Nuovi, Ma “Vecchi”! Gas House Gorillas – Punk Americana

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Gas House Gorillas – Punk Americana – Lanark Records

Non sono un grande esperto di cose tipicamente americane e nello specifico dello sport, il baseball in particolare, che è un mondo sconosciuto per me, d’altronde se chiedessi ad un cittadino statunitense della Pro Patria l’effetto sarebbe lo stesso. Comunque, visto che basta fare una breve ricerca in internet per avere le risposte che cerchi, alla voce Gas House Gorillas trovi che trattavasi di una squadra fittizia di baseball (ma modellata su una veramente esistente) “inventata” per un cartone animato del primo dopoguerra di Bugs Bunny. Naturalmente trovi anche il nome del gruppo, di cui sono stato incaricato di recensire questo nuovo, e secondo (terzo, se contiamo anche quello attribuito a Rick Fink) album, Punk Americana.

Qualche tempo fa, su segnalazione di un amico, mi ero interessato di questo CD perché mi aveva incuriosito il titolo, che è poi la definizione che loro stessi danno della musica che suonano. Di cosa diavolo si tratta? Qualche nuova band che unisce il punk californiano di Rancid, Offspring, NOFX con la musica roots, che so dei Blasters, con una spruzzata di Stray Cats, magari con lo spirito degli X, però sullo costa Est, nella zona di New York? Niente di tutto questo, o meglio, è vero solo in parte, perché la musica, in effetti, è quella da cui hanno preso spunto anche i Blasters, Rock and Roll, Swing, Jump Blues, Soul e R&B, eseguiti con uno spirito “punk”, ma nel significato primigenio del termine, non come discepoli di quello inglese o americano. Il problema è che Rick Fink e soci, detto papale papale, non sono bravi come i Blasters. C’è un sassofonista in formazione, due chitarristi, ma questo connubio tra Louis Jordan, Sam Cooke e i Ramones, non è uguale alla somma delle parti. Per onestà devo dire che il disco è pure molto piacevole, si ascolta volentieri, loro, modestamente e ironicamente si definiscono “La più grande band sulla faccia della terra” e sono disponibili per feste, matrimoni ed eventi vari, fanno questo stile divertente, che, per chi ama il genere si merita anche le sue brave tre stellette. Ma in un discorso più generale, volendo, se ne può fare anche a meno.

Dal bozzetto iniziale acustico che scivola nella statica delle onde di Radio Daze si passa al R&R energico, con uso di sax, di One Shot, al jump and swing scatenato di Cookin’ At Home, per passare ai ritmi latineggianti e melodici alla early Beatles di Remember, con “chitarrone” in primo piano. Find a little boogie, si presenta da sola e anche Everywhere I Roam fa di ritmo e velocità il suo credo, I want you to want me è una cover del brano dei Cheap Trick, eseguito come se fosse stato scritto tra fine anni ’50 e primi anni ’60, niente di memorabile peraltro. Last Chance Motor Ride ci riporta sulla pista da ballo, mentre Black Juju cerca di introdurre qualche elemento blues e Kitty Has Claws ri-accelera a perdifiato sulle pulsazioni del contrabbasso  di Crusher Carmean, anche qui siamo in territori Blasters. Corpses è un blues swingante e roccato. Quarter to two forse è una risposta al brano di Gary Us Bonds, tra soul e R&R, con un bel assolo di chitarra di Snake Osburn. The Moon Told On You, è l’unico lentone della serata, ma resistono poco, il tempo di far riposare i piedi e si riparte a tutta velocità all’interno della stessa canzone. Balloon, con l’ukulele di Fink in primo piano è un ulteriore brano che arriva da un’altra epoca, con coretti doo-wop e ritmi rilassati, fine delle trasmissioni.

Bruno Conti

Voce E Talento In Armonia. Dal Canada Serena Ryder!

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Serena Ryder – Harmony – Serenader Source/Emi Music 2012/2013

Figlia d’arte (il padre, originario di Trinidad è stato un buon percussionista e la madre una valente corista), Serena Ryder è cresciuta ascoltando i dischi dei Beatles e del grande Leonard Cohen, che ha trovato nella collezione dei suoi genitori. Serena arriva da Millbrook, Ontario (Canada), e da quando il padre (all’età di tredici anni) le ha regalato una chitarra, la sua primaria aspirazione è stata comporre musica, suonarla e cantarla, avendo nelle orecchie i migliori artisti del folk, del rock e della scena alternativa americana e canadese, da Steve Earle a John Prine oltre al già citato Leonard Cohen.

Così a soli 24 anni la rocker canadese aveva già inciso quanto una stagionata veterana del “music-business”, a partire dall’introvabile esordio di Falling Out (99), numerosi EP, live e nastri autoprodotti, una mezza dozzina di lavori di tutto rispetto, tra cui occorre ricordare Unlikely Emergency (2004) con l’aiuto del sottovalutato Hawksley Workman (songwriter dalle eccelse qualità vocali) e If Your Memory Serves You Well (2006), una raffinata antologia di cover (riletture desunte dal repertorio di numerosi connazionali), che la porta ad aggiudicarsi in Canada il prestigioso Juno Awards 2008, come nuova artista dell’anno. Il passo successivo è il contratto con la Atlantic e l’uscita del notevole Is It O.K. (2008), cui fa seguito il folgorante Live In South Carolina (2011), e dopo una breve pausa arriva questo Harmony (uscito in Canada a Natale dello scorso anno e ora anche nel resto del mondo), prodotto da Jerrod Bettis (Gavin DeGraw) e Jon Levine (Nelly Furtado), il tutto registrato nel “cottage” di casa Ryder.

L’iniziale What I Wouldn’t Do è veloce, orecchiabile, mette subito di buon umore, poi ci sono le ballate Fall e Call Me, dove l’influenza del repertorio di Adele è facilmente riscontrabile. Con Baby Come Back  arrivano i tamburi e l’essenza di una voce che mastica rock e passione, come in Please Baby Please una perla al pianoforte, che Serena ci serve con gli arrangiamenti di archi di Rob Simonsen (confesso di non conoscere), noto autore di colonne sonore americano. For You che cita il classico I Put A Spell On You, e quindi riporta il nome di Screamin’ Jay Hawkins tra gli autori, sembra uscita dai titoli di coda di un film di James Bond, mentre Heavy Love, con le chitarre in primo piano ricorda la migliore Tracy Chapman. E ancora a seguire il “singolo” Stompa,  con un riff che ti martella e non ti lascia più. Gran finale con Mary Go Round che è quasi funky rock, splendida voce, grinta e arrangiamento musicale entusiasmante, e la chiusura a cappella di Nobody But You, solo un minuto, ma intenso.

Harmony è un lavoro piacevole e riuscito, ma dal vivo è un’altra cosa, dieci brani (sono dodici nella nuova versione internazionale) che si incrociano in diversi stili, dove la splendida voce della Ryder sembra a suo agio in tutte le situazioni, sa passare dal grido più rabbioso, alla delicatezza del sussurro (nelle ballate), e percorrere le strade tracciate dalle migliori cantanti rock “a stelle e strisce” (Melissa Etheridge su tutte, e le mie favorite Beth Hart e Dana Fuchs, oltre alla fonte di ispirazione di tutte, Janis Joplin). Serena Ryder (segnatevi il nome), un’artista canadese, una voce e un talento (per chi scrive), che lascia senza parole.

