Gli Interessanti Esordi Del Fratello Maggiore Di Ronnie. Artwoods – Art’s Gallery

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The Artwoods – Art’s Gallery – Top Sounds/BBC

Gli Artwoods sono stati una sorta di nota a pié di pagina nella storia del rock britannico (diciamo R&B e beat), cionondimeno nelle proprie fila, oltre al leader Art Wood (fratello maggiore di Ronnie Wood), ha militato gente come Jon Lord alle tastiere e Keef Hartley alla batteria, e benché musicalmente parlando fossero dei fratelli “poveri” degli Animals, degli Zombies, o di Manfred Mann, forse l’unica loro mancanza è stata quella di non avere mai avuto grandi successi in classifica, o magari un cantante formidabile come Eric Burdon, anche se Art Wood, sia pure con una voce più stentorea e meno profonda e risonante, era un eccellente cantante, con un passato in band del giro jazz inglese, e poi nei Blues Incorporated di Alexis Korner. Comunque se volete sapere tutti i particolari della loro vicenda musicale, il CD ha un libretto di ben 24 pagine, più una mini enciclopedia che delle semplici note, assai esaustivo, fin troppo.

Il CD è una sorta di appendice al box Steady Gettin’ It – The Complete Recordings 1964–67,pubblicato nel 2014 dalla RPM/Cherry Red Records, che praticamente raccoglieva nel primo e secondo dischetto anche moltissime BBC sessions, ma curiosamente, nonostante il titolo, complete, non quelle di questa nuova ristampa: forse perché nel cofanetto c’era un CD intitolato Art Gallery, e qui troviamo Art’s Galley? Misteri della vita: comunque i 16 brani (13 se togliamo 3 “storiche” introduzioni di speaker radiofonici con il tipico accento britannico della BBC anni ’60, che imperversano anche agli inizi dei pezzi), sono estremamente godibili, tutte cover che spaziano tra il blues, il R&B e un proto beat abbastanza grintoso, con l’organo di Lord a dividersi gli spazi solisti con la chitarra di Derek Griffiths. La qualità sonora è decisamente buona  e nella session di Saturday Club del gennaio 1966 troviamo Work Work Work un successo R&B di Lee Dorsey, scritto da Alen Toussaint sotto lo pseudonimo Naomi Neville, bluesata ed atmosferica molto alla Animals, Oh My Love del marzo 1965, presente anche in una versione di aprile, ricorda i primi Beatles, quelli amanti della musica americana, con l’aggiunta di un grande assolo di organo di Jon Lord, mentre Out Of Sight dell’aprile ’65. è proprio una cover del brano di James Brown, “torbida” e ritmata il giusto, da perfetto gruppo beat.

I Ain’t Got Nothin’ but the Blues, di Duke Ellington, ma più conosciuta nella versione della Fitzgerald, è più swingata e jazzy, sempre con Lord in evidenza. I’ve Got A Woman di Ray Charles non si dovrebbe toccare, e anche se Art Wood ci prova, ovviamente “The Genius” è un’altra cosa, e comunque Keef Hartley alla batteria ci mette del suo in ogni brano e anche Griffiths non scherza come chitarrista; tra gli altri brani degni di nota una gagliarda She Knows What To Do che sembra di nuovo una outtake degli Animals, una pimpante Smack Dab In The Middle, lo strumentale That Healin’ Feelin’ di Les McCann che fa molto Wes Montgomery/Jimmy Smith, per le 12 battute classiche Black Mountain Blues dal repertorio di Bessie Smith e How Long How Long Blues di Leroy Carr. E in chiusura forse il brano migliore, una vibrante versione di Don’t Cry No More di Solomon Burke. Molto piacevole e ben fatto, per chi vuole scoprire questa band dimenticata dal tempo. Al solito, vista l’etichetta, di non facile reperibilità.

