Tornano “Quella” Voce E “Quelle” Canzoni, In Versione Country-Pop. Barry Gibb – Greenfields Vol. 1

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Barry Gibb – Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol. 1 – Capitol/Universal CD

I Bee Gees sono stati senza dubbio uno dei gruppi più popolari di sempre e tra i pochi, insieme a Beatles, Rolling Stones e ABBA, ad essere conosciuti anche da chi compra sì e no un disco all’anno. Personalmente sono un estimatore del loro primo periodo, diciamo dal 1966 al 1971/72, quando i tre (i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb) erano fautori di un pop decisamente piacevole, elegante e melodicamente delizioso, prima di edulcorare in maniera eccessiva la loro proposta negli anni successivi fino a diventare nella seconda parte della decade i profeti assoluti della discomusic vendendo dischi a palate, per poi gestire la parte finale di carriera con una serie di album di pop commerciale abbastanza prescindibili. Barry è oggi rimasto l’ultimo dei fratelli ancora in vita dopo la scomparsa di Maurice nel 2003 e di Robin nel 2012 (mentre Andy, il quarto fratello che però non aveva mai fatto parte del gruppo, è morto appena trentenne nel 1988), ed invece di godersi una dorata pensione ha deciso di rifarsi vivo un po’ a sorpresa con un nuovo album.

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Anche se non si direbbe, Barry è sempre stato un appassionato di country e bluegrass, ed è proprio con un disco di country che ha deciso di tornare: tutto è avvenuto quando suo figlio Stephen, anch’egli musicista, gli ha fatto ascoltare una canzone di Chris Stapleton, brano che a Gibb Sr. è piaciuto così tanto da voler contattare subito il produttore Dave Cobb. I due hanno avuto l’idea di recarsi presso i mitici RCA Studios di Nashville ad incidere vecchie canzoni del songbook dei Bee Gees con nuovi arrangiamenti di stampo country-Americana e soprattutto con l’aiuto di numerosi musicisti di gran nome che hanno accettato di buon grado di duettare con Barry. Il risultato è Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol 1, dodici rivisitazioni di canzoni decisamente famose, alcune meno note ed anche un brano inedito, ad opera di un Barry in buona forma ed ancora titolare di una bella voce e di una serie di partner di indubbio livello (ma Stapleton non c’è, anche se quel Vol. 1 nel titolo lascia presagire un seguito), il tutto con l’ormai affidabilissima regia di Cobb, che ha cercato di togliere ai classici del nostro quella patina di pop radiofonico donando loro un sapore più americano, riuscendoci però solo in parte dal momento che, probabilmente, Gibb non se l’è sentita di abbandonare del tutto certe dinamiche musicali tipiche sue.

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Greenfields è comunque un album molto piacevole e ben fatto in cui il tasso zuccherino si alza notevolmente solo in due o tre brani, dimostrando che spesso il problema coi Bee Gees non erano le canzoni ma la loro veste sonora (va però detto che il periodo “disco” qui si limita ad un paio di ballate, e la maggior parte dei pezzi proviene dai primi anni della band). Il CD inizia bene con la classica I’ve Gotta Get A Message To You in una versione decisamente bella, fluida e suonata alla grande, dove perfino uno come Keith Urban riesce a non fare danni ricordandosi di avere comunque una buona voce https://www.youtube.com/watch?v=1mocrPhJBSM . Words Of A Fool è un inedito degli anni ottanta, uno slow profondo ed intenso dalla melodia splendida e con un organo a dare un sapore quasi southern soul, con l’aggiunta della voce e chitarra di Jason Isbell ad alzare ulteriormente il livello https://www.youtube.com/watch?v=OiBXS7q4qqY ; Run To Me è una delle ballate più belle dei Bee Gees, e qui viene nobilitata dalla bellissima voce di Brandi Carlile (sempre più brava ogni anno che passa), mentre l’arrangiamento è pop ma di gran classe. Too Much Heaven viceversa non mi ha mai fatto impazzire, troppo sofisticata per i miei gusti https://www.youtube.com/watch?v=PMOtZNeXUyU , e questo duetto tra Barry ed Alison Krauss non mi fa cambiare idea nonostante la voce splendida della cantante-violinista, ed inoltre gli archi sono piuttosto pesanti.