Tino Montanari

A Prescindere Dal Genere, Gran Disco! Over The Rhine – Meet Me At The Edge Of The World

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Over The Rhine – Meet Me At The End Of The World – 2 CD – Great Speckled Bird 03/09/2013

Gli Over The Rhine sono uno dei miei gruppi preferiti delle ultime due decadi e non hanno mai sbagliato un disco dai loro esordi, avvenuti ad inizio anni ’90. Ogni album è un piccolo capolavoro della band dell’Ohio (dovrei dire duo, visto che ormai sono rimasti solo Linford Detweiler e Karin Bergquist, coppia nella musica e nella vita), forse il migliore in assoluto è Ohio del 2003 ma al sottoscritto era piacuto parecchio anche The Long Surrender del 2011 nuove-tecniche-di-sopravvivenza-over-the-rhine-the-long-surr.html, il primo disco che segnalava il nuovo corso di album autofinanziati con l’aiuto di fans e simpatizzanti, tramite le cosiddette Kickstarter Campaign. Con questo sistema il gruppo si è potuto permettere l’utilizzo di un produttore come Joe Henry (e relativi musicisti al seguito) e in due sessions avvenute tra fine marzo e i primi di aprile agli studi Garfield House di South Pasadena ha registrato questo piccolo doppio gioiello che si divide in due parti appunto: Sacred Ground nel primo CD e Blue Jean Sky nel secondo CD. Per onestà devo dire che il tutto supera di poco i 60 minuti e quindi ci sarebbe stato su un unico compact, ma al di là della non facile reperibilità, per essere prosaici, non lo fanno pagare neanche troppo. E il lato artistico compensa abbondantemente quello finanziario.

I dettagli sulla loro carriera li trovate al link sopra e anche un tentativo di definire il loro genere musicale è sempre un’impresa, direi che si parte dal folk come base, ma poi si aggiungono mille sfumature, anche in questo caso nel precedente Post ci provo. I musicisti utilizzati da Joe Henry sono all’incirca quelli del disco precedente, con Eric Heywood che sostituisce Greg Leisz alle chitarre, soprattutto pedal steel, ma anche slide ed elettrica e il grande Van Dyke Parks al posto di Keefus Cianca alla fisarmonica, Bellerose, Piltch (o la Condos, al basso) e Patrick Warren (tastiere) rimangono al loro posto. Sembrano particolari trascurabili ma i musicisti che suonano in un disco sono importanti. Se hai delle canzoni all’altezza della situazione, ovviamente. E anche questa volta gli Over The Rhine non smentiscono la loro fama di autori di piccole grande canzoni. Ne cito due per iniziare: Don’t Let The Bastards Get You Down, una ballata agrodolce e atmosferica, quasi mitchelliana, con la presenza dell’unica “ospite”  del CD, in questo caso è Aimee Mann, nel precedente, in Undamned era Lucinda Williams. L’altra è It Makes No Difference, l’unica cover del CD, una splendida rilettura del capolavoro di Robbie Robertson e della Band, con l’organo di Warren e il mandolino di Heywood (o è Mark Goldenberg? anche lui impegnato alle chitarre nel disco) a sostituire Garth Hudson e Levon Helm, il sound è molto, come potrei dire, “canadese”, con ancora la grande Joni Mitchell, o così mi pare, come punto di riferimento.

Il resto del disco non è da meno. Joe Henry, spesso e volentieri, utilizza la tecnica del double-tracking per raddoppiare la bellissima voce della Bergquist, magia nela quake erano maestri George Martin e i Beatles, non gente qualsiasi. A partire dalla struggente title-track che ricorda, a chi scrive, anche certe cose della bravissima Rosanne Cash, o il rock narcotico dei migliori Cowboy Junkies, tra steel, slide e tastiere maestose si dipana una canzone lenta ma inesorabile nella sua bellezza. Il piano e l’organo di Called Home ricordano di nuove le sonorità dei grandi canadesi (anche un pizzico del Neil Young più bucolico), sempre con la doppia voce di Karin a librarsi sul tutto, mentre una steel si fa largo con autorità. Sacred ground, con la fisarmonica di Van Dyke Parks sullo sfondo(e che si ascolta anche in molti altri brani) potrebbe riportarci alle atmosfere dolenti di una Lucinda Williams o anche di Mary Gauthier, altro spirito affine, sia per tipologia vocale che per le tematiche toccate. E pure I’d Want You ha questo spirito sognante e drammatico che potrebbe ricordare, se non per il tipo di voce, agli antipodi, almeno nel tessuto sonoro, l’incedere di certe canzoni del grande Leonard Cohen, per quell’aria malinconica ma mai doma, tipica del canadese, le tastiere, la fisa e le chitarre come al solito ricamano alla grande. Gonna let my soul catch my body è un gospel-rock mosso con una chitarra “cattiva” che cerca di farsi largo tra le pieghe del brano. All Of It Was Music potrebbe essere una sorta di manifesto del loro modus operandi, drammatico e sospeso, ricorda ancora la Gauthier ma anche le “chansons” franco-irlandesi-mitteleuropee di una Mary Coughlan (è ovvio che queste sono solo suggestioni del vostro fedele recensore) filtrate attraverso la penna della coppia dell’Ohio, fanno capolino anche un vibrafono e la solita steel malandrina. Highland Country è un’altra ballata sontuosa dallo spirito country, con il pianino di Detweiler e la sua voce di supporto al cantato suggestivo di Karen Bergquist, sottolineata dalle evoluzioni di una pedal steel magica, per cantare i panorami del loro amato Ohio. Anche Wait, come la precedente, non può non ricordare le canzoni più belle della Joni Mitchell della maturità, solenni e composite nel loro incedere. E siamo solo alla fine del primo CD.

Il secondo si apre con la lunga All Over Ohio, altro inno alla loro terra natia, Linford Detweiler per la prima volta sale al proscenio per duettare con la moglie Karin, la sua voce è piana e gentile, ma ben si accoppia con quella dolcissima della consorte, il brano cresce in modo lento e oscillante, con il consueto profluvio di chitarre e tastiere accarezzate con rispetto dai musicisti che poi lasciano il proscenio alla “doppia” Bergquist nella parte finale della canzone. A proposito di coppie, Earthbound Love Song è un sentito omaggio ad una delle grandi coppie della musica, Johnny Cash & June Carter, deliziosa e delicata come poche. Against The Grain è un’altra piccola meraviglia country-folk che scivola sulle corde di una chitarra acustica e sulla steel di Heywood. Della cover della Band abbiamo detto, Blue Jean Sky è un altro inno alla bellezza della musica e della vita, cantata con passione dalla coppia, mentre Cuyahoga è un’intramuscolo strumentale di poco più di un minuto, che meritava di essere sviluppata nei suoi tratti acidi à la Cowboy Junkies. Baby If This Is Nowhere si avventura con classe in territori Blues e Wildflower Bouquet potrebbe uscire da Ladies Of the canyon o Blue, quando i cantautori erano grandi, ed occasionalmente possono esserlo ancora (anche la giovane Laura Marling, si abbevera a questa fonte). Altro breve bozzetto, questa volta pianistico, Birds of nowhere e ci avviamo alla conclusione con Favorite Time Of Light, altra piccola meraviglia sonora con la fisarmonica di Van Dyke Parks e il mandolino di Goldenberg a guidare le danze, a conferma di tutte le delizie che si dipanano su questo Meet Me At The Edge Of The World, diciannove ottime canzoni (OK, 17 e due brevi strumentali) disco da quattro stellette che si candida fin d’ora tra i migliori dischi dell’anno 2013!

