Altro Texano, Sono Ovunque! Jim Suhler – Panther Burn

jim suhler panther burn

Jim Suhler – Panther Burn – Underworld Records

Jim Suhler, texano, 53 anni (è nato a Dallas alla fine del 1960) è un veterano di quella scena che sta a cavallo tra rock e blues: da quindici anni è il secondo chitarrista dei (Delaware) Destroyers di George Thorogood (quindi un sudista infiltrato), ma ha anche una sua band, i Monkey Beat, un power trio che è in pista dall’inizio anni ’90 http://www.youtube.com/watch?v=G8hYm3Lbu9w ed ha esordito con un eccellente Radio Mojo nel 1992 (forse l’ho anche recensito per il Buscadero ai tempi, non ho tenuto un archivio di tutti gli articoli, ma forse era un altro titolo, comunque ho già incrociato la mia penna con la sua chitarra). Eh sì, perché Suhler è un chitarrista di quelli tosti, profondamente influenzato, tra gli altri, dal corregionale Steve Ray Vaughan, con il quale non ha mai diviso il palco (secondo un aneddoto che racconta lo stesso Jim si sono incrociati solo una volta, quando Vaughan entrò nel negozio del padre di Suhler per farsi riparare l’orologio). Comunque che l’incontro sia avvenuto o meno, già dagli anni ’80 il nostro amico calcava i palcoscenici del Texas con gente come Bugs Henderson, Anson Funderburgh, Jimmie Vaughan, Rocky Hill, se ve lo state chiedendo, sì, è il fratello di Dusty, il bassista degli ZZ Top, altra grande influenza, con Rory Gallagher, Led Zeppelin, Allman Brothers, tutta gente la cui musica si sente riverberarare in quella di Jim Suhler, ma ne parliamo tra un attimo, “sfogliando” il disco http://www.youtube.com/watch?v=rBxNj5FfMec .

jim suhler thorogood

Oltre che con Thorogood, Suhler ha collaborato a livello discografico con Alan Haynes (in questo caso nessuna parentela, almeno credo, con Warren), Elvin Bishop, Joe Bonamassa, Buddy Whittington, tutta gente “bravina”! Questo Panther Burn però non è a nome dei Monkey Beat, ma come solista. Cosa diavolo è “panther burn”? Dalla copertina si direbbe una marca di whiskey fatta in casa, ma secondo il titolare dell’album dovrebbe essere il nome di una piccola cittadina lungo il Mississippi: altro luogo fisico e della fantasia, che influenza molto la musica del buon Jim. Che, forse non l’ho detto, è anche un ottimo produttore, come testimonia il suo lavoro con il bravissimo Jason Elmore e i suoi Hoodoo Witch, di cui Suhler ha prodotto l’esordio Upside Your Head ed è stato il supervisore per il secondo, Tell You What http://discoclub.myblog.it/tag/jason-elmore/ . Poteva mancare il suddetto per un pirotecnico duetto nella micidiale Between Midnight And Day, il brano dove le influenze di Led Zeppelin, ZZ Top, ma anche Deep Purple e dei contemporanei Black Crowes scorrono più fluenti? Certo che no? Ed infatti i due ci danno dentro di brutto in quel pezzo, con le chitarre usate come si dovrebbe nel miglior rock-blues http://www.youtube.com/watch?v=izrrdKch3UM !

jim suhler 1

Tom Hambridge aveva prodotto il precedente Tijiuana Bible (quello dove appare anche Bonamassa) http://www.youtube.com/watch?v=tcKASk8DwMs , mentre per questo Panther Burn ha fatto tutto Suhler, produzione, autore dei brani, bassista quando serve, e, naturalmente, chitarra solista di rara varietà sonora. Il disco, ad un primo ascolto, mi era parso che non decollasse subito, invece direi che il posizionamento dei brani è voluto, per creare un giusto crescendo, tra picchi e vallate sonori, momenti più tranquilli, attimi strumentali, in definitiva un disco assai riuscito, non solo per amanti della chitarra nuda e cruda http://www.youtube.com/watch?v=7xFO74sPIZI . Dalla title-track che mescola con maestria elementi blues classici come la slide ricorrente, ad altri più tipicamente rock grazie all’organo di Tim Alexander e alla batteria cadenzata di Beau Chadwell che conferiscono un’atmosfera vagamente tra lo swamp e i migliori pezzi rock dell’appena citato Bonamassa, con tanta chitarra, ovviamente. I Declare è un classico blues, con l’armonica dell’ottimo Kim Wilson ad aumentarne la credibilità, anche se il pianino a tempo di shuffle del bravo Alexander per certi versi mi ha ricordato alcune delle cose più canoniche del grande Rory Gallagher, uno molto stimato dai musicisti americani, per esempio anche Jason Elmore è un adepto.

