Ho Visto Il Futuro Del Rock’n’Roll E Il Suo Nome E’ The Wild Feathers, Forse!

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The Wild Feathers – The Wild Feathers – Warner Bros Records

“Ho visto il futuro del Rock and Roll e il suo nome è The Wild Feathers”! Esagerato? “Ho visto il presente del R&R e il suo nome è Wild Feathers”! Sempre troppo? Che ne dite di: ho visto una band tra presente e passato del rock and roll, si chiamano le Piume Selvagge, un nome gagliardo che ricorda quasi una tribù di pellerossa. Sono texani di Austin e vengono da Nashville. Scusa? Nel senso che sono originari del Texas ma vivono a Nashville, tutto chiaro? E aggiungo che sono una di quelle classiche band che eseguono una serie di canzoni che sembrano delle cover, ma con dei titoli nuovi (?!?). Mi spiego meglio, le canzoni ricordano, più o meno tutte, a tratti, brani scritti da altri, Allman Brothers, Tom Petty, la Band, Jayhawks, Stones, Neil Young, Ryan Adams, che è un altro tra i “giovani” che assorbe miriadi di influenze e le rimodella nella sua musica, ma non canzoni specifiche, però la struttura, l’atmosfera, il sound sono quelli del rock classico, nelle sue mille sfaccettature, e anche se non si sfiora mai il plagio, ci sono miriadi di melodie, di riff, che galleggiano nell’etere e ogni tanto si posano sulle chitarre e nelle ugole di musicisti più “originali” e bravi di altri.

E’ il caso dell’esordio di questo quintetto americano, perché i musicisti degli States sono meno sfacciati delle loro controparti britanniche nell’ispirarsi a quanto di buono viene dalla musica del passato, per riproporla sotto forma di canzoni destinate ad un pubblico giovane (sempre più ristretto, ma ancora voglioso di buona musica) e ai “vecchi marpioni” del rock, appassionati e critici che hanno già visto e sentito tutto, ma non per questo non apprezzano le nuove forze emergenti, salvo gli inguaribili cinici e bastian contrari che sono spesso inflessibili. Le dodici canzoni dell’omonimo esordio dei Wild Feathers scorrono tutte d’un fiato, si ascoltano con grande piacere nella loro alternanza anche di elementi folk, rock, country e blues, su una base di musica rock. Come dite, la chiamano Americana? Potrebbe essere, perché no, anche se loro preferiscono essere definiti una “american” band. 

Dalla riffatissima Backwoods Company che potrebbe essere un incrocio tra Tom Petty ed Allman Brothers, musica sudista con chitarre, armonica e tastiere in primo piano, alle ricche armonie vocali di un brano come American, dal titolo programmatico, sempre con una impressione di già sentito, ma che non ti impedisce di gustare gli intrecci di chitarre elettriche ed acustiche, le voce filtrate e le melodie molto seventies, non a caso tra gli autori c’è anche un certo Gary Louris.  E I Can Have You dalla ritmica scandita e la doppia voce solista non può non ricordare proprio gente come i Jayhawks. che a sua volta si rifaceva al country-rock classico di Young, era Buffalo Springfield, con le sue chitarre grintose e organo e piano elettrico che si fanno largo tra le pieghe della canzone. Tall Boots è una bella power ballad dal suono avvolgente, gli Eagles li avevamo citati?

Mentre la lunga The Ceiling potrebbe venire dal repertorio di una band come gli Avett Brothers, con notevoli intrecci strumentali e vocali che arricchiscono l’impianto sonoro di un brano che ha anche le stimmate della buona musica pop che ti resta in testa, un singolo da sei minuti e oltre dimostra che vogliono prendersi i loro rischi. La bellissima Left My Woman con il suo lento crescendo e la voci dei vari Feathers che si alternano, non saprei dirvi chi sia Ricky Young, chi Joel King, Taylor Burns o Leroy Wulfmeier, le voci dei quali entrano una alla volta e poi tutte all’unisono, ma impareremo a conoscerli, la canzone con il suo ritornello di “All My Money’s Gone” ricorda la dura realtà della vita sulla strada e il break della chitarra nella parte centrale del brano è pressoché perfetto.

I’m Alive di Joel King ha ancora quell’aria scanzonata power pop da anni ’60, con organetti e chitarre che si fanno largo tra le acustiche. Hard Wind potrebbe essere un brano di Petty accompagnato dalle chitarre incattivite dei Crazy Horse o degli Allman, scegliete voi, seguita dal pop più dolce di If You Don’t Love Me, firmata da Ricky Young, che ne è l’esatto apposto, a segnalare l’eclettismo del gruppo. Hard Times, sempre con i pregevoli incroci delle voci dei componenti del gruppo, nuovamente oltre i sei minuti, è l’altro tour de force del disco, con chitarre, organo e piano che iniziano a jammare di gusto con qualcosa di stonesiano o anche à la Black Crowes e un finale acustico alla CSN. Anche Got It Wrong  ricorda i migliori Jayhawks, sentita mille volte ma non per questo meno piacevole, con quella abilità innata per le belle melodie, chiamatelo neo-revisionismo, ma a me piace. E How è un’altra di quelle ballatone in crescendo chiaroscuro, ricco di soul, che non puoi fare a meno di apprezzare: segnatevi il nome, The Wild Feathers, questi sono bravi!                               

