiamenti di celebri brani della ELO non erano proprio il massimo, ed il flirt con la musica disco (l’album Discovery) non è stata un gran scelta per Jeff (per l’immagine, il suo conto in banca è cresciuto eccome), ma, come ha dimostrato in seguito George Harrison “sdoganandolo” per fargli produrre il suo album Cloud 9, ci trovavamo di fronte ad un fior di musicista. Da quel momento, e per molti anni, Lynne diventò il produttore “da avere”, e fu chiamato da gente non proprio di seconda fascia, tra cui Tom Petty, Roy Orbison, Paul McCartney, Randy Newman, Brian Wilson (uno che non ha bisogno di produttori), i Beatles riuniti e molti altri, oltre a far parte con Harrison, Orbison, Petty e Bob Dylan di quel meraviglioso ensemble dopolavoristico che furono i Traveling Wilburys.

Come solista non ha mai prodotto molto: un album nel 1990 (Armchair Theatre), passato quasi inosservato, ed un disco nel 2001, Zoom, accreditato però alla ELO per motivi puramente di marketing (ma nel disco suonava solo Jeff). Ora, dopo aver scaldato le gomme producendo circa metà del disco di Joe Walsh, Lynne si rifà vivo con ben due progetti in una botta sola: il primo, Mr. Blue Sky, sembra apparentemente la centotreesima antologia della ELO, ma in realtà sono incisioni nuove di zecca fatte da Jeff in perfetta solitudine, suonando tutti gli strumenti, di dodici brani storici più un inedito, mentre il secondo, Long Wave (dalla bellissima copertina) è una serie di rivisitazioni fatte da Lynne di evergreen da lui ascoltati alla radio durante gli anni della giovinezza.

Diciamo una cosa, e cioè che anche il più fedele dei fans, dopo undici anni di silenzio assoluto, avrebbe potuto storcere la bocca vedendosi davanti due dischi con appena una canzone nuova (e l’album di cover che dura mezz’oretta scarsa), ma il buon Jeff ha subito pensato di stoppare le eventuali critiche annunciando di essere già a buon punto su un nuovo album di inediti, in uscita probabilmente già il prossimo anno.

Oggi vorrei parlare principalmente dell’album di covers, in quanto Mr. Blue Sky è una sorta di regalo ai fans della ELO, una serie di brani famosissimi reincisi in quanto, a detta di Jeff, gli originali lo avevano sempre lasciato non del tutto convinto. Ebbene, alcuni di questi brani suonano quasi come copie carbone degli originali, anche se si sente che il suono è notevolmente migliorato (Evil Woman, Mr. Blue Sky, Turn To Stone), mentre in altri si sente eccome il miglioramento, la voce è più centrale, i suoni più nitidi, gli arrangiamenti più asciutti e “rock”: fanno parte di questa seconda categoria brani come Do Ya (che vi piaccia o no, uno dei più bei riff di chitarra della storia), Livin’ Thing (ovvero le radici del Wilbury sound), la splendida ballata Can’t Get It Out Of My Head, l’errebi Showdown (che era uno dei brani preferiti in assoluto da John Lennon). Il meglio viene alla fine, con una versione tosta e vigorosa di 10538 Overture, che apriva in origine il primo disco della ELO (l’unico con Roy Wood in formazione), e la nuova Point Of No Return, un brano rock, decisamente caratterizzato dal tipico Lynne sound, con una melodia estremamente orecchiabile. Un bel disco, anche se fondamentalmente inutile, che delizierà i fans e lascierà indifferenti tutti gli altri.