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Meglio la poco nota Lonely Days, in cui Gibb è doppiato dalle voci dei Little Big Town, uno slow pianistico che nel ritornello aumenta di ritmo ed è potenziato da una vigorosa sezione fiati; la famosa Words vede il nostro accompagnato da Dolly Parton per una rilettura di buona intensità ed un arrangiamento elegante tra country e pop https://www.youtube.com/watch?v=GnJqrLALsOc , mentre nella funkeggiante Jive Talkin’ Barry è raggiunto dalla strana coppia formata da Miranda Lambert e Jay Buchanan (cantante del gruppo hard rock Rival Sons, amici e protetti di Cobb), ma il trio funziona abbastanza bene. How Deep Is Your Love la conoscono anche i sassi: versione riuscita e piacevole, con il ritorno dei Little Big Town alle armonie vocali ed il cameo alla chitarra acustica del grande Tommy Emmanuel; Sheryl Crow non manca mai in dischi di questo tipo, ma è brava e fa di tutto per migliorare How Can You Mend A Broken Heart che non è un grande brano ed il suono è fin troppo raffinato. Per contro To Love Somebody è un capolavoro, forse la miglior canzone dei Bee Gees (ricordo una splendida rilettura dei Flying Burrito Brothers), e rimane bellissima comunque la si faccia (per la cronaca qui Barry è ancora con Buchanan) https://www.youtube.com/watch?v=b_kEQ9r-zuw . Finale con due rarità: Rest Your Love On Me (era un lato B dei fratelli Gibb), una discreta ballata nella quale ritroviamo la rediviva Olivia Newton-John, e Butterfly che è la prima canzone in assoluto scritta da Barry, Robin e Maurice ed è riproposta in una bellissima versione elettroacustica cantata a tre voci con Gillian Welch e David Rawlings: se tutto Greenfields fosse stato a questo livello avrebbe meritato le fatidiche quattro stellette https://www.youtube.com/watch?v=I12Ng0fz2ak . Invece dobbiamo “accontentarci” di un comunque piacevole compromesso tra il suono roots di Cobb e l’anima easy listening di Gibb, che in ogni caso è la cosa migliore messa su disco dall’ex Bee Gees dai primi anni settanta in poi.

Marco Verdi

Non Male, Molto Raffinato, Anche Se Di Country Se Ne Vede Poco! Ashley Monroe – Sparrow

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Quarto album di studio (più un vinile a tiratura limitata pubblicato per la Third Man Records, l’etichetta di Jack White) per la bionda Ashley Monroe, country singer del Tennessee ed anche apprezzata autrice per conto terzi, oltre che componente insieme ad Angaleena Presley e Miranda Lambert delle Pistol Annies, un trio che vanta tra i suoi principali estimatori un certo Neil Young. Dopo due album prodotti da Vince Gill, Ashley ha deciso di cambiare, approdando anche lei nell’universo di Dave Cobb, uno che da qualche anno a questa parte sta davvero lavorando come un matto. E Cobb non sbaglia neppure stavolta, portando in session un numero limitato di musicisti (tra cui i fidati Chris Powell alla batteria e Mike Webb alle tastiere) e soprattutto facendo sì che il suono non prenda pericolose derive radiofoniche, cosa che a Nashville non è mai scontata. Proprio nel suono però ci sono le maggiori novità, in quanto la Monroe, un po’ come ha fatto di recente Kacey Musgraves https://discoclub.myblog.it/2018/05/22/dal-country-al-pop-senza-passare-dal-via-kacey-musgraves-golden-hour/ , ha optato per sonorità non necessariamente solo country, dando spesso ai brani (tutti scritti da lei, anche se in collaborazione con altri) un gradevole sapore pop anni sessanta-settanta, con un uso molto particolare in diversi pezzi di un quartetto d’archi.