Bruno Conti    

Un Fulmine A Ciel Sereno! The White Buffalo – Shadows, Greys & Evil Ways

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The White BuffaloShadows, Greys & Evil Ways – Unison Music CD

Dopo aver ricevuto critiche più che lusinghiere lo scorso anno per l’ottimo Once Upon A Time In The West, i White Buffalo, ovvero la creatura di Jake Smith (con Matt Lynott e Tommy Andrews), ritornano a distanza di appena un anno con un lavoro ancora più ambizioso.

Shadows, Greys & Evil Ways è un disco molto bello, che a poche settimane dalla sua uscita ha già attirato l’attenzione delle testate più prestigiose (Entertainment Weekly ed il Wall Street Journal ne hanno parlato in maniera entusiastica), ed è l’album che dovrebbe consacrare definitivamente Smith come uno dei maggiori talenti degli ultimi anni.

Shadows, Greys & Evil Ways è un concept album, nel quale, in poco meno di quaranta intensissimi minuti, Jake e soci raccontano la storia di Joey White, un uomo comune, un personaggio come tanti che, tornato dalla guerra, cerca di riprendere la vita normale e di riallacciare i rapporti con l’amata Jolene, ma si rende presto conto che il mondo è cambiato e che ricominciare la vita di prima è tutt’altro che semplice. Una storia come tante, che però fornisce a Smith il pretesto per consegnarci un disco di grande spessore, dove la sua bravura come scrittore si unisce alla sua sensibilità musicale: un perfetto esempio di puro cantautorato in stile Americana, con elementi country, rock, folk e blues fusi insieme alla perfezione, il tutto suonato alla grande (fra i sessionmen troviamo anche Rick Shea ed il leggendario batterista Jim Keltner) e cantato benissimo dalla voce profonda di Jake. In alcuni momenti, nei brani meno rock, sembra quasi di aver a che fare con canzoni scritte da Guy Clark o Kris Kristofferson, e state certi che non sto esagerando. Tra l’altro Jake sembra proprio un texano doc: peccato che sia nato in Oregon e viva in California.

Si inizia alla grande con Shall We Go On, una ballata pianistica molto bella, passo lento, melodia profonda ed evocativa, con un toccante violino in sottofondo. Un avvio da manuale. The Getaway ha più o meno lo stesso arrangiamento, ma il tempo è quasi da valzer texano e l’atmosfera procura più di un brivido, grazie anche alla carismatica presenza vocale del leader.

When I’m Gone, più mossa ed elettrica, ha un testo molto diretto ed un suono solido e potente, mentre Joey White, nervosa e scattante, ha elementi blues e punti di contatto con il suono di Ray Wylie Hubbard: notevole la parte centrale, decisamente roccata. La breve 30 Days Back è molto triste e toccante, e prelude a The Whistler, che è uno degli highlights del CD: ballata western classica, lenta, intensa, con un crescendo assolutamente degno di nota. E’ in brani come questo che Smith dimostra di essere cresciuto a dismisura dai giorni dell’esordio di Hogtied Revisited.

Bella anche Set My Body Free, sempre di stampo western ed una melodia tra le meglio riuscite del lavoro; Redemption # 2, acustica e vibrante, è cantata con un trasporto quasi drammatico. La fluida This Year è un perfetto esempio di songwriting maturo, un altro dei brani di punta del disco; Fire Don’t Know sembra quasi uno slow alla Johnny Cash, mentre Joe And Jolene è diretta e sostenuta nel ritmo.

L’album giunge al termine con Don’t You Want It, orecchiabile ed ancora in odore di Texas, il breve strumentale per violino e contrabbasso # 13 e Pray To You Now, un’altra ballad di grande spessore, degna conclusione di un disco sorprendente.

Ascoltatelo, ne vale la pena.

Marco Verdi

*NDB Così, casualmente, a titolo informativo: questo è il Post n. 1500 del Blog. Per il momento si resiste, continuate a leggere e, se possibile, spargete la voce. Siamo un Blog di “Carbonari”, tra i 15 e i 20.000 contatti al mese, mentre l’utimo video di Miley Cyrus ha avuto più di 83 milioni di visualizzazioni in 4 giorni. Sarà più brava, ma…

Come diceva Gianni Minà, quando faceva una citazione ma non si ricordava di chi era, “come avrebbe detto qualcuno”: Rock On And Keep On Rolling!

