Una Tom Waits Al Femminile? Dayna Kurtz – Secret Canon Vol.2

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Dayna Kurtz – Secret Canon Vol. 2 – Kismet Records 2013

Domandona per i molti lettori (spero) di questo blog: Chi conosce Dayna Kurtz? La signora proviene dal New Jersey, ha una lunga carriera alle spalle (è in pista dai primi anni duemila) e da quel periodo bazzica locali e sale, e porta in giro negli States (e in altri Paesi, tra cui l’Italia) le sue canzoni. Il sottoscritto ha avuto il piacere di conoscerla e sentirla in un concerto tenuto nel “mitico” locale Spazio Musica in quel di Pavia (2008), dove ha dimostrato una grinta notevole ed una grande voglia di comunicare le proprie sensazioni. L’esordio, per la sua Kismet Records, avviene con Postcards From Downtown (2002), a cui fanno seguito un bellissimo DVD Live in Concert From Amsterdam(2003), Beautiful Yesterday (2004) Another Black Feather (2006) e più recentemente il notevole American Standard (2009) e il primo volume di Secret Canon dello scorso anno (per completare la discografia devo menzionare un CD preso al concerto Otherwise Luscious Life – Dayna Kurtz Live di difficilissima reperibilità).

Questo secondo capitolo di Secret Canon, prosegue il discorso del primo, pescando una serie di oscure “cover” di brani jazz e blues scelti tra gli anni ’40 e ’60 (oltre a canzoni scritte dalla “rossa” Dayna), avvalendosi di compagni di viaggio di indubbio talento, partendo dal co-produttore Randy Crafton, il contrabbassista David Richards, Peter Vitalone e Jon Cowherd al piano, Jon Gros all’organo e la sezione fiati composta da Jason Mingledorff al sax, Craig Klein al trombone,  Barney Floyd e John Bailey alle trombe, che sono indubbiamente il valore aggiunto del lavoro.

Immaginate di essere seduti al famoso Rick’s Bar di Casablanca (in dolce compagnia) e spente le luci , partono le note di I Look Good In Bad (scritta dalla stessa Kurtz, ma potrebbe essere anche benissimo un brano cantato da Bessie Smith), cui fa seguito una So Glad del cantante pianista di New Orleans Edwin Bocage (1930-2009) dallo swing inarrivabile, mentre la bellissima ed emotiva  ballata Reconsider Me (me la ricordo in una versione di Johnny Adams) è cantata con il profondo dell’anima da Dayna. Il tempo di sorseggiare un buon bourbon e si riparte con le note di One More Kiss, pescata dal repertorio di Johnny “Guitar” Watson, la raffinata Same Time, Same Place della coppia Isaac Hayes e David Porter con in sottofondo la tromba vellutata di Barney Floyd, mentre la seguente If You Won’t Dance With Me è un altro splendido brano originale della stessa Kurtz.

Il piano di Jon Cowherd introduce le effusioni vocali di All I Ask Is Your Love (brano apparso nella splendida colonna sonora di Una canzone per Bobby Long, eseguita da Helen Humes), si prosegue con il gospel-blues di Go Ahead On, e con una sofisticata e jazzata I’ve Had My Moments, che era nel repertorio del grande Frank Sinatra. Il colpo di grazia arriva con la conclusiva I’ll Be A Liar (la perla del disco) di Bert (Russell) Berns (1929-1967), un pioniere del rock e soul degli anni sessanta (morto d’infarto a soli 38 anni, autore di brani come Here Comes The Night, Piece Of My Heart e Twist and Shout), con  piano e tromba ad accompagnare una performance vocale da brivido di Dayna.

Il genere di Dayna Kurtz, è  forse troppo complesso per i nostri giorni, (artista errabonda che ha passato anni in giro per i palchi e le bettole di mezza America ), e per incidere i dischi che sognava, ha dovuto crearsi un etichetta propria, la Kismet Records, e forse per questo, ancora adesso non è molto conosciuta, ma se i risultati sono questi… Secret Canon Vol. 1 e 2 sono due lavori notturni che fanno bene all’anima, imprescindibili per gli amanti del genere, che fanno della Kurtz una tra le più brave e intriganti voci femminili degli ultimi anni, abilitata a cantare nei più famosi Rick’s Bar del mondo!

Tino Montanari

Piano Songs Confidenziali! Ed Harcourt – Back Into The Woods

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Ed Harcourt – Back Into The Woods – Kid Gloves Music – 2013

C’è stato un periodo tra il 2000 e il 2003, nel quale Ed Harcourt era anche più di una promessa per quanto riguardava il cantautorato pop: infatti l’EP Maplewood (2000) e i primi due album Here Be Monsters (2001) e From Every Spere (2003) sono state gemme preziosissime nell’ambito del folto panorama musicale inglese. Il terzo lavoro Strangers (2004) e i successivi The Beautiful Lie(2006) e Lustre (2010) sono stati episodi meno convincenti, rispetto alle attese degli addetti ai lavori. Agli esordi Ed giovane e talentuoso, si presentava con un “cocktail” di brani davvero gustoso, un misto di pop, ballate soul, songs confidenziali e richiami jazz, il tutto realizzato con gli strumenti suonati da lui stesso. Con questo Back Into The Woods il nostro cambia ancora le carte in tavola, e sotto la produzione di Pete Hutchings si è chiuso fra le mitiche pareti dello Studio Due di Abbey Road, e tutto in una notte (per ridurre al minimo i costi), in quasi totale solitudine, ha registrato questi nove pezzi inediti solo con la sua voce, piano e chitarra, niente basso e batteria e qualche arrangiamento d’archi e cori.

Il risultato è formalmente atipico, ma capace di sorprendere per eclettismo, con la rallentata tenue morbidezza dell’iniziale The Cups & The Wane, il delicato violino della moglie Gita in Hey Little Bruiser, i cori di Wandering Eye, la ballata notturna Murmur In My Heart, la melodia toccante di Back Into The Woods, proseguendo con la “beatlesiana” Brothers & Sisters, l’amabile ballata The Pretty Girls, la calda tranquillità di Last Will & Testament e chiudere poi con una The Man That Time Forgot malinconica e sentimentale che ricorda un po’ Tom Waits.