E Sparrow è un disco molto piacevole, non solo per queste soluzioni sonore o per il fatto di avere Cobb in cabina di regia: gran parte del merito va infatti ad Ashley stessa, che si conferma una songwriter capace ed una cantante espressiva e dalla voce cristallina, voce che viene intelligentemente messa in primo piano dal produttore. Orphan, che apre il disco, è un brano pianistico dal passo lento e leggermente orchestrato, con una melodia profonda e toccante, ed un notevole crescendo nel ritornello, una bella canzone davvero. Hard On A Heart cambia completamente registro, il tempo è sostenuto ed il motivo quasi western, ma la melodia è protagonista anche qui, con la voce sempre in primo piano: il contrasto con la ritmica trascinante ed il quartetto d’archi sullo sfondo crea un effetto quasi discoteca anni settanta, comunque intrigante; la sinuosa Hands On You ha un sapore d’altri tempi, quasi fosse una versione femminile di Chris Isaak, mentre Mother’s Daughter è una country ballad limpida e tersa, strumentata in maniera perfetta (voce, chitarra, sezione ritmica e piano elettrico), con il ricordo dei brani classici di Dolly Parton https://www.youtube.com/watch?v=Hnn1hYbxYoo .

Gli archi introducono l’emozionante Rita, altro scintillante slow che non è lontano dalle ballate dei primi Bee Gees, solo più country, la cadenzata Wild Love è ancora decisamente originale, tra western e pop, con l’uso dei violini che rammenta addirittura gli ELO, This Heaven (scritta con Anderson East) è una ballata semplice ma intensa, strumentata con classe e dallo sviluppo fluido, oltre ad essere cantata al solito molto bene https://www.youtube.com/watch?v=BilmSxKghgQ . I’m Trying To è un altro pezzo decisamente melodico, evocativo e profondo, con piano e chitarre in evidenza, She Wakes Me Up è puro pop anni sessanta ma attualizzato con i suoni di oggi, deliziosa ed orecchiabile, mentre Paying Attention è una canzone orchestrata e di ampio respiro, pur senza essere ridondante. Il CD si chiude con Daddy I Told You (scritta insieme alla Presley), brano diretto e godibile ancora guidato dal piano, e con la tenue e gentile Keys To The Kingdom, caratterizzata da un motivo semplice ma immediato.

Un buon disco comunque, raffinato sia nei suoni che nel songwriting, non solo per amanti del country.

Marco Verdi

Dal Country Al Pop Senza Passare Dal Via! Kacey Musgraves – Golden Hour

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Kacey Musgraves – Golden Hour – MCA/Universal CD

Terzo album, quarto se contiamo il CD natalizio, per la cantautrice Kacey Musgraves, gran bella ragazza ma anche brava artista, che di lavoro in lavoro mostra indubbi segni di crescita: Golden Hour dovrebbe nelle sue intenzioni essere il disco della definitiva affermazione, dopo che Pageant Material nel 2015 aveva fatto drizzare le orecchie a molti https://discoclub.myblog.it/2015/09/18/ultimi-ripassi-fine-estate-bella-brava-texana-kacey-musgraves-pageant-material/ . E con questa sua nuova fatica  Kacey spariglia le carte in tavola e cambia quasi completamente genere: infatti se prima la sua musica poteva essere definita country di qualità, con più di un rimando a sonorità vintage, con questo album la bruna cantante texana si reinventa come pop singer, ma un pop non da classifica (tranne un paio di casi), ma dai suoni raffinati, ben costruiti e spesso anche intriganti. Certo, tutti i brani presenti sul disco sono adattissimi al passaggio in radio, ma nel 90% dei casi sono in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Gran parte del merito va ai due produttori, Daniel Tashian (leader dei Silver Seas) e Ian Fitchuck, che hanno costruito intorno alla bella voce della Musgraves il vestito sonoro giusto, con un piccolo ma misurato (e non invasivo) aiuto dell’elettronica, hanno scelto musicisti solitamente country (tra cui Dan Dugmore e Russ Pahl) adattando il loro sound a quello del disco.

