Richard & Linda Thompson – La Coppia Regina Del Folk-Rock Britannico: Box Hard Luck Stories Parte II

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Seconda Parte.

Chapter 4. Pour Down Like Silver.

Richard e Linda Thompson ormai sempre più presi dalla loro conversione religiosa, tanto da apparire abbigliati in copertina con copricapi che rendono evidente questa svolta di vita, i due però incontrano anche delle difficoltà a continuare a fare musica: il Mullah di Richard vorrebbe imporgli di non fare più musica, o comunque di abbandonare la chitarra elettrica, ma dall’altro lato Richard non vorrebbe impedire a Linda di cantare “hai una voce bellissima e devi continuare a cantare” e quindi nell’estate del 1975 entrano nei soliti studi di Londra, di nuovo con John Wood, per registrare il nuovo album, che era l’ultimo per rispettare il contratto con la Island.

Nel frattempo Sheikh Abdul Q’adir li esorta a fare musica fintanto che si tratti di un omaggio a Dio, e un ispirato Richard scrive alcune delle sue più belle canzoni di sempre (a fianco di decine di altre) tra le quali Dimming of the Day, Beat the Retreat e Night Comes In, parlano tutte del tema della divinità e Thompson le riveste di alcune musiche superbe. E non è che le altre scherzino: Streets Of Paradise cantata con forza da Richard con i ricami vocali della moglie, gli arabeschi della fisa di Kirkpatrick e un robusto groove della ritmica affidata ai vecchi amici Dave Pegg e Dave Mattacks, è un piccolo gioiello, come pure la sublime For Shame Of Doing Wrong, cantata in modo divino da Linda, in una delle sue migliori interpretazioni di sempre, di nuovo a rivaleggiare con quelle di Sandy Denny.

Notevole anche The Poor Boy Is Taken Away, altra ballata stupenda (ho quasi esaurito gli aggettivi) cantata con voce cristallina da Linda, ma sono le tre canzoni citate i punti salienti dell’album: Night Comes In nei suoi oltre otto minuti sfiora quasi la perfezione con Richard che ci regala un grande interpretazione vocale e una parte strumentale finale di grande fascino, Beat The Retreat con una dolente interpretazione di Richard è un altro brano indimenticabile e la conclusiva Dimming Of The Day per molti è forse la più bella canzone mai scritta da Thompson, cantata in modo eccezionale da Linda, mentre Richard si riserva una coda strumentale, Dargai dove rilascia tutto il suo virtuosismo alla chitarra acustica.

Nelle sei bonus tracks ci sono le inedite Wanted Men, un bel pezzo rock cantato da Richard, l’altrettanto bella Last Chance cantata da Linda, un intimo demo di Dimming The Day e tre brani dal vivo da un concerto all’Oxford Polytechnic del 27 novembre del 1975, la breve ma intricata Things You Gave Me, la scatenata It’ll Be Me di Jack Clement a tempo di rock’n’roll con assolo fumante del nostro che poi ci regala una colossale versione di oltre 13 minuti di Calvary Cross: questi brani non sono inediti, erano giù usciti in In Concert, November 1975, pubblicato dalla Island in CD nel 2007, tuttora in produzione, ma questo non inficia il giudizio su questa versione di Pour Down Like Silver, altro capolavoro.

Chapter 5. The Madness Of Love Live 1975 & 1977. Questo è l’altro CD completamente inedito, tutto dal vivo, con materiale tratto da due soli concerti: il primo riguarda il set acustico del concerto del 25 aprile 1975 alla Queen Elizabeth Hall, per promuovere l’album dell’epoca Hokey Pokey, sei brani in tutto, con Richard alla chitarra acustica e i due che si dividono la parti vocali, si apre con lo strumentale Dargai, poi in sequenza una intensa Never Again, cantata da Linda, una rara cover della splendida Dark End Of The Street, sempre Linda ma alcune parti cantate all’unisono, Beat The Retreat è affidata a Richard, come pure The Sun Never Shines On The Poor, poi un’altra sorpresa, la divertente If I Were a Woman And You Were A Man.

Il secondo concerto arriva da un broadcast per Capital Radio e venne registrato il 1° maggio del 1977 al Theatre Royal di Londra e segue una lunga pausa del duo, con Linda che nel frattempo aveva avuto il secondo figlio Teddy nel 1976 (il primo con Richard), e giravano con uno “strano” gruppo definito Muslim Band e che fu abbastanza denigrato dalla stampa per il loro Islamic-Folk-Jazz: la formazione prevedeva Abdul Latif Whiteman alle tastiere, Haj Amin Evans al basso Abdul-Jabar (non quello dei Lakers) Pickstock alle percussioni e Preston Hayman alla batteria.

Cinque brani in tutto che dimostrano che repertorio e band non erano poi così male, anzi, anche io non le avevo mai sentite, forse su un bootleg e concordo con l’estensore delle note: The Madness Of Love rimasta inedita (a parte una versione di Graham Parker in un tributo a Thompson), come in parte le altre eseguite nella serata e previste per un album mai completato, non sono mai piaciute a Richard, comunque il pubblico presente apprezza, il nostro amico è in ottima forma vocale, doppiato dalla voce di Linda e la chitarra viaggia che è un piacere, ben sostenuta dalla band, a seguire una lunga versione, oltre 12 minuti, di The Night Comes In, con il liquido piano elettrico di Whiteman a seguire le acrobatiche divagazioni della solista, mentre Linda al solito canta in modo stupendo, ottima anche la corale a due voci A Bird In Gods Garden con un testo adattato da un poema di Rumi, un autore islamico, verrà incisa in seguito con French, Frith & Kaiser, e l’accompagnamento funky-jazz-rock nella lunga coda jam strumentale è eccellente.

Molto bella anche The King Of Love, sempre cantata all’unisono e con lavoro della chitarra di Thompson all’altezza della sua fama, chiude Layla, che non è quella di Clapton, ma il soggetto è sempre la stessa principessa persiana, con la band che imbastisce un classico groove “thompsoniano” (si può dire?), per permettere a Richard, che la canta con Linda, di indulgere di nuovo nelle sue superbe improvvisazioni all’elettrica, poi uscirà proprio su First Light. Una ottima scoperta!