Con questo Back Into The Woods Ed Harcourt, dimostra di aver frequentato con molto profitto “l’università dei songwriters” di gente come Brian Wilson e Randy Newman, specialmente quando si tratta di metter giù melodie e armonie che, fin dal primo ascolto, catturano e affascinano, con canzoni che entrano in ritmo e sintonia con il nostro battito del cuore.

Tino Montanari

Era Ora! Finalmente In CD. Tom Jans – Loving Arms The Best Of 1971-1982

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Tom Jans – Loving Arms: Best Of 1971-1982 –Raven Records ****

Tom Jans, in un certo senso, è il prototipo perfetto del “Beautiful Loser”: bello ,e magari non dannato, ma sicuramente perdente. La sua storia è lì a testimoniarlo, addirittura nella biografia su Wikipedia non è certa neppure la data di nascita (e non è che sia nato nella notte dei tempi), 9 febbraio 1948-barra 1949 riporta l’enciclopedia della rete, ma le altre biografie e il suo sito, tuttora attivo e molto interessante http://www.tomjans.com/, dicono ‘48 mentre, purtroppo, è certa la data della morte, 25 marzo 1984. Ma in mezzo sono successe molte cose, il problema è che non le conosce quasi nessuno; nativo di Yakima, nello stato di Washington, figlio di un agricoltore amante di Hank Williams e con una mamma spagnola appassionata di flamenco, la musica ha sempre girato nella sua casa, soprattutto dopo il trasferimento a San Jose in California. Saltando un po’ di passaggi, arriviamo al 1970, quando tramite gli auspici di Jeffrey Shurtley, collaboratore di Joan Baez, viene presentato alla sorella della Baez, Mimi Farina (altra cantante di talento ma sfortunatissima, vedova del grande Richard Farina, con cui registrò dei dischi epocali di folk per la Vanguard): i due appaiono lo stesso anno al Big Sur Folk Festival (non l’annata del film) e, l’anno successivo, dopo avere girato in tour come supporto di James Taylor e Cat Stevens, vengono messi sotto contratto dalla A&M, che pubblica il loro primo (e unico) album, Take Heart.

Se leggete i giudizi dei fans, a seconda dei punti di vista, quello scarso nel duo era Tom Jans o Mimi Farina, ma tutti concordano nel dire che, insieme, erano una valida coppia, sia per le armonie vocali che per la tecnica alle chitarre acustiche, che, con qualche spruzzata di pedal steel (Sneaky Pete) e l’apporto discreto di Leland Sklar, Russ Kunkel e Craig Doerge, costituivano il cuore del sound di questo disco, dove la presenza di Jans come autore è limitata a tre brani, firmati insieme alla Farina. Nell’antologia della Raven che stiamo trattando Loving Arms:Best Of 1971-1982, da quel disco provengono due dei brani migliori, Carolina, un bell’esempio di West Coast acustica alla James Taylor e Letter To Jesus, un country-folk con pedal steel, cantato all’unisono. Successo zero, e  i due si dividono, ma nel frattempo interviene quella che i più fini definirebbero “un colpo di fortuna”, ma più volgarmente fu una “botta di culo”, uno dei nuovi brani scritti da Jans, Loving Arms, diventa un successo per Dobie Gray, e secondo quello che diceva lo stesso Tom, tramite un incontro fortuito in treno con Elvis Presley, ma probabilmente è una delle tante leggende apocrife della musica rock, diventa una degli ultimi grandi successi di Elvis (la versione video che trovate nel Post è quella di Presley, perché la versione originale non è stata caricata, c’è di chiunque ma non quella di Jans, che è bellissima) e, negli anni, l’unica canzone conosciuta di Tom Jans, brano che verrà cantato, tra gli altri, da Kris Kristofferson, Dixie Chicks e Irma Thomas nelle versioni da ricordare. L’album omonimo del 1974, registrato a Nashville con la crema dei turnisti dell’epoca (Troy Seals, Reggie Young, David Briggs, Mike Leech, Weldon Myrick, Kenny Malone più Lonnie Mack) contiene questa meravigliosa ballata, un brano malinconico che rivaleggia con le canzoni più belle di Tom Waits, Jackson Browne e Eagles di quegli anni, stupenda ancora oggi.

Sempre da Tom Jans del 1974, sull’antologia Raven appaiono anche Old Time Feeling, Margarita e Free And easy, altre piccole meraviglie di country all’altezza del meglio di Townes Van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker e Guthrie Thomas (altro grandissimo servito male dall’industria discografica). A titolo informativo, la Real Gone Music annuncia per aprile la ristampa dei primi due dischi. Dopo l’insuccesso anche di questo disco, se ne torna in California dove conosce un altro musicista tormentato dal talento immenso, Lowell George, che sarà il produttore esecutivo dell’album, The Eyes Of An Only Child, etichetta Columbia (ho verificato sul vinile, uno dei pochi che ancora posseggo, come tutti quelli di Jans), anno 1975, disco stupendo, con George che si porta dietro alcuni Little Feat, oltre a Fred Tackett, David Lindley, Jesse Ed Davis, Jerry McGee (e ricordiamo solo i chitarristi), anche i batteristi? Jeff Porcaro, Jim Keltner, Harvey Mason, oltre alle armonie vocali di Valerie Carter ed Herb Pedersen. Il disco, naturalmente, è una meraviglia, percorso dalla slide di Lowell George e con una serie di canzoni, più rock, ma che possono ricordare anche il miglior Jackson Browne: Gotta Move, Once Before I Die, Struggle In Darkness, Out Of Hand e The Eyes Of An Only Child sono quelle presenti nell’antologia Raven, da sentire per credere.