Bruno Conti

Il Cofanetto Dei “Record”! King Crimson – The Road To Red

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King Crimson – The Road To Red – Panegyric Records – 21 CD + 1 DVD + 2 Blu-ray 14/10/2013

Credo che un intero cofanetto, con 24 dischetti, dedicato ad un solo album, o meglio a come si è arrivati a quell’album, sia un record difficilmente superabile, anche per gente come Grateful Dead, Zappa, Phish ed altri che hanno fatto della capacità di archiviare i propri concerti una piccola arte.

Ma i King Crimson con questo The Road To Red si sono superati. Il 14 ottobre per una modica cifra (e non scherzo, perché per un box da 24 dovrebbe costare tra i 150 e i 180 euro circa, indicativo) vi potrete portare a casa un Box, in tiratura unica limitata mondiale, che contiene una valanga di materiale inedito o assai raro, e qualcosa anche di già edito, registrato nel famoso tour americano del 1974, quello che sarebbe stato immortalato nel disco USA, più l’album Red, in un nuovo mix stereo, a cura come al solito di Steven Wilson e Robert Fripp.

La formazione è quella classica a quartetto, oltre a Fripp, Bill Bruford, John Wetton e David Cross. Vediamo cosa contiene il box a grandi linee.

10 concerti con materiale registrato su cassette prese direttamente dal mixer, con l’audio restaurato nel 2013.

5 concerti di materiale registrato in modo professionale su nastri multitraccia, parti dei quali, come detto sopra, erano già usciti in Usa e nel cofanetto The Great Deceiver, ma molti concerti vedono la luce nella loro totalità per la prima volta. Il tutto per un totale di 19 CD.

Il 20° è la registrazione tratta da un bootleg, anche questa con audio restaurato, relativa all’ultima data del tour registrata in quel di New York, prima disponibile solo per mail order.

Il 21° è la nuova versione di Red.

Il DVD, compatibile con tutti i tipi di lettore, contiene materiale audio, ovvero nuove versioni ad alta risoluzione 24 bit/48khz del concerto di Asbury Park (ma Bruce c’era?).

il 1° Blu-Ray contiene 4 concerti in dolby surround 5.1 trasferiti dalle matrici originali analogiche.

Il 2° Blu-Ray contiene versioni di qualità sonora superiore del suddetto concerto di Asbury ParK e un paio di ulteriori mix di Red sempre fatti dalla coppia Wilson-Fripp.

Tutto l’ambaradan è in una confezione formato LP, a sua volta divisa in 3 digipack formato grande, ognuna con otto dischetti.

Per malati (ops!), per grandi appassionati e per completare l’opera omnia dei King Crimson che prosegue: scherzi a parte, questa era una formazione formidabile, a pieno regime suonavano come delle schegge o delle lippe, se preferite!

E anche di questo abbiamo parlato, continuate a farvi i vostri budget per l’autunno.

Bruno Conti

Novità Di Agosto Parte IIIb. Little River Band, Black Joe Lewis, Robbie Fulks, Graham Parker, Quicksilver Messenger Service, Dan Zanes, Chris Duarte, Carly Ritter, Serena Ryder

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Seconda ed ultima parte delle novità di agosto, conclude la disamina delle uscite di questo mese, con gli altri titoli in uscita il 27, cioè oggi.

Tra i gruppi storici del cosiddetto AOR (Adult Oriented Rock) americano, c’erano anche i tipi della Little River Band, pur essendo australiani: il grande successo lo hanno avuto negli anni ’70 e qualche disco, tipo Diamantina Cocktail e il doppio Live Backstage pass, non erano neppure male, un rock melodico venato di country, con in evidenza la voce di Glenn Shorrock e la formazione a tre chitarre. Purtroppo il tempo passa per tutti e della formazione originale non è più rimasto nessuno, il componente più “antico” del gruppo è il bassista Wayne Nelson, americano, entrato nella formazione nel 1980, gli altri, americani pure loro, si sono tutti aggiunti nei vari reunion tour degli anni 2000. Il nuovo album Cuts Like A Diamond, esce per l’taliana Frontiers Records ed è dell’onesto rock melodico: una band australiana, composta da americani, che incide per una etichetta italiana. E’ proprio strano il mercato discografico. Nella mia veste di ex negoziante, ricordo che erano uno dei gruppi più apprezzati dai filippini (una nota di colore).

Black Joe Lewis era uno degli artisti americani che, con i suoi Honeybears, nella seconda parte della prima decade dei Noughties meglio fondeva soul e R&B, con rock e blues, alla stregua di gente come Eli Paperboy Reed, Lee Fields, Charles Bradley, Sharon Jones, tanto per citarne alcuni, più o meno influenzati dal soul. Ora, il musicista texano, lasciati sia gli Honeybears che l’etichetta Lost Highway, passa alla Vagrant con questo Electric Slave, dal suono decisamente più rock, anche se l’amore per il blues e il soul rimagono evidenti. I due produttori hanno lavorato, rispettivamente, con White Stripes, Cat Power, Modest Mouse uno, e Explosions In the Sky e Okkervil River l’altro, per cui il suono si è avvicinato al rock psichedelico, ma non mancano gli omaggi al mito James Brown in brani come Come To My Party, comunque da quello che ho sentito il disco è piuttosto buono, ricco di energia e musica di qualità. Un altro nero che alla stregua di gente come Arthur Lee, Hendrix o i Chambers Brothers sa come trattare la materia rock. Interessante.

Robbie Fulks è uno strano tipo di cantautore, sulle scene da una trentina d’anni, ma attivo discograficamente dal 1996, ogni tanto ci lascia qualche missiva del suo country alternativo e sghembo, ma molto raffinato. Gone Away Backward vede il suo ritorno alla Bloodshot, dopo sei anni di silenzio e un paio di dischi pubblicati per la Yep Rock. L’ingegnere del suono è Steve Albini, ma il suono è quello solito, acustico e influenzato da folk e country classici: bella voce, canzoni semplici ma mai banali, basate su chitarra acustica, banjo, violino, mandolino e dobro, con l’occasionale chitarra elettrica. Uno di quelli bravi.

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Un ulteriore trio di uscite eclettiche.

