Ecco “Un Giorno A Nashville”, Lo Scorso Anno, Per Robben Ford. Esce Il 4 Febbraio!

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Robben Ford – A Day In Nashville – Mascot/Provogue Uscita 04-02-2014 EU/ITA  04-03-2014 USA

La “solita anteprima” per Robben Ford!

Il disco uscito lo scorso anno, Bringing It Back Home, era stato registrato in “ben” tre giorni http://discoclub.myblog.it/2013/02/15/una-anteprima-a-lunga-gittata-19-febbraio-2013-il-nuovo-albu/ ! Per questo nuovo A Day In Nashville, come recita il titolo, per le procedure di registrazione si è utilizzato un solo giorno. E in tempi di moderne tecnologie si tratta di una sorta di ritorno alle vecchie metodologie degli anni ’60 e ’70, quando, volendo, ma anche allora non era facile, si registrava un intero LP in un lasso di tempo brevissimo, anche se un giorno è quasi un record. Una volta il problema era dovuto soprattutto ai costi di uno studio di registrazione, si registrava anche di notte e a rotazione con altri musicisti per spremere il massimo dalle poche ore a disposizione http://www.youtube.com/watch?v=HyqQgnW_S8g .

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Poi è diventata una questione di perfezionismo, spesso gli studi sono di proprietà dei musicisti, che vi ci si trastullano per periodi quasi biblici, per dare libero sfogo alle proprie manie o semplicemente per necessità perché l’ispirazione latita. Nel caso di Robben Ford invece tutto è stato pianificato: all’inizio il progetto prevedeva un disco dal vivo registrato durante il tour dello scorso anno, poi nella fase finale della tournée, ad ottobre, il chitarrista ha avuto dei problemi al polso e molte delle date sono state annullate e rinviate http://www.youtube.com/watch?v=sByZvhy8u2o . Nel periodo di inattività cosa ti pensa il vulcanico musicista? Perché non prenotare il Sound Kitchen Studio, uno dei migliori di Nashville (ma niente paura non è un disco country, anche se sarebbe stato interessante), dove dà appuntamento ai musicisti che fanno parte della sua attuale touring band, ai quali erano stati inviati dei demo solo voce e chitarra, su cui il gruppo avrebbe potuto improvvisare all’impronta http://www.youtube.com/watch?v=zK39bL9F7U0 .

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Ma non solo, messa da parte momentaneamente l’idea di un disco dal vivo, Ford ha scritto anche sette canzoni nuove di zecca, insieme a due cover assolutamente poco note. E il risultato è un disco che conserva la qualità e la varietà di temi di quello dello scorso anno (che era veramente bello), con una ulteriore freschezza dovuta all’approccio molto libero dato dalla possibilità, anzi direi dalla necessità, di improvvisare. Il sound è quello classico dei dischi migliori di Robben, dalla Ford Blues Band ai Blue Line, passando per le collaborazioni con Witherspoon e Musselwhite, c’è molto blues, ma non mancano abbondanti dosi di funky e soul, rock, un pizzico di jazz e la sua immensa tecnica chitarristica http://www.youtube.com/watch?v=4kln-Kuq6mE . I musicisti utilizzati per questo A Day In Nashville sono ottimi: dal tastierista Ricky Peterson, per lunghissimi anni spalla di David Sanborn e prima anche con Prince, al bassista Brian Allen (che ha un recente passato con Jason Isbell e Jamey Johnson, ma ha suonato anche con Scofield e le touring bands di Temptations e Four Tops, aumentando la quota soul del gruppo); provvista pure da Wes Little, il batterista, uno che suonato con Sting e Stevie Wonder. Per bilanciare la quota rock l’ultima aggiunta è Audley Freed, ex dei Black Crowes e quella jazz è provvista dal trombonista Barry Green (uno strumento già utilizzato nel precedente album e “scoperto” da Robben Ford negli ultimi tempi).

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Si diceva sette pezzi nuovi e due cover. Partiamo da queste ultime: Cut You Loose è un blues scritto dal grande armonicista James Cotton, qui trasformato in un fluido veicolo per la voce e la chitarra di Ford, veramente in grande forma, mentre duetta con l’organo di Ricky Peterson, aiutato dalla spinta della sezione ritmica e con un bell’assolo anche del trombone di Green; alla fine il brano è una ulteriore variazione sul tema del “blues according to Robben Ford”, non c’entra moltissimo con l’originale, ma non puoi fare a meno di apprezzare uno che suona la chitarra in modo così divino. Poor Kelly Blues viene da ancora prima, dal periodo della grande guerra, scritta da Big Maceo Merryweather e scoperta probabilmente grazie all’enciclopedica conoscenza acquisita nella band con i fratelli, qui siamo nel blues più duro e blues, i ritmi e la scansione sono quelli classici, sempre spazio per gli altri solisti ma anche una maggior grinta e voglia di improvvisare.

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Subito evidente fin dall’iniziale Green Grass Rain Water che ha un afflato rock and soul molto più immediato rispetto alle abitudini più raffinate del nostro. Midnight Too Soon è uno di quegli slow blues con chitarra lancinante che sono nel DNA di Ford mentre Ain’t Drinkin’ Beer No More ha un approccio più rilassato, quasi jazzato, con la presenza marcata del trombone e dei fiati e il tipico divertente coretto da avvinazzati di chi si è fatto qualche birra di troppo. Top Dawn Blues, nonostante il titolo, è un funky-soul strumentale, sempre con uso di fiati, con tutta la band che improvvisa alla grande mentre Different People è una bellissima mid-tempo ballad dalle ricche melodie, cantata benissimo e suonata anche meglio. Detto delle due cover che sono posizionate a questo punto del CD, rimangono una Thump And Bump, altra traccia strumentale che evidenzia le propensioni funky dei musicisti, evidenziate dal loro CV, ben suonata ma più per “Fordofili” jazz fusion. Conclude Just Another Country Road, un altro di quei blues sincopati tipici del repertorio di Robben Ford. L’ho sentito in fretta  e in streaming, un po’ all’ultimo minuto (ma il giusto), e se dovessi dire, mi sembra leggermente inferiore al precedente Bringing It Back Home, ma è l’impressione del momento!              