La Columbia gli concede ancora una chance, un disco “scuro” e pessimista sin dal titolo, Dark Blonde, che molti considerano il suo capolavoro (chi scrive ha una leggera preferenza per il precedente, ma averne di dischi così), Lowell George non c’è più, ma nel disco ci sono ancora Bill Payne, Fred Tackett, Jerry Swallow e una serie di ottimi musicisti californiani, difficile fare meglio di brani come di Distant Cannon Fire o Back On My Feet Again, ma anche Inside Of You e Why Don’t You Love Me, sempre presenti nel CD, non sono da meno. I due album sono apparsi brevemente in CD, solo sul mercato giapponese, e proprio in Giappone, dopo 5 anni di silenzio, viene pubblicato l’ultimo album, quasi sconosciuto (più degli altri) di Tom Jans. Siamo nel 1982, il disco si chiama Champion, è prodotto da Don Grusin, ancora una volta con un parterre de roi di musicisti, oltre ai soliti Payne, Tackett, Porcaro, Carter, Sklar ci sono anche Lee Ritenour, Steve Lukather, Bob Glaub, Paul Barrere, Ernie Watts: il sound è un po’ più leccato, commerciale, figlio di quegli anni, tra Toto e sound 80’s, ma ci sono delle eccezioni come l’eccellente ballata pianistica Mother’s Eyes e Working Hot che ha qualcosa degli Steely Dan più riflessivi o l’acustica e malinconica Lost In Your Eyes che si ricollega agli album precedenti.

Solo When The Rebel Comes Home, presente nel CD ha quel sound più modaiolo e commerciale che peraltro non gli ha fatto vendere di più, visto che di questo album, per molti anni, si è addirittura ignorata l’esistenza. Verso la fine del 1983 Jans è coinvolto in un serio incidente motociclistico e, in via di guarigione, il 25 marzo del 1984, a seguito di una overdose lo sfortunato Tom ci lascia. Direi che la sua parabola è stata esattamente inversa al suo talento, che era grandissimo, ma le strade del rock sono lastricate di queste storie. Almeno questo CD, che peraltro esce solo nella lontana Australia, colma una lacuna imbarazzante: non so se molti se ne sono accorti o ci hanno fatto caso, ma su Bone Machine, Tom Waits, gli ha dedicato una canzone Whistle Down The Wind (For Tom Jans), un tributo alla sua grandezza. Un piccolo capolavoro e un CD da avere, consigliato a tutti gli amanti della buona musica, veramente imperdibile!

Bruno Conti

E Dopo La Moglie (Iris Dement) Ecco Il Marito! Greg Brown – Hymns To What Is Left

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Greg Brown – Hymns To What Is Left – Sawdust Records

Come ricordavo nella rubrica delle Novità di Ottobre, la mia frequentazione con la musica di Greg Brown risale molto indietro nel passato, direi a One Big Town del 1989, il primo album con Bo Ramsey (quindi siamo “arrivati insieme” alla musica di Greg) e da lì sono anche risalito a ritroso agli album precedenti, dedicandogli pure una lunga retrospettiva sul Buscadero di qualche anno dopo (non ricordo quale, ho i vecchi numeri ma messi un po’ alla rinfusa). Marco Verdi vi ha parlato qualche giorno fa del nuovo, bellissimo, disco di Iris Dement (Sing The Delta Flariella Records), la moglie di Greg Brown dal 2002 è presente anche alle armonie vocali in un paio di brani di questo Hymns To What is Left, questo detto incidentalmente. Se prendiamo i lavori della coppia e li sommiamo direi che pochi al mondo (in un ambito familiare), forse nessuno, può competere a livello qualitativo, nel panorama musicale, con questo formidabile duo di autori.

Tornando all’opera precedente di Brown, se consideriamo anche le antologie, i dischi dal vivo e i tributi, il totale supera abbondantemente le trenta unità e la qualità è sempre quantomeno buona quando non eccellente. Forse non ha mai realizzato un capoloro assoluto, vista la enorme prolificità, ma tra dischi come il citato One Big Town (uno dei pochi con una sezione ritmica e dei brani di stampo quasi rock), il vecchio live in solitaria One Night del 1983, Friend Of Mine in coppia con un altro grande outsider come Bill Morrissey, un altro disco dal vivo The Live One del 1995 dove canta anche Richard Thompson e Van Morrison, e ancora l’accoppiata del 2000, Over And Under e Covenant, di nuovo un live per gli anni 2000 come In The Hills Of California con Shawn Colvin e Nina Gerber, senza dimenticare l’ottima antologia Dream City e, sempre dal passato, l’ottimo In The Dark With You, ognuno può trovare un Greg Brown (o anche più di uno) di proprio gradimento.

Una delle caratteristiche peculiari di Brown, oltre alla sua facile capacità di scrittura che attinge in eguale misura dal country e dal folk rurale, dal blues, dalla tradizione dei migliori cantautori americani, è quella “voce” incredibile, un baritono profondo e risonante, quasi cavernoso, ma anche capace di improvvise dolcezze, due qualità che lo legano a gente come Tom Waits o Johnny Cash.

Proprio di quest’ultimo, da molti, giustamente, il nostro amico viene considerato l’erede naturale, sia per il tipo di voce, sia per l’approccio musicale scarno e glabro, arricchito solo dalle evoluzioni delle chitarre elettriche e slide del suo fido pard Bob Ramsey, un altro musicista di cui bisognerebbe parlare di più, anche per le sue virtù di produttore (estrinsecate per esempio con Lucinda Williams) che unite a quelle di Brown, evidenziano, anche se non sempre e necessariamente, questa peculiarità del “meno è meglio”, cioè l’andare per sottrazione, che nella musica è un’arte difficilissima e non esatta. Le affinità sono soprattutto con il Cash dell’ultimo periodo quello delle American Recordings (il primo volume esce nel 1994, quando aveva 59 anni), non un “vecchio” quindi come spesso si dice per comodità, un artista maturo sicuramente, ma non anziano. Anche Greg Brown, che di anni ne ha 63 (come Springsteen), non si può certo definire tale, ma ha anche lui quella aura di “antichità nella tradizione” che lo accomuna all’Uomo In Nero.