Chapter 6: First Light. Dopo due anni passati nella comune Sufi a Norfolk, la coppia decide di tornare a Londra, e con sorpresa Richard scopre che Linda non aveva “abbandonato” il loro appartamento di Hampstead dove la coppia torna a vivere, e poco alla volta riprende a frequentare i vecchi amici, Joe Boyd in testa, che prima convince Thompson a suonare nel CD di esordio di Julie Covington, reduce dal successo travolgente del musical di Andrew Lloyd Webber Evita, dove rivestiva la parte principale, poi alcune collaborazioni con il giro Albion Band e altre cose, ma purtroppo di questo non c’è traccia, neppure nelle bonus, forse il prossimo cofanetto. Comunque assestata la situazione bisogna andare alla ricerca di un nuovo contratto discografico, che visti i “successi” a livello commerciale dei precedenti non si rivela una cosa facile, comunque alla fine si fa avanti la Chrysalis ed iniziano i preparativi per il nuovo album: ad accompagnare la coppia sarà un terzetto di formidabili musicisti americani, Andy Newmark alla batteria, Willie Weeks al basso e Neil Larsen alle tastiere, che nelle parole di Joe Boyd erano rimasti impressionati dalla abilità del nostro ed avevano espresso il desiderio di suonare con lui.

Nell’album suonano anche i vecchi amici John Kirkpatrick e Dave Mattacks, oltre ad una pletora di voci di supporto: dieci canzoni sono pronte alla bisogna, otto nuove e due traditional arrangiati da Thompson. Il disco, pur non ai livelli dei precedenti, si lascia ascoltare comunque con piacere, specie in questa nuova edizione rimasterizzata per la prima volta appositamente per l’edizione in box e ci sono pure 6 demo acustici inediti, solo voce e chitarra, tre, anzi quattro, cantati da Linda (inclusa la title track che è l’unica già pubblicata in precedenza) e due da Richard. Per il resto, nel disco originale, che anche il sottoscritto riascolta per la prima volta da almeno una quindicina di anni, ci sono brani di buona struttura, come l’iniziale avvolgente Restless Highway, il suono è sì più vicino al mainstream, anche se la produzione di John Wood, sempre a fianco di Richard, questa volta agli Olympic Studios, cerca di contenere certe concessioni ad un sound più americano, come nella ballata mistica quasi celtic soul Sweet Surrender, cantata da Linda, in altre canzoni, come nella sciapa Don’t Let A Thief Steal Into Your Heart si vira verso un funkettino leggero che neppure la chitarra del nostro riesce a redimere più di tanto, e anche l’arrangiamento con gli archi non giova.

Il traditional strumentale The Choice Wife è decisamente meglio grazie al virtuosismo di Richard, brano che poi converge nella intensa Died For Love, cantata questa volta splendidamente da Linda, con un coro di vari ospiti (Maddy Prior, Trevor Lucas, Iain Matthews, Jiulie Covington tra i tanti) che gli conferiscono un fervore tra gospel e folk, grazie anche all’accordion di Kirkpatrick e al whistle di Dolores Keane, già allora nei De Dannan. Anche la fascinosa Strange Affair, firmata con Martin Simpson e June Tabor, mantiene questa aura folk che rimanda ai dischi solisti di Sandy Denny che Linda ricorda sempre moltissimo. Layla, che nella versione già ascoltata dal vivo o in quella acustica, aveva un suo perché, qui, cantata da Richard, ha un suono rock abbastanza dozzinale, meglio Pavanne, un’altra potenziale bella interpretazione di Linda, che, credo per la prima volta, la firma insieme a Richard, però in parte manca del fuoco di altre canzoni simili, forse troppo turgida per quanto non mi dispiaccia.

House Of Cards utilizza il mega coro usato in precedenza, ma di nuovo l’arrangiamento con gli archi è troppo carico e sommerge la melodia della canzone, e anche la la title track, cantata ancora da Linda, viene sommersa a tratti da questi arrangiamenti fuori posto e troppo pomposi, insomma luci e ombre in questo album, che neppure il successivo Sunnyvista riesce del tutto a dissipare.

Chapter 7. Sunnyvista Neppure il Dottor Richard e l’infermiera Linda ritratti in copertina, forse pressati dalla casa discografica che richiede un album di successo a livello commerciale, riescono a cavare il classico coniglio dal cilindro, e nonostante il ritorno di vecchi amici inglesi come Timi Donald e Dave Mattacks alla batteria e Dave Pegg e Pat Donaldson al basso (all’epoca anche fidanzato con Kate McGarrigle, che appare con la sorella Anna nel disco, e segna l’inizio di una lunga amicizia con i Thompsons), oltre a tastieristi assortiti come Pete Wingfield e John “Rabbit” Bundrick, l’album ha un suono a tratti troppo “contemporaneo” e rock, tra l’altro messo ancora in maggior evidenza dal nuovo mastering impiegato nel box, per cui si sente splendidamente, ma le canzoni rimangono influenzate dall’atteggiamento, come ha detto il nostro amico a posteriori rispetto ai suoi dischi di fine anni ‘70, “ troppo flaccido ed indifferente”, forse fin troppo auto flagellatore, ma si capisce il senso di quanto detto.

Alcune canzoni mi piacciono parecchio, come You’re Going To Need Somebody, con l’interplay tra Thompson e la fisa di Kirkpatrick, e le armonie di Linda più le sorelle McGarrigle che sostengono Richard alle prese con un assolo dei suoi, oppure il country-rock di Lonely Hearts, con un suono che ricorda quello della sua amica Linda Ronstadt, e anche la splendida ballata Traces Of My Love, cantata con impeto e passione da Linda, aiutata dalle armonie celestiali della McGarrigles. Per non dire di Sisters altra sontuosa interpretazione degna delle migliori di Linda, con Richard superbo alla chitarra, e le McGarrigles solenni di cui sentiamo sempre più la mancanza; però ci sono anche canzoni funky come Justice In the Streets, con il ritornello che fa Allah, Allah, va bene che non avevano gradito del tutto ma…

Neppure l’iniziale Civilization brilla per inventiva, tipico Richard, ma eseguito male, Borrowed Times è pericolosamente vicino all’AOR, Saturday Rolling Around, una via di mezzo tra country, cajun e una giga, con Kirkpatrick in evidenza alla fisa e Richard alla chitarra è peraltro piacevolissima, accoppiata replicata nella title-track, tra tango e musica mitteleuropea alla Brecht, stile melò molto apprezzato da Linda a e anche il classic rock di Why Do You Turn Your Back? nell’insieme non dispiace. Insomma, visto a posteriori l’album non mi sembra poi così brutto.

Le bonus tracks prevedono Georgie On A Spree, lato B del singolo Civilization, nuova versione di un brano già apparso su Hokey Pokey, 3 demo di canzoni inedite non utilizzate nell’album, Lucky In Life, la delicata Speechless Child, sul tema dell’autismo e Traces Of My Love, entrambe cantate da Linda, poi ci sono tre canzoni, registrate con Gerry Rafferty nel 1980, che si era offerto di finanziarli e che anticipano il nuovo album, e dovevano anche servire per trovare un nuovo contratto discografico visto che anche la Chrysalis a questo punto li ha scaricati: tre versioni fin troppo lavorate di For Shame Of Doing Wrong, The Wrong Heartbeat e Back Street Slide, tanto che Richard litiga con Rafferty per i suoi metodi di lavoro e torna dopo anni a lavorare con il vecchio amico Joe Boyd, che li mette sotto contratto con la sua Hannibal, e insieme realizzano il canto del cigno della coppia, un capolavoro assoluto, il classico disco da 5 stellette.