Bruno Conti

Preziose Missive Dal Passato. The Animals – The Complete Live Broadcasts 1 1964-1966

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The Animals – The Complete Live Broadcasts 1 1964-1966 – 2 CD Rhythm & Blues Records

Ammetto che quando ho letto le prime notizie di questo doppio CD dedicato agli Animals temevo il peggio: da dove è sbucata questa Rhythm And Blues Records, etichetta inglese specializzata in ristampe e compilations di materiale “antico”, diciamo dell’era pre-copyright, quindi con almeno 50 anni sul groppone, canzoni e album sui quali le case discografiche originali non sono più proprietarie esclusive dei diritti? Quindi spesso CD con un suono scadente, poche informazioni sulla provenienza dei brani,  libretti assenti o con note approssimative: niente di tutto ciò, siamo di fronte ad un lavoro fatto con i fiocchi, libretto di 16 pagine ricchissimo di notizie, lista dei brani estremamente dettagliata con indicazioni precise sulle trasmissioni radiofoniche da cui proviene ciascuno dei brani contenuti in questa antologia, e soprattutto un suono perlopiù sorprendentemente brillante e dettagliato (non in tutti i brani, forse sarebbe stato troppo pretenderlo), mono come è ovvio, visto che si tratta di registrazioni relative al periodo 1964-1966, al solito il problema probabile è la scarsa reperibilità.

animals complete animals

Già la discografia degli Animals è piuttosto complicata, con le versioni inglesi degli album dell’epoca (come succedeva per le discografie dei “rivali” Beatles e Stones, ma anche per tutti gli altri) senza i singoli di successo, poi inseriti in raccolte successive oppure nelle versioni americane degli LP, titoli ingannevoli, Animalism e Animalisms e via così. Se non siete dei partiti della band di Eric Burdon e quindi avete già tutti i loro album, l’ideale per conoscere il gruppo di Newcastle sarebbe recuperare il doppio antologico della Parlophone The Complete Animals, che attraverso 41 brani in ordine cronologico copre splendidamente il periodo dal 1964 al 1965, evitando doppioni e ripetizioni (è ancora disponibile a prezzo speciale,lo vedete qui sopra). Tornando a Broadcasts 1964-1966, qui il periodo seguito è più ampio e segue le esibizioni radiofoniche di quel quintetto, oltre al grandissimo Burdon alla voce, Alan Price all’organo, Hilton Valentine alla chitarra, il futuro manager di Jimi Hendrix Chas Chandler al basso e John Steel alla batteria (che guida ancora l’attuale incarnazione del gruppo). Detto che House Of The Rising Sun non c’è, il resto del materiale BBC, e di altre emittenti dell’epoca, riporta i grandi successi  ed una serie notevole di chicche che vanno a scavare in profondità nel repertorio tra R&B, Blues, R&R s e proto-rock che era nelle corde della band, una miscela esplosiva che aveva pochi rivali in Inghilterra, a parte gli Stones, i Them di Van Morrison, i primi Yardbirds e forse anche le band pre British Blues come quelle di Alexis Korner e Cyril Davies.

Il primo CD riporta cinque sessions per la trasmissione della BBC Saturday Club Session dal febbraio ’65 a marzo ’66, 27 brani + una intervista, inframmezzati ogni tanto dalle leggendarie ed affascinanti presentazioni vintage degli speaker dell’emittente britannica: qualche leggero e contenuto calo nella qualità sonora , ma anche versioni da sballo di Don’t Let Me Be Misunderstood, Dimples, Mess Around, Bring It On Home To Me, We’ve Gotta Get Out Of This Place, spesso più belle degli originali, con la chitarra di Valentine e l’organo e il piano di di Price a pennellare il sound, il basso pulsante di Chandler e la batteria di Steel a sostenere la voce potente, ispiratissima e negroide di Eric Burdon, una delle più grandi voci di sempre. Per non dire di versioni fantastiche di una jazzata In The Wee Wee Hours di Chuck Berry, Heartbreak Hotel di Elvis, rallentata ad arte, l’iniziale furiosa Gonna Send You Back To Walker con Eric che canta con un impeto formidabile, Drown In My Own Tears di Ray Charles, una splendida Work Song di Cannonball Adderley, tra le grandi hits dimenticavo una spumeggiante It’s My Life con il suo celebre riff e il ritornello incalzante, inside Looking Out del 1966, uno dei rari brani firmati dalla band, una scattante Sweet Little Sixteen e tantissime altre.