Ed ora veniamo a Long Wave, che come ho già detto presenta una serie di brani che Jeff ha amato particolarmente durante la sua giovinezza, arrivando come limite temporale fino alla fine degli anni ’50 (ecco dunque spiegata l’assenza di canzoni dei Beatles, vera fonte d’ispirazione in seguito per Lynne): diciamo subito che, a paragone con i dischi analoghi di Rod Stewart e Glenn Frey (che facevano alquanto calare le palpebre, e anche qualcos’altro…), Jeff non ha ripreso alla lettera le sonorità originarie, ma ha intelligentemente usato arrangiamenti più personali e moderni, usufruendo dei suoi abituali trucchi di studio (riverberi, wall of sound di chitarre acustiche, batteria molto pestata, cori in stile Beach Boys); se vogliamo fare però una critica (oltre all’eccessiva brevità del CD), in alcuni casi le interpretazioni suonano un po’ troppo superficiali, quasi che Jeff avesse una sorta di timore referenziale nei confronti dell’originale. Un fatto che, comunque, non rovina la godibilità del dischetto al quale, ripeto, avrei piuttosto aggiunto almeno un altro quarto d’ora di musica.

L’apertura è ottima con la splendida She, un classico assoluto di Charles Aznavour, che Jeff ripropone arrangiandola come un brano ELO al 100% (senza diavolerie elettroniche però), elettrificandola e riuscendo nella non facile impresa di farla sua.

Anche If I Loved You (di Rodgers & Hammerstein, tratta dal musical Carousel) prosegue sulla stessa falsariga: voce in primo piano, suoni semplici (piano, chitarra e batteria), e brano che si ascolta con piacere. In So Sad degli Everly Brothers Jeff canta proprio come Phil e Don, cioè doppiando sé stesso, inventandosi un accompagnamento acustico che ricorda le cose dei Wilburys; Mercy Mercy, un successo di Don Covay, è invece un gustoso errebi dal sapore sixties, che Lynne personalizza con i suoi tipici riverberi. E’ anche il primo singolo, ed è accompagnato da un divertente video nel quale Jeff esegue il brano accompagnato da tre suoi cloni (un’idea già sperimentata da McCartney nel video di Coming Up). (*NDB. La facevano anche gli Stones).

Misurarsi con Roy Orbison è sempre un rischio, ma Running Scared rientra nelle corde di Jeff, e la cover si può dire riuscita, anche se Lynne soffre un po’ il confronto vocale con Roy (ma va?); Bewitched, Bothered And Bewildered (di Rodgers & Hart) è l’unica del disco ad essere un tantino soporifera, mentre la nota Smile di Charlie Chaplin è una gran bella canzone, e Jeff le trasmette un po’ di sapore pop-rock che non guasta. La notissima At Last esce bene dal Jeff Lynne treatment, non differisce molto dall’originale di Etta James (tranne che per la voce, ovvio) e si segnala come una delle più riuscite dell’album; avevo paura prima di ascoltare Love Is A Many Splendoured Thing, il superclassico tratto dall’omonimo film diretto da Henry King, ma Jeff mi ha stupito con un arrangiamento dei suoi, bella voce e performance fluida.

Un po’ di rock’n’roll ci voleva: Let It Rock (Chuck Berry, of course) viene eseguita in maniera trascinante, anche se finisce proprio sul più bello; l’album si chiude con la splendida Beyond The Sea (originariamente La Mer di Charles Trenet, ma diventata un successo internazionale in inglese per mano di Bobby Darin), rifatta da Jeff in maniera molto vigorosa.

(N.D.M: nella versione giapponese del CD, che è quella in mio possesso – anche perché l’uscita mondiale del disco è intorno al 10 Ottobre – si trova un brano in più, e cioè Jody di Del Shannon, in origine sul lato B del singolo Runaway e, in effetti, del valore di un lato B).

Quindi un uno-due gradito (almeno a me) da parte di Lynne, un antipasto nell’attesa dei suoi progetti futuri, sperando che non faccia passare altri undici anni.

Marco Verdi

P.s. *NDB A noi del Blog (e a me che lo faccio) invece Jeff Lynne (non sempre) ci piace e quindi questi dischi, che mi sembrano assai piacevoli, a maggior ragione incontreranno il (mio) nostro favore!