Bruno Conti     

C’è Sempre Qualcuno Bravo Che Sfugge! Greg Koch Band – Plays Well With Others

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Greg Koch Band – Plays Well With Others – Rhymes With Chalk Music

C’è sempre in giro qualcuno di talento da “scoprire”. Questa volta parliamo di chitarristi. Greg Koch non è un novellino, questo Plays Well With Others (finalmente un titolo di un CD che chiarisce i suoi intenti fin dal titolo, ma ci arriviamo fra un attimo) dovrebbe essere il 12° titolo pubblicato, in una carriera discografica iniziata nel lontano 1993 con Greg Koch & The Tone Controls, ma i cui risultati non sono facilmente reperibili nelle nostre lande (e un po’ ovunque per la verità). Per tornare al “chi è costui?” di Manzoniana memoria che non utilizzavo da un po’ nei miei pezzi, direi che Greg Koch è un virtuoso della chitarra, originario di Milwaukee, Wisconsin, lo stato di Les Paul, dove tuttora registra i suoi album, ma che, curiosamente, lavora come “clinician” per la concorrente Fender, è stato fatto conoscere (si fa per dire) al grande pubblico da Steve Vai, che gli ha pubblicato un disco per la sua etichetta, la Favored Nations, nel 2001. Che altro? Tom Wheeler di Guitar Player lo ha definito “a friendly Talent”, nel senso che la sua tecnica è umana e godibile, altri hanno detto che è “il segreto meglio custodito del mondo dei chitarristi”. Joe Bonamassa ha detto “Credo che Greg Koch sia oggi il miglior chitarrista del mondo”, in definitiva, tradotto in parole povere, un talento! Lui, modestamente, ma non troppo, nelle note di The Grip, il CD di cui si diceva poc’anzi, ha definito il suo stile: “Chet Hendrix che incontra i King (BB, Albert e Freddie) alla prima convention Zeppelin-Holdsworth”, arzigogolata ma efficace, come descrizione.

Venendo al nuovo album il titolo lascia intendere che il nostro suona, bene, con altri? E’ proprio così! Nei dieci brani originali, più tre bonus che ripropongono tre dei pezzi già eseguiti, ma in radio mix, che, tradotto per gli ascoltatori, vuole dire praticamente identici alle versioni “normali”, ma più corti (misteri della discografia)! Allora dicci chi c’è? Calma, se state leggendo la recensione, avete già visto la copertina del disco, che riporta i nomi degli ospiti. Comunque questo album è leggermente (o notevolmente, secondo i punti di vista) diverso dalla prove precedenti, prevalentemente strumentali, Greg Koch è uno della famiglia dei Buchanan o dei Gatton, cioè cantare “minga bun” o quasi, come si dice dalle mie parti (ma sono stato cattivo, non è proprio verissimo, c’è di peggio in giro) quindi giustamente in questo disco si è fatto aiutare da John Sieger dei Semi-Twang, che oltre ad avere scritto i dieci brani con Koch, se li canta, meno uno, con profitto. Della sua band ci sono Dylan Koch alla batteria, che immagino parente, Theo Merriweather alle tastiere e Eric Hervey al basso, più parecchi ospiti.

Nel rock-blues sinuoso, vorticoso e riffato di Simone, dopo il primo assolo molto “lavorato” della solista di Greg arriva Joe Bonamassa ed i due cominciano a scambiarsi fendenti nella migliore tradizione delle (Super)sessions, nel secondo brano, Robben Ford, il bassista Roscoe Beck e Brannen Temple alla batteria rinnovano i fasti dei vecchi Blue Line, con un blues raffinato e virtuosistico, a colpi di scale impossibilmente fluide, in Walk Before You Crawl, uno dei pezzi forti di questa raccolta. E non è finita, arriva Jon Cleary che con il suo pianino ci porta dalle parti delle paludi della Louisiana e di New Orleans, come dite, sembrano un po’ i Little Feat? Non sapete come siete nel giusto, infatti nella successiva The Whole Town Has A Broken Heart ecco Paul Barrère (che per motivi che mi sfuggono, sulla copertina, ha l’accento sull’ultima e), che con la sua slide magica tramuta questo brano in una sorta di novella People Get Ready, che ricorda molto nella melodia.

Ancora un paio di gagliarde collaborazioni, a tempo di blues, con Robben Ford e soci, nelle ottime Sho Nuff e What You Got To Lose, con scambi di timbriche e assolo felpati per la gioia degli amanti della chitarra. Whiskey Rainstorm, di nuovo con Paul Barrère, ha un che di funky e sudista nella migliore tradizione featiana, con i due che fanno i George e i Barrère della situazione, anche scambiandosi i ruoli. Down The Road è una bella slow blues ballad dove si apprezza anche la voce di John Sieger, cantante dotato ed apprezzabile, mentre Night Owl Now è l’unico brano cantato da Greg della raccolta e l’occasione per sbizzarrirsi per Barrère e Koch,  che trovato un groove alla Little Feat, aiutati dall’organo di Merriweather, lo portano alle giuste conseguenze. Conclude Hey Godzilla, ancora con Barrère, il brano più rock ed hendrixiano (un eroe della gioventù di Koch) del disco, tirato e cattivo il giusto. Bel disco e grande chitarrista(i). Se vi piacciono quelli che sanno suonare!

Track Listing:
1.) Simone (with Joe Bonamassa)
2.) Walk Before You Crawl (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
3.) Spanish Wine (with Jon Cleary)
4.) This Whole Town Has A Broken Heart (with Paul Barreré)
5.) Sho Nuff (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
6.) What You Got To Lose (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
7.) Whiskey Rainstorm (with Paul Barreré)
8.) Down The Road
9.) Night Owl Now (with Paul Barreré)
10.) Hey Godzilla (with Paul Barreré)
BONUS TRACKS
11.) Spanish Wine, radio mix
12.) What You Got To Lose, radio mix
13.) Hey Godzilla, radio mix

Bruno Conti

Piovono Chitarristi 2. The Duke Robillard Band – Independently Blue

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The Duke Robillard Band – Independently Blue – DixieFrog/Stony Plain

Come dimostra l’articolo determinativo posto prima del nome, anche questa volta siamo di fronte ad un disco della Duke Robillard Band, come nel caso del precedente Low Down And Tore Up, la differenza per l’occasione la fa la presenza di Monster Mike Welch, aggiunto come secondo chitarrista solista (a parte un paio di branoi dove appaiono anche i fiati): quindi il suono è più grintoso del solito (almeno rispetto agli ultimi dischi, perché nel passato, e, occasionalmente anche nelle prove più recenti, il buon Duke è sempre in grado di strapazzare la sua chitarra, quando vuole). Il problema è che Michael John, da Woonsocket, Rhode Island, ultimamente non vuole troppo spesso, preferendo un suono più jazzato, swingante, persino da locali after hours, sempre con una gran classe e una tecnica raffinata, ci mancherebbe, ma con una certa ripetitività che di tanto in tanto ci stufa, per essere dialettali e chiari! E’ una critica magari un po’ forzata, perché dischi come questo si ascoltano sempre volentieri, soprattutto se si ama il Blues, ma da uno come Robillard ci aspettiamo qualcosa di più.