Il secondo CD è forse più dispersivo, ancora un brano dalle Saturday Club Sessions del 1966, poi si salta agli unici tre brani del marzo 1964, tratti dalla trasmissione A Whole Lotta Shakin’, una tripletta scoppiettante con Talkin’ Bout You, una rauca e selvaggia Shout e Around And Around: Bruce Springsteen  sintonizzato alla radio, probabilmente ascoltava e prendeva nota, poi brani dal vivo dallo spettacolo dei NME Poll Winners, con pubblico urlante, prevedono una primeva Boom Boom, una delle altre varie versioni di Don’t Let Me Misunderstood, mentre da  una trasmissione del 1965 una vibrante We’ve Gotta Get Out Of This Place, entrambi i brani poi ripetuti  in altri concerti come Gadzooks dell’aprile ’65 e dalla esibizione all’Olympia di Parigi per la RTL nel marzo del ’66, tantissima energia sempre, ma la qualità sonora è meno brillante, se no parleremmo di un album da 4 stellette. Ma tra le chicche finali, gli ultimi due brani registrati a Ready Steady Go del 16 settembre 1966 vedono Eric Burdon raggiungere sul palco la band di Otis Redding per una pimpante Hold On I’m Coming, e poi insieme al King Of Soul e a Chris Farlowe dare vita a una colossale versione di Shake. Le sei interviste conclusive, interessanti, sono probabilmente superflue, ma il resto, per dirla in due parole, forse tre, s’ha da avere.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Una Delle Serate Che Hanno Creato La Leggenda Del Boss! Bruce Springsteen & The E Street Band – Capitol Theatre, Passaic NJ, September 20th 1978

Bruce Springsteen & The E Street Band – Capitol Theatre, Passaic NJ, September 20th 1978

Bruce Springsteen & The E Street Band – Capitol Theatre, Passaic NJ, September 20th 1978 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Se chiedete ad un fan di Bruce Springsteen (ma di quelli “doc”) quali siano i suoi concerti preferiti del Boss, vi potrà rispondere, in ordine sparso, quelli al Roxy nel 1975, o quello all’Agora Ballroom nel 1978, o ancora gli show europei del 1981 (Zurigo e Stoccolma soprattutto); i più giovani potranno citarvi la serata finale del tour di The Rising allo Shea Stadium (con Bob Dylan ospite), e quelli italiani sicuramente non dimenticheranno San Siro 1985. Di certo tutti vi nomineranno anche lo spettacolo del 19 Settembre 1978 al Capitol Theatre di Passaic, in New Jersey, un live leggendario che è anche uno dei più noti bootleg di Bruce, dato che all’epoca era stato passato in diretta radiofonica.

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Ora gli archivi di Springsteen si rivolgono proprio a quei concerti, ma invece di rendere ufficiale la nota serata del 19, optano per quella della sera dopo, nella medesima location, uno show molto poco conosciuto ma di un’intensità non certo inferiore a quello precedente. Il 1978 fu uno degli anni chiave di Bruce, che, oltre ad aver pubblicato il capolavoro Darkness On The Edge Of Town (per chi scrive il suo secondo miglior album, ma di poco, dopo The River), tenne alcuni tra gli spettacoli dal vivo migliori dell’intera carriera, con la E Street Band al top della forma ed il nostro che sembrava letteralmente arso dal sacro fuoco. Questo triplo CD è uno dei migliori della serie, una vera e propria festa a tutto rock’n’roll, con alcune interpretazioni definitive di molti dei suoi classici. Il primo CD è da cinque stelle, si sfiora davvero la perfezione: di solito anche uno come Bruce ha bisogno di 2-3 canzoni prima di ingranare, ma quella sera già con l’iniziale Good Rockin’ Tonight (Elvis Presley) siamo in pieno mood rock’n’roll; a seguire, una sfilza di classici, di cui molti tratti da Darkness, come la sempre esplosiva Badlands, una title track lucida ed impeccabile, tra le più belle mai sentite (e con Roy Bittan strepitoso), The Promised Land ed una Prove It All Night più irresistibile del solito, con una introduzione strumentale davvero spettacolare.