Proprio il primo brano di questo Hymns…, Arkansas, la storia del viaggio intrapreso con la moglie Iris per andare a seppellirne la madre, ha questa aria paesana (country) alla Cash, con banjo, violino e acustica a duettare con il boom chicka boom della elettrica di Ramsey che scandisce il tempo, mentre Brown per l’occasione sfodera una voce più profonda del solito, una sorta di Johnny Cash che ha inghiottito Tom Waits e si è trovato bene. Ma poi il secondo brano ti stupisce perché Greg, con sullo sfondo la slide atmosferica e cooderiana di Bo, estrae dal cilindro un falsetto incredibile per un omone così, Besham’s Bokerie ha un che di mistico, come non sentivo dai tempi di Linden Arden Stole The Highlights, altro brano che si reggeva sul falsetto inconsueto di Van Morrison e si trovava sull’epocale e sottovalutato Veedon Fleece del 1974. Lasciati sotto shock i suoi ascoltatori Greg Brown torna ai suoi quadretti tipici con una Bones Bones che già dal titolo ci riporta al Waits più “lupesco”, ma anche ai bluesmen ancestrali che con i loro vocioni intrattenevano agli angoli delle strade. Non sempre è musica facile da ascoltare, perché Brown avrebbe anche il dono della melodia e la capacità di scrivere  “canzoni” come One Cool Remove, che non hanno nulla da individiare, chessò, a un Bob Seger o a Springsteen stesso, ma negli ultimi anni le usa raramente. A proposito di inni, Brand New Angel, con la seconda voce di Iris Dement, è una sorta di preghiera con uso di banjo e violino che si trovava anche nella colonna sonora di Crazy Heart, cantata da Jeff Bridges (i suoi brani sono stati eseguiti da molti cantanti ed autori nel corso degli anni).

Un brevissimo interludio. Gli amanti della musica indie (quella buona) si sono già imbattuti nel vocione di Greg Brown, perché nell’ottimo Hadestown di Anais Mitchell interpretava proprio la parte di Ade, il signore degli Inferi. Ed era perfetto.

Now That I’m My Grandpa è un brano quasi dylaniano, ma come fosse cantato dal Cash degli ultimi anni, ancora con il picking di chitarra e banjo, l’immancabile evocativa slide di Ramsey di supporto, è il racconto delle generazioni che scorrono lungo gli anni di un individuo, con una poetica e un trasporto che pochi hanno nell’attuale musica popolare. All Of Those Things è un’altra malinconica canzone degna del suo miglior songbook mentre Fatboy Blues è di nuovo un blues, alla Tom Waits (e qui la voce e l’inflessione sono molto simili), ma Brown ci aggiunge l’arguzia di un Randy Newman con un paio di frasi fulminanti: “One day I Woke up, fat as i could be, Now I Stumble Out To The Kitchen, for another chicken or two…” e “Oh yes I am The Walrus, and I’ve Got the fat boy blues”. C’è una bellissima e dolcissima canzone sull’amore familiare come I Could Just Cry (How Sweet You Are). Molto bella anche la title-track,”Inno a quello che è rimasto”, con le chitarre, quella acustica di Brown e l’elettrica slide di Ramsey che si intrecciano, mentre quella voce, profonda ed evocativa, quasi declama. Good To You è un perfetto country-blues, ancora una volta vicino allo stile scarno dell’ultimo Cash.

E rimangono gli ultimi quattro brani: una sontuosa On The Levee, che qualcuno sul suo sito ha addirittura paragonato alle ultime pagine di “Cento Anni Di Solitudine”, in effetti la voce è minacciosa, discorsiva, su un tappeto acustico di chitarre (grande Bo Ramsey, ancora una volta) e banjo, semplice ma complesso al tempo stesso, si racconta di tutti quelli che sono stati “sull’argine”, da Gesù Cristo a “Polly”, e tutti quelli che hanno visto il mondo dall’argine. E a questo punto c’è Hanging Man, il capolavoro assoluto di questo album, un brano stupendo, ricco di melodia, una di quelle canzoni memorabili che ogni tanto Greg Brown dissemina sui suoi lavori, uno di quelli che si usa dire valgono da solo il disco (se non fosse bello tutto), un inno che cita alcuni dei “grandi” della storia, che fanno venire i brividi sulla schiena, Francois Villon, Neruda, JB Lenoir e Billie Holiday, evidentemente alcuni di coloro che hanno cambiato la sua vita. E nell’ultima strofa cita anche Mary Burns, la compagna silenziosa di una vita di Friedrich Engels. Per End Of the Party sfodera anche un’armonica dylaniana e la figlia Pieta siede al piano per un altro pezzo di grande spessore. E a concludere, Earth Is A Woman, un’altra delle sue canzoni metafora con la seconda voce della moglie Iris Dement a ingentilire il tutto, insieme al piano che affianca le due immancabili chitarre.

Forse non Uno Dei Dischi Dell’Anno ma, per chi scrive, tra i dischi dell’anno, da scoprire.

Bruno Conti

Un “Nuovo Amico” Parla di Un Vecchio Amico! Tom Waits – Amsterdam, Concertgebouw 4.11.1985

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Con questo Post inauguriamo la collaborazione di Jimmy Ragazzon dei Mandolin Brothers con questo Blog, visto che il contenuto viene dalla “notte dei tempi” mi calo nei panni del Numero Uno e anche il carattere del Post è diverso dal solito.

Bruno Conti

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TOM WAITS

Amsterdam, Concertgebouw, 4 novembre 1985

AN UNFORGETTABLE “TRIP”

Premessa:

Purtroppo mi ero perso il concerto di Tom Waits  a Londra per pochi giorni nel ’79, e quindi non potevo mancare anche questa nuova occasione data dal Raindogs Tour, soprattutto avendo un buon aggancio ad A’dam e quindi la possibilità di trovare il biglietto. Arrivato in Olanda però, vengo a sapere che no, non avevo il biglietto, dato che il mio amico Andy si era svegliato tardi…

Quindi, passata l’incazzatura, andiamo davanti al Conservatorio ore prima, per cercare di trovarne almeno uno. Sbraitando in inglese ed olandese alla fine un giovane punk mi cede l’agognato tagliando con un ragionevole sovrapprezzo e, dopo avergli offerto una birra, entro al concerto.Questo è il mio indelebile ricordo.