In effetti lo dice anche lo stesso Duke, nelle note del libretto, che ultimamente tende a privilegiare un tipo di sound e materiale più adatto ad un signore nel “settembre dei suoi anni” (è del 1948, quindi 65 quest’anno, ma non ditelo a Springsteen). Forse all’aria “old fashioned” contribuisce anche il fatto che alcuni brani sono firmati da Al Basile, cornettista e amico, che privilegia un suono abitualmente più rilassato, ma per l’occasione, nell’iniziale I Wouldn’t-a Done That, dove Robillard e l’ottimo Mike Welch si scambiano assolo di gusto su un ritmo blues “cattivo” alla giusta temperatura e nella successiva Below Zero, un bel blues roccato come ai vecchi tempi, con il basso che pompa e le due chitarre ancora infoiate come si conviene, sembra esserci una inversione di tendenza. Anche lo strumentale Stapled To the Chicken’s back portato in dote da Welch, è un bell’esempio di Texas Shuffle, con le chitarre “limpide” dei due solisti che si dividono democraticamente gli spazi anche con l’organo di Bruce Bears, mentre Brad Hallen che nel disco precedente suonava quasi sempre il contrabbasso in questo album si cimenta spesso e volentieri al basso elettrico dando una fondazione più solida alle improvvisazioni dei due, che sono dei “manici” notevoli e questo non si discute, anche Welch inquadrato in una formazione meno volatile dimostra una gran classe.

Però (o per fortuna, per chi apprezza lo stile) Robillard ha sempre questa passionaccia per il jazz, magari New Orleans, anni ’20, come nella fiatistica Patrol Wagon Blues, che nella prima parte potrebbe uscire da qualche Cotton Club o da un disco di Ellington o Al Jolson dei tempi di Minnie The Moocher e qui il pianino dell’ottimo Bears ci sta a pennello, con banjo e clarinetto a dividersi gli spazi, e poi nel finale i due solisti pennellano una performance di gran classe alle chitarre elettriche. Laurene è uno di quei R&R alla Chuck Berry che ogni tanto escono dalla penna del buon Duke e Moongate è uno dei rari slow blues d’atmosfera del CD, molto raffinato e con le due chitarre libere di improvvisare anche notevoli tessiture sonore, seguite da un altro blues classico a firma Al Basile I’m Still Laughing cantato con piglio autorevole da un Robillard in buona forma vocale, mentre il suono delle chitarre, anche slide, è molto Chicago Blues.

Un altro strumentale a firma Duke Robillard, Strollin’ With Lowell and BB è uno swingato omaggio ai due signori citati nel titolo, ma non mi entusiasma. Come You Won’t Ever che nasce con l’idea di rendere omaggio omaggio alla musica di Stevie Wonder e Four Tops, ma in pratica sembra la colonna sonora di qualche episodio di Starsky & Hutch, piacevole anche nel groove di basso e batteria e nell’intervento della tromba, ma sicuramente non memorabile. E anche l’altro brano strumentale a firma Monster Mike Welch (il soprannome gli fu dato ad inizio carriera da Dan Aykroyd),  al di là dalla classe dei due, ha un po’ l’aria di una outtake minore e sonnolenta dalla Supersession di Bloomfield, Kooper & Stills. Molto meglio Groovin’ Slow, dove un giro di basso marcatissimo “modernizza” questo omaggio allo stile preciso e da nota singola del grande Wes Montgomery, con le due soliste a scambiarsi soli di precisione chirurgica. If This Is Love è un bel pezzo che avrebbe potuto figurare in un disco di fine anni ’60 del già citato Bloomfield o in qualche disco recente del Robben Ford più bluesy, e a furia di soli pungenti finisce in gloria questo CD, che ha i suoi alti e bassi, ma è vivo e vitale, forse anche per l’apporto di Welch.

Bruno Conti

“Vecchio” Ma Sempre Nuovo. Ronnie Earl & The Broadcasters – Just For Today

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Ronnie Earl and The Broadcasters – Just For Today – Stony Plain/CRS/Ird

Mi è capitato molte volte, nel corso degli anni, di recensire dischi di Ronnie Earl per il Busca (e per il Blog temp-7c86eb47861bfd87e08cf80efc4797bd.html), e, come dicevo nella recensione del penultimo, Spread The Love e ribadisco per questo Just For Today, se vi dovessi dire qual è il mio album preferito nella sua copiosa discografia, sarei in seria difficoltà e quindi ogni volta, non sbagliando mai, mi limito a citare il più recente. Questo non vuol dire che sono tutti uguali fra loro (beh, un po’ sì, per essere onesti, anche se il livello è sempre medio-alto): d’altronde Earl (un quasi omonimo, tradotto in inglese, di chi scrive) è un virtuoso chitarrista, uno dei migliori, fa del Blues, perlopiù strumentale, è su piazza da oltre un trentennio, prima nei Roomful Of Blues, poi come leader di varie edizioni dei Broadcasters, periodicamente piazza un nuovo CD sul mercato che, immancabilmente, soddisfa la piccola schiera di appassionati del personaggio e del genere, ma non turba i sonni di coloro che non si muovono entro queste ristrette coordinate.