jim suhler 2

Across The Brazos ha un bel tiro blues, riff alla Spoonful di claptoniana memoria, un organo “trattato” a spalleggiare la solista di Suhler, una slide che fa capolino, ancora l’ottimo Alexander in evidenza, questa volta pure alla fisarmonica e al piano, per un suono molto composito e poi il “solito” assolo di chitarra che non può mancare. Leave My Blues Behind, con l’altro organista Shawn Phares e un paio di fiati aggiunti, ha una costruzione sonora molto swingata ma mi ha ricordato anche certe sonorità del British Blues, tipo Bluesbreakers o i Fleetwood Mac di Peter Green, anche per la voce di Suhler che li ricorda vagamente. I see you è uno dei brani più complessi (dedicata alla figlia Brittany, scomparsa in un incidente d’auto nel 2002), con una costruzione che oscilla tra il jazzato ed il modale e che ricorda la Butterfield Blues Band di Bloomfield o i Groundhogs di Tony McPhee, con slide acustiche ed elettriche orientaleggianti, interessante, a conferma della notevole varietà di temi proposti in questo CD. Remember Mama è uno strumentale principalmente acustico, ma con chitarre elettriche, tastiere, viola e percussioni aggiunte che danno un’aria sognante al pezzo che oscilla tra psichedelia gentile e prog-rock classicheggiante.

jim suhler 3

Texassippi, già dal titolo, è una riuscita fusione tra country texano e blues acustico del Delta, eseguita alla perfezione, mentre Sky’s Full of Crows ribalta ancora i tempi, sembra un pezzo degli Allman Brothers di Brothers And Sisters, country, southern rock, una slide insinuante, un bel organo, la solista molto “Bettsiana”, tutti frullati insieme con grande abilità da Suhler che mantiene anche, come produttore, una notevole chiarezza nel suono, mai troppo sopra le righe. L’unica concessione è la già citata Between Midnight and Day, dove viene dato libero sfogo alla ferocia più sana dell’hard-rock migliore. Dinosaur Wine è un country-boogie-rock, con pianino e slide ad inseguirsi continuamente, reminiscente dell’Alvin Lee più dedito al R&R, Amen Corner è una intramuscolo di meno di un minuto, solo organo e chitarra e fa da introduzione al gospel blues di All God’s Children (Get The Blues Sometimes) che tiene fede al proprio nome, una seconda voce femminile (la brava Carolyn Wonderland) alle spalle di quella sempre godibile di Suhler (molto bene anche come cantante in tutto l’album), più Ray Benson degli Asleep At The Wheel e tutti i salmi finiscono in blues. Jump Up, Sister con tanto di finto fruscio del vinile aggiunto è della famiglia roots rock, con due chitarre malandrine e il lavoro di Alexander a completarsi in modo perfetto. Conclude la poderosa Worlwide Hoodoo, uno di quei pezzi rock fiammeggianti che ti fanno godere, chitarra a manetta, organo e via andare!

Non voglio darvi l’impressione che si tratti di un capolavoro (anche se siamo decisamente sopra la media), però è un disco estremamente ben fatto e piacevole di musica rock (e blues), destinato ai forti consumatori della nostra musica e quindi a loro consigliato, però se qualcuno vuole provare…

Bruno Conti

E Anche Questa “Canta”! Ursula Ricks – My Street

ursula ricks my street.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ursula Ricks – My Street – Severn Records

Il suo nome è Ricks, Ursula Ricks, viene da Baltimora, Baltimore per gli americani, una importante città fluviale del Maryland, nel nord-est degli States, una delle più “antiche”, sede di una importante Università, la John Hopkins, musicalmente è la patria di gente come Frank Zappa, Philip Glass, Billie Holiday (ma solo come città adottiva, negli anni dell’infanzia, è nata a Filadelfia), quindi non una scena musicale attivissima. Perché vi dico tutto questo, se non c’entra con il resto? Perché un incipit è importante, attira il lettore verso quello che è il contenuto successivo. In effetti, a ben guardare, un ulteriore nesso con Ursula Ricks c’è, Annapolis, dove è stato registrato il disco per la Severn (che è anche il nome del fiume della città, fine della lezione di geografia), è la capitale del Maryland.