 

Una Amsterdam fredda e piovosa, già invernale, attendeva tranquilla l’arrivo di Tom Waits, senza alcuna pubblicità, se non sui giornali specializzati, ma con tutti i biglietti venduti in sole 6 ore di prevendita. Erano passati anni dall’ultimo tour europeo e l’attesa era davvero grande, soprattutto per il nuovo corso della musica di Waits, intrapreso negli albums “Swordfishtrombone” e “Raindogs”.
Ed è un pubblico eterogeneo, fatto di conoscitori ed assidui frequentatori dei piccoli mondi raccontati da Waits, quello che si raccoglie sui gradini del Concertgebouw, il conservatorio di Amsterdam, per una serata che si preannuncia indimenticabile.
Una volta all’interno della splendida sala, la strana disposizione ed il tipo di strumenti musicali sul palco, dà una idea della particolare atmosfera che si crea subito sulle note introduttive di “Underground” che ci presentano un Waits ammiccante, in camicia a righe e pantaloni neri, scarpe italiane a punta ed un piccolo Borsalino di feltro grigio che sposta in continuazione.
Il viaggio inizia subito, lungo le strade della sua mente popolate da meticci cubano-cinesi, marinai in procinto di salpare verso Singapore, piccoli boss italiani, cittadine astemie della campagna australiana, ragazze fuggite da casa in cerca di qualcosa che non conoscono. Ed anche tristi call girls, hobos ed angeli della desolazione sulle orme di Jack Kerouac e le ispirazioni musicali del blues e di Cole Porter.
Anche gli strumenti, tra cui alcuni inventati da lui, ricreano l’atmosfera del sogno, del continuo susseguirsi di razze e culture, occidente ed oriente, con piatti balinesi, marimbas, glass armonica, calliopes e pump organs, lungo sentieri artistici tracciati da Howlin Wolf, Harry Partch , Hoagy Carmichael.
Si snodano così due ore di spettacolo, costellate da occasionali dialoghi con il pubblico, battute, storielle e piccoli scherzi che fanno di Tom Waits un perfetto entertainer. Sembra parlare sporco e rozzo così come canta con sentimento o suona il piano con estrema delicatezza, spesso accogliendo le molte richieste di un pubblico attento e preparato.
Accompagnato da una grandissima band costituita da Marc Ribot alla chitarra e tromba, Greg Coen al basso, Ralph Carney al sax, Steve Hodges alla batteria ed il funambolico Michael Blair alle più varie percussioni, ha scelto dal suo repertorio brani recenti e classici come “Tom Traubert Blues” ,”29 dollars”,”Jersey Girl”, “Downtown Train”, “Clap Hands”, “Union Square” ed altri.
Alcune canzoni tristi e spezzacuore, altre allegre, ricche di pathos, di assurdità ed aneddoti autobiografici, ballate, jazz, blues, mambo, teatro, ma con tutta la sua anima immersa in ogni brano.
Richiamato a gran voce per tre bis consecutivi, ha concluso lo show con la dolcissima “Time” e tutto il pubblico in piedi a rendere omaggio ad un grande artista, poeta e cantore della strada.
Alla fine, camminando verso casa sotto una pioggia sottile, incontro il mio amico olandese all’uscita del Paradiso, dove ha appena ascoltato Nico, la ex voce dei Velvet Underground ed il suo nuovo gruppo. Vorrebbe raccontarmi qualcosa, ma guardandomi, capisce che stanotte avrò ben altro per sognare . . .

Jimmy Ragazzon

 

 

 Alla prossima!

Un Inglese Alle Radici Del Blues, Di Nuovo! Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid

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Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid – Nugene Records

Ormai Ian Siegal sembra avere preso gusto per queste trasferte americane, alle radici della musica blues, nel Nord Mississippi e dintorni. Quella dello scorso anno, per l’album The Skinny, in compagnia dei Youngest Son, gli ha fruttato la nomination come Miglior Disco di Blues Contemporaneo ai premi annuali della Blues Foundation del 2012, la prima volta di sempre per un musicista inglese. Ma non è la sola “prima” per Siegal, anche il premio assegnatogli dalla rivista Mojo per il disco Broadside come Blues Album Of the Year, accadeva per la prima volta con un artista non americano (anche se per onestà, all’epoca d’oro dei Bluesmen britannici Mojo non esisteva). Visto il successo del disco dello scorso anno, il buon Ian ha deciso di ripetere il “trucco” di registrare l’album sulle colline del Mississippi, e questa volta non si è portato dietro neppure la sua abituale sezione ritmica. Candy Store Kid è stato realizzato con musicisti locali, amici importanti, qualche “figlio di…” come nel disco precedente e alcune new entry.

Quindi troviamo Cody Dickinson, alla batteria, tastiere e chitarra anche, nella traccia iniziale, la poderosa Bayou Country, il fratello Luther, chitarre, sitar, mandocello e basso in parecchi brani. Il basso, in effetti, viene democraticamente affidato a diversi musicisti a seconda dei brani, Garry Burnside e Alvin Youngblood Hart lo suonano in parecchie tracce, anche se, soprattutto il secondo, è alla chitarra in molte canzoni. Lightnin’ Malcom, altro musicista del giro North Mississippi, compone un brano, So Much Trouble, nel quale è pure la seconda voce. E a proposito di voci, purtroppo solo in tre brani, perché sono strepitose, appare un terzetto di voci femminili Stephanie Bolton, Sharisse Norman e Shantelle Norman, che aggiungono una patina soul e R&B che scalderà le vostre fredde serate invernali, oltre a ricreare in parte quel tipo di sound che Luther Dickinson frequenta nel suo “altro” gruppo, i Black Crowes (uno degli altri gruppi, diciamo)!

 Naturalmente per Ian Siegal suonare questa musica e con siffatti musicisti è un po’ come entrare in un “Negozio di canditi”: quelli particolarmente gustosi e succulenti, come nell’iniziale Bayou Country, scritta da un paio di musicisti minori nativi della Lousiana, Bardwell e Veitch, che una quarantina di anni fa lavoravano con Tom Rush. Il brano, oltre al bayou, ha il ritmo e la consistenza delle canzoni di Joe Cocker con i Mad Dogs o dei Delaney & Bonnie con Clapton, nelle linee sinuose della solista, mentre le tre ragazze in sottofondo caricano il brano con la loro esuberanza vocale, per un inizio esaltante. Loose Cannon è un rock-blues sporco e cattivo da juke joint, come quelli frequentati dai babbi di alcuni dei musicisti presenti, con le chitarre e le voci, spesso distorte, che aggiungono intensità ad un brano gagliardo. I Am The Train ha ritmi incalzanti da soul revue sudista, con un slide che si insinua nel groove  del tessuto della canzone e la miriade di altre chitarre che imprimono anche il loro marchio di qualità. So Much Trouble, con il sitar di Luther Dickinson in evidenza, è quella che più ricorda il sound ipnotico e ripetitivo dei vecchi maestri della Fat Possum, ma è impreziosita da piccole (o grandi) coloriture sonore, oltre al sitar, la slide, un organo in sottofondo e, Lightnin’ Malcolm e le tre ragazze che ogni tanto si fanno sentire nel reparto voci.