E’ questo è un peccato, perché il musicista merita, escludendo i fans, che una volta appurato che il nostro non abbia fatto un disco di dubstep o tarantelle delle Transilvania (se esistono!) e quindi acquistano in ogni caso i suoi dischi, anche l’appassionato di buona musica un paio di dischi del buon vecchio Ronnie (60 anni quest’anno) li dovrebbe avere nella propria discoteca. Perchè non proprio Just For Love, che tra l’altro è uno dei rari dischi dal vivo registrati nel corso della sua carriera? Gli elementi migliori ci sono sempre, come al solito: tecnica strumentale all’attrezzo (di solito una Fender Telecaster) mostruosa, in bilico tra le folate texane chitarristiche à la Stevie Ray Vaughan di una iniziale tiratissima The Big Train, dove ben sostenuto dall’organo B3 di Dave Limina che gli tira la volata, mostra tutte le sue virtù di solista, ma anche (come direbbe un “nostro amico” politico”, ma è ancora in giro? Quasi quasi gli faccio scrivere la prefazione al Blog, è uno specialista del genere) gli slow blues in crescendo, con finali lancinanti che ti sommergono sotto un diluvio di note e che sono il suo marchio di fabbrica e che molto, secondo me, devono a Roy Buchanan, un altro che come Earl raramente cantava e quando lo faceva era meglio non lo avesse fatto, Blues For Celie è il primo della serie, e si becca la giusta ovazione del pubblico a fine esibizione, pur segnalandovi che il disco è registrato in modo perfetto, non sembra neppure un live, lo capisci solo da applausi e presentazioni a fine brano.

D’altronde Ronnie Earl, per problemi di salute, raramente suona dal vivo, e quando lo fa rimane comunque nei paraggi di casa, nel Massachusetts, Boston e dintorni (ma quest’anno è in tour negli States), oppure invita il pubblico in studio, come per il precedente live del 2007, Hope Radio (anche in DVD). Miracle è un altro di quei brani torrenziali, dove lo spirito del miglior Santana o di Buchanan via Jeff Beck si impadronisce delle mani di questo uomo che è una vera forza della natura con una chitarra in mano. Se ami il genere, ripeto, uno così non ti stanchi mai di ascoltarlo, peraltro lui non è instancabile come Bonamassa che fa quattro o cinque dischi all’anno, quindi è sostenibile anche a livello finanziario, il precedente CD era del 2010. Heart Of Glass( ma anche la finale Pastorale) è un altro di quei brani, lenti e sereni, ricchi di spiritualità, dove Earl esplora il manico della sua chitarra alla ricerca di soluzioni di tecnica e di feeling che ti lasciano sempre basito per l’intensità dei risultati. Rush Hour è uno dei rari shuffle, dedicato al grande Otis Rush, dove Ronnie viene raggiunto sul palco dal secondo chitarrista Nicholas Tabarias per fare pulsare alla grande il suo Blues. Ampio spazio per Dave Limina, questa volta soprattutto al piano, nel travolgente Vernice’s Boogie ma poi è nuovamente tempo di tributi con Blues For Hubert Sumlin, un altro dei grandi, affettuosamente ringraziato anche nelle note del libretto, uno slow di quelli torridi come il nostro sa fare come pochi.

Per la cover di Equinox di John Coltrane oltre allo stile di Carlos Santana i Broadcasters si affidano anche ad un groove latineggiante che fa tanto Santana Band e la solista, ben coadiuvata dall’organo di Limina, cesella note, timbri e volumi con una precisione e una varietà incredibili che sfociano anche in territori tra jazz e blues, come ama fare pure un altro virtuoso della chitarra come Robben Ford. Ain’t Nobody’s Business, un’altra delle cover presenti, faceva parte del repertorio di Billie Holiday e sotto la guida del piano di Limina la band si lancia anche in territori ragtime e poi di nuovo, in tuffo, nel blues. Un altro omaggio Robert Nighthawk Stomp, quasi a tempo di R&R e sono di nuovo le 12 battute di Jukein’ a introdurre l’unico brano cantato dell’album, una fantastica e vibrante I’d Rather Go Blind affidata alla ottima voce di Diane Blue. Forse niente di nuovo, ma non suona mai “vecchio”!  

Esce il 9 Aprile.

Bruno Conti

Replay! Una Anteprima A Lunga Gittata: 19 Febbraio 2013 Il Nuovo Album Di Robben Ford – Bringing It Back Home

Come promesso ripubblico la recensione, visto che era stata postata quasi due mesi fa, il disco esce martedì prossimo, ed eccola di nuovo, con video, come promesso nel Post scriptum.

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Robben Ford – Bringing It Back Home – Provogue/Mascot  19-02-2013

Un “ritorno alle origini” di Robben Ford? Il titolo lo potrebbe fare supporre, ma in effetti direi che se di ritorno si tratta è quello alle radici del suo suono, dopo gli “esperimenti” più rock nei due CD dei Renegade Creation. Quindi una forte componente di Blues, primo amore, il jazz raffinato immancabile, un pizzico (abbondante) di funky e rock. Quando Robben iniziava la sua carriera nella Charles Ford Blues Band uno dei primi punti di riferimento fu sicuramente il sound della Butterfield Blues Band e il chitarrista di quel gruppo (va bene, uno dei due, l’altro era Elvin Bishop) era un certo Mike Bloomfield, che trasformò un modesto futuro sassofonista in uno dei più grandi stilisti della chitarra elettrica del 20° secolo (non per nulla la compianta rivista Musician lo inserì tra i 100 più grandi del secolo). Robben Ford è passato con assoluta nonchalance dal blues puro che suonava con Musselwhite e Witherspoon alla fusion degli L.A. Express, poi raffinata nell’eccelsa arte di Joni Mitchell, per approdare infine al jazz “elettrico” di Miles Davis.