Graham Parker lo scorso anno si è riunito con i Rumour per realizzare con Three Chords Good uno dei migliori dischi di rock classico del 2012. Nell’occasione, per il film This Is 40 di Judd Apatow, ha registrato anche una apparizione in un piccolo locale di Los Angeles nel settembre del 2011, filmata dallo stesso regista Apatow, un brano della quale è stato pure utilizzato nel film. Ma il concerto è stato registrato tutto, e ora, nella forma del combo, DVD+Blu-Ray o viceversa, viene pubblicato dalla Shout Factory negli USA: ci sono molti brani dall’ultimo album ma anche classici della band, oltre ad un brano inedito, Sirens In the night. Molto bello. L’unico fattore negativo è che dura un’ora scarsa. Diciamo breve ma intenso, per consolarci.

A proposito di Live, la Cleopatra Records continua imperterrita a pubblicare CD di concerti inediti dei Quicksilver Messenger Service (se non avessero distribuito quel peraltro bellissimo cofanetto Anthology Box 1966-1970 sarebbe però stato meglio, visto che conteneva estratti dai vari concerti che l’ora l’etichetta sta pubblicando in versione integrale). Dopo l’ottimo doppio Live At Fillmore June 7, 1968 ora è la volta di Live At the Old Mill Tavern March 29 1970 che oltre al quartetto classico Cipollina, Duncan, Freiberg, Elmore vede in azione anche il rientrante Dino Valenti e al piano, Nicky Hopkins, e il grande James Cotton all’armonica in una gustosa jam blues finale. Purtroppo, s’ha da avere!

Dan Zanes ormai ha abbandonato i Del Fuegos da illo tempore e con la propria etichetta, la Festival Five Records, si è dedicato ad una meritoria opera di recupero delle tradizioni della musica folk e popolare americana dedicata ai dischi per l’infanzia. Lo preferivo prima ma vi segnalo comunque questo piacevole Turn Turn Turn in coppia con Elizabeth Mitchell, che comprende anche una nuova versione, rivisitata ed aggiornata ai giorni nostri, nei testi, del classico di Pete Seeger e dei Byrds.

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Gli ultimi tre.

Chris Duarte è al secondo disco di quest’anno e spesso mi capita di recensirlo per Blog e Buscadero, clienti-abituali-chris-duarte-group-my-soul-alone.html, nell’occasione siamo al fatidico doppio CD dal vivo, Chris Duarte Group Live, pubblicato come di consueto dalla Blues Bureau/Shrapnel, e , stranamente, se non sbaglio, è il primo disco registrato in concerto in più di 25 anni di carriera, durante il tour giapponese del 2012. Non escludendo di occuparmene con un Post apposito mi limito a segnalare, che ad un veloce ascolto, mi sembra ottimo, nel genere (rock-blues) con cover di Dylan, Leon Russell, Freddie King, Junior Kimbrough, Coltrane e una versione monstre di People Say dei Meters di più di 10 minuti.

Carly Ritter è una nuova cantautrice che esordisce con questo CD omonimo, prodotto dal figlio di Ry Cooder, Joachim, mentre anche il babbo appare alla chitarra nell’album, a fianco di Juliette Commagere, altra scoperta del duo e del di lei fratello Robert Francis, altro ottimo chitarrista, pupillo del grande Ry che è stato il suo maestro, insieme a John Frusciante. Ma il protagonista del CD è la piacevole voce della Ritter, tra folk e canzone d’autore, in un disco pubblicato dalla storica etichetta Vanguard.

Altra voce femminile è quella della rocker canadese Serena Ryder, con tre album di studio ed un live EP già pubblicati: il nuovo Harmony era già uscito per la EMI canadese lo scorso anno, ma visto che viene pubblicato ora anche per il mercato americano, il buon Tino se ne occuperà nei prossimi giorni con recensione ad hoc. Quindi non aggiungo altro, se non che il CD mi sembra decisamente buono, considerato che è un po’ di mesi che lo sento, ed era tra i papabili tra quelli da recensire, ma per le solite problematiche di tempo era rimasto in un angolino. Rientra, tra i “ripassi” delle vacanze.

That’s all folks.

Bruno Conti

Novità Di Agosto Parte IIIa. The Rides, (Stills, Shepherd & Goldberg), Franz Ferdinand, Belle And Sebastian, Steve Marriott, Alabama, Jim Croce

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Siamo arrivati all’ultima lista delle uscite del mese di agosto, quella relativa al 27 agosto, come di solito ultimamente, divisa in due parti. Sarebbe la fine dell’estate ma dal numero di uscite si direbbe il periodo natalizio. Come avete letto a parte sul Blog, a cura di Marco Verdi, domani escono anche le varie edizioni dedicate al Bootleg Series 10 di Bob Dylan, nonché, come potrete verificare andando a ritroso nei Post del Blog, se ve li siete persi, pure i cofanetti di Sly & Family Stone, Beach Boys, BBC di Marc Bolan, le varie ristampe in twofer della discografia di Robert Palmer, compreso il doppio con i due dischi registrati con Meters, Lowell George e Little Feat, le edizioni europee di Edward Sharpe, Tedeschi Trucks Band e Blue October, più altri che al momento mi sfuggono. E tutti gli altri che andiamo a vedere, cominciando da questo terzetto.

Della collaborazione tra Stephen Stills e Kenny Shepherd avevo iniziato a parlarvi già dalla pubblicazione del box dedicato a Stills. Nel frattempo è diventato un “super gruppo”, con l’aggiunta di Barry Goldberg alle tastiere, si chiamano The Rides e il disco Can’t Get Enough, pubblicato dalla Provogue/Edel, è una sorta di edizione riveduta e corretta per i giorni nostri della Super Session di Bloomfield, Kooper & Stills. Goldberg, oltre a Stills, era presente nel disco originario, ma solo in un paio di brani, al piano elettrico, visto che il tastierista era Al Kooper e comunque il musicista di Chicago era presente anche nel 1° disco degli Electric Flag (con Mike Bloomfield, qui degnamente sostituito da Kenny Wayne Shepherd), oltre ad avere registrato nel corso degli anni vari dischi assai interessanti, a cavallo tra blues e rock (sempre con friends a go-go), tra cui ricordo gli ottimi Blowing My Mind, con Butterfield & Bloomfield, Two Jews Blues, di nuovo con Bloomfield, Duane Allman e Harvey Mandel, che in CD si trova come Barry Goldberg & Friends (ci sono anche Musselwhite e Hinton), Ivar Avenue Reunion ancora con Musselwhite e la grande Lynn Carey, alias Mama Lion, una voce rock incredibile degna di Janis Joplin. E anche l’omomino Barry Goldberg del 1974, prodotto da Dylan che ci canta e ci suona, oltre a produrlo, con la partecipazione dei musicisti dei Muscle Shoals Studios. Dato a Goldberg quel che è di Goldberg (e se scorrete la sua discografia lo trovate in anni recenti con Carla Olson, Mick Taylor e Jeff Healey), ottimo il lavoro di Stills, che per l’occasione ha ritrovato anche la voce, oltre a duettare alla chitarra con Kenny Wayne Shepherd, uno dei pochi “eredi” di Stevie Ray Vaughan, che a differenza di John Mayer e Jonny Lang, non si è “perso” per strada, rimanendo fedele al blues (rock). Bel disco, come recensito sullo scorso numero del Buscadero.