Dall’America Via Europa Due Ottime Voci! Parsons & Thibaud – Transcontinental Voices

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 Parsons Thibaud – Transcontinental Voices – Blue Rose Records 2011

Joseph Parsons songwriter di Filadelfia e Todd Thibaud originario di Boston (ed ex leader dei Courage Brothers), da tempo attivi sul mercato tedesco e dopo varie collaborazioni in tour, hanno deciso di sfornare questo lavoro a quattro mani (il loro secondo in coppia), per circa quaranta minuti di buona musica. I nostri “compagni di merende” si sono divisi equamente i dieci brani del dischetto, e il suono è un crocevia tra rock e radici, con influenze country e folk, ed è godibile dalla prima all’ultima nota, e non fa che confermare il loro percorso artistico, sviluppato negli anni. Accompagnano Joseph & Todd validi musicisti tra i quali Matt Muir alla batteria e percussioni, e Pete Donnelly al basso e organo, due che fanno sentire il loro peso, e si amalgamano brillantemente al “sound” impastato di chitarre acustiche e elettriche.

Thibaud, bella voce, è anche compositore prolifico ed interessante, come dimostra l’iniziale Hands of Love, seguita da una ballata cantata da Parsons The Natural Way lenta e profonda. L’alternanza nella firma dei brani continua con una deliziosa Broken Sparrow, eseguita da Todd in stile pettyano
mentre Gaze ricorda il mai dimenticato Roy Orbison. So Unkind è un brano cantato a due voci, con un ritornello che si memorizza facilmente, mentre la successiva Drowning di derivazione dylaniana, mette in risalto la voce di Joseph. I’m Right Here è senza alcun dubbio il brano migliore del lotto, una ballata di ampio respiro, cantata dai due “pards” in modo intenso e poetico. Si riparte con Float con una bella armonica (lo stesso Todd) in evidenza, mentre All That I Can Do è leggera e innocua. Chiude il CD un’altra ballata di spessore Loaded Guns di Parsons, che dimostra di essere un ottimo cantautore “intimista”, che sussurra alla vita attraverso le sue canzoni in forma emozionale.

Per concludere un dischetto fresco e sorprendente, con sonorità tipicamente americane, un lavoro ben suonato, dove tra ballate che profumano di California e un suono basato su forme “roots”,  Parsons & Thibaud, anche se non sono diventati Bruce Springsteen, John Mellencamp o Tom Petty, si sono ritagliati una onesta carriera, allietata da un seguito di culto in Europa e in particolare in Germania.

Tino Montanari

Sempre Di Texas Parliamo! Michael Fracasso – Saint Monday

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Michael Fracasso – Saint Monday – Little Fuji Records 2011

Penso che ormai Austin, e più in generale il Texas, si possa considerare il punto di riferimento della scena cantautorale americana. Infatti ai precursori Hancock, Gilmore, Ely, Clark, e il compianto Van Zandt, via via si sono aggiunti i vari McMurtry, Earl Keen, Escovedo, e il nostro Michael Fracasso. Fracasso è probabilmente, insieme a Jimmy LaFave, il più grande tesoro nascosto di Austin, e il suo orizzonte musicale e poetico si era già ben delineato con l’esordio di Love & Trust del lontano 1993, seguito due anni dopo dallo splendido When I Lived in The Wild. Nel 1998 sforna World in a Drop of Water, cui segue nel 2001 il bellissimo Live Back to Oklahoma: Live at the Blue Door. A Pocketful of Rain del 2004 e Red Dog Blues del 2007, sono purtroppo dei lavori meno riusciti, e dopo una breve pausa torna con questo Saint Monday, e dopo un primo e frettoloso ascolto, mi sembra tornato sulla strada giusta.

Michael possiede una voce personale, perennemente attraversata da una vena di tristezza, che si colloca tra Willie Nile e Steve Forbert, ed un approccio sia compositivo che interpretativo temprato nell’amore (musicale) di Dylan. Il risultato comunque è sempre un distintivo talento, ben evidenziato dalle dieci composizioni. tutte a sua firma (unica eccezione una cover di John  Lennon), dense di liriche evocative e memorabili melodie. Coinvolti nel progetto sono i validi musicisti che abitualmente lo accompagnano, vale a dire Jim Lewis alle chitarre, George Reiff al basso, Mark Patterson alla batteria, e Patty Griffin  “vocals” e gradita ospite in un brano.