Ci sono anche due pezzi in anteprima da The River, due ballate come la toccante Independence Day e, sul secondo CD, la splendida Point Blank, già dal pathos enorme; Completano il primo dischetto una Spirit In The Night calda, densa e coinvolgente, una potente cover di It’s My Life degli Animals e le straordinarie Thunder Road e Jungleland, forse i due brani più belli di quel disco epocale che è Born To Run (e la seconda è semplicemente formidabile). Il secondo CD si apre stranamente con la festosa ed esuberante Santa Claus Is Coming To Town (al 20 Settembre…), per proseguire con Fire, un brano che il Boss usava per scaldare ancora di più il pubblico. Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire, ma Because The Night è la solita bomba (la ascolterei anche cinque volte di fila); dopo la già citata Point Blank ed una robusta (e rara) Kitty’s Back, abbiamo la drammatica Incident On The 57th Street, una delle grandi canzoni del primo periodo di Bruce, e la solita gioiosa Rosalita, che ci porta ai bis del terzo CD. Solo quattro brani: a parte le prevedibili, ma sempre gradite, Born To Run e Tenth Avenue Freeze-Out, il gran finale è a tutto rock’n’roll, con il mitico Detroit Medley e la travolgente Twist And Shout, in cui Springsteen ed i suoi si spendono fino all’ultima goccia di sudore, una vera celebrazione on stage per un musicista fantastico ed una band meravigliosa, fotografati nel preciso momento in cui erano intenti a scrivere la storia.

Marco Verdi

Lo Springsteen Del Lunedì: Uno Degli Anni “Oscuri” Del Boss. Bruce Springsteen & The E Street Band – Palace Theatre, Albany 1977 – Auditorium Theatre, Rochester 1977

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Palace Theatre, Albany 1977 – nugs.net 2CD – Download

Bruce Springsteen & The E Street Band – Auditorium Theatre, Rochester 1977 – nugs.net 2CD – Download

Gli anni magici dei concerti dal vivo di Bruce Springsteen e della sua E Street Band, quelli nei quali il rocker del New Jersey si è affermato come uno dei più grandi performers di tutti i tempi, sono stati senza dubbio il 1975, il 1978 ed il biennio 1980/81, periodi in cui ogni serata poteva diventare una di quelle esperienze tali da poter far dire ai fortunati presenti “Io c’ero”. Il 1977 è stato invece un anno stranamente poco documentato anche a livello di bootleg, anche se Bruce continuava ad esibirsi in quanto era discograficamente fermo a causa del contenzioso legale con il suo ex manager Mike Appel, un problema che poteva stroncargli la carriera ma si concluse positivamente nella primavera di quello stesso anno, consentendo così al nostro di cominciare a lavorare su Darkness On The Edge Of Town. Ora il sito che da tempo si occupa della gestione degli archivi dal vivo del Boss, live.brucespringsteen.net, esce con uno dei volumi più interessanti della serie (mentre scrivo queste righe ne sono già usciti altri tre, dei quali mi occuperò in futuro), e per la prima volta pubblicando due interi concerti separatamente, cioè le serate del 7 ed 8 Febbraio 1977 rispettivamente ad Albany e Rochester, nello stato di New York. Questi due spettacoli sono una vera chicca, in quanto i nastri non erano mai circolati neppure tra i collezionisti più accaniti, e quindi, oltre al valore delle due esibizioni, il tutto assume un’importanza storica notevole. Diciamo subito che dal punto di vista artistico non siamo ai livelli degli show leggendari di Bruce, si percepisce qua e là una certa tensione (specie nella serata di Albany), dovuta sicuramente allo stato d’animo del nostro che era impegnato nella già citata causa legale: i due spettacoli (che sono anche più corti del solito, entrambi sotto le due ore) non sono infatti esplosivi come saranno quelli dell’anno seguente, ed in certi momenti le atmosfere sono perfino intimiste.

Non mancano però gli episodi di grande livello emotivo, specie nella serata di Rochester dove il Boss appare più “sciolto”, e l’acquisto di almeno uno dei due doppi CD è comunque da consigliare in quanto ci mostra un aspetto diverso del nostro in una fase cruciale della carriera. Due parole per la qualità d’incisione, che non è al livello dei precedenti volumi, il suono è limpido, ma il volume è piuttosto basso e ci sono diversi “salti” in almeno cinque canzoni in totale dovuti a mancanze e difetti del nastro originale: comunque decisamente meglio di un bootleg. Lo show di Albany è già atipico dall’avvio, non il solito inizio roboante ma bensì la tenue Something In The Night, in anticipo su Darkness ed in modalità work in progress (anche il testo è differente), versione dilatata e con un crescendo degno di nota, subito seguita dall’errebi straccione di Spirit In The Night, con la E Street Band già in formato macchina da guerra, e dalla festosa Rendezvous, dominata dal piano di Roy Bittan. La splendida Thunder Road è “schiacciata” in mezzo a due covers: una maestosa It’s My Life degli Animals, preceduta da una lunga introduzione quasi psichedelica, e da una corretta ma non entusiasmante Mona di Bo Diddley, fusa insieme ad una decisamente più energica She’s The One. Il primo CD si chiude con una struggente e bellissima The Promise per sola voce e piano, mentre il secondo (le due canzoni erroneamente indicate a chiusura del primo dischetto sono in realtà poste in apertura del secondo) inizia con una Backstreets davvero splendida e potente, tra le migliori della serata, ed una pimpante Growin’ Up che Bruce dedica al padre. E’ la volta di una Tenth Avenue Freeze-Out al solito calda, ritmata e soulful (ma piuttosto nella media), che sfocia nella formidabile Jungleland, altro highlight dello show, commovente come non mai (e con il Boss, ormai in trance agonistica, che rilascia un assolo chitarristico notevole); ecco poi due pezzi agli antipodi come la colorata Rosalita e la romantica 4th Of July, Asbury Park (Sandy) (col solito toccante intervento di Danny Federici alla fisarmonica).