Per gli amanti dell’alternative indie-rock inglese esce il nuovo disco dei Franz Ferdinand, Rights Thoughts, Right Words, Right Action, che è solo il quinto in dieci anni di carriera, compreso un Live. Esce domani per la Domino Records, anche nella immancabile versione Deluxe doppia, con un secondo CD con ben tredici tracce dal vivo, registrati ai Konk Studios di Londra, che, come lascia intendere il nome, sono quelli di proprietà dei Kinks.

Sempre dall’Inghilterra ennesima antologia di B-sides, remixes (mah?) e rarità dei Belle And Sebastian, si chiama The Third Eye Centre ed esce per la Rough Trade. Quindi non è un disco nuovo del gruppo riunito.

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Altre tre uscite interessanti ed eclettiche.

In attesa dell’uscita del Box dedicato ai concerti al Fillmore degli Humble Pie, esce a cura degli eredi e della famiglia, una doppia antologia dedicata s Steve Marriott, I Need Your Love (Like A Fish Needs A Raincoat) 1962-1991, etichetta Wapping Wharf, contiene materiale raro e inedito, dalle origini, pre Small Faces del 1962, fino alle ultimissime registrazioni con Peter Frampton, effettuate nel 1991, anno della sua morte avvenuta in tragiche circostanze, per l’incendio della sua casa. Questo è il materiale contenuto:

Disc One 

1.LOUISIANA BLUES 1975  

2.NOBODY BUT YOU   1975

3.YOU’RE A HEARTBREAKER  1975

4.STREET RAT      1976

5.BLUEGRASS INTERVAL  1976

6.SIGNED SEALED   1976

7.SAYLARVEE  1977

8.BROWN MAN DO  1978

9.WOSSNAME    1979

10.MY LOVERS PRAYER  1980 

11.BABY DON’T DO IT  1980

12.RESTLESS BLOOD  1981

13.TIN SOLDIER  1981

14.YOU SPENT IT  1981

15.LAW OF THE JUNGLE  1984

16.I JUST WANNA MAKE LOVE TO YOU  1986  

17.I NEED YOUR LOVE (LIKE A FISH NEEDS A RAINCOAT)1987 

18.GYPSY WOMAN  1989

19.OUT OF THE BLUE 1991  w. Peter Frampton

20.BIGGER THEY COME HARDER THEY FALL 1991 w. Peter Frampton


Bonus Disc: RARE: Pre Small Faces Recordings 

 

1.Give All She’s Got        Demo October 1964 

2.Imaginary Love (Alt. Version ) as Steve Marriott  1963 UK 7” 

3.Give Her My Regards     as Steve Marriott                1963 UK 7”     

4.Blue Morning         with The Moments 1964

5.You Really Got Me  with The Moments  1964 U.S  7” only

6.Money Money       with The Moments  1964 U.S  7” only 

7.You’ll Never Get Away From Me  with The Moments 1964

8.Imaginary Love     with The Moonlights  1962 Demo

9.What’d I Say          with The Moonlights  1962 Demo

Probabilmente è tutto materiale che è già uscito nel corso degli anni, però riunito tutto insieme in un doppio CD fa sempre la sua bella figura, per ricordare una delle più grandi voci (e chitarre) della musica inglese.

Gli Alabama si autotributano per i loro 40 anni di carriera con un disco intitolato Alabama & Friends, un CD dove molti dei nomi più noti della musica country si uniscono al gruppo per registrare nuove versioni dei loro classici. Anche loro sono diventati “indipendenti”, etichetta Show Dog Nashville/10 Dog. Ecco la lista dei brani e musicisti ospiti:

1. Tennessee River – Jason Aldean (Produced by Michael Knox)

2. Love In The First Degree – Luke Bryan (Produced by Jeff Stevens)

3. Old Flame – Rascal Flatts (Produced by Jay DeMarcus

4. Lady Down On Love – Kenny Chesney (produced by Biddy Cannon)

5. The Closer You Get – Eli Young Band (Produced by Michael Knox)

6.Forever’s As Far As I’ll Go – Trisha Yearwood (Produced by Garth Fundis)

7. She & I – Toby Keith (Produced by Toby Keith)

8. I’m I A Hurry (And Don’t Know Why) – Florida Georgia Line (Produced by Joey Moi)

9. That’s How I Was Raised – Alabama 

10. All American – Alabama

11. My Home’s In Alabama  – Jamey Johnson (Produced by Jamey Johnson)

Come vedete non hanno scelto neppure il “peggio” del country americano, ci sono molti nomi validi ed interessanti, oltre a due brani nuovi, scritti per l’occasione, i primi da dieci anni a questa parte.

Sempre nell’ambito dei dischi di materiale raro ed inedito di artisti che ormai non sono più con noi da lungo tempo, nel caso di Jim Croce il 20 settembre saranno 40 anni dalla data della morte, esce questo The Lost Recordings, pubblicato dalla Sony Music sul mercato americano (direi che praticamente tutte le case discografiche dell’universo hanno pubblicato o ripubblicato materiale di Croce, questa volta tocca a loro). Sono tutte versioni alternative di molti suoi classici, dal vivo o registrazioni casalinghe. Non vi so dire la qualità delle registrazioni, si può solo sperare per il meglio, ma le canzoni sono sicuramente belle, un cantautore che varrebbe la pena di (ri)scoprire:

 

1. You Don’t Mess Around With Jim (Final Tour, 1973 Previously Released)
2. Operator (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
3. Careful Man (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
4. Rapid Roy (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
5. It Doesn’t Have To Be That Way (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
6. Box #10 (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
7. Speedball Tucker (Recorded at Harper College, 2/5/73 Previously Unreleased)
8. Tomorrow’s Gonna Be A Brighter Day (Lost Home Recordings; demos made between 1970 and 1972. Previously Unreleased)
9. Bad, Bad Leroy Brown (Lost Home Recordings; demos made between 1970 and 1972. Previously Unreleased)
10. These Dreams (Lost Home Recordings; demos made between 1970 and 1972. Previously Unreleased)
11. New York’s Not My Home (Lost Home Recordings; demos made between 1970 and 1972. Previously Unreleased)
12. Time In A Bottle (Lost Home Recordings; demos made between 1970 and 1972. Previously Unreleased)

Domani le altre uscite.

Bruno Conti

Adesso Sì Che Si Ragiona! Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait

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Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait Columbia/Sony 2CD – 3 LP – Deluxe 4CD

In un’epoca nella quale il revisionismo a 360 gradi è diventato di moda, tanto da rivalutare perfino i film di Pierino con Alvaro Vitali, non ci si poteva certo sottrarre dal riesaminare anche il disco più discusso della carriera dell’icona musicale per antonomasia del panorama mondiale: il famigerato Self Portrait di Bob Dylan, che nel 1970 stupì sfavorevolmente critici e fans già disorientati dal precedente Nashville Skyline, un giudizio negativo pressoché unanime che culminò con il famoso “What Is This Shit?” dell’esimio Greil Marcus dalle colonne di Rolling Stone.