Bruno Conti

“Nuovi” Guitar Heroes. Chris Duarte Group – Live

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Chris Duarte Group – Live 2 CD Blues Bureau/Shrapnel

Sono passati all’incirca sei mesi da quando ci eravamo sentiti per l’ultimo album di Chris Duarte, My Soul Alone, ( clienti-abituali-chris-duarte-group-my-soul-alone.html) ed eccoci con un nuovo album, questo doppio Live. Per onestà non è che il chitarrista di Austin, Texas sia un musicista così prolifico d’abitudine, la sua media è un disco all’anno dal 2007 ad oggi, con il 2012 dedicato ad una ristampa (era probabilmente impegnato con il tour giapponese che ha dato vita a questo disco dal vivo) e gli anni precedenti con uscite più sporadiche. Come detto più volte Duarte è quanto di più vicino ci sia, tecnicamente e nello spirito, al compianto Stevie Ray Vaughan. Non è un clone, ma ci assomiglia parecchio, in alcuni momenti la somiglianza del sound è impressionante, quasi più SRV dell’originale. In venti anni circa di onorata carriera non aveva mai pubblicato un disco dal vivo e per il power-blue-trio rock di Chris Duarte la dimensione in concerto è naturalmente l’ideale. Al basso e seconda voce c’è Yoshi Ogashara del gruppo giapponese Bluestone Co. che aveva suonato nel disco 396 e alla batteria Jack Jones e insieme costituiscono una sezione ritmica di tutto rispetto, potente ma anche valida tecnicamente, se c’è da picchiare ci danno dentro, ma nei blues lenti e nelle improvvisazioni jazzate, tipo la cover di Alabama di John Coltrane, sanno essere molto ricercati.

La maggior parte delle cover è concentrata nella parte iniziale del concerto: il classico strumentale Hideaway di Freddie King è eseguito con vigore ma con la giusta dose di classe, considerando che Duarte è in possesso di una tecnica notevole, spesso straripante verso un hard-rock-blues anche violento e caciarone, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui, a maggior ragione da un Live. Big Legged Woman era un brano scritto da Leon Russell sempre per Freddie King nell’ultimo periodo di carriera, quello degli album RSO con Eric Clapton (che verrà ricordato negli extra di un box di Eric che uscirà tra non molto, vedrete). Brano funky con la chitarra che si inerpica nei meandri del Texas blues di Stevie Ray Vaughan con ottima scelta di toni e sonorità nel dispiegarsi del brano. Ridin’ è un bel pezzo rock hendrixiano che si trovava su Infinite Energy del 2010. Altra cover per Do The Romp di Junior Kimbrough, cattiva il giusto e poi Make Me Feel So Right un ottimo shuffle che si trovava su Blues In The Afterburner, l’album che veniva promosso in quel tour, sempre da quell’album il primo slow blues, una lancinante e torrenziale Bottle Blues.

Let’s Have A party sempre attribuita a Duarte, come da titolo è una sarabanda a tutta velocità nei territori del R&R cari a Bugs Henderson o per rimanere nei texani classici, Johnny Winter sempre con SRV nel cuore. Still I Think You era nel disco con i Bluestone Co, onesta ma nulla più, come il disco di studio, Free For Me dai ritmi spezzati e sincopati era sul disco del 2000, bello l’assolo. Poi un cover che non ti aspetti (anche se l’aveva già registrata in studio), una versione psichedelica di One More Cup Of Coffee di Dylan come avrebbe potuto farla Hendrix se fosse stato ancora vivo. Ancora hendrixiana la strumentale 101 che ci rimanda ai gloriosi anni con gli Experience. Nel secondo CD vorrei ricordare una versione lunghissima del super classico funky dei Meters, People Say dove Duarte dà il meglio di sé, Hold Back The Tears, un ottimo brano lento, dalle atmosfere sospese, firmato ancora con i giapponesi Bluestone Co. e cantato ottimamente dal bassista Ogashara, la violentissima Sundown Blues, un rock-blues di gran classe, il funky jazz-rock della complessa Cleopatra e ancora il Texas blues, scandito a tempo di Vaughan di Hard Mind. Conclude la versione già ricordata del brano di Coltrane, improvvisazione allo stato puro. Inutile dire che trattasi di disco per appassionati della chitarra elettrica, file under guitar heroes o rock-blues, di quello buono.

Bruno Conti  

I Nuovi Outlaws. Brandon Rhyder That’s Just Me

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Brandon Rhyder – That’s Just Me – Brandon Rhyder.com Self-released

Qual è la differenza tra la Red Dirt Music che viene dall’Alabama e quella che viene dal Texas? Mai capita. Forse gli interpreti di Red Dirt potrebbero essere i nuovi Outlaws (nel senso di Waylon’n’Willie)? Qui mi sentirei di rispondere affermativamente. Tra il country Red Dirt e quello di Nashville (e non solo), oggi c’è la stessa differenza che c’era un tempo tra il country commerciale che veniva dalla capitale del Tennessee (non tutto ovviamente) e l’outlaw country, quello di Bakersfield (mi viene sempre da scrivere Baskerville, ma quello era il mastino di Sherlock Holmes) o la musica di gente come Merle Haggard che da lì veniva. Poi i limiti che dividono un genere dall’altro sono molto labili, c’è sicuramente del country-rock, perfino del pop, ma di qualità, southern rock, perché molti vengono dal Texas, una giusta dose di bluegrass e country acustico et voilà, i giochi sono fatti.