Tutti gli elementi che hanno da sempre contrassegnato la sua carriera e che ora ritornano in questo Bringing It Back Home, quindi non solo Blues come si può leggere in rete dai “soliti informati” che non hanno ancora sentito il disco e quindi riciclano più o meno le notizie rilasciate dalla casa discografica o qualche dichiarazione parziale dello stesso Ford. Chi vi scrive l’album lo sta ascoltando in questo momento, e posso assicurarvi che non è proprio così, anche se per verificare dovrete aspettare fino al 19 febbraio del 2013 quando uscirà il disco. Siamo un po’ in anticipo. La prima novità saliente è che i musicisti del CD suonano per la prima volta con Robben Ford, anzi quando il disco è stato inciso in una session di tre giorni ai Village Studios di Los Angeles, sotto la supervisione di Ed Cherney (Stones, Bonnie Raitt, Ry Cooder) era addirittura la prima volta che si trovavano tutti insieme; anche se mi sembra, a memoria, che almeno con il batterista Harvey Mason (quello dei mitici Headhunters di Herbie Hancock e poi anche nei Fourplay) abbia già suonato in passato e con la sua presenza aumenta la quota “funky” del disco. Ottimi anche gli altri: Larry Goldings alle tastiere ( da James Taylor a Jim Hall), David Piltch al basso (tra gli altri con Kd Lang e Solomon Burke), oltre a una new entry come strumento nei dischi di Ford, il trombone, affidato a Steve Baxter (che ha suonato con Macy Gray ma anche con Johnny Guitar Watson, tra i tanti). Non proprio una formazione di bluesmen, anche se almeno idealmente, si potrebbe dire, come spesso nei suoi dischi, che è il Blues “according to Robben Ford”!

Quello che è certo è che gli amanti della chitarra avranno di che deliziare i padiglioni auricolari, con quel suo stile unico, che riunisce le influenze di Bloomfield, Jim Hall, Miles Davis, tanto Blues e ancor di più Robben Ford, che questa volta si cimenta in tutto il disco con una sola chitarra,  Epiphone Riviera del 1963 che permette di cogliere il suo suono cristallino e scandito, raramente sopra le righe, forse troppo turgido per quelli che non lo amano, ma è sempre un bel sentire.

Dall’iniziale Everything I Do Gonna Be Funky (il titolo dice tutto) dal repertorio di Allen Toussaint, passando per Bird’s Nest Bound, un brano di Charley Patton conosciuto da Ford nella versione di Bukka White, dove il country blues dell’originale usufruisce della “fordizzazione” del chitarrista, con la solista a duettare con l’organo insinuante di Goldings. Fair Child è un oscuro brano di tale Willie West, un cantante soul/R&B che pure io che sono un cultore del genere, non ricordavo assolutamente, anche questa molto funky con batteria e trombone in evidenza. Oh Virginia è una bellissima soul ballad suonata (che bell’assolo) e cantata in modo incantevole. Anche Slick Capers Blues, se è quella (ho poche informazioni al momento), è un oscuro brano di tale Little Buddy Doyle, un bel blues dal suono old fashioned con trombone e organo di supporto, non dissimile dal suono dell’ultimo Clapton omonimo del 2010.

On That Morning è l’unico brano strumentale del disco, ispirato da Kind Of Blue di Davis, nelle parole di Ford vorrebbe essere un omaggio a quel suono dagli spazi aperti, ma ricorda anche i duetti organo-chitarra di Smith & Montgomery. Traveler’s Waltz non so che origini abbia ma sembra una di quelle ballate raffinate alla James Taylor, godibilissima. Most Likely You Go Your Way(And I’ll Go Mine) invece la conosciamo tutti, è proprio il brano di Bob Dylan, che potrebbe uscire dalla vecchia Supersession di Bloomfield e Kooper (senza Stills) e Trick Bag sarà mica quella dei Meters (che però era di Earl King)? Mi sa di sì, con il contrabbasso di Piltch e la batteria di Mason a scandire il ritmo e la solista di Ford a ricamare assoli come lui sa fare. Per finire Fool’s Paradise che è un vecchio classico che faceva anche Sam Cooke, un bel Blues sapido che conclude in gloria uno dei migliori dischi della discografia del grande musicista californiano, poco pirotecnico ma molto solido per l’occasione.

Bruno Conti

P.s Ogni tanto mi “scappano” queste anteprime, ma eventualmente in avvicinamento all’uscita dell’album pubblicherò di nuovo questo Post, magari con qualche video aggiunto, visto che per ora del nuovo CD non c’è ancora nulla.

Provaci Ancora Eric, Una Anteprima? Eric Johnson – Up Close Another Look

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Eric Johnson – Up Close Another Look – Mascot/Provogue/Edel 02-04-2013

Eric Johnson è un fantastico chitarrista texano che, nella sua carriera che dura ormai da una trentina di anni (almeno a livello discografico), ha realizzato solo una manciata di album di studio, sei per la precisione, compreso questo Up Close, oltre ad un disco, Seven Worlds, registrato nel 1978 ma pubblicato solo 20 anni dopo, uno dal vivo della serie Live From Austin, Texas nel 2005 (ma registrato nell’88), oltre alla sua partecipazione come un terzo della “società” in una delle varie incarnazioni dei G3, insieme ai Joe Satriani e Stevie Vai. E per lui, come per molti altri, il migliore rimane ancora il primo ufficiale, Tones, uscito nel lontano 1986 per la Reprise, eccellente disco prevalentemente strumentale che ebbe un grosso successo sia di critica che di pubblico in quell’anno, disco che si inseriva in quel filone tra prog, rock, southern e blues dove operavano gruppi come i Dixie Dregs di Steve Morse, tanto per fare un nome, o il materiale meno bluesy di Robben Ford, virtuosi della chitarra elettrica per intenderci, e anticipatore del successo che avrebbero ottenuto i suoi futuri pard Joe Satriani e Steve Vai (già in pista ma noto soprattutto per le collaborazioni con Frank Zappa).

Senza farla troppo lunga ma dandogli i giusti meriti, Eric Johnson, ha avvicinato quei livelli qualitativi solo con il successivo Ah Via Musicom del 1990, poi creandosi una nicchia di appassionati, un seguito di culto, che ha continuato a comprare i suoi dischi ma con minore entusiasmo anche negli anni successivi, fino ad arrivare al 2010, l’anno di questo Up Close, uscito ai tempi solo sul mercato americano per la Vortexan/EMI, ma non distribuito in Europa, e che è di gran lunga il suo disco migliore dopo Tones, ma cosa ti va a pensare quel “diavolo” di un Johnson, facciamone una versione aggiornata per il mercato europeo, quell’Another Look, come avranno notato i più attenti: come dice lo stesso Eric Johnson, si è limitato ad aggiungere alcune parti di chitarra ritmica e a remixare il tutto, e la differenza è molto sottile, praticamente non si percepiscono i nuovi interventi, ma il disco suona meglio all’ascolto e se lo dice lui chi siamo noi per negarlo? Quindi prendiamo nota senza peraltro poter fare a meno di notare che questa nuova edizione ha due brani in meno di quella del 2010, strano ma vero, si toglie invece di aggiungere, anche se per onestà si tratta di due brevi intermezzi di poco più di un minuto ciascuno.

