Una Country-Rock Band Più Che Buona, Che Però Non Ha Nulla A Che Fare Con “Quelli Là”! The Burrito Brothers – The Notorious Burrito Brothers

burrito brothers the notorious

The Burrito Brothers – The Notorious Burrito Brothers – The Store For Music CD

Credo che i Flying Burrito Brothers, storico gruppo country-rock californiano nato da una costola dei Byrds (ovvero per mano di Gram Parsons e Chris Hillman, transfughi all’indomani del fondamentale Sweetheart Of The Rodeo), siano una delle band con la “timeline” più caotica per quanto riguarda i membri delle sue varie formazioni, detenendo infatti il record di non aver mai avuto la stessa lineup per due album consecutivi. A parte i loro primi due dischi, gli imperdibili The Gilded Palace Of Sin e Burrito Deluxe, direi che i nostri hanno mantenuto un profilo alto per almeno altri due-tre lavori (anzi, il terzo album, l’omonimo The Flying Burrito Brothers ed ultimo con Hillman in formazione, non è molto inferiore ai due precedenti), e comunque si sono difesi dignitosamente almeno fino a quando Rick Roberts ha fatto parte della squadra (NDM: per chi ancora non li conoscesse consiglio la strepitosa antologia del 2000 Hot Burritos! The Flying Burrito Brothers Anthology 1969-1972).

Man mano che passavano gli anni i FBB hanno visto avvicendarsi al loro interno una lunga serie di musicisti che poco o niente avevano da spartire con il nucleo originale, e verso la fine degli anni novanta hanno anche perso il suffisso “Flying”, che è diventato di proprietà di Hillman; dagli anni duemila in poi l’eredità del gruppo è stata portata avanti da onesti mestieranti sotto il moniker di Burrito Deluxe per tre dischi, The Burritos per uno e, dal 2018, The Burrito Brothers con il non disprezzabile Still Going Strong. Ora i Burritos ci riprovano, e fin dal titolo e dalla copertina (che richiamano entrambi The Notorious Byrd Brothers, famoso album dei Byrds – quello con l’asino al posto di David Crosby – che rappresentava la transizione della storica band tra il primo periodo folk-rock e psichedelico e la fase country-rock) cercano di appropriarsi di un passato che non gli appartiene, dato che il “veterano” del gruppo, il tastierista e cantante Chris James, è con loro appena dal 2010, mentre lo steel guitar player Tony Paoletta è arrivato nel 2013, il chitarrista e bassista Bob Hatter nel 2017 ed il batterista Peter Young è nuovo anche se qualche anno fa aveva già fatto brevemente parte della band.

Ma, a parte tutti i discorsi sull’opportunità dei quattro di chiamarsi così (e se è Hillman è d’accordo, chi sono io per contestare?), devo affermare che The Notorious Burrito Brothers è un bel dischetto di autentico country-rock di matrice californiana, che richiama volutamente le atmosfere della band alla quale i nostri si ispirano direttamente, ma che rimanda qua e là anche al suono di Poco e Eagles (due gruppi che comunque devono moltissimo agli originali FBB). Niente di nuovo sotto il sole, e nemmeno posso dire che questo album sia un mezzo capolavoro che aspirerà a diventare uno dei dischi dell’anno, ma sono certo che se lo farete vostro non rimpiangerete i soldi spesi (e di questi tempi è già molto). Tutti i brani sono originali, tranne le eccezioni che menzionerò durante la disamina: il CD si apre molto bene con Bring It, una limpida ed ariosa country-rock song dal motivo gradevole, ritmo spedito e chitarre ruspanti, che ricordano non poco gli Eagles con Joe Walsh alla voce solista (per la somiglianza del timbro di James). Sometimes You Just Can’t Win è un testo inedito scritto da Gram Parsons con Fred Neil e musicato dai nostri, altra tersa e solare ballata elettrica con piano e chitarre sempre in evidenza, un bell’omaggio alla memoria di Gram (e Fred) per uno dei pezzi più riusciti del CD. Love Is A River è il brano centrale del disco, una sorta di mini-suite di quasi dieci minuti nella quale i Burritos accennano almeno quattro diversi temi musicali passando da languide ballads a canzoni più mosse, con echi di Poco e FBB originali ed ottimo lavoro di steel (Paoletta è una piacevole sorpresa) e pianoforte.

Splendida la ripresa del classico di Dan Penn e Chips Moman Dark End Of The Street (che era anche su The Gilded Palace Of Sin), con la voce di James che qui ricorda abbastanza quella di Roger McGuinn, la steel protagonista e la nota melodia che scorre fluida e toccante; Do Right Man (ideale seguito della Do Right Woman sempre di Penn presente anch’essa sull’esordio dei FBB) vede come co-autore Ron Guilbeau, figlio di Gib Guilbeau che in passato fu a lungo membro dei Burritos, ed è un’altra cristallina ballata “alla Gram Parsons” che dona ulteriore lustro ad un disco che cresce brano dopo brano. Acrostic è un lento crepuscolare e delicato ma non particolarmente originale, mentre Gravity è uno spedito e delizioso pezzo elettroacustico a metà tra country-rock e bluegrass, che purtroppo finisce dopo neppure due minuti. Il CD termina con la bella Hearts Desire (che deriva da un testo inedito di Skip Spence, ex Moby Grape), altra country song elettrica e cadenzata dal motivo squisito e con le chitarre che tornano a farsi sentire, e con la tenue Wheels Of Fire, orecchiabile e squisita ballata dal forte profumo di California.