Il resto lo ha fatto Kacey, che ha scritto in collaborazione con i due produttori una serie di canzoni molto piacevoli e le ha interpretate al meglio, riuscendo secondo me a non far pesare più di tanto il cambiamento stilistico. Slow Burn è un inizio attendista (come da titolo), una ballata di ampio respiro che parte solo con voce e chitarra, poi ad uno ad uno entrano tutti gli strumenti ed il suono si fa pieno ma non ridondante: di country non c’è nulla, ma piuttosto siamo nel pop di fine anni sessanta, tipo i primi Bee Gees. Niente male Lonely Weekend, una pop song solare, quasi californiana, dal refrain orecchiabile e cori che rimandano ai Fleetwood Mac classici https://www.youtube.com/watch?v=Zr3gscRpAhA , ed anche Butterflies prosegue il discorso, un brano semplice e ben costruito, con Kacey che canta benissimo e dimostra anche una certa classe (e l’accompagnamento a base di piano, chitarre e steel è perfetto). L’eterea Oh, What A World è affrontata dalla nostra con il consueto approccio gentile, e l’arrangiamento pop le dona particolarmente, mentre Mother è bellissima, una toccante ballata pianistica che però dura poco più di un minuto; anche Love Is A Wild Thing non è da meno, un intenso slow acustico (spunta anche un banjo), che dopo la prima strofa acquista ritmo anche se sempre all’insegna della leggerezza.

Space Cowboy, ancora lenta e meditata, è un’altra ballata di gran classe, Happy & Sad è dotata di uno dei migliori ritornelli del CD, mentre Velvet Elvis è fin troppo radio friendly per i miei gusti, ma comunque non da buttare. Wonder Woman è tersa, limpida e solare, ed anche qui sulla melodia niente da dire, ma High Horse è l’unico pezzo veramente da pollice verso, un misto tra pop e dance piuttosto indigesto che andrebbe bene per Madonna o Taylor Swift, e che non rende giustizia a Kacey. Per fortuna sul finale il CD torna su lidi più vicini ai nostri gusti, con la fluida e raffinata Golden Hour https://www.youtube.com/watch?v=maONL_HfI20  e la bella Rainbow, solo voce e piano ma con una notevole carica emotiva. Forse non arrivo ad affermare che la Kacey Musgraves in versione pop mi piaccia di più di quella country, ma di certo la bella cantante con Golden Hour per il momento è rimasta più o meno dalla parte giusta della città.

Marco Verdi

Ci Mancava Solo Questo! Uno Dei Più Brutti Film Musicali Di Tutti I Tempi. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band Con I Bee Gees E Peter Frampton

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Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – DVD o Blu-ray – Shout! Factory – 26-09-2017

Non c’è proprio fine al peggio! Ristampano pure questo film musicale con Peter Frampton nella parte di Billy Shears e i Bee Gees in quella degli Hendersons: giuro. parola di Giovane Marmotta. Ed è pure peggio di quello che sembra sulla carta: già la colonna sonora in doppio LP e poi CD, non è mai stata il massimo della vita, con le sue “spettacolari e sbalorditive” reinterpretazioni di classici dei Beatles (o così recita il promo della presentazione), ma anche i livelli recitativi del film sfiorano il ridicolo e quindi giustamente colonna sonora e film nel 1978 furono un flop clamoroso, anche se sia Frampton che i Bee Gees erano al massimo della loro popolarità. Una specie di Magical Mystery Tour ma venti volte peggio!

Il film non credo di essere mai riuscito a vederlo per intero (e non credo lo farò neppure ora) ma pure la colonna sonora, nonostante le canzoni splendide, è il festival della pacchianeria. E nel cast musicale c’erano pure Earth, Wind & Fire, Aerosmith, Billy Preston, Alice Cooper, Sandy Farina, George Burns, Steve Martin e molti altri. Forse gli unici che si salvavano erano gli Earth, Wind & Fire con Got To Get Into My Life e una versione decente di Come Together degli Aerosmith, e forse anche Get Back di Billy Preston e nel cast Paul Nicholas, uno dei principali interpreti di musical inglesi. Sul resto stendiamo un velo pietoso (anche se confesso che qualche armonizzazione vocale dei Bee Gees non è così orribile, per esempio in Nowhere Man A Day In The Life, ma sono canzoni talmente belle e io sono di parte): comunque se volete farvi del male uscirà il 26 settembre per la Shout! Factory in DVD e Blu-ray. Provate per credere, qui sopra potete ascoltare più o meno tutte le canzoni.

Non so se è prevista anche una uscita europea.