L’iniziale While The Night Is Young, racchiude in sé la potenzialità di un grande hit ed un po’ di “airplay” non farebbe certo del male, i “pettyani” non potranno fare a meno di apprezzare Eloise e Little Lover non riesce a catturare l’attenzione. Elizabeth Lee ha delle sonorità particolari in rapporto alle tematiche abituali di Michael, mentre Saint Monday che dà il titolo al lavoro, “love song” triste e malinconica, regala una cascata di emozioni. Ada, Ok con al controcanto la Griffin , è un brano dall’incedere country con Roy Orbison nel cuore, mentre la dolce Broken Souvenirs è un piccolo gioiello elettroacustico. Gypsy Moth non mi entusiasma, mentre la cover di Working Class Hero di Lennon è rilevante (per il sottoscritto la versione migliore rimane quella dei Green Day). Chiude il CD Another Million una sorta di ninna-nanna con piano e voce, che rivela il lato più intimo dell’autore.

Sono ancora in pochi (penso) coloro che conoscono Michele (si proprio Michele dato che nelle sue vene scorre sangue italiano, di Montecassino per la precisione), un artista semplice e sincero, mai
invadente, che lascia sempre in evidenza il cuore, lo spirito creativo delle sue canzoni, che vengono
offerte nel migliore dei modi, ma sono convinto che la considerazione di chi lo vorrà scoprire, non
tarderà ad arrivare. Alla prossima !

Tino Montanari

P.s. Questa è una bella accoppiata

Novità Di Maggio Parte I Appendice. Priscilla Ahn, Mick Harvey, Sade, Amanda Shires, Roy Orbison & Beastie Boys

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Completiamo questa uscita super corposa della prima settimana di maggio confermando anche l’uscita del DVD The Promise di Springsteen e passiamo subito ad altre tre voci femminili.

La prima si chiama Priscilla Ahn questo When You Grow Up è il secondo album che pubblica per la Blue Note, la madre è di origine coreana, da lì il cognome, ma lo stile è quel classico acoustic folk con venature jazzy (e un pizzico abbondante di pop) di molte altre colleghe di questi ultimi anni. I suoi brani sono apparsi in miriadi di film, telefilm e serie televisive a partire da Grey’s Anatomy per cui potreste averla già sentita senza saperlo. Comunque brava.

Amanda Shires è l’abituale compagna musicale dell’ottimo cantautore Rod Picott con cui suona il violino e canta in un duo molto affiatato, ma è apparsa anche in questa veste di violinista e cantante nell’ultimo Gypsy Child dei Lowlands (vedi i corsi e ricorsi). Suona anche con i Thrift Store Cowboys che sono in pista da parecchi anni e ha un bel sito con parecchie chicche per il download gratuito HOME.html.

Carrying Lightning è il suo secondo disco da solista, presentata da critica e colleghi come un incrocio tra Dolly Parton, Lucinda Williams e Townes Van Zandt. Esce a livello indipendente per la Silver Knife, quindi reperibiltà non fantastica.

Ma un’altra bella antologia di Sade, magari doppia non ci mancava? Certo che sì, e allora ci pensa la Sony/Bmg a colmare la lacuna con un doppio The Ultimate Collection (che pesca dai 6 album pubblicati in 27 anni di carriera, e un Best e uno dal vivo c’erano già). Se non altro ci sono quattro brani inediti tra cui un remix di Jay-Z di The Moon and The Sky e una bella cover di Still in Love With You il brano di Phil Lynott dei Thin Lizzy che faceva anche Gary Moore. 29 brani in tutto, esce sempre il 3 maggio.

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L’ex Birthday Party, Crime and The City Solution e Bad Seed, Mick Harvey pubblica l’ennesimo capitolo della sua lunga discografia, sempre per la Mute/Self, si chiama Sketches From The Book Of the Dead e nella confezione c’è anche una T-shirt in omaggio nella prima tiratura. Suona tutto lui meno il contrabasso di Rosie Westbrook e violino e fisarmonica nelle mani di J.p. Shilo. Backing Vocals di Xanthe Wait.