Quindi, anche se gli “Asinelli” non volano più, hanno dimostrato con The Notorious Burrito Brothers di saper fare musica piacevole e più che dignitosa.

Marco Verdi

E Questi Da Dove Spuntano? Però Molto Bravi! Loose Koozies – Feel A Bit Free

loose koozies feel a bit free

Loose Koozies – Feel A Bit Free – Outer Limits Lounge LP/Download

Da anni il mercato discografico indipendente americano è diventato una giungla quasi infinita, con decine e decine di uscite mensili di vario genere e livello: è ovvio che non è umanamente possibile stare dietro ad ogni nuovo solista o band che si affaccia sul panorama musicale, ma a volte capita di imbattersi in dischi che rispondono pienamente ai nostri gusti, e che magari sono pure belli. Un valido esempio è certamente questo Feel A Bit Free, album d’esordio dei Loose Koozies (avevano pubblicato solo un singolo nel 2018) quintetto proveniente da Detroit ma con un suono che non ha nulla a che vedere con la Motor City. Infatti i nostri non fanno rock urbano né hard né alternativo, ma suonano un’accattivante miscela di rock’n’roll e country di stampo quasi rurale e con un innato senso del ritmo e della melodia. Pura American Music quindi: i cinque non seguono le orme né di Bob Seger né di Alice Cooper (per citare due icone rock della capitale del Michigan), ma il loro sound ricorda da vicino i primi Uncle Tupelo ed i Son Volt, anche per il timbro di voce del leader E.M. Allen molto simile a quello di Jay Farrar (completano il gruppo il lead guitarist Andrew Moran, Pete Ballard alla steel, Erin Davis al basso e Nick German alla batteria).

Feel A Bit Free è prodotto da Warren Defever (leader della band alternativa His Name Is Alive), il quale si occupa anche di suonare piano ed organo, ed è quindi un ottimo dischetto che farà la felicità di quanti amano il country-rock alternativo a quello di Nashville: rispetto alle due band citate poc’anzi (Tupelos e Son Volt), qui la componente country è leggermente maggiore se non altro per il notevole peso specifico della steel nel sound generale, ma i ragazzi non si tirano certo indietro quando si tratta di arrotare le chitarre; last but not least, le canzoni sono ben scritte e sono tutte dirette e piacevoli, e quindi nei quaranta minuti di durata del disco non c’è un solo momento di stanca. Il dischetto inizia in maniera splendida con Easy When You Know How, un country-rock limpido e solare dotato di una melodia scintillante ed un bel suono elettroacustico molto roots, il tutto completato da ottime parti di chitarra: un avvio brillante. Nella cadenzata Forget To Think spunta la steel guitar anche se il brano è molto più rock che country, anzi l’approccio mi ricorda quello di gruppi come Jason & The Scorchers o Old 97’s, un pezzo coinvolgente e suonato alla grande; Marita è più morbida e countreggiante, una ballata in cui però la parte rock non è affatto sopita, un po’ come quando i Rolling Stones fanno (facevano) un pezzo country (ed il refrain è vincente), mentre con la saltellante Rollin’ Heavy torniamo in territori più propriamente country, pur con il suono elettrico tipico dei nostri con chitarre e steel a creare una miscela perfetta, unita ad un motivo delizioso.

Lotsa Roads è puro rock’n’roll, chitarre che riffano che è un piacere, gran ritmo e mood travolgente, in aperto contrasto con Sugar Notch, PA che è invece una turgida ballata elettroacustica dal sapore western-crepuscolare, con la chiara influenza di Gram Parsons, un’atmosfera evocativa ed un ispirato assolo da parte di Moran. Slow Down Time è il singolo di due anni fa, un rockin’ country diretto e gustoso ancora con le chitarre in evidenza ed uno squisito ritornello alla Tom Petty; una languida steel apre la strepitosa Hazel Park Race Track, altro pezzo trascinante che coniuga alla perfezione rock e country, in cui il canto “scazzato” di Allen si integra benissimo e ci porta alla bella Hills, una country ballad elettrica dal sapore quasi texano. Il disco termina con la lunga Something To Show, quasi sette minuti che si staccano decisamente dal resto del disco con i Koozies che ci propongono uno slow rarefatto ed etereo dai toni quasi psichedelici, per poi tornare subito coi piedi per terra con la conclusiva Last Year, puro country’n’roll a tutto ritmo, godibile ed avvincente.

Sentiremo ancora parlare dei Loose Koozies, sono pronto a metterci la firma.

Marco Verdi

*NDB Purtroppo non esiste la versione CD, solo LP o download digitale, come ultimamente, anche per la situazione globale, capita sempre più spesso.

Di Contea In Contea: Un Dischetto Corto Corto, Ma Bello Bello! Will Stewart – County Seat

will stewart county seat

Will Stewart  – County Seat – Cornelius Chapel CD

Will Stewart è un musicista originario di Birmingham, Alabama, che in anni recenti ha preso parte in prima persona a diversi progetti, come membro dei Timber, di Willie And The Giant e dei Blank State, tutte band abortite dopo qualche singolo ed EP (e, nel caso di Willie And The Giant, anche un full length), commercializzati esclusivamente in digitale. Ora, dopo diversi anni vissuti a Nashville dove ha respirato l’aria musicale della città, Will ha fatto ritorno in Alabama con un bagaglio di esperienza maggiore, ed esordisce come solista con questo County Seat, che finalmente esce anche come supporto fisico (anche se da solo aveva pubblicato qualche anno fa tre EP, ma sempre per il download). E County Seat è una vera sorpresa, un piccolo grande disco, ancora più gradito perché giunto come un fulmine a ciel sereno: Will è un cantautore di ottimo livello, che ha assorbito influenze che vanno da Bob Dylan a Neil Young, passando per Byrds e R.E.M., sa costruire melodie semplici ma di sicuro impatto, usando quando è il caso anche la musica country (ma non è un country artist, almeno non nel senso convenzionale del termine), retaggio dei suoi anni a Nashville.