Ma quello iniziale, un intramuscolo orientaleggiante di 1:05, Awaken, è rimasto. Fatdaddy è il primo brano strumentale dove, a velocità vorticose, la chitarra solista di Johnson interagisce con una ottima sezione ritmica con vari batteristi che si alternano, Kevin Hall, Barry Smith e Tommy Taylor e il grande Roscoe Beck al basso, con lui da inizio carriera. Brilliant Room è il primo brano cantato, con ospite come vocalist il bravo Malford Milligan, altro texano che era negli Storyville (ve li ricordate?) il gruppo di David Holt e David Grissom con la sezione ritmica dei Double Trouble, un gruppo che ha non tenuto fede alle promesse, ma aveva molte potenzialità, il brano è un veloce rock, anche commerciale, ma con una verve ed un lavoro di suoni e chitarre che molta produzione attuale non ha (dipenderà dal fatto che il co-produttore è tale Richard Mullen ma l’ingegnere è Andy Johns, della premiata famiglia?), un sound fantastico. E sentite come suonano il Blues, in una cover eccellente di Texas (tema che ritorna), il vecchio brano firmato Mike Bloomfield/Buddy Miles che si trovava sul disco degli Electric Flag, per l’occasione a duettare con Johnson troviamo un pimpantissimo Steve Miller alla voce e Jimmie Vaughan alla seconda solista, cazzarola come suonano! Gem è uno di quei brani strumentali stile Prog-rock dove il nostro Eric esplora a fondo la sua tavolozza di colori e suoni per la gioia dei fanatici della chitarra.

Tra i titoli non manca Austin, altro ottimo duetto a tempo di rock con un Johnny Lang in gran vena e la chitarra di Johnson che crea traiettorie quasi impossibili senza scadere nelle esagerazioni di altri suoi colleghi virtuosi. La lunga Soul Surprise è un altro lento con i vocalismi senza parole del titolare e atmosfere sempre molto ricercate. On The Way è un ulteriore strumentale, molto Twangy & Country in questo caso, stile di cui è maestro Albert Lee. Senza citarle tutte, ma non ci sono cadute di gusto, vorrei ricordare il tributo in apertura (una piccola citazione di Little Wing) all’Hendrix più sognante, nella ricercata A Change Has Come To Me e il duetto molto melodico con la slide di Sonny Landreth in Your Book. Una delizia per gli amanti della chitarra elettrica, come tutto il disco peraltro.

Bruno Conti

Un Paio Di “Supergruppi” Tanto Per Gradire: Spectrum Road & Renegade Creation

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Spectrum Road – Spectrum Road – Palmetto Records

Renegade Creation – Bullet – Mascot/Provogue

Martedì prossimo, 5 giugno, tra le miliardate di dischi in uscita, vi segnalo anche due “supergruppi” che faranno la gioia degli appassionati dei virtuosi degli strumenti.

Spectrum Road è la nuova band che vede insieme Jack Bruce, basso e voce, Vernon Reid, chitarra, John Medeski, tastiere e Cindy Blackman Santana, batteria: che in ordine sparso hanno fatto parte di Cream, Living Colour, Medeski, Martin & Wood, Lenny Kravitz Band & Santana ma, soprattutto, del Tony Williams Lifetime che era il gruppo del batterista di Miles Davis dove aveva suonato Bruce brevemente dopo i Cream, nel secondo album Turn It Over, con Larry Young e John McLaughlin. In effetti gli Spectrum Road erano nati come Tony Williams Lifetime Tribute Band perché c’era già stato un New Tony Williams Lifetime negli anni ’70 con lo strepitoso Allan Holdsworth alla chitarra, più orientato verso il jazz-rock meno cerebrale. Non essendoci più il grande batterista anche se molti dei musicisti che hanno militato nelle varie edizioni sono ancora in circolazione Jack Bruce & Co hanno optato per questo nuovo nome. Il disco è prevalentemente strumentale con qualche brano cantato da Bruce: se volete una piccola anticipazione questo è il brano di apertura dell’album! 

 

I Renegade Creation sono la band di Robben Ford e Michael Landau e questo Bullet è il loro secondo album, questo è quanto ho scritto sul Blog riguardo al primo, se volete rinfrescarvi le idee posso-solo-confermare-michael-landau-robben-ford-jimmy-hasli.html. Appena avrò occasione di ascoltare questo nuovo Bullet vi renderò edotti. La produzione è di Ed Cherney (Dylan, Stones, Clapton, Raitt), nell’attesa…

 

Una “bella lotta”! Alla prossima.

Bruno Conti

Un Altro Secreto (Ben Custodito) Del Rock Americano – The Buddaheads – Wish I Had Everything I Want

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The Buddaheads – Wish I Had Everything I Want – Wilshire Park Entertainment

Questo è un disco “strano” ma veramente bello di rock, quello classico Americano degli anni ’70, quando non c’erano regole o etichette, se volevi fare un disco con brani rock-blues, country, psichedelici, prendevi e lo facevi. Pensate, per avere un’idea, ai primi Dire Straits se Mark Knopfler fosse vissuto in America, poi di colpo vi trovate ad ascoltare il Robben Ford più ispirato e in un battibaleno ecco gli Eagles più rock, ma anche quelli country. E il bello è che si tratta sempre di lui, Alan Mirikitani aka BB Chung King, un musicista di origini asiatiche (i Buddaheads erano gli immigrati che arrivavano negli Stati Uniti dall’Asia dopo la II guerra mondiale) ma che vive ed opera in California nell’area di Burbank dove ha anche uno studio di registrazione.

Un vero virtuoso della chitarra in cui mi ero imbattuto la prima volta recensendo per il Busca il disco di Mick Stover e poi ho approfondito la sua conoscenza nelle vesti di BB Chung King quando è più blues oriented o con questi Buddaheads che sono più eclettici. Inutile dire che i dischi non sono per nulla facili da trovare (non è neppure chiaro quanti ne ha fatti, vista la miriade di alter ego, direi almeno cinque o sei) ma Mirikitani è un “manico” di quelli che stupiscono, un buon autore, un cantante di notevole appeal, un musicista completo quindi e anche se le fonti di ispirazione sono le più disparate il risultato finale per quanto derivativo (e chi se ne frega), soprattutto in questo CD, probabilmente il migliore della sua carriera, è veramente eccellente.