Ancora due brani, ma se il finale di Born To Run ce lo potevamo aspettare (manca la prima strofa per il già citato problema al nastro), il penultimo pezzo, Action In The Streets, è un inedito assoluto, proposto dal nostro per un periodo molto breve e, pare, mai inciso in studio, un saltellante e coinvolgente rock’n’soul con i fiati dei Miami Horns protagonisti (ed anche il sax di Clarence Clemons) ed il Boss che sembra più Southside Johnny che sé stesso. La serata di Rochester ha, cosa rara per Bruce, una scaletta identica ad Albany al 99% (manca Growin’ Up ed al suo posto c’è la vivace Raise Your Hand di Eddie Floyd), anche se diversi pezzi hanno una collocazione differente in scaletta: per esempio The Promise è appena prima del finale di Born To Run (scelta opinabile secondo me) ed Action In The Streets è nella prima parte. L’esito complessivo della serata è comunque, a mio parere, superiore a quella precedente, con un Boss più sicuro di sé ed un momento magico assoluto nelle rese superbe di Backstreets e Jungleland, qui suonate una dopo l’altra. Un (doppio) capitolo dunque molto interessante delle avventure live di Bruce Springsteen, pur non essendo al livello degli show che il nostro terrà nel 1978: con il prossimo volume salteremo in avanti di quasi vent’anni, con uno show acustico tratto dal tour di The Ghost Of Tom Joad.

Marco Verdi

*NDB. Il Post avrebbe dovuto essere pubblicato nel Blog ieri, ma per problemi tecnici arriva solo oggi, quindi, visto che di solito questi articoli venivano rilasciati come Supplemento della Domenica, abbiamo pensato di chiamarlo “Lo Springsteen Del Lunedì”. Nulla di misterioso.

Ogni Tanto Si Rifà Viva Anche Lei! Ronnie Spector – English Heart

ronnie spector english heart

Ronnie Spector – English Heart – 429 CD

E’ di pochi mesi fa il mio post sul Best Of dedicato a Veronica Yvette Bennett, meglio conosciuta come Ronnie Spector, un’ottima antologia con qualche rarità che però non conteneva nulla di nuovo http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/ : l’ultima fatica dell’ex leader delle Ronettes (ed ex moglie del leggendario produttore Phil Spector) risaliva a ben dieci anni fa, il discreto ma non eccelso Last Of The Rock Stars. Ma Ronnie nel corso della sua carriera ha pubblicato davvero poco come solista, e quindi ogni suo disco deve essere considerato come un piccolo evento, essendo lei una delle artiste di punta dei vocal groups tanto in voga nella musica pop degli anni sessanta. English Heart, il suo nuovissimo album, è però un disco particolare: se la quasi totalità dei gruppi e solisti inglesi dei sixties si rifacevano dichiaratamente ad un suono di origine americana (chi blues, chi rock’n’roll, chi soul), con questo lavoro Ronnie ha voluto fare il percorso inverso, omaggiando tutta una serie di artisti e di brani a lei particolarmente cari, dichiarando anche nelle note di copertina il suo smisurato amore per la musica britannica dell’epoca. Quindi un disco di cover, scelte per lo più in maniera personale dalla cantante di origini afro-irlandesi, con pochi pezzi veramente famosi anche se presi dai songbook di band popolarissime: l’album è prodotto da Scott Jacoby, uno con un curriculum non proprio aderente ai gusti abituali di chi scrive su questo blog (Coldplay, Sia, John Legend), ma che qua ha fatto un lavoro impeccabile a livello di suono (tranne un caso), rivestendo i brani di suoni moderni ma nello stesso tempo mantenendo un certo sapore d’altri tempi, utilizzando una lunga serie di sessionmen proprio come faceva l’ex marito di Ronnie (ed i cui nomi, devo confessare, mi sono sconosciuti).