Chapter 8. Shoot Out The Lights. Nel 1980, però si profila il “disastro” nella loro vita personale: Linda era incinta e quindi le registrazioni erano state rinviate perché erano insorti dei problemi di respirazione (poi negli anni a seguire peggiorati in una disfonia che le impedirà a lungo di cantare dal vivo), con Joe Boyd che aveva convinto Richard a fare un breve tour acustico negli States, organizzato da Nancy Covey. I due sviluppano una relazione intima con conseguente tradimento, e Linda decide di lasciare il marito: ma ci sono degli impegni da mantenere, il nuovo album da registrare e il successivo tour per promuoverlo. Il tutto verrà fatto, in una situazione ovviamente infernale, con tensione alle stelle, anche per gli altri musicisti. A dispetto di tutto, come ricordato prima, il disco Shoot Out The Lights è veramente stupendo, con una serie di canzoni superbe, realizzate con una band veramente motivata da Boyd, che produce come forse non gli capitava dai tempi dei Fairport Convention. Ed in effetti i musicisti sono quelli: Dave Mattacks batteria, Dave Pegg basso, Simon Nicol chitarra ritmica, più alcuni ospiti come i Watersons e Clive Gregson, oltre ad una piccola sezione fiati.

Il resto lo fanno le canzoni: la galoppante e profetica Don’t Renege On Our Love doveva essere cantata da Linda, che però per i problemi legati alla gravidanza, non riusciva a raggiungere la giusta tonalità, grande assolo di chitarra di Richard che suona anche la fisa in questo brano. Ma in Walking On A Wire Linda regala una delle performance vocali più belle della sua carriera, anche ispirata dal testo che recita nell’incipit “ I hand you my ball and chain/you hand me the same old refrain”, e la melodia si eleva sublime e il lirico assolo di Richard è magnifico. A Man In Need è uno dei suoi tipici brani rock corali, con i controcanti perfetti di Linda e degli ospiti e un altro assolo tagliente e conciso, in Just The Motion Linda convoglia nella sua voce un tale rimpianto che è quasi doloroso ascoltarla, ma non si può non ammirare il risultato finale di questa meravigliosa ballata.

Shoot Out The Lights ricorda i tempi felici a NY nel 1978, quando insieme scoprivano la nascente scena musicale della Grande Mela con Talking Heads e Television, con Byrne e Verlaine entrambi grandi ammiratori di Thompson, che per l’occasione compone una delle sue canzoni più intense e ricche di pathos, con una serie di assoli acidissimi e fenomenali, mentre la scandita Back Street Slide prevede ancora una solida prestazione corale della band e la vocalità all’unisono superba dei due.

Did She Jump or Was She Pushed?, una rara collaborazione tra i due come autori, è un’altra delle canzoni a più alto tasso emozionale, riflessiva ed amarissima, comunque splendida ancora una volta, e la conclusiva Wall Of Death, cantata a due voci, è la summa di quasi dieci di musica e di vita insieme, un commiato triste ma orgoglioso.

Il disco esce a marzo 1982 e poi i due si imbarcano in un tour americano periglioso ma che in alcune serate, in mezzo a mille tensioni, rinverdisce la vecchia magia tra i due, come testimoniamo i brani apparsi nel secondo CD della edizione Deluxe dell’album, pubblicata dalla Rhino nel 2010 e qui non utilizzati, anche se nelle bonus ci sono due brani da quei concerti, una riflessiva e soffusa Pavanne cantata in solitaria da Linda ed una esuberante High School Confidential che illustra l’amore di entrambi per il vecchio R&R, con assoli spaziali di Richard. Le altre bonus sono la B-side Living In Luxury, la reggata ma non disprezzabile The Wrong Heartbeat, sempre dalle sessions per l’album e migliore di quella nelle bonus di Sunnyvista, proveniente dai brani registrati con Gerry Rafferty, di cui ritroviamo altre due canzoni, l’adorabile I’m A Dreamer, un brano di Sandy Denny e un’altra versione rifulgente di Walking On A Wire, registrata prima del “disastro”, serena ed avvolgente.

E qui ci sta, imperdibile.

Bruno Conti

Gli Inizi Di Una Delle Band Fondamentali Del Folk-Rock Britannico. Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71

Steeleye Span box 1970-1971 All tings are quiet

Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71 – Cherry Tree/Cherry Red 3CD Box Set

Nonostante i Fairport Convention nel 1969 avessero raggiunto l’apice della loro carriera con il capolavoro Liege & Lief, il bassista e membro fondatore del gruppo Ashley Hutchings non era del tutto soddisfatto della direzione intrapresa, e quindi se ne andò per cercare di sviluppare un discorso più legato alla tradizione (anche Sandy Denny lasciò la band nello stesso periodo, ma questa è un’altra storia). Hutchings così si unì a Tim Hart e Maddy Prior, che erano già un affermato duo nei circuiti folk, e completò il nuovo quintetto con i coniugi Terry e Gay Woods, chiamando la nuova creatura Steeleye Span, proprio per riuscire a suonare quel tipo di musica che con i Fairport non riusciva più a fare, e cioè prendendo canzoni dallo sterminato songbook tradizionale inglese e scozzese (incluse molte delle cosiddette “Child Ballads”), e rivestendole con un arrangiamento che strizzava l’occhio a sonorità rock, con grande uso quindi di chitarre elettriche ed una sezione ritmica sempre presente: il risultato furono tre album di grande bellezza, dei quali almeno i primi due (Hark! The Village Wait e Please To See The King) sono considerati dei classici del folk-rock inglese. Oggi la Cherry Red riunisce quei tre album in questo bel boxettino intitolato All Things Are Quite Silent, corredato da un esauriente libretto con interessanti liner notes biografiche a cura di David Wells: i tre dischetti sono presentati così come sono usciti all’epoca, senza bonus tracks, con l’eccezione del terzo (Ten Man Mop, Or Mr. Reservoir Butler Rides Again, bel titolo corto e facilmente memorizzabile) che offre quattro tracce in più già uscite su una precedente ristampa del 2006. E’ chiaro che se già possedete questi album l’acquisto è superfluo, ma se viceversa conoscete gli Span più “commerciali” degli anni settanta (o non li conoscete affatto) direi che il box in questione diventa quasi indispensabile. Ma veniamo ad una disamina dettagliata dei tre album.