Oltre 70 minuti di musica dove si passa dal rock californiano primi anni ’70 di 123 Old John dove la chitarra di Mirikitani interagisce con l’ottima slide di Randy Mitchell per una serie di assoli che scorrono fluidi e godibili come i Dire Straits degli esordi, citati prima e nello stesso tempo è anche una bella canzone con una struttura solida e belle armonie vocali. Blink Of An Eye è un altro esempio della facilità di scrittura di Mirikitani, un classico country-rock westcoastiano di nuovo con doppia chitarra in azione. Goin’ Out Of My Mind, con i fiati sincopati e l’organo di Jim Pugh in evidenza è solido blues-soul alla Robert Cray dei giorni migliori  e la chitarra è sempre scintillante. Tattoo Girl farebbe il suo figurone in qualsiasi disco di Robben Ford, di nuovo in accoppiata con la slide di Mitchell, il buon Alan dimostra ancora una volta perché è considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione. E nello slow Mountain Of Blues stende tutti con un brano che mi ha ricordato il miglior Ronnie Earl, e in più canta pure bene.

Poi, improvvisamente, ti ritrovi con le atmosfere country di This Love Of Mine, ma è un attimo e si ritorna al rock grintoso di Head First Into The Wall con la chitarra “cattiva” di Mirikitani (ogni volta devo controllare se ho scritto bene il nome!) in primo piano. A questo punto sei lì tutto attizzato con la tua air guitar e ti parte una sequenza di ballate country dolci e melodiche che non ti aspetteresti: You And Me, No Part Of It, She’ll Never Know e Jack Of All Trades, una più bella dell’altra che nemmeno gli Eagles dei tempi migliori e sembra di essere in un altro disco, impressione stranissima ma non si può negare che è musica di grande qualità.

A questo punto avevo estratto lo Stetson quando ti parte un funky-blues psichedelico alla Jimi Hendrix, Evil che ti stende di nuovo, nella parte centrale Mirikitani strapazza la sua chitarra ed estrae delle sonorità incredibili dalla solista, e “diciamolo” come avrebbe detto l’ex ministro La Russa/Fiorello, che è un disco pieno di sorprese, nel senso letterale delle parole! Trailer Queen avreste potuto trovarla su Desperado o su qualche disco di Rick Roberts e Wish I Had Everything I Want su qualche disco della Steve Miller Band dei tempi d’oro,  per concludere con una Psychedelic Highway, un brano strumentale che si presenta da solo, con slide e solista di nuovo in grande spolvero. Musica da autostrada in macchina, da casa, da cuffie, dove volete ma ascoltatela perché questo tipo è veramente bravo! Forse i fans della prima ora non apprezzeranno la svolta meno rock-blues rispetto ai dischi precedenti, ma al sottoscritto è piaciuto parecchio. Caldamente consigliato.

Bruno Conti 

Un Altro “Grande” Giovane Bluesman Da Manchester! Matt Schofield – Anything But Time

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 Matt Schofield –  Anything But Time – Nugene Records

Il disco precedente di Matt Schofield Heads Tail And Aces ha ben figurato in molte polls di fine anno, miglior disco Blues, miglior chitarrista, anche la rivista Mojo l’aveva segnalato tra i 5 migliori CD Blues dell’anno.

Questo nuovo Anything But Time mi sembra anche meglio. Prodotto dal grande John Porter (uno che di dischi blues se ne intende) in quel di New Orleans ritorna al formato trio, chitarra, organo, batteria, senza bassista ma con Johnny Henderson che provvede alla bisogna con i pedali dell’organo.

Schofield, inglese di Manchester fa parte di quella NWOBB (New Wave Of British Blues) che sta rinvigorendo un settore che aveva stagnato per un certo periodo. Ian Siegal di cui è uscito di recente l’ottimo The Skinny, di cui Schofield aveva prodotto i tre album precedenti, Aynsley Lister, di cui vi ho parlato in varie occasioni, Oli Brown, Danny Bryant, Simon McBride tanto per ricordare i primi che mi sono venuti in mente ma ce ne sono altri. Che fanno da contraltare ai vari Kenny Wayne Sheperd, Bonamassa, Derek Trucks, John Mayer, Johnny Lang, la lista è lunga, che operano in America. Insomma la scena rock-blues è fresca e pimpante e questo album non fa altro che confermarlo. Si tratta del suo quarto disco di studio, più i due live iniziali che avevano fatto seguito ad un lungo apprendistato come chitarrista nella band di Dana Gillespie.

Insomma Schofield la sua gavetta l’ha fatta e se all’inizio veniva spesso inserito tra gli artisti jazz il suo genere è decisamente Blues. Raffinato, con molti punti in comune con Robben Ford, a cui spesso viene avvicinato ma anche allo stile di chitarristi come Ronnie Earl o Duke Robillard, insomma quelli molto tecnici e raffinati. Ed è anche veramente bravo, molto vario e in possesso di una tecnica che gli consente un continuo passaggio tra ritmica e solista per ovviare alla mancanza, peraltro voluta, del bassista. Il nuovo batterista è Kevin Hayes che ha suonato per 18 anni nel gruppo di Robert Cray e l’ospite di riguardo è Jon Cleary, un residente di New Orleans.

Come Ford, Bonamassa, Lister e altri, Schofield non è un fulmine di guerra come cantante ma è più che adeguato e disco dopo disco sta migliorando aumentando sempre più il numero dei brani cantati rispetto agli strumentali, questa volta “l’en plein”.

E’ anche un buon autore come dimostrano gli otto brani originali (firmati con la partner Dorothy Whittick) a fronte di due sole cover, inconsuete: la prima è un brano di Steve Winwood At Times We Do Forget, un brano recente tratto da Nine Lives che ce l’ha proprio stampato in fronte, Winwood Winwood Winwood, inconfondibile in quel blue-eyed soul piacevole del grande musicista inglese. L’altro brano, molto più consistente, è una cover di Where Do I Have To Stand di Albert King uno slow blues che permette lo strike (brani di Freddie e BB King già fatti nei dischi precedenti), la chitarra scorre fluida, torrenziale e melliflua in uno stile molto vicino a quello del già citato Robben Ford. In questo disco, in un brano, Dreaming Of You Schofield si avvicina per la prima volta anche alle sonorità ritmiche e soliste di Jimi Hendrix, una influenza musicale mai accostata in passato e in questo caso “omaggiata” con gusto e bravura tecnica (perché bravo il “ragazzo” è bravo)!