Stewart è anche un bravo chitarrista (tutte le parti soliste le suona lui), ed in County Seat è aiutato da Les Nuby, che produce l’album insieme a lui, e da un ristretto gruppo di amici tra i quali spicca la splendida steel guitar di Ford Boswell, grande protagonista del disco, la seconda voce femminile di Janet Simpson e la sezione ritmica puntuale e precisa di Ross Parker (basso) e Tyler McGuire (batteria). Il CD inizia nel migliore dei modi con la splendida Sipsey, uno scintillante folk-rock, solare e diretto, con melodia dylaniana, suono jingle-jangle ed una bella steel alle spalle del nostro. Non si scende di livello con la seguente, deliziosa Rosalie, godibilissimo country-rock dal ritmo spedito e motivo vincente, impreziosito dalla voce della Simpson e da un altro gran lavoro di steel; Brush Arbor è lenta, delicata, con la chitarra acustica arpeggiata e puntuali ed azzeccati interventi dell’elettrica e, indovinate un po’, della steel. Dopo un brevissimo strumentale per doppia chitarra (Otis In The Morning) abbiamo l’intensa Heaven Knows Why, notevole ballata elettroacustica dal grande pathos, molto seventies e con ben presente la lezione di Gram Parsons.

Ancora Dylan come influenza principale nell’ottima Dark Halls, altro vibrante folk-rock d’altri tempi, puro, bellissimo e suonato in maniera perfetta: Will dimostra di avere un talento non comune, pur nella sua semplicità, ed il disco cresce di brano in brano (anche se purtroppo dura appena 27 minuti in totale): pezzi come Dark Halls non si ascoltano tutti i giorni. Equality, AL è uno slow di grande intensità, tra country e musica cantautorale, emozionante anche se con pochi strumenti, così come County Seat, più cadenzata ma sempre lenta, e con la solita strepitosa steel a ricamare di fino. Chiude la malinconica Mine Is A Lonely Life, finale per doppia voce e chitarra, una folk song purissima con qualcosa degli Everly Brothers nello sviluppo melodico. Come ho già detto, County Seat è un gran bel dischetto, e Will Stewart un artista che sa come regalare emozioni ed ottima musica.

Marco Verdi

Atmosfere Rarefatte Di Gran Classe! Adam James Sorensen – Dust Cloud Refrain

adam james sorensen dust cloud refrain

Adam James Sorensen – Dust Cloud Refrain – CRS CD

Adam James Sorensen, nonostante il cognome di origine nordeuropea, è americano, per la precisione di Chicago. Ma non fa blues, bensì una sorta di folk cantautorale di ottimo livello: le sue influenze vanno da Neil Young a James Taylor, ma Adam ha uno stile proprio, fatto di atmosfere lente, rarefatte, meditate. Le sue canzoni forse non saranno immediate, non troverete il ritornello da cantare dopo un solo ascolto, ma vanno assaporate a poco a poco, lentamente e con attenzione, ma nel farlo non potrete fare a meno di restarne colpiti. Sorensen, che ha esordito nel 2012 con Midwest, è un cantautore raro, che riesce ad emozionare con pochi strumenti: infatti nelle sue canzoni non troviamo mai suoni ridondanti, ci sono quasi sempre una chitarra, un pianoforte e poco altro, ed anche le pause ed i silenzi entrano a far parte del suono, rendendo l’insieme per nulla ostico. Dust Cloud Refrain è il suo nuovo lavoro, ed il sound dei nove pezzi contenuti riflette alla perfezione la splendida immagine di copertina, un paesaggio innevato e con il cielo che non promette nulla di buono.

Sorensen è un autore di sicura abilità, ha una buona voce, e si fa aiutare da pochi ma bravi sessionmen, tra cui spiccano sicuramente il polistrumentista olandese Jan Van Bijnen, ottimo tra le altre cose al pianoforte, il bassista Byron Isaacs (che ha suonato anche con Levon Helm, oltre a essere uno dei fondatori degli Ollabelle e a giugno pubblicherà il suo album di esordio), il violoncellista Christopher Hoffman e l’eccellente violinista Jeb Bows: il tutto prodotto con mano sicura da Jamie Mefford, uno dei collaboratori più stretti di Nathaniel Rateliff. Il CD inizia in maniera affascinante con l’intensa Steam Train, costruita intorno ad una chitarra acustica e un bellissimo pianoforte, con una ritmica soffusa ma spedita (che simula l’andatura del treno a vapore del titolo) ed un’armonica decisamente younghiana. Jane Dudley è ancora più lenta e spoglia, ma forse ha un’intensità perfino maggiore: chitarra arpeggiata, pianoforte ed uno splendido violino, oltre alla voce profonda del nostro; Boiling Over mantiene l’atmosfera malinconica https://www.youtube.com/watch?v=urgvPWlmVgo , ma il ritmo è più accentuato e c’è una bella steel a dare un tocco di cosmic country alla Gram Parsons, mentre la title track ha di nuovo il passo lento, anche se non c’è la minima noia in queste canzoni, grazie soprattutto al feeling del nostro e della sua abilità nello scrivere brani semplici ma profondi.