Kingfish è una collaborazione tra Luther e Ian Siegal, con la voce paludosa e profonda di quest’ultimo che si spinge in territori più chiaramente Blues, fiancheggiata dalla solita miriade di strumenti a corda, sia elettrici che acustici. In The Fear la voce di Siegal va in cantina a raggiungere quelle di Cohen e Waits, anche se il brano è talmente attendista che quando finisce siamo ancora lì ad aspettare che si apra in qualche modo. Earlie Grace Jr. sembra un brano perduto dei Creedence cantato dal fratello minore del Waits giovane e con Harrison alla chitarra. La Green Power l’hanno usata per nutrire un wah-wah tostissimo che propelle una cover super-funky di un brano di Little Richard scritto da tale H.B. Barnum che non penso sia l’inventore del circo ma di sicuro del funky era tra i contribuenti, inutile dire che le tre vocalist di colore sono nel loro “ambiente”. Strong Woman è una breve e poderosa iniezione rock-blues firmata con Burnside che svergogna quasi tutto il repertorio di Lenny Kravitz. The Rodeo è una bella ballata campagnola che evidenzia la “parentela” di intenti con il Tom Waits di Jersey Girl. Hard Pressed (what da Fuzz?) è un altro funkaccio cattivo e il “fuzz” ovviamente è nella chitarra, cattiva quanto basta. Bravo e bello (scusate, guardo la foto): direi bravo e basta!           

Bruno Conti

In Irlanda Un Numero 1, Grande Talento! Mick Flannery – Red To Blue

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Mick Flannery – Red To Blue – Emi Music Ireland 2012

Il nome di Mick Flannery fa parte di quella lunga lista di piccoli e grandi tesori nascosti della musica Irlandese. mick%20flannery Circa un paio di anni fa ho letto il nome di questo artista originario di Blarney (nella contea di Cork), e completamente ignorando qualsiasi informazione sul personaggio, con curiosità mi sono addentrato nel suo mondo musicale. Fin dal primo ascolto devo dire che Mick mi ha particolarmente affascinato, “in primis” per la struttura musicale che ricorda per certi aspetti la sonorità di David Gray, e la malinconia di Damien Rice. Flannery è un cantautore dotato di una voce interessante e di una penna che si muove con estrema naturalezza tra ballate semiacustiche, brani più marcatamente folk, e “songs” pianistiche di raffinata eleganza, influenzato da artisti della caratura di Tom Waits, Leonard Cohen e l’immancabile Bob Dylan.

Il suo album di debutto Evening Train (uscito a livello indipendente nel 2005 e ri-pubblicato dalla Emi irlandese nel 2005), lo porta a vincere come primo musicista irlandese, l’ambito International Songwriting Competition in quel di Nashville, Tennessee, mentre White Lies (2008) diventa disco di platino ed è nominato per il premio Choice Music Prize, e questo nuovo lavoro Red To Blue uscito nel Marzo di quest’anno, è stato tre settimane al primo posto della classifica Irlandese, e il tour promozionale è stato un grande successo per Mick, con il “sold-out” in tutti i concerti, in particolare all’Olympia Theatre di Dublino. Red To Blue ha una lunga genesi: alcune canzoni infatti vengono scritte da Flannery nel corso di due viaggi in America , a Boston nel 2010 (No Way To Live e Boston) e Nashville nel 2011 (Keepin Score e Red To Blue) con l’aiuto di Declan Lucey e Dave Farrell. Tornato nella sua verde Irlanda il buon Mick ha radunato i suoi fidati musicisti, tra i quali Hugh Dillon alle chitarre, Brian Hassett al basso. Christian Best alla batteria, Karen O’Doherty al violino, la cantante Yvonne Daly ai cori, e sotto la curata produzione di Ryan Freeland (un tipo che in passato ha lavorato con gente del calibro di Son Volt, Ray LaMontagne, Aimee Mann, Joe Henry, Grant-Lee Phillips), ha sfornato questa “perla”.

Gone Forever si apre con un assolo di armonica all’avvio, per poi svilupparsi in un rock-blues, mentre Heartless Man è una ballata sofferta cantata al meglio da Mick. Spuntano gli archi in Only Gettin On una dolce ninna-nanna con il controcanto della Daly, seguita da una malinconica Ships In The Night con arpeggio di flamenco iniziale e violino “assassino” di Karen O’Doherty in chiusura. Keepin’ Score è un brano dal passo gentile e con una struttura melodica accattivante, mentre Red To Blue alza il ritmo del disco con una sezione ritmica a tempo di marcia. Si ritorna alla ballata intimista con Up On That Hill, dove i cori disegnano un piccolo gioiello musicale, per passare poi con No Way To Live ad un incursione nel rock, con un finale in crescendo di una sezione fiati, mentre Get That Gold degna del miglior David Gray. Gli archi compaiono spesso nelle sue canzoni, come ad esempio in Down The Road, mentre Lead Me On è una ballata pianistica dalle forti suggestioni poetiche, uno dei brani più belli dell’intera raccolta, che ci mostra senza mezze misure le qualità di questo artista. Chiude in maniera splendida un valzer romantico come Boston, con la voce appassionata di Mick che canta un ritornello meravigliosamente semplice, con il pianoforte di supporto. Incantevole.

Tenendo conto che fino a qualche tempo fa, la sua occupazione primaria era lavorare la pietra (ma pare che quando gli hanno comunicato che il suo album era andato al 1° posto delle charts irlandesi, scalzando Madonna e davanti a Springsteen, stesse lavorando a un caminetto), ci troviamo di fronte in ogni caso ad un notevole talento e nonostante in patria, come detto, abbia successo, non si capisce perché tante “strombazzate” riviste musicali del settore non ne abbiamo parlato come assolutamente merita. Red To Blue può essere senz’altro il primo passo per avvicinarsi ad un cantautore onesto e sincero, anche se, per la verità, i suoi CD non sono di facile reperibilità. Per quanto mi riguarda, visto che fra qualche mese sono da quelle parti (Dublino), se trovo qualche copia, la porto a casa.