Poi c’è la voce della Spector, sempre bellissima e resa ancora più affascinante da un misto di età, sigarette e chissà cos’altro, che le ha conferito un timbro giusto a metà tra la limpidezza dei brani con le Ronettes ed il tono roco e vissuto di Marianne Faithfull (un’altra che non si è mai fatta mancare niente): il tutto per un dischetto (meno di 35 minuti) che, anche se non imprescindibile, posso tranquillamente definire riuscito, in quanto non annoia e si lascia ascoltare con piacere (e la cosa secondo me non era scontata, in certi casi il pericolo ciofeca è sempre dietro l’angolo). L’album inizia con Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby), ripresa molto sofisticata e quasi afterhours di un successo minore di Lulu, con un marcato retrogusto soul (una costante nel disco), non malaccio anche se un po’ più di brio non avrebbe guastato. Because è un vecchio pezzo dei Dave Clark Five, B-side in Inghilterra ma lato A in America, proposta con un arrangiamento più vintage (anche se si sente benissimo che è incisa oggi), un botta e risposta tra leader e coro femminile che fa molto Ronettes e melodia squisitamente sixties, e che voce che ha ancora Ronnie.

I’d Much Rather Be With The Girls è una canzone poco nota dei Rolling Stones (scritta dall’inedita coppia Keith Richards – Andrew Loog Oldham e pubblicata nella compilation di rarità Metamorphosis), un brano che già in origine era un omaggio a Spector (il marito), e quindi Ronnie non deve cambiare molto per portare a casa il risultato pieno (a parte il titolo, dove Boys viene sostituito da Girls); Don’t Let The Sun Catch You Crying (Gerry & The Pacemakers) è invece ripresa in maniera quasi cameristica, con solo due chitarre acustiche ed un violoncello (ed anche una leggera percussione) ad accompagnare la voce carismatica di Ronnie, una rilettura di classe, parola non abitualmente associata ad una che ha il soprannome di “bad girl of rock’n’roll”. Tired Of Waiting è una (bella) canzone dei Kinks, anche se non tra le più note, e la nostra Veronica la rifà con un approccio rock asciutto e diretto ed un leggero sapore errebi che non guasta; Tell Her No (Zombies) è la più mossa finora, con ancora un arrangiamento in perfetto stile anni sessanta, un blue-eyed soul di presa immediata, mentre con I’ll Follow The Sun (Beatles, of course) non si sforza più di tanto, lasciando intatta la struttura folk dei Fab Four ed eseguendola con due chitarre e poco altro. You’ve Got Your Troubles è un oscuro brano di un’altrettanto oscura band (The Fortunes) ed è il primo e per fortuna unico caso di suono un po’ finto, con drum programming e synth ben in vista, ed anche la canzone non è niente di che, meglio Girl Don’t Come (di Sandie Shaw, la “cantante scalza” molto popolare anche in Italia), che mantiene il gusto pop dell’originale ed è suonata in maniera classica, e pur non essendo un grande brano si lascia ascoltare.

Don’t Let Me Be Misunderstood è invece un capolavoro della nostra musica (ed è anche la più famosa tra le canzoni scelte dalla Spector), ed anch’essa viene rivestita di sonorità tra rock e rhythm’n’blues, dando un sapore nuovo ad un pezzo che ha avuto più di una versione superlativa (Animals e Nina Simone su tutte… e che nessuno si azzardi a dire Santa Esmeralda, a parte Carlo Conti!): gran ritmo e melodia trattata con il dovuto riguardo. Il CD si chiude con l’unico “sconfinamento” negli anni settanta, con la nota How Can You Mend A Broken Heart dei Bee Gees, un pezzo che non ho mai amato particolarmente (ma è un mio problema, Ronnie la rifà bene): quindi, ripeto, un dischetto forse non indispensabile, ma in definitiva ben fatto ed ottimamente interpretato, e vista la (poca) regolarità con la quale incide Ronnie Spector, l’acquisto ci può anche stare.

Marco Verdi