Il tempo però ha portato tutti (Marcus compreso) a limare un po’ i commenti sulla qualità del doppio album (non dimentichiamo che Dylan nel 1970 era visto ancora come il portavoce di una generazione, per usare una definizione tra le più abusate, e la pubblicazione di questo disco composto perlopiù da cover di standard ed autori contemporanei fu uno shock per chiunque): a me non è mai dispiaciuto, anche se alcune cose tipo Blue Moon e la quasi parodistica versione di The Boxer di Paul Simon si potevano anche evitare, ma reputo da sempre molto peggio i due album della metà degli anni ottanta, cioè Knocked Out Loaded (a parte Brownsville Girl che è un capolavoro) e soprattutto il raffazzonato Down In The Groove. A scrivere la parola fine sulle tenzoni riguardanti Self Portrait ci ha pensato comunque la Sony, che come decimo episodio delle Bootleg Series dylaniane ha scelto proprio le sessions incentrate sul discusso album, allungando un po’ il brodo (piacevolmente, s’intende) con parte delle sedute di New Morning, ovvero il disco pubblicato da Dylan pochi mesi dopo Self Portrait, forse per correre ai ripari dopo la valanga di critiche ricevute, qualche outtake da Nashville Skyline ed un paio di altre chicche.

Ebbene, a parte qualche riserva da malato dylaniano sulla tracklist già espressa in un mio post precedente, devo dire che il lavoro fatto è di prima qualità (ed anche la critica internazionale ha già tessuto le lodi dell’operazione, Marcus in testa), ed il risultato finale rende finalmente giustizia ad un album che, con la dovuta attenzione ed escludendo gli episodi più beceri, avrebbe eclissato Nashville Skyline e ridimensionato anche l’effettivo valore di New Morning.

I brani presenti si dividono in tre categorie: prima di tutto gli inediti assoluti, con vere e proprie perle come la versione di Thirsty Boots di Eric Andersen, canzone già bellissima di suo, il delizioso traditional Pretty Saro, con un Dylan ispiratissimo, la splendida Railroad Bill, una delle cose migliori di Bob (almeno tra quelle di quel periodo), la suggestiva House Carpenter, la bella Working On A Guru, con George Harrison alle spalle del nostro, il gospel pianistico Bring Me A Little Water, con un’ottima prestazione vocale di Dylan,. E poi brani che rispondono al titolo di This Evening So Soon, Annie’s Going To Sing Her Song, These Hands (molto bella anche questa), Tattle O’Day: un delitto che all’epoca non fossero stati pubblicati (ma si sa, Bob non è mai stato il miglior giudice di sé stesso, basti ricordarsi cosa fece tredici anni più tardi con Infidels…ecco un altro Bootleg Series che prima o poi vorrei vedere).

Poi ci sono i demos, con Bob da solo o con David Bromberg (non dimentichiamo che a quelle sessions parteciparono musicisti della Madonna: oltre a Harrison e Bromberg c’erano Al Kooper, Charlie Daniels, Norman Blake, Kenny Buttrey e Charlie McCoy, ma potrei andare avanti) e le alternate versions, interessanti in quanto ci mostrano la genesi di canzoni poi finite sui dischi in forma diversa: spiccano due versioni di Times Passes Slowly, una If Not For You più rallentata e con violino (splendida), una I Threw It All Away abbastanza simile all’originale ma sempre bella, una take inedita e, pare, ritrovata da pochissimo di Wallflower. Infine abbiamo le stesse versioni apparse su Self Portrait, ma spogliate dei ridondanti arrangiamenti orchestrali, e qui i pezzi che più ci guadagnano sono la melodiosa Belle Isle, gli strumentali All The Tired Horses e Wigwam e la folkeggiante Little Sadie.

Dulcis in fundo, le due chicche: una Minstrel Boy proveniente dai Basement Tapes e Only A Hobo, outtake delle sessions con Happy Traum per le bonus tracks del Greatest Hits Vol. 2, uscito nel 1971. Un tesoro da scoprire ed assaporare lentamente, uno dei migliori volumi dei Bootleg Series, almeno per chi scrive.

Per chi vorrà la versione Deluxe (cioè tutti i dylaniati), ecco un terzo CD con la versione rimasterizzata del Self Portrait originale (scelta incomprensibile, dato che siamo nei Bootleg Series e che fra pochi mesi uscirà l’atteso megabox The Complete Album Collection, con quindi il disco in questione di nuovo presente) ed un quarto con la registrazione integrale del famoso concerto con The Band all’isola di Wight nel 1969 (ed allora perché inserire due pezzi tratti dal concerto anche nei primi due CD?).

Un concerto celeberrimo, che segnava il ritorno sul palcoscenico di Dylan dopo l’incidente in moto del 1966 (anche se l’anno prima aveva partecipato con tre canzoni alla serata in memoria di Woody Guthrie, sempre con la Band) che, come ho già avuto modo di dire, è forse più famoso che riuscito.

Dylan infatti è un po’ arrugginito, si concede qualche stonatura di troppo (complice anche la strana voce baritonal/nasale di quel periodo), ed anche la proverbiale intesa con Robbie Robertson e compagni talvolta stenta a decollare, anche se, da buon fuoriclasse, qualche zampata la piazza eccome.

The Mighty Quinn è imbarazzante, Like A Rolling Stone non rende giustizia alla grandezza del brano, Maggie’s Farm è zoppicante: dove Dylan dà il meglio è nei brani tratti da Nashville Skyline, in versioni perlopiù acustiche e piene di feeling di To Ramona e Mr. Tambourine Man, oltre che in un’ottima Highway 61 Revisited, in cui Bob e la Band tirano come ai bei tempi della tournée britannica del 1966.

A monte di tutto, un cofanetto imperdibile: in un’epoca in cui un po’ tutti vanno a rispolverare le radici ed i brani della tradizione, Dylan dimostra che lui lo aveva già fatto più di quarant’anni fa.

Era avanti anche in questo.

Marco Verdi

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NDM: il cofanetto di 4CD contiene un foglietto che annuncia “ufficialmente” (con tanto di foto), l’uscita del box The Complete Album Collection, senza però indicarne la data di pubblicazione, anche se voci accreditate lo danno nei negozi per quest’autunno.