Tino Montanari     

Finalmente! Ma Quando Dorme? Joe Bonamassa – Driving Towards The Daylight

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Joe Bonamassa – Driving Towards The Daylight – Mascot/Provogue 22-05-2012

Finalmente! C’è anche dell’ironia in questa esclamazione, ma non solo. Con questo CD, nell’annata 2012, tra live, DVD, ripubblicazioni e quant’altro, siamo a quota quattro, senza contare tutte le innumerevoli partecipazioni a dischi di altri. Ma quando dorme? Nello stesso tempo questo nuovo Driving Towards The Daylight segna un ritorno al Blues: o meglio al Blues according to Joe Bonamassa.  Come ha detto lui stesso in alcune interviste, e secondo il suo parere insindacabile, le parole per definire i precedenti album erano: “swampy” per The Ballad Of John Henry, “worldly” per Black Rock, “Americana” per Dust Bowl e aggiungerei io, “hard” (senza connotati negativi) per i due dischi dei Black Country Communion. La parola magica per questo nuovo disco è “blues”; registrato allo Studio In The Palms di Las Vegas con la produzione di Kevin Shirley in due sedute tra l’agosto del 2011 e febbraio del 2012 questo album è un ritorno alle sue radici musicali, quel British Blues fine anni ’60 poi trasformatosi nel guitar power trio del rock-blues di gruppi come i Led Zeppelin o il Jeff Beck Group mediato dalla riscoperta dello stesso Joe delle “vere” radici di questa musica, ovvero, prima il blues di Robert Johnson e poi quello di Chicago con i suoi grandi autori ed interpreti.

Ospite fisso nella formazione è Brad Whitford, il secondo chitarrista degli Aerosmith (già clienti di Shirley) mentre sono con Bonamassa (almeno credo) Anton Fig alla batteria e Carmine Rojas al basso (anche se nel sito ufficiale il nuovo batterista nel tour degli States è Tal Bergman), alle tastiere l’australiano Arlan Schierbaum. Di solito tutti i brani di Bonamassa partono da un riff di chitarra e poi si assestano su un groove particolare, nel senso che la canzone ruota intorno all’assolo che è la parte importante del pezzo, mentre di solito si fa il contrario ossia scrivi il brano e poi l’assolo è una conseguenza e non sempre è presente, ma questo è un mio assunto, una mia presunzione e vale, secondo me, per tutti i virtuosi della chitarra rock e il buon Joe ne è uno dei migliori rappresentanti.

Prendete l’iniziale Dislocated Boy, uno dei cinque brani che porta la sua firma, riff iniziale poderoso, entrata dell’organo, una “figura” ricorrente di chitarra che ricorda il sound del “vecchio” Peter Green e poi una serie di assoli con la sezione ritmica molto impegnata a sostenere quel groove particolare. Quello di Stones In My Passway è molto zeppeliniano, anche se il brano è un Robert Johnson minore, diciamo meno conosciuto, Bonamassa è impegnato alla slide su una Gibson con il doppio manico e il risultato finale avrebbe fatto il suo figurone su Presence, il tocco del piano aggiunge quel “sentire” blues all’insieme. Driving Towards The Daylight è una ballatona scritta con Danny Kortchmar parecchi anni fa e tirata fuori dal cassetto per l’occasione, illustra gli aspetti più rootsy della musica del nostro amico. Preceduto da un breve sample del dialogo tra Howlin’ Wolf e il batterista Aynsley Dunbar, mentre il “lupo” cerca di spiegargli cosa vuole da lui per questo brano, Who’s Been Talking è contemporaneamente un classico del genere e la genesi di Whole Lotta Love. Come saprete il brano dei Led Zeppelin era un costrutto di più canzoni, la parte centrale e finale era You Need Love della coppia Dixon/Waters ma il celeberrimo riff iniziale era tratto da questo brano di Howlin’ Wolf e la gagliarda versione di Bonamassa lo dimostra ampiamente, bellissimo brano, breve e conciso.

I Got What You Need era un altro brano di Willie Dixon, nel repertorio di Koko Taylor, e per l’occasione Bonamassa sfodera una interpretazione degna dei migliori Bluesbreakers di Mayall, quelli con Clapton e Green, notevole come sempre il lavoro della solista, lui è proprio bravo! A Place In my Heart è un bellissimo slow blues scritto da Bernie Marsden dei Whitesnake ma sembra un tributo all’arte di Gary Moore con un superbo Joe. Lonely Town Street è un vecchio brano di Bill Withers ma viene fatto alla Deep Purple, funky ma con un bell’interscambio tra organo e chitarra. Secondo Bonamassa Heavenly Soul è un omaggio a Mellencamp, una sorta di Paper On Fire come avrebbe potuto suonarla Knopfler in stile british, e ha anche ragione, quasi quasi mi ritiro, tanto ci pensa lui. New Coat Of Paint è una bella rilettura bluesata di un brano di Tom Waits, mentre Somewhere Trouble Don’t Go è un ottimo brano di Buddy Miller che viene rivisto à la Bonamassa, boogie, ritmo e chitarre. Too Much Ain’t Enough era uno dei cavalli di battaglia di Jimmy Barnes dei Cold Chisel (a proposito, sono tornati insieme e hanno fatto un nuovo disco) e per l’occasione ritorna a cantarla in una versione che dà dei punti all’originale, che voce e che chitarra. Bel disco, dopo quello con Beth Hart!                

Bruno Conti

Di Cover In Cover! Peter Mulvey – The Good Stuff

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Peter Mulvey – The Good Stuff – Signature Sound Records – 2012

Peter Mulvey da Milwaukee, Wisconsin, già autore di dischi promettenti nel passato, continua a fare ciò che ha sempre amato, il “busker” da subway, ricordando le ore passate nei sottopassaggi di Dublino o in quelli americani. I cantanti delle metropolitane prevalentemente eseguono “covers”, e cosi Peter (nel mio immaginario) si siede su una panchina ed esegue le canzoni predilette dei suoi “eroi” musicali, che sono un po’ anche i nostri (Leonard Cohen, Willie Nelson, Tom Waits, Joe Henry).  Mulvey, si era già cimentato in un esperimento simile con Ten Thousand Mornings (2002), registrato proprio in una stazione della metropolitana di Boston, e in quel lavoro aveva pescato da Elvis Costello, Randy Newman, Paul Simon, Bob Dylan, e anche in misura minore in Redbird (2003), con la complicità dei compagni di tour Jeffrey Foucault e Kris Delmhorst. Questo lavoro, The Good Stuff, è una raccolta più tradizionale di brani swing e ballate, dai risultati altalenanti, un disco che pur non essendo complesso, risulta non di facile lettura, specialmente nella rilettura di canzoni di autori standard come Duke Ellington e Thelonious Monk e contemporanei, come Melvern Taylor e Jolie Holland.