Bruno Conti

Tre Quarti D’Ora Di “Piacevolezze” Musicali! Edward Sharpe & The Magnetic Zeros – PersonA

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Edward Sharpe & The Magnetic Zeros – PersonA – Community Music CD

Edward Sharpe & The Magnetic Zeros sono un gruppo molto particolare. Tanto per cominciare, Edward Sharpe non esiste, almeno non nel senso letterale del termine, perché il leader del combo di Los Angeles, Alex Ebert, usa il nome di Sharpe come pseudonimo: lui si presenta col suo nome vero, mentre Sharpe è un personaggio inventato da Ebert stesso, in un libro da lui scritto ma mai pubblicato. Poi c’è il tipo di musica proposta dalla numerosa band (sono circa una decina, e le porte sono abbastanza girevoli, tanto il “deus ex machina” è sempre Ebert), un mix assolutamente eterogeneo di rock, folk, pop, gospel e psichedelia anni sessanta, un cocktail incredibilmente creativo e stimolante che nelle mani sbagliate potrebbe essere un’arma a doppio taglio, ma che i nostri sono sempre riusciti a trattare con estremo equilibrio e con risultati egregi, fin dal loro esordio del 2009, Up From Below, ma soprattutto con i due lavori successivi, i bellissimi Here del 2012 e l’album omonimo del 2013 http://discoclub.myblog.it/2013/09/10/la-nuova-hippie-generation-edward-sharpe-and-the-magnetic-ze/ . Una musica senza confini, con cambi di tempo e di melodia spesso anche all’interno della stessa canzone, ma che i nostri riescono a gestire benissimo ed a rendere fruibile e quasi mai ostica: da quando li ho scoperti, li ho paragonati ad altri gruppi a 360 gradi come Arcade Fire (che però con l’ultimo disco hanno preso una direzione che non mi piace per niente), i Fleet Foxes (che sto aspettando al varco, in quanto devono ancora dare un seguito all’ottimo Helplessness Blues del 2011) e, se torniamo indietro di qualche anno, ai Rusted Root (che però mi piacevano meno).

Anche la figura di Ebert è particolare, in quanto sembra quasi un hippy fuori tempo massimo, un personaggio d’altri tempi che vive in una realtà parallela, ed in questo è molto simile al leader dei Foxes, Robin Pecknold: anche per quest’ultimo disco, PersonA (uscito un po’ a sorpresa), Alex ha voluto darci un segno della sua stranezza, cancellando dalla copertina il nome di Edward Sharpe ed intitolandolo solo ai Magnetic Zeros, sostenendo che, essendo Sharpe un parto della sua fantasia, si sente libero di farlo morire e rivivere a suo piacimento. Ma la cosa più importante del CD è il fatto che si nota un piccolo cambiamento nel tipo di musica proposta: intendiamoci, Ebert ed i suoi pards (non li nomino per brevità, sono tantissimi) non hanno cambiato stile, nelle loro canzoni convivono sempre diverse anime ed influenze, ma in questo lavoro c’è una maggior predisposizione al pop, ed i brani stessi risultano più diretti, fruibili e meno dispersivi di quanto non lo fossero in precedenza. Non hanno banalizzato la loro musica, ma hanno semplicemente reso i brani più immediati e con una struttura più lineare, anche se lo stile vulcanico di Ebert è sempre presente: non so quanto questa piccola svolta piacerà a coloro che hanno apprezzato i dischi precedenti, ma per quanto mi riguarda PersonA è il loro album che preferisco (e cresce ad ogni ascolto).