Nuovamente Uno Scozzese Alla Ribalta! Justin Currie – Lower Reaches

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Justin Currie – Lower Reaches – Endless Shipwreck/Ignition Records 2013

Il ritorno dello scozzese (sempre da Glasgow) Justin Robert Currie, mi permette di ricordare una grande band, i Del Amitri (attiva a cavallo fra gli anni ’80 e ’90), capace di produrre diversi album di pop-rock, e di cui il “nostro” Justin era il frontman e leader indiscusso. Malinconici, armoniosi, brillanti e ricchi di soul, i Del Amitri (alla maniera dei Counting Crows in America), raggiunsero il successo con delle rimarchevoli canzoni dall’impronta folk-rock, e grazie alla penna ispirata di Currie, incisero dei piccoli capolavori (da recuperare) come l’eccellente Waking Hours (89), Change Everything (92), Twisted (95), Some Other Suckers Parade (97), e dopo le immancabili antologie Hatful Of Rain  e The B-Sides – Lousy With Love (98), chiusero con un dignitoso capitolo finale Can You Do Me Good? (2002). Sciolta la band, Justin ha affrontato la carriera solista con l’esordio intimo di What Is Love For (2007) e successivamente con il meno introspettivo e più robusto The Great War (2010), sino a rilasciare questo terzo lavoro, Lower Reaches, per la sua etichetta Endless Shipwreck, distribuita dalla Ignition Records.

La traccia di apertura Falsetto è uno dei suoi tipici brani pop-rock, ricco di armonie e riff di chitarra, mentre Every Song’s The Same e Bend To My Will, sono due irresistibili pop songs. Con Priscilla, I Hate Myself For Loving e  On A Roll. Justin Currie sfodera il lato più malinconico del disco, con brani notturni e riflessivi. Into A Pearl (come da titolo) è la perla dell’album, una ballata pianistica coinvolgente che si candida come una delle migliori canzoni della sua carriera, seguita da On My Conscience  dal sorprendente andamento country, per chiudere con la dolce Half Of Me e una Little Stars cantata in un leggero falsetto e che chiude il cerchio con il brano inziale.

Justin Currie (per chi scrive), è uno dei più grandi cantautori scozzesi degli ultimi 20 anni, al quale il destino  ha concesso di disporre di una voce di qualità superiore (un incrocio fra un Peter Gabriel e un Paul McCartney, tanto per non esagerare!), dote che mise al servizio dei Del Amitri, e oggi gli permette di proseguire la sua carriera solista con questo pregevole Lower Reaches, lavoro piacevolissimo, dove l’istinto pop rimane forte, ma con melodie e arrangiamenti curati (e qualche leggera aria country, grazie alla pedal steel ricorrente in alcuni brani e al fatto che il disco sia stato registrato in Texas), un buon esempio di coerenza stilistica e classe compositiva, il tutto arricchito da un gruppo di belle canzoni, capaci di andare oltre la prevedibilità del pop-rock. Il disco è stato prodotto da Mike McCarthy, che aveva aveva lavorato all’album solo di Craig Finn degli Hold Steady, anche quello registrato in Texas. Il titolo del disco ironizza appunto sul viaggio per “andare laggiù”, ma anche sulle “zone basse” delle classifiche. Il nostro amico, in alcune interviste, non ha escluso un ritorno della sua vecchia band.

Per il momento, da ascoltare anche nei (prossimi) giorni di pioggia, ma non solo!

Tino Montanari

Un Altro Cofanetto (In)Utile, Ma… – The Zombies In Stereo

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The Zombies – In Stereo – Repertoire 4 CD – 23/09/2013

Gli Zombies sono uno dei gruppi degli anni ’60 più antologizzati (brutta parola, ma rende l’idea) negli ultimi anni. Odessey And Oracle sarà stato ristampato almeno in una decina di versioni diverse (forse esagero ma non di molto) e ora la Repertoire pubblica un ennesimo cofanetto che parte da una premessa veramente flebile: raccogliere in un’unica confezione tutte le registrazioni stereo effettuate tra il 1964-1967, quindi non “tutte”, perché l’album citato sopra, benché registrato tra Giugno e Novembre del 1967 ai famosi Abbey Road Studio, fu poi pubblicato nell’aprile del 1968, e quindi non è compreso nel box. E quindi che cosa contiene? (faccio come Marzullo, si faccia una domanda e si dia una risposta!).

Senza andare nei dettagli brano per brano i 4 CD sono così concepiti:

CD1: 1960s True Stereo recordings (1964-1967 period)

Contiene 23 brani, tratti da The World Of Zombies e altri brani estratti da ristampe varie della Repertoire.

CD 2: 1960s Fake Stereo recordings (1964-1967 period)

14 brani, in falso stereo, ovvero ricreato elettronicamente da registrazioni mono prese dall’album The Zombies, quello uscito negli USA su Parrot Records e un altro paio di brani da The World Of Zombies.

CD 3: New Stereo Mixes taken from masters of the 1964-1967 period (Part 1)

Remix del 2002, rimasterizzati nel 2013. 22 tracce, i brani dall’1 al 14 riproducono l’album Begins Here nella sua completezza, più 8 brani da The Complete Decca Mono Recordings, ma in versione Stereo (SPQT – Sono Pazzi Questi Tedeschi!).

CD 4: New Stereo Mixes taken from masters of the 1964-1967 period (Part 2)

Altre 22 canzoni. Il seguito del Complete Decca Mono Recordings più sette nuove aggiunte.

Però c’è un libretto con nuove note firmate dal giornalista Michael Heatley (ah beh, allora!) che pare sia una delle massime autorità su Rod Argent, Colin Blunstone, Chris White, Paul Atkinson e Hugh Grundy, ossia gli Zombies, che sono tuttora in pista, dopo l’ultima reunion del 2010, anche se della formazione originale ci sono solo i primi due.

Fondamentalmente (in)utile, salvo per i super fans, anche se non sarà particolarmente costoso, per cui se non avete nulla della band, nel caso, unito a Odessey and Oracle, diventa (im)perdibile o quantomeno “a must have” per conoscere uno dei migliori gruppi nglesi degli anni ’60.

Bruno Conti

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P.S. Già che ci sono vi informo che la data di uscita, almeno per l’Europa, del cofanetto dei Grateful Dead Sunshine Daydream è stata spostata ai primi di ottobre.

Grande Chitarrista, Grande Cantante, Altri Nove Ottimi Musicisti (E Qualche Amico): Che Disco! Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind

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Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind – Sony Masterworks

Sarà un caso che il disco esca per il ramo Masterworks della Sony, quello dedicato alla musica classica? Ovviamente no, in quanto l’album è già un piccolo “classico” nel suo genere. Già ma quale genere? Direi rock, blues, soul (tra Stax e Motown, con una spruzzata Muscle Shoals), funky e jazz, quindi di tutto un po’. Come facevano Delaney & Bonnie & Friends (con Eric Clapton) più di 40 anni fa. Ma la musica non risente del tempo che passa, anzi, come il buon vino, migliora. La fusione dei gruppi di Derek Trucks e della moglie Susan Tedeschi, che all’inizio poteva sembrare un azzardo, si è rivelata una mossa azzeccata: al di là del fatto che sicuramente non deve essere facile mantenere e portare in giro una band di 11 elementi, i risultati, prima con Revelator nel 2011, poi con l’eccellente doppio dal vivo Everybody’s Talkin’, che esplorava il lato più improvvisativo del gruppo e ora con questo eccellente Made Up Mind, confermano che la Tedeschi Trucks è una delle migliori entità musicali attualmente in circolazione sull’orbe terracqueo.