Hark! The Village Wait (1970). Inizio col botto da parte del gruppo, che aveva la particolarità all’epoca unica di presentare due voci soliste femminili: qui la line-up è completata da due batteristi che si alternano, entrambi con i Fairport nel destino, e cioè Dave Mattacks e Gerry Conway. I dodici brani presenti sono tutti tradizionali, con le eccezioni dell’introduttiva A Calling-On Song, un coro a cappella a cui partecipano tutti i componenti del gruppo, e l’intensa ballata che presta il titolo a questo box triplo, che ha comunque uno stile tipico delle canzoni di secoli prima. Il resto, come già detto, sono bellissime interpretazioni del songbook della tradizione britannica, a partire da una emozionante The Blacksmith, con la squillante voce della Prior a dominare ed un arrangiamento folk elettrificato, per proseguire con la drammatica Fisherman’s Wife, che vede il banjo cadenzare il tempo insieme alla sezione ritmica, Blackleg Miner, che fonde una melodia tipicamente British folk con un accompagnamento quasi “americano”, o Dark-Eyed Sailor, splendida e rockeggiante ballata dal motivo delizioso. Altri highlights di un disco comunque senza sbavature sono la squisita The Hills Of Greenmore, folk-rock di notevole impatto con un eccellente background sonoro per chitarre elettriche e concertina, la strepitosa Lowlands Of Holland, sei minuti di sontuoso folk elettrico dalla bella introduzione chitarristica, e la corale Twa Corbies (conosciuta anche come The Three Ravens), ricca di pathos.

Please To See The King (1971). Al secondo album la line-up cambia, in quanto le crescenti tensioni tra il duo Hart-Prior da una parte ed i coniugi Woods dall’altra, porta questi ultimi a lasciare la band, rimpiazzati dal grande cantante e chitarrista Martin Carthy, già molto conosciuto, e dal bravissimo violinista Peter Knight, che diventerà una colonna portante del suono degli Span. Please To See The King rinuncia alla batteria (come anche il suo successore), ma nonostante tutto preme ancora di più l’acceleratore su sonorità elettriche, diventando così l’album più popolare tra i tre, con versioni scintillanti di Cold Haily Windy Night, Prince Charlie Stuart, False Knight On The Road, Lovely On The Water (magnifica dal punto di vista strumentale), oltre ad una roboante Female Drummer, con la voce cristallina della Prior accompagnata in maniera pressante da violino e chitarra elettrica. Troviamo poi una diversa ripresa di The Blacksmith dal primo album, con Maddy circondata dalle chitarre e con un suggestivo coro, la bella giga strumentale Bryan O’Lynn/The Hag With The Money ed una versione di un pezzo che era già un classico per i Fairport, cioè The Lark In The Morning, molto più lenta e cantata anziché solo strumentale.

Ten Man Mop Or Mr. Reservoir Butles Rides Again (1971). Terzo ed ultimo lavoro con Hutchings alla guida del gruppo, questo album è meno cupo e più fruibile del precedente, anche se non allo stesso livello artistico (ma ci si avvicina molto), e “sconfina” fino a spingersi anche in Irlanda, cosa che non piacerà molto ad Ashley che, da buon purista, avrebbe voluto solo ballate di origine britannica. Ci sono due strepitosi medley strumentali, Paddy Clancey’s Jig/Willie Clancy’s Fancy e Dowd’s Favourite/£10 Float/The Morning Dew, ed altre ottime cose come la lunga Gower Wassail, con la voce solista declamatoria di Hart ed un bel coro alle spalle, la saltellante Four Nights Drunk, per sola voce (Carthy) e violino, con l’aggiunta della chitarra acustica nel finale, un’emozionante When I Was On Horseback, da brividi, la pimpante Marrowbones, che sembra quasi un canto marinaresco, e la vibrante Captain Coulston, tra le più intense dei tre dischetti. Come bonus abbiamo l’outtake General Taylor, un brano a cappella caratterizzato da eccellenti armonie vocali, e ben tre versioni del classico di Buddy Holly Rave On (anch’esse senza accompagnamento strumentale), la prima delle quali era uscita all’epoca solo su singolo. Dopo questo terzo album gli Span cambieranno manager, ingaggiando Jo Lustig che però vorrà spostare le sonorità del gruppo verso lidi più commerciali, cosa che causerà l’abbandono da parte di Hutchings (che fonderà la Albion Band) e Carthy, ma che aprirà nuovi orizzonti con album di grande successo come Parcel Of Rogues, Now We Are Six e All Around My Hat, lavori comunque molto belli che inaugureranno un nuovo capitolo di una storia che continua ancora oggi.

Marco Verdi

Ci Mancava: (Anche) Dal Vivo E’ Sempre Formidabile! Richard Thompson Band – Live At Rockpalast

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Richard Thompson Band – Live At Rockpalast – WDR/MIG 3CD/2DVD

Come probabilmente saprete Rockpalast è il nome di una famosa trasmissione televisiva tedesca, che iniziò a programmare negli anni settanta e continua ancora oggi, occupandosi di mandare in onda i concerti di alcuni tra i migliori musicisti mondiali: negli anni sono stati pubblicati diversi CD e DVD tratti da quelle serate, tra cui ricordo Ian Hunter, Lee Clayton, Willy DeVille, i Rockpile, Paul Butterfield, John Cipollina, Joe Jackson, George Thorogood e moltissimi altri. Oggi questa benemerita serie decide di omaggiare uno dei più grandi di tutti, cioè Richard Thompson, e lo fa in maniera sontuosa, con una sorta di mini-box contenente ben tre CD e due DVD, controbilanciando in un colpo solo i tre recenti album acustici del musicista britannico. Le serate interessate da questo cofanetto sono quelle di un concerto completo tenutosi nel Dicembre del 1983 alla Markthalle di Amburgo (che occupa i primi due CD ed il primo DVD) ed una parte dello show del Gennaio 1984 al Midem di Cannes (quindi eccezionalmente fuori dai confini teutonici). La tournée in questione è quella a supporto di Hand Of Kindness, secondo album solista di Richard dopo Henry The Human Fly (in mezzo c’erano stati i sei lavori con la moglie Linda) ed uno dei suoi più riusciti in assoluto, anche se stiamo parlando di un artista che non ha mai sbagliato un disco in vita sua. Per questo tour Richard aveva in un certo senso riformato i Fairport Convention di Full House, tranne Dave Swarbrick (giova infatti ricordare che lo storico gruppo folk-rock inglese in quel periodo non era in attività, ma avrebbe ricominciato solo due anni dopo): infatti troviamo assieme a Thompson Simon Nicol, che suona una stranissima chitarra a forma di scatola di Cornflakes, Dave Pegg al basso e Dave Mattacks alla batteria, anche se poi di canzoni dei Fairport non ne verrà suonata nemmeno una.