Boxcar ha elementi blues, ma un blues desertico, anzi direi lunare, con una slide minacciosa nell’ombra, la limpida Angel, pur mantenendo il mood notturno del disco, lascia filtrare un raggio di sole, come se fosse arrivata l’alba, ma Coming Back fa ripiombare tutto nel buio, solo voce, una chitarra appena sfiorata, un rintocco di piano ogni tanto ed un accenno di percussione: eppure il brano è tra i più intensi. L’album volge al termine, giusto il tempo per la fluida e distesa Mao Kong, decisamente interiore, e per Seasons, puro folk cantautorale di limpida bellezza, con una bella seconda voce femminile ed il pianoforte che fa ancora la differenza. Adam James Sorensen sarà anche un illustre sconosciuto, ma se gli darete fiducia le sue atmosfere non mancheranno di scaldarvi il cuore.

Marco Verdi

Tra Country E Cantautorato Puro, Proprio Un Bel Dischetto! Elijah Ocean – Elijah Ocean

elijah ocean bad dreams

Elijah Ocean – Elijah Ocean – New Wheel CD

Non avevo mai sentito parlare di Elijah Ocean, musicista originario del Maine, anche se poi ho scoperto che aveva già tre album alle spalle, l’ultimo dei quali, Bring It All In, risale al 2014. Sulla copertina del suo nuovo lavoro, l’omonimo Elijah Ocean, vediamo un giovane con un look molto anni settanta, quasi da chitarrista blues (stile Rory Gallagher per intenderci), ma la musica contenuta nel dischetto è tutt’altro che blues. I vari siti parlano di Ocean come di un countryman influenzato da gente come Neil Young e Gram Parsons, ma queste informazioni sono perfino riduttive (anche se tracce dell’ex Byrds ci sono): Elijah ha infatti un suo stile, non è country nel senso stretto del termine, ma un cantautore dallo stile molto classico, decisamente anni settanta (quindi non solo nel look), che però usa il country come veicolo espressivo: a me personalmente ha rammentato Lee Clayton, un bravissimo outsider di cui oggi non si ricorda più nessuno, sia nello stile diretto ed asciutto che per il tipo di canzoni, belle ed orecchiabili nello stesso tempo.

Elijah Ocean è infatti una vera sorpresa, un piccolo grande disco di puro songwriting country, con dieci canzoni una più bella dell’altra, suonate con stile classico da un manipolo di musicisti bravi ma sconosciuti, e prodotto in maniera asciutta, senza fronzoli. Chitarre, pianoforte, steel ed un violino ogni tanto, oltre alla voce espressiva del nostro, che dimostra in questi dieci pezzi di avere una penna mica da ridere, riuscendo a coinvolgere fin dal primo ascolto, con sonorità che profumano di West Coast (mentre, come abbiamo visto, lui arriva dal lato opposto degli States), un album che inizia nel migliore dei modi con la splendida Bad Dreams, rockin’ country di grande presa, suono molto seventies e ritmo e melodia vincenti. Niente male anche Chain Of Gold, una ballata cristallina e solare, ancora con un motivo limpido ed un approccio da cantautore classico, mentre Malibu Moon è una toccante ballata costruita intorno ad un splendido pianoforte, chitarra ed un violino malinconico, davvero bella anche questa (il ragazzo deve aver sicuramente ascoltato anche il leggendario primo album solista di John Phillips, John, The Wolfking Of L.A.): solo tre canzoni, e la mia attenzione è già catturata al 100%.

Highway riporta al centro il ritmo, un travolgente rock’n’roll dal sapore country, con una bella slide ed il solito refrain accattivante, Desert Rain è lenta ed intensa, sembra una ballad californiana scritta nel 1971 o 1972, con uno script solidissimo, a conferma che Elijah sa il fatto suo. La gentile Barricade profuma di country & western, Heavy Head è di nuovo tersa, diretta, godibile, una delle più riuscite del disco, mentre Still Where You Left Me è puro country, chitarrone twang e solito sviluppo vibrante. Chiudono la cadenzata e deliziosa Time Passes Slow, dal consueto ritornello eccellente, e Days Are Long, una squisita folk ballad che sembra uscita di botto da Harvest (sentire per credere). Elijah Ocean non è uno qualunque, dategli una chance e sono convinto che non ve ne pentirete.

Marco Verdi

Forse Non Saranno I Campioni Del Mondo, Ma Sono Davvero Bravi! Danny & The Champions Of The World – Brilliant Light

danny and the champions of the world brilliant light

Danny & The Champions Of The World – Brilliant Light – Loose 2 CD

Io sono sempre stato dell’idea che un disco non debba durare più di 40/45 minuti, dato che quando si inizia a sfiorare l’ora non è raro che spunti qua e là qualche canzone minore o momenti di stanca. Quando ho visto che l’album di cui mi accingo a parlare presentava ben diciotto brani, per una durata totale di 78 minuti, sia pure divisi su 2 CD, ero preparato a dover usare più di una volta il tasto avanti veloce sul telecomando del mio lettore, mentre invece al termine dell’ascolto ho pensato che avrei voluto sentire altre due-tre pezzi! Danny & The Champions Of The World, gruppo di sette elementi che prende il nome da un famoso libro per bambini ad opera dello scrittore norvegese Roald Dahl, sono una band proveniente da Londra, ma che suona americana al 100%. Il leader è Danny George Wilson, che forse qualcuno ricorda a capo dei Grand Drive, altro valido gruppo alternative country scioltosi nella decade precedente a questa: Brilliant Light è già il sesto disco della band (settimo se contiamo un live), ma è certamente il loro lavoro più ambizioso e, di sicuro, il più riuscito: anzi, dopo un attento ascolto direi che ci troviamo di fronte ad una piccola bomba.