Peter. accompagnato da validi musicisti tra i quali il fido David Goodrich alle chitarre, Jason Smith alla batteria, Paul Kochanski al basso  e Randy Sabien al violino e piano, trasforma i pezzi dei suoi favoriti, li modella e li plasma secondo un sentimento puro e convinto, e la bella versione di Everybody Knows che inizia con una risata liberatoria, offre una scanzonata lettura del Cohen più creativo. La scelta delle canzoni da menzionare prosegue con I Don’t Know Why But I Do, un classico trascurato di Bobby Charles, con in evidenza il violino di Randy Sabien, la deliziosa Sugar , una rumba cantata in versione Paolo Conte, e la splendida Richard Pryor Addresses A Tearful Nation , pescata dal canzoniere del grande Joe Henry e precisamente dall’album Scar. Nella selezione sono presenti anche due brani strumentali, una Egg Radio di Bill Frisell in cui eccelle David Goodrich, e una dolce versione in chiave jazz, Ruby, My Dear di Thelonious Monk. Nella stessa occasione Peter Mulvey fa uscire anche un EP complementare con altri 6 brani registrati nelle stesse sessioni e con gli stessi musicisti, dal titolo di Chaser.

Peter Mulvey in questo The Good Stuff, dimostra quanto possa valere un lavoro di “covers” fatto con personalità, rispetto a composizioni non sempre di pari livello, ma si dimostra artista creativo e originale, dalle grandi possibilità, che mi auguro vengano dimostrate prossimamente con brani usciti dalla sua penna.

Tino Montanari

Una “Pioggia Di Note”! Tindersticks – The Something Rain

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Tindersticks – The Something Rain – Lucky Dog/City Slang 2012

I Tindersticks sono uno dei gruppi più originali prodotti dall’area musicale britannica negli anni ’90, cresciuti separatamente dalla scena indipendente, giungono con The Something Rain (bella la copertina della pittrice Suzanne Osborne) alla pubblicazione del nono album in studio, a cui bisogna aggiungere le colonne sonore di Nanette et Bonì  e Trouble Every Day, qualche raccolta (la più interessante è Donkeys 92-97), i due lavori da solista del leader Stuart A.Staples Lucky Dog Recordings e Leaving Songs, e lo splendido live The Bloomsbury Theatre 12.3.95 registrato con un orchestra di una trentina di componenti. I Tindersticks hanno avuto il pregio fin dal primo disco (meraviglioso) di avere un suono sempre ben definito e riconoscibile, ricchissimo di riferimenti, ma altrettanto personale. Non è possibile, ascoltando le canzoni dei Tindersticks, non tornare con la memoria a personaggi come Nick Cave, Leonard Cohen, Tom Waits, Lee Hazelwood, e direi anche il sottovalutato Mick Harvey. Il gruppo non nasconde nelle interviste che la propria musica nasca dall’incontro di queste proposte, ma è anche giustamente convinto che il risultato alla fine rispecchia il loro percorso musicale. Del resto visto che il sestetto, originario di Notthingham, evoca atmosfere fumose, torbide, film in bianco e nero ricchi di tonalità oscure (thriller, spie e dark ladies) è alquanto semplice associare la loro proposta agli artisti menzionati.

Osannati nel 1993 come nuova frontiera del “pop gotico” britannico e scomparsi nel 2003 nell’oblio generale, si sono riuniti nel 2008 con un album The Hungry Saw che ha ottenuto, se non successo, perlomeno quei riconoscimenti e attestati di stima che si concedono ai veterani, che sono diventati maestri per le nuove generazioni. The Something Rain è il terzo capitolo di questa nuova era, prima avevano pubblicato il meno ispirato Falling Down a Mountain (2010), e oltre ai componenti del gruppo David Boulter, Neil Fraser, Earl Harvin, Dan McKinna e il vecchio volpone Stuart A. Staples, troviamo collaboratori abituali come Terry Edwards al sax, Andy Nizza al violoncello, Julian Siegel al clarinetto, Will Wilde all’armonica e la brava Gina Foster cori e voce.

Nei nove episodi del disco sono sempre gli archi a dettare la linea, in quanto sanno sottolineare i momenti dolci con contrappunti morbidi che accarezzanole curve della melodia, ma sono pure capaci di diventare austeri e lasciare trapelare note taglienti e luminose. Si comincia con un brano narrativo Chocolate di quasi dieci minuti, che è il seguito di una canzone presente nel secondo album della band My Sister, mentre in Show Me Everything la voce baritonale di Stuart Staples accompagna un coro femminile. This Fire of Autumn non è uno dei brani migliori del lotto, mentre la seguente A Night So Still è una ballata ammaliante, marchio di fabbrica del gruppo. Si cambia registro a ritmo di rumba con Slippin’ Shoes, con una sezione fiati intrigante, che mi ricorda vagamente Avalon dei Roxy Music, mentre il violino ricamato di Medicine canzone d’amore calda e sofferta (uno dei punti più alti del disco), sembra uscita dalla penna dell’ultimo Leonard Cohen. Frozen scritta da Staples con il cantautore David Kitt (di cui si sono perse le tracce) è un brano dal “beat” ossessivo, direi quasi sincopato, con riverberi musicali dai mille risvolti, mentre Come Inside è una ballata cameristica dove la voce di Stuart declama parole di seduzione, con una tromba finale di struggente bellezza. Il brano di chiusura è uno strumentale delicato Goodbye Joe composto da Boulter, che mi piace pensare sia un arrivederci d’amore.

In The Something Rain il suono è come sempre seducente, le canzoni dopo pochi ascolti prendono forma e diventano indispensabili, e anche questo lavoro contiene brani che entreranno a far parte, a pieno merito, del loro classico repertorio. Come sempre, i Tindersticks, riescono anche questa volta a rubarmi il cuore. Per impenitenti e inguaribili romantici.

Tino Montanari