Il New Orleans Sound trova terreno fertile nella ritmata One Look (And I’m Hooked) con il Wurlitzer e il clavinet di Jon Cleary che “fiancheggiano” la chitarrina funky insinuante di Schofield e l’organo di Henderson. Oltre che nella già citata cover di Winwood il piano di Jon Cleary è presente anche nell’ottimo slow blues See Me Through con la chitarra di Schofield che mi ha ricordato molto il miglior Ronnie Earl (e anche il Santana meno latineggiante). L’iniziale Anything But Time è un omaggio al sound Stax di Booker T and The Mg’s con organo e chitarra a fare le parti che furono di Cropper e Jones.

Anche Where Do I have to stand vira verso il blues classico o organ power trio come lui stesso lo definisce mentre Shipwrecked è più ritmato e funky con il solito interplay micidiale tra l’organo e la chitarra fiammeggiante di Schofield.

Mancano la Claptoniana Wrapped Up In Love e la conclusiva Share Our Smile Again che si spinge in territori più leggeri, quasi pop, alla Lang o John Mayer e diminuisce l’impatto complessivo dell’album che rimane comunque ottimo e abbondante. Per chi ama la chitarra e il blues solido contemporaneo di gran classe e tecnica.        

Bruno Conti

Carneadi, Chi Sono Costoro? Tony Vega Band & Paul Black

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Tony Vega Band – Dog Gone Shame – Red Onion Records

Paul Black – Blue Words – Self-Produced

Cosa unisce questi due dischi? Assolutamente nulla, o meglio no, li unisce una comune passione per il Blues e il fatto di essere entrambi nella categoria dei “Carneadi, chi erano costoro?” e perché proprio loro tra tutti gli “sconosciuti” che là fuori suonano il Blues? E perché no?
Scherzi a parte questi sono due tosti, chitarristi e cantanti entrambi con il loro bravo trio alle spalle e tanta gavetta, ma ragazzi se suonano, tutti e due! (E poi, come dice quello là, diciamolo, se non unifico un po’ di recensioni non riesco a tenere il ritmo delle uscite).

Partiamo da Tony Vega che non è al primo disco, ne ha già fatti un paio prima di questo, che non conosco, ma a giudicare da quello che ho sentito mi sa che investigherò ulteriormente. La sede della band è Houston, Texas ma non fanno del blues texano o comunque non solo quello. Se dovessi trovare un difetto direi che la voce di Tony Vega non è particolarmente memorabile, efficiente e precisa ma non ti emoziona, mi ricorda vagamente Robben Ford o Bonamassa (come cantante), però tutto il resto funziona alla grande. Intanto la prima cosa che colpisce è la pulizia e nitidezza del suono del disco, quasi una produzione da major, basso pulsante e batteria con un bel colpo secco e vibrante, la chitarra pulita a livello di sonorità ma molto vissuta a livello qualitativo. Il ragazzo (si fa per dire visto che la band è in attività da una dozzina di anni) è un bel manico, uno stile molto variato ed una tecnica individuale notevolissima, nitida quando suona i blues lenti, per esempio l’eccellente So Alive, sporca e cattiva come nell’iniziale Dog Gone Shame e nella virulenta Shake Them Bones, molto riffate, con la voce distorta, e che poi ti sommergono sotto una valanga di note, aiutato anche dall’armonica dell’ottimo Sonny Boy Terry (un nome un programma), ma anche molto canonica e quasi jazzata nella Fordiana (nel senso di Robben) It Ain’t Easy. C’è anche il blues con licenza di funky di Down In New Orleans e le cavalcate slide alla John Campbell di Edgar Poe Blues o il blues più tradizionale di Shake ‘em on Down senza dimenticare i due strumentali conclusivi che ci permettono di apprezzare la grande varietà stilistica di questo ottimo virtuoso dello strumento.

Se devo essere sincero ho una leggera preferenza per il canadese Paul Black, al secondo album con questo Blue Words. Il suono è meno pulito e levigato, ma la voce è potente e vissuta, molto bluesata ma anche con retrogusti sudisti e “sudati”, il suono si muove tra l’Hendrix meets Stevie Ray dell’iniziale Talk To Me e il blues con licenza di slide della grintosa Slippin’ Away. C’è anche il blues torrido, e sottolineato da un organo hammond, di Jelly Fish. Ma in questo album ci sono anche alcuni brani che esulano dal blues, per esempio la bellissima ballata in classico stile southern intitolata Breathe che fa molto Lynyrd Skynyrd e nel suo andamento mi ha ricordato molto i brani di un altro sudista doc, Ian Moore (che fine ha fatto?) e che ci permette di apprezzare la voce di Black che è veramente molto bella!  Anche Blue Words con la sua chitarra choppata ha un suono molto rootsy mentre Little Mary con quella slide insinuante e una acustica appena accennata si dipana in un bel crescendo ancora colorato da atmosfere sudiste e con la voce sempre in grande in evidenza. Questo sound si conferma nell’ottima Burn, Black sarà pure canadese ma in questo disco si respira aria del Sud degli States.

Who’s in my house ci riporta verso sonorità più vicine al classico Texas sound della famiglia Vaughan mentre It’s Alright qualche debituccio verso il buon Jimi ce l’ha. Much 2 Much è un’altra bellissima ballata, proprio una bella canzone, con piano e organo che sostengono l’eccellente interpretazione di Black che lavora di fino anche alla solista, il risultato è da incorniciare. Fly se possibile è ancora meglio, un brano mosso che ricorda quelle atmosfere di frontiera di certi brani di Tom Russell o Joe Ely, con l’elettrica di Paul Black che disegna ghirigori quasi flamenco sul tessuto della canzone. Una vera delizia! Conclusione in solitaria, solo voce e chitarra acustica con Sister Sadness e anche lì il nostro amico si conferma un talento da tenere d’occhio.

Ma direi attenti a quei due! (complimenti a chi ha fatto i video con la musica di Paul Black)

Bruno Conti