 

Danny ad i suoi (tra i quali spiccano la steel di Henry Senior, il sax e tastiere di “Free Jazz” Geoff e la sezione ritmica di Chris Clarke e Steve Brookes) non fanno la stessa musica dei Grand Drive, ma sono un mix estremamente stimolante di rock, country, soul e rhythm’n’blues, financo con echi di Neil Young e Tom Petty nei momenti più rock, ma anche con abbondanti dosi di Southside Johnny e pure del primo Graham Parker, oltre a influenze parsoniane nei pezzi più countreggianti. Mi rendo conto che potreste avere le idee confuse, ma credetemi quando dico che Brilliant Light è uno dei dischi più piacevoli, coinvolgenti e creativi che mi siano capitati tra le mani da qualche tempo a questa parte, e nonostante la lunga durata si ascolta tutto d’un fiato e senza neanche un brano sotto la media. In pratica, una piccola grande sorpresa. Il primo CD si apre con Waiting For The Right Time, rock song chitarristica con un uso limpido del pianoforte ed un refrain corale vincente, con la voce di Danny che ricorda non poco quella di Parker: un pezzo così quarant’anni fa avrebbe avuto ben altra fortuna. La vispa Bring Me To My Knees ha ancora ottimi fraseggi di chitarra ed una bella melodia, evocativa ed orecchiabile al tempo stesso, con un feeling country alla Flying Burrito Brothers; It Hit Me è un gradevole pop-errebi spruzzato di soul urbano, un pezzo che non avrei visto male nelle mani di Willy DeVille (ma anche, nella sua parte pop, di Nick Lowe), You’ll Remember Me è una ballata un po’ sgangherata ma dal grande feeling, tipo quelle di Keith Richards, mentre Swift Street è puro rock-soul, con un tocco di gospel che non guasta, un pezzo che piacerebbe molto a Little Steven.

Siamo solo ad un quarto del totale, e Brilliant Light mi ha già catturato; Consider Me è puro rock, molto anni settanta, di nuovo con un ritornello da manuale, Coley Point è una ballata molto intensa, con steel e piano protagonisti ed il solito motivo vincente, It’s Just A Game (That We Were Playing) è un altro blue-eyed soul di grande qualità, con ritmo, suono e melodia degne di Southside Johnny, così come la fluida Never In The Moment, una canzone superlativa che anche Springsteen avrebbe potuto scrivere nei seventies, mentre con Gotta Get Things Right In My Life, ancora un pezzo soul anche se meno annerito, siamo di nuovo dalle parti di Graham Parker anche come suono. Waiting For The Wheels To Come Off, che apre il secondo CD, è ottima funky music con slide (qualcuno ha detto Little Feat?), Don’t Walk Away è una deliziosa balata crepuscolare sfiorata dal country, dotata di una delle linee melodiche più belle del CD, Hey Don’t Lose Your Nerve un altro errebi deluxe (i nostri hanno classe oltre che bravura), Everything We Need un divertente intermezzo tra country rurale e musica dixieland. Non volevo citare tutti e diciotto i brani, ma non è colpa mia se sono tutti belli: Let The Water Wash Over You è forse la meno appariscente, “solo” una buona rock song, ma gli entusiasmi si riaccendono subito con la saltellante Long Distance Tears e soprattutto con le conclusive The Circus Made the Town e Flying By The Seat Of Our Pants, due sontuose country ballads che profumano di Gram Parsons (o di Wild Horses, che non è molto diverso).

Mi rendo conto di aver usato parole importanti ed aver tirato in ballo paragoni scomodi, ma Brilliant Light è un album  con una qualità media davvero alta, cosa ancor più rara visto che si tratta di un doppio. Consigliatissimo.

Marco Verdi

Finalmente La Degna Ristampa Di Un Disco Mitizzato! Delaney & Bonnie – Motel Shot

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Delaney & Bonnie – Motel Shot (Expanded) – Real Gone CD

Periodo felice questo per la riscoperta del catalogo di Delaney & Bonnie, duo formato dal cantautore e chitarrista Delaney Bramlett e dalla cantante, ed all’epoca moglie, Bonnie O’Farrell Bramlett, che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta fu responsabile di alcuni tra i più bei dischi in circolazione all’epoca: a pochi mesi dalla ristampa dell’ottimo To Bonnie From Delaney, la benemerita Real Gone (e grazie al noto archivista Bill Inglot) ha appena rieditato uno dei dischi più belli e celebri della coppia, Motel Shot. E’ anche il più raro, in quanto per anni l’unica versione disponibile in CD era un’edizione giapponese difficile da trovare ed esageratamente costosa:(*NDB Anche se pure la nuova edizione non costa molto meno) questa ristampa, oltre a presentare le dodici canzoni originali opportunamente rimasterizzate, presenta anche otto outtakes mai sentite, diventando quindi praticamente imperdibile (però non capisco perché hanno dovuto cambiare la copertina: quella originale forse non era il massimo, ma questa odierna fa sembrare il CD un bootleg o un’antologia a basso costo).