Come dicevo per Sade una bella antologia doppia di Roy Orbison non ci mancava? A giudicare dalla miriade di ristampe, cofanetti e raccolte uscite in questi anni avrei detto di no ma evidentemente la Sony non è d’accordo (OK è il 75° della nascita del grande Roy). E infatti questo The Monument Singles Collection è triplo e contiene i 39 brani che sono usciti tra il 1960 e il 1964 come singoli con b-sides annesse mentre il DVD allegato che è quello di interesse per i collezionisti è un Monument Concert 1965 con 9 brani tra cui il video originale di Oh Pretty Woman. Per chi vuole farsi del male economicamente (leggi collezionisti) c’è anche una edizione con i due dischi separati.

Finiamo con il nuovo disco dei Beastie Boys Hot Sauce Committee Part Two, etichetta EMI/Capitol con il consueto carico di brani (questa volta 16) eseguiti con il classico mix di campionamenti e strumenti originali come è consuetudine del trio americano.

Dovrebbe essere tutto, in caso di qualche uscita a sorpresa vi aggiorno a breve.

Bruno Conti

Una Canadese Tira L’Altra! Il Ritorno Di k.d. lang and the Siss Boom Bang – Sing It Loud

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k.d. lang and the Siss Boom Gang – Sing It Loud – Warner/Nonesuch

E’ ovvio che non stiamo parlando di tende ma di una delle più belle voci prodotte dal Canada e dalla musica tutta. Questo nuovo album che esce nell’anno in cui compirà 50 anni ce la ripresenta per la prima volta con un gruppo fisso ad accompagnarla come non accadeva dai tempi dei Reclines. Secondo qualcuno questo da solo non è sufficiente a rendere questo Sing it Loud il suo disco migliore dai tempi di Ingenue. Per chi scrive sì, intanto questa volta (con un’unica ma significativa eccezione) si tratta tutto di materiale originale scritto da Kathryn Dawn e dalla sua band e qui starebbe l’inghippo perché secondo altri il meglio della sua produzione risalirebbe alle sue collaborazioni (anche come autrice) con l’ottimo musicista, sempre canadese e coetaneo, Ben Mink. Potrebbe essere, ma ciò non toglie che in questo CD nuovo la Siss Boom Gang, guidata dal produttore e polistrumentista Joe Pisapia ha aggiunto un carattere di spontaneità e freschezza (si dice che l’album sia stato registrato dal vivo in studio in presa diretta) e si sono prodigati anche come autori dei brani.

Sin dagli inizi si capisce che l’atmosfera è quella giusta,  I Confess è la migliore canzone di Roy Orbison degli ultimi venti anni, e non è un’impresa da poco considerando che “The Big O” se ne è andato alla fine del 1988, scritta dalla stessa Lang con la coppia Joshua Grange e Daniel Clarke (tastierista il secondo e colui che si occupa di dobro e baritone guitar il primo). Baritone guitar che caratterizza il torch and twang della successiva A Sleep With No Dreaming con la voce di kd lang che galleggia con soprannaturale lievità sulla base fornita dal gruppo. Chiaramente non state (stiamo) ascoltando un disco di rock ma una delle voci più straordinarie prodotte dalla musica pop americana negli ultimi 50 anni (non per nulla Tony Bennett, che è uno che di voci se ne intende e che ha fatto un disco con lei, l’ha definita una “classica cantante di ballate degli anni ’50”, ovviamente riportata ai giorni nostri). Come viene ribadito da The Water’s Edge un’altra dolcissima ballata firmata, come la precedente, dalla coppia lang/Pisapia: una chitarra acustica, una pedal steel sullo sfondo e non solo e quella “voce” potente e naturale che inchioda le note con una precisione stupefacente come sapeva fare il suo grande maestro Roy Orbison. Aggiungete un tocco di reverbero, una bella produzione e voilà i giochi sono fatti.

La nostra amica non è stata mai stata una rocker ma di tanto in tanto lo ha sfiorato e in Sugar Buzz, con le chitarre elettriche di Pisapia e Grange in evidenza, l’organo di Clarke in spolvero ed una sezione ritmica più grintosa, ci ritorna e avvicina temi musicali quasi Beatlesiani, provate a pensare a come potrebbe essere Don’t Let Me Down o qualche pezzo del Lennon più sognante nella sua versione.