Brandon Rhyder, attraverso sette album (due live), pubblicati in una dozzina di anni di carriera, ha dimostrato di conoscere questa arte di fondere gustosamente tutte queste influenze, unite ad una indubbia capacità di scrivere belle canzoni, e con questo nuovo That’s Just Me si dimostra ancora cantante ed autore affidabile, magari non farà mai il capolavoro, mai i suoi dischi sono solidi e godibili. Nel precedente Head Above Water si era fatto aiutare alla produzione da Walt Wilkins, questa volta si affida a Matt Powell, autore anche di un paio di brani del CD, e già chitarrista nel precedente ottimo Live At Billy Bob’s Texas. Tra i co-autori di Rhyder ci sono anche Wade Bowen e Josh Abbott (leader della band omonima), che di Red Dirt, Southern e country se ne intendono.

Il risultato è un buon album, le canoniche dodici canzoni, equamente divise tra rockers, ballate e mid-tempo, con l’apertura affidata a Haggard, un brano dall’andatura ondeggiante che oscilla tra gli Yippie-Yi-Ya del country tradizionale e un violino insinuante suonato da Marian Brackney, che ci rimanda alle atmosfere di Desire di Dylan, quando Scarlet Rivera ci deliziava con i suoi interventi strumentali, ottimo il lavoro di Powell alla solista e godibilissimo il cantato di Rhyder, in possesso di una voce calda e insinuante. La title-track That’s Just Me replica la formula, ancora con il violino sugli scudi, mentre il banjo e la solista di Powell sono un piacere per le orecchie e le armonie vocali di Andrea Whaley aggiungono fascino a questa bella canzone country, perché di questo si tratta, e diciamolo! Se la country music è fatta bene si ascolta con piacere e anche Leave, che aggiunge una pedal steel alla formula musicale, mantenendo le armonie vocali femminili, il violino che cambia mano e passa a Tahmineh Guarany e gli interventi puliti e concisi della solista di Matt Powell, lo conferma. Love Red è un gradevole mid-tempo dalle melodie semplici mentre Pray The Night scritta con il “collega” Wade Bowen è un ballatone mosso da classifiche country (dove l’album nonostante la distribuzione indipendente è regolarmente entrato), con qualche aggancio con il sound country-rock californiano, vagamente alla Jackson Browne.

Scat Kitty è più vicina agli stilemi della bluegrass song, energica e con retrogusti elettrici, ma con violino, banjo e mandolino in primo piano. Richest Poor People ha un’aria alla Mr.Bojangles, dolce e scanzonata, Don’t Rob Me Blin, viceversa, ha la slide di Powell, che è l’autore del brano, come strumento guida e un suono che vira verso un country-southern più grintoso. Undercover Lover, una collaborazione tra i due, dal ritmo scandito e bluesy è un altro buon esempio di country meticciato con il rock, quasi tendente al pop di buona fattura. Some People è un altro mid-tempo con violino e chitarra in evidenza, cantato con la consueta perizia, se vi piacciono i vari Bleu Edmonson, Pat Green, Cory Morrow, Randy Rogers e soci, qui c’è pane per i vostri denti. Hell’s Gate scritta in coppia con l’ottimo southern rocker Josh Abbott è un ulteriore energico tassello in questo affresco di buon country-rock. Ad inizio di recensione vi avevo parlato di ballate, in effetti se l’è tenuta per ultima, un bel duetto con l’autrice Marcia Ramirez, Let Him è una classica slow ballad texana di quelle perfette e conclude su una nota positiva un album che conferma Brandon Rhyder tra i nomi da tenere d’occhio, se amate il genere.

Bruno Conti  

Un “Folksinger” Anomalo! Ty Segall – Sleeper

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Ty Segall – Sleeper – Drag City Records

Ormai non passa giorno (ma è una tendenza in essere da qualche tempo, forse da sempre) senza che non siamo invasi da dischi che si rifanno a questa o a quella sonorità vintage, e anche Ty Segall , essendo un musicista “compulsivo”, dalle uscite discografiche estremamente ravvicinate e continue, tra LP, CD, EP, collaborazioni varie, almeno una quindicina di album usciti nei 5 anni passati dall’esordio omonimo del 2008, non si tira certo indietro. E avendo solo 26 anni rischia di battere anche i record detenuti in tempi recenti da Ryan Adams (che ultimamente si è placato) e Joe Bonamassa (in attesa del Live con Beth Hart, e forse qualcos’altro): il genere è diverso ovviamente, Segall si divide tra uno stile garage-indie-psichedelico nelle uscite con la band e ora questo folk acustico. ma sempre con una vena acida e indie, di Sleeper, che mi sembra abbia più di qualche punto di contatto con il Syd Barrett del dopo Pink Floyd, con meno classe ma il giusto impegno.

Come ha detto lo stesso Ty in alcune interviste di presentazione all’album, le canzoni del disco sono state ispirate dalla recente scomparsa del padre e anche dai cattivi rapporti causati dalle vicissitudini della madre, su cui non ha voluto approfondire ma alle quali ha dedicato il brano Crazy (e dire questo alla propria, e unica, madre, non deve essere certo cosa piacevole). Per la serie nulla si inventa e nulla si crea, o molto raramente, lo stile del disco potrebbe ricordare anche certe escursioni in territori “strani” di un Donovan o di un Roy Harper (ma magari manco li conosce ed è solo uno sfoggio di cultura musicale del vostro recensore).