A completare la lineup, tre elementi determinanti come Pete Zorn e Pete Thomas, entrambi al sassofono, e soprattutto il formidabile fisarmonicista Alan Dunn, che con il suo strumento dona un irresistibile sapore di Louisiana a quasi tutti i pezzi. E poi naturalmente c’è Richard, uno dei migliori songwriters di sempre, ma anche un performer eccezionale, più che valido come cantante e strepitoso come chitarrista, anche se tutto ciò non lo scopriamo certo oggi. Chiaramente (sto parlando del concerto di Amburgo) la parte del leone la fa Hand Of Kindness, con ben sette brani su otto totali: si parte con The Wrong Heartbeat, un pezzo decisamente saltellante e diretto al quale la fisa dona un sapore cajun, seguita dalla quasi bluesata A Poisoned Heart And A Twisted Memory (un blues sui generis, con un songwriting di qualità superiore) e l’irresistibile Tear Stained Letter, dal gran ritmo ed ancora più di un’attinenza con sonorità zydeco (ed anche i sax fanno i numeri), per non parlare della strepitosa performance del nostro alla chitarra, che dà vita ad un finale entusiasmante. Poi abbiamo la bellissima title track, uno degli highlights della serata, cadenzata, coinvolgente e ricca di spunti chitarristici notevoli, la lenta How I Wanted To, una ballata ricca di pathos, la velocissima Two Left Feet, puro cajun al 100%, a cui è difficile resistere, e lo squisito folk elettrificato di Both Ends Burning. E’ molto ben rappresentato anche l’album Shoot Out The Lights (all’epoca ancora recente), l’ultimo ed anche il migliore di quelli incisi con l’ormai ex moglie, un vero capolavoro del rock internazionale e non solo degli anni ottanta: troviamo infatti una title track potente come raramente ho sentito, una Don’t Renege On Our Love solida e chitarristica, la sempre splendida Wall Of Death, una delle più belle del songbook di Richard e qui presente in versione davvero spettacolare, la guizzante Man In Need, favolosa, e la vibrante Back Street Slide.

C’è un’unica concessione di Thompson al suo passato discografico: Night Comes In era uno dei pezzi centrali di Pour Down Like Silver, e qui il nostro ne offre una rilettura straordinaria, fluida ed intensa, di ben undici minuti, con un assolo di chitarra semplicemente inarrivabile. Dulcis in fundo, troviamo ben sette cover: lo strepitoso folk-rock strumentale Amarylus, una vera goduria, il travolgente traditional Alberta con i due sax e la fisa di Dunn (che qui è anche voce solista) grandissimi protagonisti, l’insolita Pennsylvania 6-5000 di Glenn Miller, raffinata e jazzata, un godibilissimo divertissement che Richard dedica a sua madre; il gran finale è strepitoso, con quattro brani a tutto rock’n’roll uno in fila all’altro: il traditional Danny Boy, You Can’t Sit Down (Phil Upchurch, The Dovells) e l’uno-due finale da k.o. con due classici di Jerry Lee Lewis, Great Balls Of Fire e Highschool Hop (più noto come High School Confidential), entrambi suonati ai duecento all’ora. Basterebbe ed avanzerebbe questo concerto, ma è a questo punto molto gradita l’inclusione anche della serata di Cannes che, come ho già accennato è incompleta; c’è anche un cambio nella lineup, con la sezione ritmica di Pegg e Mattacks rimpiazzata da Rory McFarlane al basso e Gerry Conway (anch’egli futuro Fairport) ai tamburi. La scaletta è identica a quella tedesca, anche se si interrompe alla quattordicesima canzone omettendo le ultime sei, e le versioni sono tutte leggermente più brevi di quelle di Amburgo a parte Night Comes In che è più corta di tre minuti abbondanti, ma la qualità della performance è assolutamente analoga (un po’ meno quella della registrazione, specie da Wall Of Death in poi), con una menzione speciale per Tear Stained Letter e Hand Of Kindness che sono forse perfino miglori.

Decisamente un ottimo momento per i fans di Richard Thompson.

Marco Verdi

Recensione Pasquale! Paul McCartney – Flowers In The Dirt Super Deluxe. Parte 2: Il Cofanetto.

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Paul McCartney – Flowers In The Dirt – Capitol/Universal 3 CD + DVD – 2 CD – 2 LP

Alla fine degli anni ottanta Paul McCartney stava cercando un rilancio di vendite e popolarità dopo un periodo complicato dal punto di vista artistico (problema comune in quel periodo per molti musicisti della golden age): l’inizio della decade non era stato neanche male, con due album di buon successo, Tug Of War e Pipes Of Peace, ed il primo dei due tra i migliori mai pubblicati dall’ex Beatle; nel 1984 ci fu però il fallimentare progetto Give My Regards To Broad Street, disco e film, che se da un lato sul supporto audio, pur proponendo poche novità (ma rileggendo alcune pagine del songbook dei Beatles), riuscì a portare a casa il risultato, dal punto di vista del lungometraggio fu un flop totale. Ed anche il successivo album Press To Play (1986) fu un insuccesso, un lavoro poco ispirato, involuto, con canzoni non “alla McCartney” e dal suono troppo anni ottanta (forse il più grande passo falso della carriera di Macca). Una parziale risalita si ebbe un anno dopo con la doppia antologia All The Best, trainata dall’ottimo singolo Once Upon A Long Ago, ma il nostro già in quel periodo stava pensando a come rilanciare la carriera, e la soluzione più giusta gli sembrò quella di cercare nuovamente un partner per la scrittura delle canzoni come ai tempi dei Fab Four: il prescelto fu Elvis Costello, con il quale già dal 1987 Paul iniziò a scrivere ed incidere a livello di demo una lunga serie di brani che avrebbero dovuto costituire l’ossatura del nuovo album (un primo assaggio della collaborazione, Back On My Feet, era andata sul lato B di Once Upon A Long Ago).