https://www.youtube.com/watch?v=BvWVccy1QrE

L’avvio del disco è subito con il brano più lungo (sette minuti abbondanti) e strutturato: Hot Coals inizia come una ballata acustica ad ampio respiro, con la voce eterea di Ebert protagonista, chiari sentori di Laurel Canyon sound, un eccellente pianoforte sullo sfondo (Mitchell Yoshida, uno dei più brillanti componenti della band), soluzioni melodico-ritmiche non banali ed un suggestivo finale strumentale in crescendo. Sicuramente il brano più legato al suono dei dischi precedenti. Uncomfortable è un po’ verbosa e forse la meno immediata di tutto l’album, e anche quella in cui la personalità debordante del leader viene tenuta meno a bada, ma con Somewhere inizia il disco vero e proprio: una strepitosa ballata di puro pop elettroacustico, con punti in comune con Here Comes The Sun di George Harrison (o dei Beatles se preferite), un arrangiamento classico (compresa una Rickenbacker dal suono molto jingle-jangle) ed una melodia limpida e fluida. Anche No Love Like Yours è decisamente immediata, con un bellissimo ritornello corale molto sixties (ed anche il suono risente dell’influenza delle canzoni di 50 anni fa, pensate per esempio ai Moody Blues), un brano che ad ogni ascolto diventa sempre più bello; Wake Up The Sun si apre con una ritmica pulsante ed il solito notevole pianoforte, un pezzo più attendista e con la voce di Alex in modalità vibrato, ma comunque un brano gradevole dove trovo anche qualcosa di Paul Simon.

Free Stuff è una delle più belle del CD, uno squisito pop saltellante degno del miglior McCartney, un motivo che si canticchia dopo solo mezzo ascolto: se programmato a dovere nelle radio giuste potrebbe anche diventare un successo, io l’ho ascoltata circa tre ore fa e ancora ce l’ho in testa; Let It Down è molto meno allegra, ma ha una melodia dalla struttura più complessa ed il solito gran lavoro di piano (vero protagonista del brano), con un ritornello profondamente evocativo ed i suoni che aumentano di intensità man mano che il pezzo procede, quasi stratificandosi attorno alla struttura iniziale. Una tromba introduce Perfect Time, una sontuosa slow ballad che rimanda ai primi Bee Gees, con un motivo lineare ma dal grande pathos, altra canzone che merita di entrare nel novero delle migliori; il CD si chiude con la dolce Lullaby, solo voce e piano, che rivela l’influenza classica di uno come Randy Newman, soprattutto quando l’occhialuto pianista scrive le sue musiche per i film della Disney, e con la deliziosa The Ballad Of Yaya, altro splendido pop-rock di grande freschezza, con un magnifico refrain beatlesiano pieno di suoni e colori, forse il brano più bello dell’album.

I dischi aumentano e Edward Sharpe/Alex Ebert ed i suoi ottimi Magnetic Zeros non accennano a mollare il colpo, anzi, con PersonA arrivano quasi a rasentare il concetto di “pop perfetto”.

Marco Verdi

Ogni Tanto Si Rifà Viva Anche Lei! Ronnie Spector – English Heart

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Ronnie Spector – English Heart – 429 CD

E’ di pochi mesi fa il mio post sul Best Of dedicato a Veronica Yvette Bennett, meglio conosciuta come Ronnie Spector, un’ottima antologia con qualche rarità che però non conteneva nulla di nuovo http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/ : l’ultima fatica dell’ex leader delle Ronettes (ed ex moglie del leggendario produttore Phil Spector) risaliva a ben dieci anni fa, il discreto ma non eccelso Last Of The Rock Stars. Ma Ronnie nel corso della sua carriera ha pubblicato davvero poco come solista, e quindi ogni suo disco deve essere considerato come un piccolo evento, essendo lei una delle artiste di punta dei vocal groups tanto in voga nella musica pop degli anni sessanta. English Heart, il suo nuovissimo album, è però un disco particolare: se la quasi totalità dei gruppi e solisti inglesi dei sixties si rifacevano dichiaratamente ad un suono di origine americana (chi blues, chi rock’n’roll, chi soul), con questo lavoro Ronnie ha voluto fare il percorso inverso, omaggiando tutta una serie di artisti e di brani a lei particolarmente cari, dichiarando anche nelle note di copertina il suo smisurato amore per la musica britannica dell’epoca. Quindi un disco di cover, scelte per lo più in maniera personale dalla cantante di origini afro-irlandesi, con pochi pezzi veramente famosi anche se presi dai songbook di band popolarissime: l’album è prodotto da Scott Jacoby, uno con un curriculum non proprio aderente ai gusti abituali di chi scrive su questo blog (Coldplay, Sia, John Legend), ma che qua ha fatto un lavoro impeccabile a livello di suono (tranne un caso), rivestendo i brani di suoni moderni ma nello stesso tempo mantenendo un certo sapore d’altri tempi, utilizzando una lunga serie di sessionmen proprio come faceva l’ex marito di Ronnie (ed i cui nomi, devo confessare, mi sono sconosciuti).