I dieci brani che comprendono l’album hanno un substrato sonoro abbastanza uniforme, ovvero semplicemente chitarra acustica e voce, fanno eccezione l’iniziale Sleeper, cantata in un leggero falsetto straniante (più evidente in Crazy) e She don’t care, dove un violino e una viola cercano di ingentilire il suono crudo del disco, The Keepers dove una batteria leggera ed appena accennata anima l’atmosfera del brano e la rende più ricercata. E anche The Man Man dove un assolo acidissimo e inatteso di chitarra elettrica nella parte finale sembra apparire dal nulla. Il “trucchetto” è ripetuto anche verso la fine del disco, nella oscura Queen Lullabye, dalle sonorità volutamente lo-fi, peraltro presenti un po’ in tutto il disco e dove più che una chitarra elettrica sembra di ascoltare un aereo in volo. La conclusiva The West, viceversa, è proprio un brano da folk singer puro, addirittura country-blues, se volete.

Meglio il folksinger acido o il rocker? Vedremo alle prossime puntate, per il momento verdetto definitivo sul personaggio, almeno per il sottoscritto, sospeso, ma il disco ha un suo fascino “perverso” (dal nome di uno dei tanti gruppi in cui ha suonato)! 

Bruno Conti

La Nuova “Hippie Generation”! Edward Sharpe And The Magnetic Zeros

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Edward Sharpe & The Magnetic Zeros – Vagrant/Rough Trade/Gentlemen Of The Road –  2013

Dopo gli Arcade Fire ( in attesa del nuovo Reflektor in uscita a fine ottobre), Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, sono, per chi scrive, la band “indie-folk-rock” più innovativa apparsa negli ultimi anni  nel variopinto panorama musicale americano. Il gruppo nato sulle ceneri degli Ima Robot (una band power pop) di cui Alex Ebert era il leader, si forma nel 2007 sotto lo pseudonimo Edward Sharpe & The Magnetic Zeros ed esordisce con l’EP Here Comes, seguito dal disco Up From Below (2009), a tre anni di distanza arriva il secondo lavoro Here (2012), accolto favorevolmente dagli addetti ai lavori, e adesso questo terzo capitolo (che porta lo stesso nome della band), pubblicato dalla nuova etichetta dei Mumford & Sons, con i quali hanno condiviso i palchi durante il Railroad Revival Tour.

Da menzionare anche l’esordio solista di Elbert con Alexander (2011), dove nel brano Glimpses (una delle più belle ballate degli ultimi anni) sembra di sentire cantare il grande Sam Cooke. Questa comunità di musicisti (girovaghi) californiani, con il capo carismatico Alex Ebert e gentile signora Jade Castrinos, conta all’occorrenza dai dieci ai sedici componenti, che suonano una “miscellanea” di generi musicali, mischiando il folk, il rock, della musica hippie con sonorità anni sessanta, il tutto con una solarità che rende i loro dischi assai piacevoli all’ascolto.

Questo ultimo lavoro è un insieme di brani ben suonati, ben arrangiati e assolutamente deliziosi a partire dal trittico iniziale, Better Days, Let’s Get High (molto “beatlesiana), e una deliziosa Two con la bella voce della Castrinos in evidenza. Il viaggio riparte con lo splendido gospel-soul di Please!, e se Country Calling è  solo un brano gradevole, Life Is Hard e If I Were Free hanno una marcia in più, in confronto alle uscite di questo periodo. In The Lion mischia sonorità varie con un tocco di reggae, mentre They Were Wrong è quanto di più vicino all’ultimo Cohen, per poi cambiare ancora ritmo con una “balneare” In The Summer, giusto preludio al romanticismo di Remember To Remember dove ci delizia ancora il canto di Jade e alla perla del disco, una This Life di una bellezza disarmante, una “performance” da brividi di Alex, che certifica (ancora una volta) la bravura del leader. La versione per il download digitale contiene tre bonus-tracks,  Give Me a Sign, When You’re Young e Milton, brani “danzerecci” di piacevole ascolto, che fanno muovere il piedino.

E’ davvero facile innamorarsi di Edward Sharpe e dei suoi Magnetic Zeros, una band che ha colpito nel segno, distaccandosi da qualsiasi “trend” contemporaneo, per tessere stretti legami con un passato folk hippie. Per quanto mi riguarda, era da tempo che non sentivo dei “fricchettoni”, così ispirati. Da sentire assolutamente.

Tino Montanari

Sarà “Vero” Country? Alabama & Friends

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Alabama & Friends – Showdog/Universal Music

Gli Alabama, stando al loro sito, festeggiano 40 anni di successi con questo tribute album, Alabama & Friends, un disco di duetti con alcuni dei nomi più famosi della attuale country music: anche se il primo album ufficiale per la RCA usciva nel 1980 e prima, quando non si chiamavano ancora Alabama ma Wildcountry, dal fatidico 1972 al 1976 non avevano pubblicato nulla, e i primi 3 album, quelli indipendenti, sono usciti, tra il 1976 e il 1979. Va bene che le date sono degli optional,  ma sarebbe come se gli Stones avessero festeggiato i loro 50 anni di carriera, iniziando a contare dal ’62 quando iniziava l’attività concertistica! Come dite? Hanno fatto proprio così! Strano. Comunque diciamo che sono in pista da parecchi anni e sono sempre gli stessi tre: i cugini Randy Owen e Teddy Gentry e il lontano cugino e chitarrista Jeff Cook. Per i “nostri” lettori in teoria sarebbero tra i nemici del country di qualità, ma in America anche gli artisti che ci piacciono sono scesi in campo in massa per sfatare questa leggenda (oltre a questo disco è uscito anche un altro tributo, High Cotton, dove appaiono Old Crow Medicine Show, Jason Isbell, Amanda Shires, Lucero, Todd Snider, Jason Boland e molti altri che certo non si possono definire paladini del country di Nashville).