delaney and bonnie motel shot

Motel Shot, quarto album di studio del duo, è anche il più particolare, in quanto è basato su una session piuttosto informale tenutasi nell’appartamento di Bruce Botnick (l’ingegnere del suono nei dischi dei Doors), con diverse canzoni improvvisate ed un suono al 95% acustico, e un alone gospel che pervade tutti i brani; l’album doveva uscire nel 1970 per la Elektra, ma per varie peripezie fu spostato in avanti di un anno e fu pubblicato dalla Atlantic, che però giudicò il materiale troppo informale, al limite dell’amatoriale, e pretese di mescolarlo con registrazioni più professionali da tenersi nei loro studi. L’album che poi uscì fu quindi una sorta di ibrido tra i brani incisi a casa di Botnick, principalmente cover, e le canzoni registrate in studio, scritte da Delaney: il risultato finale fu comunque eccellente, al punto che per molti Motel Shot è il miglior album inciso dai nostri (su questo non concordo, per me il più bello rimane il loro esordio, Home): un lavoro forse non perfetto dal punto di vista tecnico, ma altamente ricco di anima e feeling, con brani di derivazione gospel e la solita formula del duo che mischia alla grande rock, blues e soul.

Lo strumento protagonista dell’album è sicuramente lo splendido pianoforte di Leon Russell, centrale in ognuna delle canzoni, ma se guardiamo i nomi degli altri musicisti coinvolti c’è da godere solo a leggere: dai soliti noti Bobby Whitlock e Carl Radle, al grande Duane Allman alla slide in tre pezzi, passando per l’allora chitarrista dei Byrds, Clarence White, per finire con un’altra leggenda, Gram Parsons, alla chitarra e voce. Senza dimenticare Bobby Keys ed il suo sax, il violinista e banjoista John Hartford, Dave Mason alla chitarra, il super batterista Jim Keltner e Joe Cocker ai cori (manca invece, e stranamente, Eric Clapton). L’inizio è particolare, sembra quasi un rehersal, ma si nota che l’ensemble è in stato di grazia, con una rilettura straordinaria del traditional Where The Soul Never Dies, solo piano, tamburello e coro ma un’intensità da brividi, brano che confluisce direttamente nell’inno della Carter Family Will The Circle Be Unbroken e nella lenta (e classica) Rock Of Ages, quasi a voler formare una mini-suite gospel (ed anche la trascinante Talkin’ About Jesus, con la voce di Cocker chiaramente riconoscibile, avrà lo stesso trattamento). C’è spazio anche per un classico country come Faded Love di Bob Wills, alla quale i nostri cambiano completamente veste facendolo diventare un toccante lento soul, sempre con il piano di Russell a tessere la melodia.

La parte blues è formata da Come On In My Kitchen (Robert Johnson), proposta in una eccellente versione stripped-down  molto annerita (e con Duane alla slide acustica), e da Don’t Deceive Me (Chuck Willis), dal ritmo strascicato e performance vocale strepitosa da parte di Bonnie. Poi ci sono i quattro pezzi originali scritti da Delaney: Long Road Ahead, ancora dai sapori gospel, un chiaro brano dall’impronta sudista, guidato di nuovo dallo splendido pianoforte di Leon, la deliziosa Never Ending Song Of Love, una canzone saltellante di ispirazione quasi country, che è anche stato il più grande successo come singolo della coppia (ed è stata incisa in anni recenti anche da John Fogerty), la corale Sing My Way Home, fluida, distesa e dalla melodia influenzata dall’amico George Harrison (ancora Allman alla chitarra, stavolta elettrica) e la southern Lonesome And A Long Way From Home (già incisa da Clapton sul suo debutto solista). A completare il quadro, una spedita versione, ancora molto gospel, di Going Down The Road Feelin’ Bad, che proprio in quegli anni diventerà un classico nei concerti dei Grateful Dead.

Tra le otto bonus tracks, tutte provenienti dalle sessions originali in casa Botnick, ci sono tre versioni alternate di brani poi apparsi sul disco (Long Road Ahead, Come On In My Kitchen e Lonesome And A Long Way From Home, quest’ultima meglio di quella poi pubblicata, con una parte strumentale da urlo), una cover cristallina, guidata dalla chitarra acustica, di I’ve Told You For The Last Time, un brano poco conosciuto di Clapton, anch’esso proveniente dall’esordio di Manolenta, un rifacimento più informale della bella Gift Of Love (apparsa due anni prima su Accept No Substitute, secondo album della coppia), un blues acustico abbastanza improvvisato ma interessante, intitolato semplicemente Blues, ed un finale ancora a tutto gospel con What A Friend We Have In Jesus e la famosissima Farther Along. Una ristampa dunque imperdibile, che anche se non è il lavoro migliore di Delaney & Bonnie rimane comunque un grande disco, oltre che una fulgida testimonianza di un periodo irripetibile della nostra musica.