La storia andrà poi diversamente, in quanto Paul in seguito avrà dei dubbi se quella della partnership con Costello fosse la strada giusta (nonostante i media stessero pompando la cosa aldilà della sua reale importanza, arrivando persino a definire Elvis il “nuovo Lennon”) e si metterà a scrivere altri brani per conto suo: Flowers In The Dirt (che uscirà nel Giugno del 1989), pur rivelandosi uno dei migliori album di McCartney, diventa dunque un ibrido, con soltanto quattro pezzi nati dalla collaborazione con l’occhialuto songwriter londinese (altri usciranno sul successivo album di Paul, Off The Ground, e sui due dischi del periodo di Costello, Spike e Mighty Like A Rose, mentre molti resteranno inediti). Anche la scelta di rivolgersi a ben sette produttori diversi (Trevor Horn, Chris Hughes, Mitchell Froom, Neil Dorfsman, David Foster, Steve Lipson e Ross Cullum, oltre a Paul stesso e Costello nei quattro pezzi scritti insieme) solitamente è sintomo di grande confusione, ma c’è da dire che se il nostro è riuscito a confezionare un lavoro con un suono unitario e compatto,  è merito anche del fatto che in tutti i pezzi vi è la medesima house band, che accompagnerà il nostro anche nel trionfale tour che seguirà (Hamish Stuart e Robbie McIntosh alle chitarre, Chris Whitten alla batteria, Paul Wickens alle tastiere, oltre alla solita presenza più che altro simbolica della moglie Linda) ed alcuni preziosi interventi di ospiti del calibro di David Gilmour, Nicky Hopkins e Dave Mattacks.

La prima parte del disco è quasi perfetta, a partire dall’apertura di My Brave Face, delizioso ed orecchiabile pop-rock dal ritornello coinvolgente, che è anche il primo singolo e la migliore delle quattro canzoni con Costello (e la sua mano si sente, specie nel bridge); con Elvis, Paul scrive anche la ballad You Want Her Too, unico duetto tra i due, un brano intenso e con un bel botta e risposta tra la voce melodica di Macca e quella ruvida di Mr. McManus, mentre anche due brani considerati minori come la funkeggiante Rough Ride e la jazzata e raffinatissima Distractions fanno la loro bella figura. Ma le due canzoni migliori del disco sono certamente la bellissima We Got Married, un gran bel pezzo che parte come un folk-rock ed assume tonalità quasi prog (all’acqua di rose, stiamo sempre parlando di McCartney), con due splendidi assoli floydiani di Gilmour  , e la cristallina Put It There, eccellente ballata acustica che, grazie anche all’arrangiamento ad opera di George Martin, rimanda direttamente al suono del White Album. La seconda parte (il vecchio lato B) parte benissimo con la roccata Figure Of Eight e la squisita pop song This One (altro singolo di successo), ma cala un po’ alla distanza: le altre due canzoni scritte con Costello, Don’t Be Careless Love e That Day Is Done, sono due ballate abbastanza normali per Paul, ed il pur gradevole reggae ecologista-pacifista How Many People, dedicato al sindacalista brasiliano Chico Mendes, ha un testo da terza elementare. Pollice verso invece per i due brani finali, la pesantissima Motor Of Love, lunga e noiosa ballata in più gravata da un arrangiamento gonfio, e la danzereccia Ou Est le Soleil, una mezza porcheria elettronica senza senso.

Oggi gli archivi di Paul si occupano proprio di questo disco, e l’edizione Super Deluxe è come al solito splendida dal punto di vista visivo, con ben quattro libri inclusi, pieni di testi, note, foto e curiosità varie, un DVD con i videoclip dei singoli estratti dall’album, un documentario inedito ed un altro, Put It There, uscito all’epoca e tre CD (dei quali il primo è il disco originale rimasterizzato) decisamente interessanti, anche se pure questa volta non sono mancate le polemiche. Intanto è strano che, dato che all’epoca Paul aveva deciso di fare una parziale retromarcia per quanto riguardava i pezzi con Costello, tutti e due i bonus CD sono incentrati sui demo incisi con lui, che se da un lato offrono una visione diversa (ed alcuni brani totalmente inediti), dall’altro mancano di documentare le versioni alternative dei pezzi scritti dal solo Paul (e lo spazio ci sarebbe stato, dato che i due dischetti durano mezz’oretta l’uno). La tracklist tra l’altro, nove brani a disco, è la stessa (e nello stesso ordine), con i soli Paul ed Elvis alle prese con i demo del 1987 sul secondo CD (dove si accompagnano con chitarre acustiche e pianoforte) e le versioni iniziali full band del 1988 sul terzo (ma sempre con Elvis in session), con anche diversi pezzi che poi non avrebbero trovato spazio sull’album. Se The Lovers That Never Were in versione duo ha chiaramente bisogno di essere rifinita (ed infatti sul dischetto “elettrico” risulta molto meglio), Tommy’s Coming Home è bellissima così com’è, due voci, due chitarre e melodia fresca e beatlesiana; Twenty Fine Fingers è un gradevole rockabilly alla Buddy Holly (irresistibile la versione full band) che poteva stare tranquillamente sul disco originale, mentre la deliziosa So Like Candy è davvero figlia dei Fab Four (ma la mano di Costello è evidente, tanto che la inciderà da solo e la metterà su Mighty Like A Rose).

I due CD proseguono con le quattro canzoni poi finite sull’album (e My Brave Face si conferma la migliore del lotto) e si concludono con la frenetica Playboy To A Man, meglio nella versione elettrica. La cosa che però ha mandato più in bestia i fans è la decisione, pare di Paul stesso, di includere altri brani, tra cui tre demo aggiuntivi e tutti i lati B dei singoli dell’epoca, soltanto come download digitale, scelta assurda considerando il fatto che lo spazio sui bonus CD non mancava e, soprattutto, che è senza senso spendere una cifra vicina ai 150 Euro per poi doversi anche scaricare dei pezzi. In ogni caso, anche il contenuto della parte download è interessante, con alcune B-sides accattivanti come la già citata Back On My Feet, l’incalzante e vigorosa Flying To My Home (che avrebbe dovuto assolutamente finire sul disco) e la vibrante ballata pianistica Loveliest Thing. Vi risparmio i vari remix della già brutta Ou Est Le Soleil, ed anche il raro singolo per i DJ Party Party, ma vorrei citare i tre pezzi finali, tratti da una cassetta demo ancora di McCartney e Costello, con le discrete I Don’t Want To Confess e Mistress And Maid e la splendida Shallow Grave, un vero peccato che sia rimasta nei cassetti. (*NDB Che uscirà il 21 aprile per il Record Store Day, proprio in formato musicassetta)!  A monte di tutti i possibili difetti (e quello del “download only content” è a mio parere imperdonabile), una delle migliori ristampe della serie, che avrà il merito di fare felici non solo i fans di Macca ma anche quelli di Elvis Costello.