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Ma anche in questo CD, a fianco di alcuni nomi canonici dell’establishment country, troviamo artisti amati e rispettati anche da chi non ama il suo country per forza caramelloso e commerciale. E in fondo (ma molto in fondo) anche gli Alabama hanno sempre avuto una tendenza verso il rock e il southern. Si tratta del primo disco con materiale originale (due canzoni, ma diamogli tempo) da una decina di anni a questa parte ed è subito entrato nei Top 10 di Billboard. Ma quello che voi vorrete sapere è, trattasi di “vero country”? E la risposta, chiara e lampante, è: si e no! Bisogna sempre intendersi di quale country si parla.

Quello roccioso e sudista (esageriamo!) dell’iniziale Tennesse River, con Jason Aldean a duettare con Randy Owen mentre le chitarre elettriche si danno da fare e  ci sono vari inserti country-rock con violini e steel. O quello più “ufficiale” ma non troppo bieco di Love In The First Degree, con le sue classiche armonie vocali che sono puro Alabama sound, mentre accompagnano l’onesto Luke Bryan. O ancora la ballata strappalacrime Old Flame, cantata dai Rascal Flatts, dove tra pedal steel piangenti e atmosfere malinconiche cominciano ad affiorare gli zuccheri. Che poi rischiano di causarti un attacco di diabete con gli archi (o è un non meglio identificato Synthezier(?!?) uno strumento o un errore di stampa) in un brano come Lady Down In Love dove il duetto tra Owen e Kenny Chesney, più che Waylon & Willie ricorda i brani di Kenny Rogers. La Eli Young Band cerca di spostare l’asse verso un country-rock più movimentato ma sempre secondo i canoni classici di Nashville. Anche Trisha Yearwood rischia di soccombere ai fiati e agli archi schierati per la ballata Forever’s As Far As I’ll Go e alla fine, anche con la sua bella voce e le armonie degli Alabama, deve alzare la bandiera a stelle e strisce.

She And I cantata da Toby Keith, nonostante una steel malandrina non è che ti faccia sobbalzare sulla poltrona, mentre i Florida Georgia Line con I’m In A Hurry (And Don’t Know Why) cercano di buttarla sul rock, ma il contrasto tra dobro, banjo e drum programming non è sempre felicissimo, sembra la solita Nashville. E anche le due nuove canzoni degli Alabama (ma non le hanno scritte loro), la lenta That’s How I Was Raised e la patriottica All American, sono tipiche del loro repertorio ma non particolarmente memorabili, ma neppure brutte, quella terra di mezzo che ha sempre caratterizzato la band sudista, vorrei ma non posso. Ci hanno venduto 75 milioni di dischi, quindi forse hanno ragione! Salva baracca e burattini una versione notevole del loro cavallo di battaglia My Home’s In Alabama cantata da Jamey Johnson che ci porta in “the other side of Nashville”, sempre country ma con quel certo non so che, peccato per gli archi aggiunti ma gli intrecci di chitarre, steel e armonica nella parte strumentale sono puro southern rock, sufficienza stiracchiata, per aficionados del genere.

Bruno Conti     

Meglio Di Quanto Ricordassi! Gary Moore – Back On The Streets Ristampa Potenziata

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Gary Moore – Back On The Streets – Universal 24-09-2013 UK 1-10-2013 ITA

Sono passati all’incirca due anni  e mezzo dalla morte di Gary Moore, avvenuta nel febbraio del 2011, e dopo la pubblicazione, soprattutto di materiale dal vivo inedito, da parte della Eagle/Edel che era l’ultima etichetta dell’artista irlandese, ora anche la Universal comincia a ristampare i vecchi dischi del chitarrista. E lo fa partendo proprio dal primo disco solista di Moore (se non contiamo Grinding Stone che era uscito nel 1973 come Gary Moore Band, disco interlocutorio ma non malvagio, dopo gli anni con gli Skid Row, non quelli “terribili” americani, ovviamente): il disco, pubblicato in origine nel 1978 dalla MCA, risentito oggi, a parere di chi scrive, non è per nulla male, anzi, decisamente un buon disco di rock. Rock in tutte le sfaccettature: hard rock, jazz-rock, blues rock, rock melodico e persino punk rock. Con tutta la maestria di Gary, che anche se non sempre viene riconosciuto tra i maestri dello strumento, è comunque un signor chitarrista. Gli anni passati nei Colosseum II e i vari passaggi con i Thin Lizzy del suo grande amico Phil Lynott hanno lasciato un segno più che evidente sullo stile eclettico e forse un po’ frammentario di Back On The Streets. Ma anche se quelli erano gli anni dell’esplosione del punk e della new wave in Gran Bretagna, il rock classico aveva sempre un forte seguito tra gli appassionati e gruppi e solisti non erano irreggimentati in generi a compartimento stagno.