Come dice il titolo, un grande chitarrista, Derek Trucks, soprattutto alla slide, degno erede di Duane Allman e che rivaleggia con Ry Cooder per la maestria all’attrezzo, ma ottimo chitarrista anche complessivamente, nel lato ritimico e solista, e anche come compositore. Una grande cantante, Susan Tedeschi, in possesso di una voce bellissima, roca e sensuale, dolce e potente al tempo stesso, degna erede di voci come quella di Bonnie Raitt, di cui in questo disco, leggo da qualche parte, si sarebbe affrancata dalle, diciamo, affinità elettive, manco si parlasse di madonna o kylie minogue, non di una delle più grandi cantanti e chitarriste bianche nell’ambito blues e rock e quindi si tratta di un complimento, non certo di una critica. Senza dimenticare gente come Bonnie Bramlett, tanto per non fare altri nomi, vera diva, con il marito Delaney, nell’arte di fondere soul, R&B e rock. Mi pare invece che le similitudini tra gli stili delle due Bonnie e Susan Tedeschi siano ancora più evidenziate in questo nuovo album, che è un disco di canzoni ancora più rifinite, ma al contempo fresche e frizzanti, rispetto ai predecessori.

Non dimentichiamo che la band ha anche una sezione fiati di tre elementi, piccola ma compatta, Maurice Brown alla tromba, Kebbi Williams al sax e Saunders Sermons al trombone, che si applica con profitto anche alle armonie vocali, doppia batteria, J.J. Johnson e Tyler Greenville, come nella band di zio Butch Trucks, quattro diversi bassisti, ma solo in l’occasione di questo CD, e alternati nei vari brani, dal vivo, per il tour, hanno annunciato, il nuovo addetto allo strumento,sarà Eric Krasno, presente nel disco come chitarrista aggiunto e autore, uno dei “friends”. Chi manca? Kofi Burbridge, il tastierista, anche ottimo flautista e i due vocalist aggiunti, Mike Mattison (già cantante della Derek Trucks Band e leader degli Scrapomatic, qui forse un po’ sacrificato) e Mark Rivers. Tutti costoro, se serve, si danno da fare anche alle percussioni e, soprattutto, ci regalano undici canzoni, una più bella dell’altra.

A partire dal boogie rock blues dell’iniziale title-track dove Derek Trucks si divide tra slide e wah-wah, la moglie innesta un ottimo ritmo alla seconda chitarra e canta all grande, mentre il pianino di Burbridge e i fiati aggiungono pepe alle operazioni, ottima partenza. Do I Look Worried, scritta con John Leventhal, uno dei tanti ospiti, è un mid tempo sincopato ed emozionale, perfetto esempio di quel blues-rock got soul che è uno dei manifesti del disco, un paio di soli brevi ed incisivi di Derek, contrappuntati alla perfezione dai fiati e dalla voce partecipe di Susan. idle Wind è scritta con Gary Louris dei Jayhawks, un brano elettroacustico, dall’arrangiamento complesso, quasi jazzato, con il flauto di Kofi Burbridge a farsi largo tra gli altri fiati, la doppia batteria molto felpata e le armonie vocali soffuse, un perfetto esempio di jazz & soul revue, esplicato dall’assolo quasi modale di Trucks (la chitarra sembra quasi un sitar).

Sonya Kitchell (bravissima cantautrice) e il già citato Eric Krasno scrivono il super funky di Misunderstood, che con il suo clavinet e fiati, voci, chitarre wah-wah nel finale, organo e percussioni in libertà, sembra un brano dei tempi d’oro di Sly & Family Stone. Part Of me, scritta con Doyle Bramhall II e Mike Mattison, è anche meglio, pura Motown della più bella acqua, fino al falsetto fantastico di Sermons, che accoppiato con l’ottimo contralto di Susan, rievoca le armonie dorate di Tempations e Jackson 5, una piccola magia fin dalle chitarrine ritmiche e dalle sinuose linee della solista di Derek Trucks qui ispiratissimo, che trasporta parti del brano in zona Muscle Shoals, ovvero Stax, un matrimonio in Paradiso, in una parola, anzi due: una meraviglia!

Torna Louris come autore per una poderosa Whiskey Legs e qui le cose si fanno serie, la Tedeschi imbraccia la sua Gibson e risponde colpo su colpo alle bordate del marito Derek, in un brano di impianto rock-blues, dove anche l’organo si ritaglia i suoi spazi e che dal vivo probabilmente diventerà territorio di battaglia per gagliarde jam nella migliori tradizioni del genere, e del gruppo. La prima delle ballate del disco, It’s So Heavy, scritta da Trucks, ancora con Kitchell e Krasno, è un’altra meraviglia sonora, toccante ed emozionante, deep soul e melodia intrecciati, con i due solisti, Derek e Susan, in stato di grazia, lui alla chitarra e lei alla voce, a dimostrazione che la buona musica, quella genuina, è ancora viva e vegeta. All That I Need, con i suoi ritmi latini, vagamente santaneggianti, è nuovamente una collaborazione con Bramhall, brano forse (ma forse) minore, benché arrangiato sempre con precisione chirurgica, fiati, armonie vocali, tastiere, il tutto piazzato con cura nel tessuto sonoro del brano e le due “stelle” del gruppo che ricamano sull’insieme. Sweet And Low, l’altra ballata, è quasi più bella di It’s So heavy, malinconica e accorata, con la voce vellutata di Susan Tedeschi ancora una volta in spolvero, ma non c’è un brano dove non canti più che bene, quasi fosse un suo disco solista, accompagnata da una band da sogno e con una manciata (abbondante) di canzoni, tra i quattro e i cinque minuti, che rasentano la perfezione.

The Storm, scritta dai due con Leventhal, è l’unico pezzo che supera i sei minuti, e qui la coppia indulge nel proprio lato rock-blues e improvvisativo, dopo una lunga introduzione cantata da Susan, la parte strumentale imbocca anche percorsi jazz e jam, con le due soliste spesso all’unisono e Derek Trucks che fa i numeri di fino con la sua chitarra, sul solito tappeto di organo, fiati e una ritmica consistente, confermandosi uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, come testimonia anche la sua militanza negli Allman Brothers. Qui c’è trippa per gli amanti della chitarra, dura 6 minuti e 35 ma dal vivo probabilmente si espanderà fino a quindici o venti. Finale minimale, acustico, solo la National steel di Derek, una seconda chitarra e la voce carezzevole e tenera di Susan per una dolce Calling Out To You. Per concludere, e anche questo non guasta, il disco è co-prodotto da Jim Scott (e non da Doyle Bramhall II, a parte un brano, come avevo erroneamente scritto nella anticipazione): è proprio quello di Wilco, Jayhawks, Court Yard Hounds, Crowded House e dei due dischi precedenti della band. Il sound è caldo, delineato, umano, respira con l’ascoltatore

Uno dei migliori dischi del 2013, fino ad ora, ma non ce ne saranno molti altri così belli.

Bruno Conti