Marco Verdi

Il Mezzo Secolo Di Una Band Leggendaria! Fairport Convention – 50:50@50

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Fairport Convention – 50:50@50 – Matty Grooves CD

I Fairport Convention, forse il miglior gruppo folk britannico di tutti i tempi (specie nei primi anni, ed in particolare nel 1969, un vero e proprio “dream team” con all’interno gente del calibro di Richard Thompson, Sandy Denny, Ashley Hutchings e Dave Swarbrick, credo che solo nei Beatles ci fosse più talento tutto insieme) non è mai stato allergico alle auto-celebrazioni, anzi: più o meno dal 25° anno di attività, ogni lustro hanno pubblicato un disco, dal vivo o in studio, che festeggiasse l’evento, e quindi figuriamoci se si lasciavano sfuggire l’occasione delle cinquanta candeline (il loro esordio discografico è del 1968, ma come band esistevano già da un anno, *NDB Così l’anno prossimo possono festeggiare di nuovo). A voler essere pignoli, gli anni sarebbero meno, in quanto i Fairport, a parte le annuali reunion a Cropredy che oggi sono diventate un must, di fatto non sono esistiti come band nel periodo dal 1979 al 1985, anno in cui Simon Nicol, unico tra i membri fondatori, e Dave Pegg, altro capitano di lungo corso (e complessivamente ad oggi il più presente in assoluto nelle tante line-up del gruppo), insieme al nuovo Ric Sanders (in sella ancora oggi), al rientrante Dave Mattacks (in seguito sostituito da Gerry Conway) e, un anno dopo, a Martin Allcock (a cui negli anni novanta subentrò Chris Leslie), decisero di riformare la vecchia sigla per il discreto Gladys’ Leap.

Una critica che viene spesso rivolta all’attuale formazione dei Fairport, la più longeva di sempre, è di essere un gruppo di onesti mestieranti senza alcun fuoriclasse al suo interno, e specie nei primi anni della reunion c’era chi faceva fatica ad accettare che il gruppo fosse guidato da Nicol (che obiettivamente nella golden age, gli anni sessanta, era il componente di minor spessore artistico), ma col tempo la situazione si è normalizzata, anche perché i cinque, pur non sfornando nuovi capolavori all’altezza di Unhalfbricking o Liege & Lief, hanno sempre pubblicato album più che dignitosi, alcune volte ottimi, sicuramente piacevoli, di classico folk-rock nella miglior tradizione britannica, senza mai scendere sotto il livello di guardia (meglio anche, per fare un esempio, dei tre LP usciti prima del loro scioglimento nel 1979, Gottle O’Geer, The Bunny Bunch Of Roses e Tipplers Tales, forse il punto più basso della loro storia). E l’album appena pubblicato per celebrare il mezzo secolo di attività (per ora in vendita solo sul loro sito, dal 10 Marzo sarà disponibile ovunque), 50:50@50, è indubbiamente uno dei più riusciti degli ultimi vent’anni: un disco suonato alla grande ed inciso benissimo, e d’altronde i nostri sono dei musicisti talmente capaci ed esperti che, quando li sostiene anche l’ispirazione, è difficile che sbaglino il colpo.

Il CD, quattordici brani, è diviso esattamente a metà (50:50, e qui si spiega il titolo) tra brani in studio nuovi di zecca e performances dal vivo (registrate in varie locations negli ultimi due anni), dove però si evita di riproporre per l’ennesima volta i classici assodati, rivolgendosi a pagine meno note: come ciliegina, un paio di grandi ospiti che aggiungono ulteriore prestigio al lavoro. Ma direi di analizzare il contenuto, cominciando dai sette brani in studio e passando poi ai live (anche se sul CD la distinzione non è netta, anzi le due diverse situazioni si alternano). Eleanor’s Dream, scritta da Leslie (in questo album il songwriter e cantante di punta, assume quasi la leadership a discapito di Nicol) apre benissimo il disco, una rock ballad elettrica, solo sfiorata dal folk, con un bel refrain ed un arrangiamento vigoroso, un ottimo inizio per un gruppo che dimostra subito di non aver perso lo smalto. Step By Step è una deliziosa ballata dalla melodia tenue e limpida, punteggiata da un delicato arpeggio, mentre Danny Jack’s Reward è il rifacimento di un brano apparso nel 2011 su Festival Bell, uno strumentale scritto da Sanders e qui rafforzato dalla presenza di una vera e propria orchestra folk di otto elementi, che mischia archi e fiati, un pezzo trascinante ed eseguito con classe sopraffina, uno degli highlights del CD. L’acustica e bucolica Devil’s Work è puro folk-rock, un genere che i nostri hanno contribuito ad inventare (magari non in questa formazione, ma lasciamo stare), l’autocelebrativa Our Bus Rolls On è più canonica comunque sempre piacevole, con un motivo da fischiettare al primo ascolto. The Lady Of Carlisle è un delizioso traditional elettroacustico che vede la partecipazione alla voce solista di Jacqui McShee, ex ugola dei Pentangle, creando così un ideale ponte tra i due gruppi più leggendari della scena folk britannica, mentre la breve Summer By The Cherwell, scritta dal collega ed amico PJ Wright, è una cristallina folk ballad, pura e tersa, tra le più immediate del disco.

E veniamo alla parte dal vivo, il cui punto più alto è certamente una versione del noto traditional Jesus On The Mainline (reso immortale negli anni settanta da Ry Cooder), grazie alla presenza alla voce solita nientemeno che di Robert Plant: l’ex cantante dei Led Zeppelin è da sempre un grande ammiratore dei Fairport (basti ricordare il duetto con Sandy Denny in The Battle Of Evermore, dal mitico quarto album del Dirigibile), e questa versione, tra rock, folk e gospel, è semplicemente strepitosa, al punto da lasciarmi la voglia di un intero album dei nostri insieme al lungocrinito vocalist. Gli altri sei brani on stage vengono da diversi periodi del gruppo, e solo due da prima della reunion del 1985: la frizzante Ye Mariners All è uno di questi due (era infatti su Tipplers Tales), un reel cantato, con violino e mandolino grandi protagonisti e ritmo decisamente vivace; splendida The Naked Higwayman, saltellante brano scritto dal folksinger Steve Tilston, un bellissimo folk-rock dal motivo coinvolgente (canta Nicol) ed eseguito in maniera perfetta, un genere nel quale i nostri sono ancora i numeri uno. La lunga e drammatica Mercy Bay è uno dei brani a sfondo storico che ogni tanto scrivono, una canzone abbastanza strutturata e complessa, ma non ostica, anche se pur mantenendo la base folk è indubbiamente moderna; Portmeirion è un malinconico strumentale costruito intorno ad una melodia per violino e mandolino, tra i più noti di quelli usciti dalla seconda fase della carriera del gruppo. Completano il quadro la corale Lord Marlborough, il più antico tra i pezzi dal vivo (apriva Angel Delight, album del 1971) e la struggente John Condon, che ricorda certe ballate folkeggianti di Mark Knopfler, senza la sua chitarra ovviamente.

In definitiva, un altro bel disco per un gruppo che, nonostante i cinquant’anni sul groppone, non ha perso la voglia di fare ottima musica. Consigliato.