E così nel disco vengono praticamente utilizzate due formazioni: quella jazz-rock dei brani dal 4 al 7, dove a fianco di Moore sono nuovamente Don Airey alle tastiere e John Mole al basso, reduci dall’appena terminata avventura con i Colosseum II e con l’aggiunta di Simon Phillips alla batteria, soprattutto nei tre strumentali, la lunga Flight Of The Snow Moose, Hurricane e What Would You Rather Bee Or A Wasp, che dimostrano che non avevano nulla da invidiare nelle loro evoluzioni a velocità supersonica  a formazioni come i Brand X di Phil Collins o i Gong di Pierre Moerlen, senza risalire a Mahavishnu Orchestra, Return To Forever o Tony Williams Lifetime. Ma c’era tutto un florilegio di chitarristi inglesi in quegli anni, da Allan Holdsworth a Gary Boyle, passando per lo stesso Jeff Beck, che frequentavano questo genere musicale, magari un po’ turgido e iper tecnico che però ha sempre avuto molti seguaci. Ma nel disco c’è anche l’hard poderoso dell’iniziale Back On the Streets, dove Phillips e Airey dimostrano di saperci fare anche in un ambito rock, la chitarra solista raddoppiata di Gary Moore ricorda molto il sound dei Thin Lizzy e il wah-wah innestato nell’assolo è devastante.

Phil Lynott canta e suona il basso, con Brian Downey alla batteria, in una magnifica versione della “sua” Don’t Believe A Word, una delle più belle canzoni scritte dal colored irlandese, anche con il suo repentino cambio di tempo nel finale, grande brano, con la chitarra di Moore che attinge a sonorità mutuate dal suo grande maestro Peter Green! La stessa formazione accelera ulteriormente temi e ritmi, in una frenetica Fanatical Fascists, scritta sempre da Lynott, ma cantata da Gary, che per la veemenza potrebbe ricordare il punk di gruppi come i Clash o gli Stiff Little Fingers che imperavano in quegli anni. In mezzo ai brani jazz rock c’è una strana Song For Donna, una canzone d’amore che illustra anche il lato più dolce della musica di Moore, sempre presente negli anni, con delle ballate spesso melodiche (e scritte con Lynott) come la insinuante Parisienne Walkways, qui cantata da Phil ma che sarebbe diventata un cavallo di battaglia imprescindibile nei concerti di Moore e il suo primo grande successo nelle classifiche inglesi, una via di mezzo tra le melodie di Peter Green e Carlos Santana.

Il brano Track Nine, il primo delle bonus tracks, nonostante il nome, non ha nulla a che vedere con gli esperimenti dei Beatles, ma è sempre un furioso jazz-rock, mentre l’altra bonus, Spanish Guitar, uscita nel 1979 come singolo in Norvegia, appare in ben tre versioni (non c’era altro?), una cantata da Lynott, una da Moore e una strumentale ed è una specie di variazione sul tema francese di Parisienne Walkways, questa volta in “salsa” spagnola e santaneggiante. In definitiva un bel dischetto, considerando anche che esce a prezzo speciale,  per la gioia degli amanti dei chitarristi, ma non solo, un ulteriore tassello nella carriera di Gary Moore, che toccherà i suoi vertici nel periodo Blues!

Esce a fine mese.

Bruno Conti   

Non Tutto E’ Perduto, Anzi! The Strypes – Snapshot

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The Strypes – Snapshot – Virgin/Universal 10-9-2013 UK – 24-9-2013 ITA

Ma quindi non tutto è perduto, esistono delle boy band, perché qui l’età media è tra i 15 e i 17 anni, che fanno musica di qualità! Sento rumoreggiare, lo so che il termine boy band e qualità sembrano incompatibili tra loro, ma nel caso di questi quattro baldi giovanotti provenienti dall’Irlanda, si possono fare coincidere. Di solito non mi faccio incantare dall’hype che arriva dal Regno Unito (anche se loro sono della vicina Irlanda), ma persino Mojo ha assegnato al disco d’esordio degli Strypes, Snapshot le canoniche 4 stellette che di solito si danno ai buoni dischi, magari non capolavori, ma album solidi.

Le pettinature sono quelle dell’epoca degli Yardbirds, degli Small Faces, dei Them, il genere musicale pure, un misto di beat, R&B e blues, un pizzico di Nuggets, con l’esuberanza dei primi dischi dei Jam e le capigliature di due di loro che si rifanno anche al giovane Jimmy Page (il chitarrista naturalmente) e all’afro di Jimi. Dico questo con cognizione di causa perchè ho provveduto ad ascoltare in streaming il loro disco di esordio, che uscirà martedì 10 nella perfida terra d’Albione e un paio di settimane dopo, il 24 settembre anche sul suolo italico. Noi avremo solo la versione normale, ma in Inghilterra ne esce anche una versione singola Deluxe, quella col nome del gruppo in rosso e il titolo del disco in bianco, con quattri tracce extra, due dal vivo, tra cui una versione grintosa di CC Rider, e pure il vinile.