Sing it Loud, scritta dal solo Pisapia ha una atmosfera “a little jazzy”con il banjo e il dobro in evidenza su una ritmica vagamente (ma giusto un poco) da bossanova. Inglewood con una pedal steel guitar in primo piano è un brano country di quelli che costellavano la prima parte della sua carriera, ma country di qualità, da portatore di sane tradizioni e “radici”.

Habit Of Mind scritta ancora con Clarke e Grange è un altro mid-tempo dove il dobro si amalgama alla perfezione ancora una volta con la steel e i coretti del gruppo aggiungono di nuovo quella vaga patina beatlesiana alla voce pressoché perfetta di kd lang. Si diceva di una unica eccezione al materiale scritto in proprio, si tratta di una cover del bellissimo brano dei Talking Heads Heaven, un altro brano sognante e dalle atmosfere sospese e raffinate che conferma le capacità interpretative della Lang in grado di calarsi nei brani altrui con una classe unica (e mi vengono in mente Crying di Roy Orbison e Hallelujah di Leonard Cohen via Jeff Buckley, per citarne un paio). Versione da incorniciare e da riascoltare più volte.

Anche la conclusiva Sorrow Nevermore ha una marcia in più rispetto al materiale contenuto nel precedente album Watershed che era comunque un buon album ma meno efficace di questo Sing It Loud che in una canonica recensione si meriterebbe le sue belle tre stellette e mezzo o se preferite un rotondo 7. L’edizione Deluxe (acquistabile solo sul suo sito o in quello della Nonesuch, per essere precisi) contiene 4 brani in più, pergamena e libretto con i testi. Era in pre-order ma forse lo trovate ancora qui sing-it-loud-expanded-edition.

Se amate le belle voci qui c’è “Trips for cats” o trippa per gatti se preferite! L’ho inserita come Disco UFO perchè il CD è entrato nei TOP 3 australiani, Top 10 canadesi e ha sfiorato i TOP 30 negli States. Non male!

Bruno Conti

Disco Misterioso? Roy Orbison – The Last Concert

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Roy Orbison – The Last Concert – December 4 1988 – Eagle/Edel

Mistero perché, si chiederà l’attento lettore?

Intanto per le misteriose vie della discografia, perché esce nel 22° anniversario dalla sua scomparsa? Mah!

Negli Stati Uniti era peraltro uscito lo scorso anno e solo per il dowload era disponibile dal 2008 ma di non facile reperibilità: tre uscite, tre incassi, foto di copertina leggermente diverse in ogni edizione e i fans comprano e scuciono.

Anche mettersi d’accordo su luogo dove si è tenuto il concerto? Il Cd dice Cincinnati, altri dicono Akron, Ohio, altri ancora, pare chi c’era afferma che la località fosse Highland Heights, Ohio in un teatro, non oso chiedere il nome per non avere altre sette versioni.

Il concerto è sicuramente di importanza storica in quanto Roy Orbison sarebbe morto solo due giorni dopo all’età di 52 anni. Quindi quelli che ne magnificano la voce (e hanno ragione) ma poi dicono “perfino nei suoi ultimi giorni”, dicono delle fregnacce visto che non era certo un anziano (Paul McCartney, Brian Wilson e perfino Mick Jagger per non parlare di Pinetop Perkins, 97 anni, cosa dovrebbero dire?).

Altro particolare negativo è il tipo di mixaggio, fatto da un rimbambito (soprattutto nei primi brani), con la voce delle coriste in primo piano che spesso copre quella di Orbison, la batteria e le tastiere invadenti. Capisco che questa registrazione non era destinata, probabilmente, ad essere pubblicata, ma si poteva fare meglio con la tecnologia disponibile.

Se dei suoi contemporanei Presley, Cash, Lewis e Perkins si è detto che erano il Million Dollar Quartet, lui, che pure incideva per la Sun records i suoi 250.000 dollari forse non li valeva? Certo che sì!