Marco Verdi

Non E’ Nuovo, Ma E’ Come Se Lo Fosse! American Aquarium – The Bible & The Bottle

american aquarium the bible and the bottle

American Aquarium – The Bible & The Bottle – American Aquarium CD

Gli American Aquarium sono una delle band più prolifiche in ambito alternative country, in quanto hanno pubblicato ben otto album (incluso un live) in dieci anni di carriera. Formatisi nel 2006 a Raleigh, North Carolina (città con una bella scena musicale, si pensi ai grandi Whiskeytown di Ryan Adams, ma anche ai Backsliders ed ai Connells, e pure gli Avett Brothers non distano molto dalla capitale dello stato) su iniziativa del cantante e chitarrista BJ Barham: The Bible & The Bottle non è però il loro nuovo disco, bensì la ristampa del secondo CD, uscito nel 2008 e da tempo introvabile, ma devo dire che suona fresco e piacevole come se fosse stato registrato pochi mesi fa. All’epoca di queste incisioni gli Aquarium erano diversi da come sono oggi, infatti oltre a Barham l’unico membro ancora presente è il bassista Bill Corbin: nella formazione del 2008 c’erano poi Chris Hibbard alla batteria, Jeremy Haycock alla chitarra solista, ed i bravissimi Sarah Mann e Jay Shirley, rispettivamente al violino e pianoforte, e con la ciliegina di Caitlin Cary (parlando di Whiskeytown) ospite ai cori.

The Bible & The Bottle presenta un gruppo ancora alle prime armi, ma con già una sua identità ed un suo suono: diciamo che non si sono ancora palesate alcune tendenze future, che hanno visto i nostri aggiungere elementi southern ed anche funk, ma abbiamo comunque undici canzoni (tutte di Barham) di pura Americana, con dentro tanto country unito a massicce dosi di rock, con il folk a fare da tramite tra i due generi; se si può fare un paragone, il suono non è troppo distante da quello dei primi Uncle Tupelo, ma anche del già citato ex gruppo di Ryan AdamsDown Under è una country song limpida e tersa, con grande uso di steel e piano, un brano davvero godibile: country vero, non come quello prodotto a Nashville, ma molto vicino all ex band di Jeff Tweedy e Jay Farrar. California è più rock che country, il violino stempera un po’ l’atmosfera, ma la sezione ritmica picchia sodo, anche se il tutto è molto equilibrato, con echi dello Steve Earle degli esordi; Road To Nowhere è un lento di chiaro stampo cantautorale, che riesce ad emozionare solo con l’uso della voce, una steel sullo sfondo ed il notevole piano di Shirley, un brano toccante che dimostra che il gruppo c’era già, eccome.

Tellin’ A Lie è un folk rock suonato e cantato con vigore quasi punk, con un uso dell’organo come negli anni sessanta, e l’influenza dei Rolling Stones  neanche troppo nascosta, anche se il violino dona al pezzo un sapore rurale; Bible Black October è una deliziosa ballata bucolica, con BJ che canta con voce leggermente filtrata, piano e violino guidano la melodia, che ricorda ancora il gruppo di Jagger e Richards quando si cimenta con il country. Manhattan è uno slow dall’arrangiamento classico, molto anni settanta, con Gram Parsons in mente ed un motivo fresco e piacevole, mentre la mossa e saltellante Come Around This Town è quasi uno swing un po’ obliquo, tra country e rock; niente male anche Monsters, altra ballad dallo script lucido e dal mood crepuscolare, dotata di un bel crescendo ed uno sviluppo molto creativo. La folkeggiante Stars And Scars assume toni quasi Irish, complice l’uso in tal senso del violino e la struttura melodica che la fa sembrare quasi un traditional, Lover Too Late è un’altra fulgida ballata, degna di gruppi molto più maturi di quanto non fossero i nostri all’epoca, mentre Clark Ave., che chiude il CD, è un rock’n’roll sciolto e trascinante, un finale in cui i ragazzi si lasciano andare e suonano con il preciso intento di divertirsi.

Non fate caso al fatto che The Bible & The Bottle sia un disco di otto ani fa: ancora oggi è molto meglio dell’80% delle nuove uscite di artisti cosiddetti cool.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Non Me Li Ricordavo Così Bravi! The Long Ryders – Final Wild Songs

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The Long Ryders – Final Wild Songs – Cherry Red 4CD Box Set

Tra le migliori band nate in America negli anni ottanta una delle più dimenticate, anche per il relativamente scarso successo di vendite avuto nel periodo di attività, sono certamente i Long Ryders, gruppo di Los Angeles formato nel 1983 da Sid Griffin e generalmente associato al movimento Paisley Underground, che aveva come artisti di punta i Dream Syndicate ed i Green On Red. Personalmente io colloco la band di Griffin all’interno di quel movimento più che altro per la loro attitudine garage e post-punk (soprattutto dal vivo), ma dal punto di vista del suono ho sempre giudicato i Long Ryders fra i precursori di quel genere oggi universalmente chiamato Americana, insieme a Blasters, Los Lobos ed i meno conosciuti Beat Farmers. Griffin è sempre stato un grandissimo fan dei Byrds (e la “y” nel moniker del suo gruppo la dice lunga) e durante la breve esistenza della band ha sempre coniugato il folk-rock tipico del combo guidato da Roger McGuinn con grandi iniezioni di energia e ritmo, tanto rock’n’roll ed un po’ di country-rock (anche i Flying Burrito Brothers sono tra i suoi eroi), aiutato dal suo braccio destro Stephen McCarthy alle chitarre soliste (ed occasionalmente suo partner nella scrittura dei pezzi), Tom Stevens al basso (che ha sostituito Des Brewer dopo l’EP d’esordio) e Greg Sowders alla batteria.