Ma anche nella versione basica, oltre ad una serie di brani firmati Farrelly/McClorey, ci sono gustose cover di Heart Of The City di Nick Lowe, Rollin’ And Tumblin’ e You Can’t Judge A Book By The Cover di Bo Diddley, che avrebbero dato del filo da torcere anche ai Dr.Feelgood e ai primi Stones. Jeff Beck, Paul Weller, Roger Daltrey e Noel Gallagher (ma questo era scontato) hanno espresso la loro ammirazione per il quartetto di Cavan, in attività dal 2008, quando andavano alle elementari penso. L’esibizione del gruppo a Glastonbury è stata notevole, e la potete vedere qui sotto.

Dal sound del gruppo non si direbbe, ma giuro che oggi è il 7 settembre 2013 e non 1966. Non dei “ffenomeni” ma dei bravi “gggiovani”! Potrebbero farsi (non in quel senso, ho dei lettori maliziosi)! Da aggiungere a Jake Bugg tra i giovani delle isole britanniche per i quali qualche euro si può anche sborsare.

Bruno Conti

Blues Come Ai “Vecchi” Tempi, Anche Troppo! Little G. Weevil – Moving

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Little G. Weevil – Moving – Apic/Vizztone

Comprendo ed approvo quei bluesmen che vanno alla ricerca delle radici della musica del diavolo, che so, una Rory Block o un John Hammond (ma anche quelli che se la schitarrano di brutto!), però mi sembra che in questo disco il buon Little G. Weevil abbia addirittura esagerato. Uno che all’anagrafe fa Gabor Szucs e viene dall’Ungheria, anche se è cittadino americano a tutti gli effetti, avendo sposato una ragazza di Atlanta, Georgia, dove vive, non può venirmi a dire nelle note del suo nuovo disco: “Sono innamorato del Blues crudo, vecchia scuola. Anche se ho iniziato elettrico (fino al 2011 su disco, NDB) mi ricordo ancora di quando ho acquistato per 75 dollari la mia prima chitarra a Memphis in un banco pegni” e aggiunge “Con questo disco ho voluto catturare ancora una volta il suono dei vecchi dischi, le registrazioni sul campo, dove sullo sfondo si sentiva un cane abbaiare, una sporta sbattere, una moto che passava…questa session è stata effettuata nel centro di Atlanta, dove Blindie Willie Mctell suonava per le piccole offerte dei passanti, in uno stanza 20×15, con solo un piccolo microfono al centro…e poi prosegue.

Ripeto, va bene l’autenticità, ma se per ottenere questo effetto volutamente distorci la tua voce in modo che sembri quella di un nero degli anni ’20, ma la chitarra si distingue alla perfezione, vai in solitaria solo canto, acustica, al limite con bottleneck, battito dei piedi per tenere il tempo, addirittura oscuri la tua foto in copertina per far sì che in controluce non si avverta il colore della tua pelle, tra il chiaro e lo scuro, valigia da emigrato in mano, mi sembra che sia troppo. Per sembrare Ray Charles uno si deve cavare gli occhi? O Solomon Burke, mangiarsi qualche bufalo intero per raggiungere quel peso? Ma poi lo diventi? Anche se viene dalla terra che ci ha dato Gabor Szabo, il nostro Gabor, pur avendo ricevuto la citazione come migliore nei Top 10 dei dischi Blues del 2012 della rivista Mojo e nel 2013 l’International Blues Challenge a Memphis, come miglior duo/solo performer, ha ottenuto questi ottimi risultati per un disco, The Teaser, uscito nel 2011, che era elettrico e vibrante, tra R&R e blues urbano e che forse, per chi scrive, non era il migliore di quell’anno (sarà stato perché il precedente era su etichetta King Mojo Records?) ma comunque un fior di disco.

Ora, per essere sinceri, perché è nella mia natura, e magari mi attiro l’ira dei puristi, devo ammettere che ascoltando questo disco qualche sbadiglio me lo sono fatto: ci sono anche due o tre brani dove è accompagnato da un trio, contrabbasso, armonica e batteria (notevole la conclusiva e poderosa Swing In The Middle, che ha qualcosa della grinta del grande John Lee Hooker, che Little G. Weevil cita tra le sue fonti di ispirazione), e la voce non è molto filtrata, ma la serie di brani originali firmati dallo stesso Little G. Weevil, a parte un traditional rivisitato, Let’s Talk It Over (Come On Baby), non a caso molto intenso, non mi sembra così straordinaria da superare un McTell o Robert Johnson, o Son House, Mississippi John Hurt, chi volete voi, e questo non lo fa nessuno, neanche nel rock, di essere originale e “nuovo” a tutti i costi, però mi sembra che in questo disco, peraltro consigliato se siete amanti del country blues acustico, si vuole invece essere “vecchi” a tutti i costi e non ci sia nulla di così straordinario, ma magari sbaglio io e ad altri piacerà moltissimo. Quindi un disco da tre stellette per addetti ai lavori, perché non è per nulla brutto, ma gli altri, se vogliono, possono anche astenersi. Vado a risentirmi qualche ristampa di Hendrix, ops,  Charley Patton!

Bruno Conti