Una delle più straordinarie voci della storia del Rock’N’Roll, in possesso di una estensione di quattro ottave, ideale per le sue ballate strappalacrime ma in grado anche di cantare pezzi scatenati come pochi altri.

Ai tempi della sua morte stava vivendo una seconda giovinezza, dopo anni di tragedie, prima con i Traveling Wilburys (Dylan, Petty, Harrison e Lynne) e poi con l’album Mistery Girl che conteneva pezzi scritti in collaborazione con U2, Costello e Jeff Lynne che l’aveva fatto conoscere anche alle nuove generazioni.

Ma tutto era (ri)cominciato con quello straordinario concerto e DVD (e CD) chiamato A Black and White Night, dove alcuni dei massimi luminari della musica rock gli rendono omaggio con grande deferenza e partecipazione: ripresi appunto in bianco e nero, ci sono Jackson Browne, T-Bone Burnett, Elvis Costello, Kd Lang, Bonnie Raitt, Jd Souther, Bruce Springsteen, Tom Waits e Jennifer Warnes, disposti a suonare anche il campanello di casa pur di partecipare alla serata.

E questo, nel formato che preferite: CD, Dvd, Bluray, Vhs è il concerto da avere. Se volete una raccolta, la doppia Essential Roy Orbison della Bmg/sony potrebbe andare bene. Oppure se siete più “ricchi”, anche di spirito, il Box Quadruplo The Soul Of Rock and Roll della Legacy Sony con 107 brani non dovrebbe mancare in una discoteca che si rispetti. Questi 3 sono i dischi da 5 stellette, poi ci sono una miriade di altri a partire a ritroso da quelli citati.

E questo? Nella seconda parte, misteriosamente, la qualità sonora migliora nettamente e Roy Orbison sconfigge anche le invadenti coriste in una micidiale versione di Crying, con alcuni acuti incredibili che ne certificano la straordinaria potenza vocale. Ma anche le versioni di Ooby Dooby, il suo primo successo, un R&R reso con una grinta da giovinetto e il gruppo finalmente al suo servizio che gira a mille con chitarrista e pianista che si guadagnano lo stipendio ma anche il batterista. In precedenza in Mean Woman Blues dove il chitarrista rilascia un notevole assolo, sale e scende con la voce dal falsetto al suo famoso marchio di fabbrica, quel minaccioso “Rrrrrrrrrrrrr” che scatena le folle.

A proposito di folle, secondo me anche gli applausi sono fasulli, presi da un altro concerto ed aggiunti ad arte, suonano “strani”, da grande spazio e non da teatro, magari sbaglio. Blue Bayou sarebbe un grande brano, ma le coriste e il pianista, qui alle prese con una tastiera elettronica fanno del loro meglio per rovinarlo, come fanno nell’uno-due iniziale di Only The Lonely, Leah, dove sono veramente insopportabili anche per i problemi tecnici di cui sopra. Non male Candyman, con un’armonica pimpante suonata dallo stesso Orbison e molto buona la  conclusiva Oh, Pretty Woman dove il leggendario Rrrrrrrrrr si scatena di nuovo in tutta la sua potenza.

Ma la seconda parte è comunque tutta all’altezza dellìa sua fama: Go, Go, Go (Down The Line) è ancora dello scatenato Rock and Roll, It’s Over è un’altra della sua melodrammatiche ballate (che tanto hanno influenzato lo Springsteen degli esordi), anche se quella tastiera sarebbe da eliminare in una esplosione termonucleare insieme alla coriste, ma che voce ragazzi!

Ottime anche la breve Working The man e la deliziosa Lana. Secondo chi c’era inspiegabile l’assenza di Running Scared che chiudeva il concerto. Solo per fans e ammiratori (che è più o meno la stessa cosa). Allora diciamo, soprattutto per collezionisti instancabili.

Bruno Conti

Indigenous – Acoustic Sessions

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Indigenous – The Acoustic Sessions – Vanguard

Se vi piace il blues elettrico, quello tosto e non conoscete gli Indigenous è una grave pecca. Ma forse non è questo il disco per colmare la lacuna. Se li conoscete, leggete attentamente prima di decidere.