Solo tre LP (più il già citato EP) nei cinque anni di vita del gruppo, una discografia troppo breve e che avrebbe meritato maggior fortuna, e che abbiamo il grande piacere di riscoprire oggi grazie a questo pratico boxettino edito dalla Cherry Red: quattro CD con tutta la storia dei Ryders, diverse rarità ed inediti, ed un concerto assolutamente mai sentito come bonus, il tutto in una pratica confezione (sullo stile del box di Fisherman’s Blues dei Waterboys), con un bel libretto che reca note dettagliate e commenti canzone per canzone dei membri del gruppo (principalmente Griffin), il tutto neanche troppo costoso.

CD1: qui troviamo il loro EP di debutto 10-5-60 (cinque brani) seguito dal loro primo LP Native Sons, e l’inizio è subito di quelli giusti, con la solare e corale Join My Gang, che ricorda un po’ i primi R.E.M. (anch’essi epigoni dei Byrds), subito seguito dal rockin’ country You Don’t Know What’s Right, You Don’t Know What’s Wrong, decisamente trascinante e suonato con l’energia di una punk band; e che dire di 10-5-60, sembrano i Sonics o qualche altra garage band degli anni sessanta, mentre Born To Believe In You è un delizioso country-pop con accenni beatlesiani. Anche Tom Petty è tra i preferiti di Griffin, e lo dimostra la roccata Final Wild Song, che ricorda il suono secco e diretto dei primi due album del biondo rocker della Florida; la splendida Ivory Tower è un trionfo di jingle-jangle sound (e c’è anche Gene Clark ospite ai cori), Run Dusty Run è un rock’n’roll che mette di buon umore, mentre (Sweet) Mental Revenge (un classico di Mel Tillis) è country-rock sotto steroidi. Ma tutto Native Sons è un esempio di adrenalina, grinta ed energia coniugate a squisite melodie (un altro esempio è la coinvolgente Tell It To The Judge On Sunday); una rara versione della dylaniana Masters Of War precede cinque inediti dal vivo, tra i quali spiccano un’intensa versione acustica del traditional Farther Along (sembrano Garcia e Grisman) e la goduriosa The Rains Came, tratta dal repertorio del Sir Douglas Quintet.

CD2: ecco lo splendido State Of Our Union, l’album migliore dei Ryders, ed anche il più conosciuto grazie al moderato successo del singolo Looking For Lewis And Clark, forse non il loro brano più bello ma con dalla sua un tiro micidiale; nel disco troviamo anche la tersa e byrdsiana Lights Of Downtown e la roboante WDIA, con più di un rimando al suono dei Creedence. Un grande album, dal quale riascoltiamo con piacere anche la pettyiana Mason-Dixon Line o l’irresistibile Here Comes That Train Again, un limpido esempio di Americana anni ’80, un pezzo che potrebbero aver scritto anche i Los Lobos di How Will The Wolf Survive?, o ancora la vibrante Good Times Tomorrow, Bad Times Today e la fluida Capturing The Flag, un trionfo di Rickenbacker sound, o il rock’n’roll alla Beach Boys State Of My Union, per non parlare del delizioso cajun Child Bride…e se non sto attento le cito tutte! Tra gli extra una Looking For Lewis And Clark dal vivo alla BBC, ancora più dura dell’originale, la bizzarra ma gradevole Christmas In New Zealand e due remix scintillanti di Lights Of Downtown e Capturing The Flag, ancora meglio di quelle uscite nel 1985.

CD3: il loro ultimo album, Two Fisted Tales, un altro ottimo disco, di pochissimo inferiore al precedente, tutto da godere a partire dall’esplosivo avvio di Gunslinger Man, rock chitarristico di prima scelta, passando per I Want You Bad, bellissimo folk-rock byrdsiano al 100%, la cadenzata A Stitch In Time, lo spettacolare cajun-rock The Light Gets In The Way (con David Hidalgo alla fisarmonica), oppure Prairie Fire una sventagliata punk in pieno volto, o la stupenda Harriet Tubman’s Gonna Carry Me Home, un folk purissimo che profuma di tradizione, o ancora la travolgente Spectacular Fall. Tra le rarità abbiamo l’adrenalinico rock’n’roll di Basic Black, la scorrevole How Do We Feel What’s Real, la toccante He Can Hear His Brother Calling, una delle rare ballate del gruppo (e con reminiscenze di The Band), la gioiosa, a dispetto del titolo, Sad Sad Songs, durante la quale è impossibile tener fermo il piede.

CD4: la vera chicca del box, un concerto completamente inedito (ed inciso benissimo), registrato nel 1985 a Goes, in Olanda: 53 minuti di puro ed adrenalinico rock’n’roll, senza neppure un attimo di respiro, una festa assoluta di ritmo e chitarre, con versioni superbe di Run Dusty Run, la sempre splendida Ivory Tower, Wreck Of The 809, You Don’t Know What’s Right, You Don’t Know What’s Wrong, una trascinante versione del classico per camionisti Six Days On The Road ed un finale a tutta elettricità e ritmo con Tell It To The Judge On Sunday.

Dopo l’esperienza con i Long Ryders, Griffin fonderà i Coal Porters (attivi ancora oggi), con i quali pubblicherà qualche discreto album ma senza la scintilla originale, pubblicherà qualche album da solista in anni recenti e riformerà i Ryders per un tour commemorativo nel 2004 (con conseguente album dal vivo), dedicandosi anche al giornalismo rock ed alla stesura di libri su Bob Dylan e Gram Parsons. Ma i tempi d’oro del periodo con i Long Ryders difficilmente torneranno, motivo in più per non lasciarsi sfuggire questo Final Wild Songs.

Marco Verdi