Marco Verdi

Anche Solo In Quattro Si Davano Da Fare Alla Grande! Fairport Convention – Live In Finland 1971

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Fairport Convention – Live In Finland 1971 – Real Gone Music CD

I Fairport Convention, il gruppo folk-rock inglese per antonomasia (ancora attivo oggi, ed in maniera più che dignitosa), ha una delle discografie più ampie della nostra musica, sia in studio che dal vivo, con non infrequenti ristampe di concerti già editi sotto altri titoli. Però c’è una breve fase della loro carriera che non è molto nota, ed è quasi considerata di transizione: mi riferisco all’anno 1971 allorquando, in seguito all’uscita dalla band da parte di Richard Thompson dopo l’album Full House (uscita che seguì altre due defezioni “pesanti” come quelle di Sandy Denny ed Ashley Hutchings all’indomani del capolavoro Liege And Lief), i nostri rimasero in un’inedita formazione a quattro, composta da Simon Nicol alla chitarra e dulcimer, Dave Swarbrick a violino e viola, Dave Pegg al basso e Dave Mattacks alla batteria. In questa configurazione i Fairport pubblicarono due dischi in un anno (il 1971 appunto), il sottovalutato e poco noto Angel Delight ed il più conosciuto Babbacombe Lee.

Poi anche Nicol lascerà (momentaneamente) il gruppo per raggiungere Hutchings nella Albion Band, e sarà sostituito da Jerry Donahue e Trevor Lucas (entrambi ex Fotheringay) per gli ottimi Rosie e Nine, mossa che preluderà al gran rientro di Sandy Denny (nel frattempo divenuta moglie di Lucas) per Rising For The Moon, operazione che però non darà i frutti sperati e si rivelerà dunque estemporanea, ponendo fine alla seconda fase del gruppo e lasciandolo ad un passo dallo scioglimento.

Ma torniamo ai Fairport in formato quartetto, in quanto esce in questi giorni questo interessante Live In Finland 1971 per la Real Gone (quindi un live ufficiale, non uno dei soliti bootleg travestiti da broadcast radiofonici, anche se la copertina un po’ approssimativa e l’assenza dei classici caratteri con cui è abitualmente scritto il moniker del gruppo lo farebbero pensare), che colma finalmente una lacuna presentandoci la band in uno dei suoi momenti più “oscuri”. Sette canzoni per 35 minuti di musica (da questo punto di vista si poteva forse fare di più), il tour è quello di Angel Delight ed il periodo in cui i nostri transitarono nel paese delle renne è il mese di Agosto: tre brani sono tratti dall’album in questione (un disco da rivalutare a mio parere), mentre uno viene da Full House, uno da Liege And Lief, uno da un lato B di un singolo ed uno è un traditional inedito in studio. Il CD è inciso ottimamente, ed anche il livello della performance è decisamente alto: un concerto molto rock ed elettrico, ma con il violino di Swarbrick grande protagonista e spesso strumento solista (Dave era una delle massime autorità mondiali dello strumento, parlo al passato in quanto come sapete è da pochi giorni passato a miglior vita dopo anni di malattia http://discoclub.myblog.it/2016/06/03/volta-morto-davvero-purtroppo-75-anni-oggi-ci-ha-lasciato-anche-dave-swarbrick/ ), le voci sono in palla (cantano tutti) ed i brani vengono dilatati fino ad assumere talvolta i contorni di una jam session, con i nostri che ci danno dentro come dei matti, come se avessero uno stimolo in più nel non far rimpiangere l’assenza di un gigante come Thompson.

Apre il CD Bridge Over The River Ash, uno strumentale per violino solista, e quindi con Swarb grande protagonista e gli altri tre che sembrano quasi accordare gli strumenti, praticamente una breve introduzione per scaldare il pubblico; con The Journeyman’s Grace si inizia a fare sul serio: il pezzo, unico originale del disco (è scritto da Swarbrick e Thompson) è un perfetto showcase per le evoluzioni di Dave al violino e Simon alla chitarra, i quali, dopo un paio di strofe cantate a due voci, iniziano a darci dentro di brutto, ben seguiti dalla sezione ritmica di Pegg e Mattacks. Già da questo brano si intuisce che la leadership del gruppo, dopo la partenza di Thompson, comincia ad essere saldamente nelle mani di Swarbrick, cosa che sarà poi palese in Rosie. Mason’s Apron non appare su nessun disco dei Fairport, ed è una giga velocissima e trascinante, mi chiedo come facesse Dave a suonare con tale rapidità, è evidente all’ascolto la fatica che fanno gli altri tre a stargli dietro (ma alla fine ce la fanno): il suono è buono, anche se non eccelso, ma si può comunque ritenere più che soddisfacente. A metà canzone, Nicol dà il cambio a Dave concedendogli un po’ di riposo e facendo parlare la sua chitarra, ma poco dopo Swarb riprende in mano il pezzo per il gran finale e stende tutti. Sir Patrick Spens è, insieme a Sloth, Walk Awhile e Dirty Linen (praticamente tutti quindi) uno dei brani di punta di Full House: bella versione corale, con la melodia tipicamente tradizionale che viene fuori alla grande (anche con qualche stonatura qua e là) ed ottimo finale strumentale che vede come protagonista, indovinate…il violino! Matty Groves è un classico nelle esibizioni del gruppo, e viene suonato ancora oggi: con Nicol come voce solista, i quattro ci fanno sentire di che pasta erano fatti quando si trattava di lasciare andare gli strumenti; dopo aver proposto le strofe una dietro l’altra, i nostri si producono in una lunga fantastica jam elettrica durante la quale violino e chitarra letteralmente si urlano dietro, ma anche basso e batteria non perdono un colpo, sono in quattro ma sembrano in dieci.

La poco conosciuta Sir B. McKenzie’s Daughter’s Lament (versione accorciata di uno dei titoli più lunghi della storia, Sir B. McKenzie’s Daughter’s Lament For The 77th Mounted Lancers Retreat From The Straits Of Loch Knombe, In The Year Of Our Lord 1727, On The Occasion Of The Announcement Of Her Marriage To The Laird Of Kinleakie, praticamente un post a parte) è una gradevole giga strumentale, molto più folk oriented delle precedenti, ma con il ritmo sempre altissimo ed una tensione elettrica mai sopita. Il CD si chiude con Sir William Gower, un pezzo chitarristico e decisamente fluido, molto più rock che folk, con un grande Mattacks che picchia sui tamburi con la foga di un John Bonham o Keith Moon e Swarbrick per una volta nelle retrovie. Forse non il migliore live della carriera dei Fairport Convention, ma comunque un documento prezioso che finalmente fa luce su un periodo meno noto del combo britannico, ancor più apprezzato perché ci permette di ascoltare una volta di più quel geniale folletto del violino che era Dave Swarbrick.

Marco Verdi