Se vogliamo considerarlo come il primo capitolo della fase 3 della carriera degli Indigenous o come il primo album solista della carriera di Mato Nanji, il leader del gruppo oppure, come viene presentato, una sorta di summa, di best of dei primi dieci anni di carriera, rivisitati in una chiave acustica, direi unplugged, questo Acoustic Sessions non mi soddisfa appieno.

Non è per niente brutto, ma dopo dieci anni di selvagge cavalcate chitarristiche rock-blues ispirate dalla musica di Hendrix, Santana e Stevie Ray Vaughan ti ritrovi un po’ spiazzato: un lato più gentile quasi cantautorale è stato sempre presente nella musica di questo musicista nativo americano della tribù Nakota ma un album intero non sempre regge alla prova finestra.

A questo proposito ricordo sempre Endangered Species dei Lynyrd Skynyrd che alla sua uscita era stato salutato come una sorta di minicapolavoro e alla prova del tempo non ha retto molto, certo l’Unplugged di Clapton rimane un album notevole ma nell’ambito della sua discografia dove lo collochiamo? Al 15° o 20° posto a voler essere di manica larga!

Già perché questo album, come al solito, non è proprio un album acustico tradizionale, voce e chitarra, ti concedo un’armonica, ma ha una strumentazione, essenziale, ma ricca: il produttore Jamie Candiloro si occupa anche di batteria, percussioni, basso e tastiere (acustiche per l’amor di Dio), Mato Nanji si occupa di uno stuolo di chitarre acustiche, la moglie Leah delle armonie vocali e Lisa Germano appare come ospite al violino.

Quindi il suono vira verso tonalità latineggianti, l’iniziale Now That You’re Gone con l’organo alla Gregg Rolie e un tappeto di chitarre acustiche arpeggiate ricorda molto i Santana “senza spina” ma non entusiasma. Anche Things We Do utilizza la stessa formula, piccole percussioni, organo, un basso appena accennato, assoli all’acustica di Nanji, bravo anche in questo caso e la voce del leader da rocker intemerato trattenuta su sentieri meno combattivi. Al terzo brano, Little Time, cominci ad avvertire una sensazione, come dire, senza essere offensivo, di noia.  Rest Of my days, ricorda vagamente, ma molto vagamente, nel riff almeno, I shot the sheriff, qualcosina di più vivace ma niente di trascendentale.

Non dobbiamo dimenticarci che tutti questi brani apparivano in versioni elettriche e vibranti nei precedenti dischi di studio della band, quindi è difficile dimenticare gli originali e il confronto risulta impietoso, per il sottoscritto, giudizio personale.

Fool Me Again, che già era una ballata non soffre molto del trattamento acustico, anzi evidenzia l’andamento melodico del brano e anche Come on Home, dopo i cinque brani iniziali quasi in fotocopia, risulta una bel brano di impronta southern con la voce di Nanji che assume tonalità alla Greg Allman dei tempi d’oro, una bella accoppiata che evidenzia le qualità positive di Mato Nanji. ( questa è la versione elettrica watch?v=ECe5NJxqHh8) Anche Leaving gode di questo risveglio a metà CD e senza evidenziare straordinari voli pindarici di fantasia regge il confronto con la controparte che appariva in Chasing The Sun, sarà il violino strapazzato da Lisa Germano, sarà una maggiore convinzione nel reparto vocale, comunque piace.

Anche Should I Stay (dal penultimo Broken Lands, i brani sono in ordine cronologico) non è male, o forse mi sto abituando al sound del disco dopo qualche ascolto. E non mi dispiace neppure Eyes of a child dallo stesso disco, anche questa, come la precedente, firmata con la moglie Leah. L’unico brano “inedito” è una cover di You Got It il brano scritto da Tom Petty e Jeff Lynne con e per Roy Orbison, per l’album Mystery Girl, l’originale è un’altra cosa ma la canzone conclude su una nota di allegria il disco.

Ripeto, se siete dei fans prendetelo in considerazione, se no, alla larga, c’è di meglio in giro o si può pescare dai loro dischi vecchi, senti che roba.

Bruno Conti