Poi c’è la voce della Spector, sempre bellissima e resa ancora più affascinante da un misto di età, sigarette e chissà cos’altro, che le ha conferito un timbro giusto a metà tra la limpidezza dei brani con le Ronettes ed il tono roco e vissuto di Marianne Faithfull (un’altra che non si è mai fatta mancare niente): il tutto per un dischetto (meno di 35 minuti) che, anche se non imprescindibile, posso tranquillamente definire riuscito, in quanto non annoia e si lascia ascoltare con piacere (e la cosa secondo me non era scontata, in certi casi il pericolo ciofeca è sempre dietro l’angolo). L’album inizia con Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby), ripresa molto sofisticata e quasi afterhours di un successo minore di Lulu, con un marcato retrogusto soul (una costante nel disco), non malaccio anche se un po’ più di brio non avrebbe guastato. Because è un vecchio pezzo dei Dave Clark Five, B-side in Inghilterra ma lato A in America, proposta con un arrangiamento più vintage (anche se si sente benissimo che è incisa oggi), un botta e risposta tra leader e coro femminile che fa molto Ronettes e melodia squisitamente sixties, e che voce che ha ancora Ronnie.

I’d Much Rather Be With The Girls è una canzone poco nota dei Rolling Stones (scritta dall’inedita coppia Keith Richards – Andrew Loog Oldham e pubblicata nella compilation di rarità Metamorphosis), un brano che già in origine era un omaggio a Spector (il marito), e quindi Ronnie non deve cambiare molto per portare a casa il risultato pieno (a parte il titolo, dove Boys viene sostituito da Girls); Don’t Let The Sun Catch You Crying (Gerry & The Pacemakers) è invece ripresa in maniera quasi cameristica, con solo due chitarre acustiche ed un violoncello (ed anche una leggera percussione) ad accompagnare la voce carismatica di Ronnie, una rilettura di classe, parola non abitualmente associata ad una che ha il soprannome di “bad girl of rock’n’roll”. Tired Of Waiting è una (bella) canzone dei Kinks, anche se non tra le più note, e la nostra Veronica la rifà con un approccio rock asciutto e diretto ed un leggero sapore errebi che non guasta; Tell Her No (Zombies) è la più mossa finora, con ancora un arrangiamento in perfetto stile anni sessanta, un blue-eyed soul di presa immediata, mentre con I’ll Follow The Sun (Beatles, of course) non si sforza più di tanto, lasciando intatta la struttura folk dei Fab Four ed eseguendola con due chitarre e poco altro. You’ve Got Your Troubles è un oscuro brano di un’altrettanto oscura band (The Fortunes) ed è il primo e per fortuna unico caso di suono un po’ finto, con drum programming e synth ben in vista, ed anche la canzone non è niente di che, meglio Girl Don’t Come (di Sandie Shaw, la “cantante scalza” molto popolare anche in Italia), che mantiene il gusto pop dell’originale ed è suonata in maniera classica, e pur non essendo un grande brano si lascia ascoltare.

Don’t Let Me Be Misunderstood è invece un capolavoro della nostra musica (ed è anche la più famosa tra le canzoni scelte dalla Spector), ed anch’essa viene rivestita di sonorità tra rock e rhythm’n’blues, dando un sapore nuovo ad un pezzo che ha avuto più di una versione superlativa (Animals e Nina Simone su tutte… e che nessuno si azzardi a dire Santa Esmeralda, a parte Carlo Conti!): gran ritmo e melodia trattata con il dovuto riguardo. Il CD si chiude con l’unico “sconfinamento” negli anni settanta, con la nota How Can You Mend A Broken Heart dei Bee Gees, un pezzo che non ho mai amato particolarmente (ma è un mio problema, Ronnie la rifà bene): quindi, ripeto, un dischetto forse non indispensabile, ma in definitiva ben fatto ed ottimamente interpretato, e vista la (poca) regolarità con la quale incide Ronnie Spector, l’acquisto ci può anche stare.

Marco Verdi