Proprio la Severn, ultimamente, si sta segnalando come una delle etichette più attive ed interessanti della scena indipendente blues & soul americana: tra i loro progetti recenti, l’ottimo ultimo album di Bryan Lee, di cui vi ho parlato nei mesi scorsi, l’ultima fatica dei Fabulous Thunderbirds, la doppia antologia di Alan Wilson ed ora questo My Street che segna l’esordio di Ursula Ricks. Dopo oltre venti anni di attività nei locali con il suo Ursula Ricks Project, un gruppo dedito all’interpretazione di cover soul, R&B e blues, la nostra amica, non più giovanissima, pubblica il suo primo album di materiale originale (con solo un paio di cover), un po’ come era successo per Charles Bradley (visto dal vivo di recente, è veramente bravo) pochi anni orsono. Magari la Ricks è un poco più giovane, ma lei e i suoi amici “paciarotti” del progetto, come potete vedere da molti video che si trovano in rete, è una notevole interprete di musica nera: presenza scenica, gran voce, bassa, risonante e potente, feeling a tonnellate.

Quelli della Severn le hanno messo intorno la loro house band, più alcuni ospiti di spicco e voilà, ecco questo piacevole e trascinante My Street, un disco di funky blues, se così vogliamo definirlo. Producono Kevin Anker, anche alle tastiere, Steve Gomes, pure al basso e il boss, David Earl, gli arrangiamenti di fiati ed archi sono del grande musicista di Chicago Willie Henderson, lo stesso team di Bryan Lee, ed i risultati sono eccellenti. Dal vigoroso blues iniziale, Tobacco Road (non quella famosa, un caso di omonimia), con Kim Wilson ospite all’armonica e Johnny Moeller alla chitarra, peraltro presente in tutto il disco, che con l’aggiunta del veterano Rob Stupka alla batteria garantiscono un sound bluesy alle procedure, che però spesso e volentieri virano verso motivi soul ed errebì veramente sanguigni. Come ad esempio nella ballata soul Sweet Tenderness dove la vociona espressiva della Ricks (che, modestamente, ringrazia l’Universo (!) per i suoi talenti, nelle note) assume quasi delle tonalità alla Nina Simone (una che ha fatto un disco intitolato Baltimore, per i corsi e ricorsi della vita), carezzata dagli archi e dai fiati di Henderson e dalle deliziose armonie vocali di Christal Rheams e Caleb Green, sembra un brano di Al Green o di Isaac Hayes del primo periodo. Mary Jane non sembra, è proprio una cover di una canzone di Bobby Rush, funky e ritmata il giusto, con un basso sinuoso, la chitarra di Moeller che fa lo Steve Cropper della situazione e tutto il gruppo che gira alla grande.

Sempre il giusto ritmo anche nella title-track My Street che ci permette di gustare appieno la vocalità della Ricks. Che è ancora più avvolgente in Due, un altro dei brani dove archi e fiati, più l’organo di Anker contribuiscono a creare quel mood raffinato à la Stax anni d’oro, Mike Welch, un altro degli ospiti nell’album, ci piazza un assolo dei suoi. E si ripete nella decisamente più bluesata Right Now dove lui e Moeller si scambiano licks chitarristici di gran classe intorno alle evoluzioni vocali della brava Ursula. The NewTrend ha di nuovo quell’afflato soul Staxiano se mi passate il termine, ma quello degli anni ’70, meno ruspante e più raffinato. Make Me Blue, di nuovo con le raffinate traiettorie orchestrali di Henderson, ha un qualcosa del miglior Barry White, quello “soffice” pre-disco, con chitarrine e fiati che colorano la performance vocale di gran qualità della Ricks. Che si ripete ancora alla grande in un brano come Just A Little Bit Of Love, che ti fa esclamare Curtis Mayfield ancora prima di avere letto l’autore del brano, bellissima e con una nota di merito ancora per Johnny Moeller che con la sua chitarra wah-wah pennella un sound vecchio stile di gran classe. Di nuovo Moeller sugli scudi nella ondeggiante What You Judge, ma tutto il gruppo suona come un orologio di marca, preciso e puntuale intorno alla vocalità corposa di Ursula Ricks, una veramente brava e meritevole di essere scoperta, se ne avete voglia segnatevi il nome!                                              

 Bruno Conti

Dal Vermont Ad Austin, Passando Per Milano! Greg Izor & The Box Kickers – Close To Home

greg izor close to home.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Greg Izor & The Box Kickers – Close To Home – Tangle Eye Records

Spesso l’incipit, l’attacco, come diavolo volete chiamarlo, di un articolo, di una recensione, è importante, perché serve per attirare l’attenzione del potenziale lettore. E la copertina di questo Close To Home di Greg Izor me lo serve su un piatto d’argento, come si suole dire. Cosa ca…spiterina ci fa un nativo del Vermont, ma residente in quel di Austin, Texas, su un marciapiede di Via Torino a Milano, ritratto per la foto del suo secondo album, mentre, occhiale nero d’ordinanza per il musicista cool, controlla quello che ha tutto l’aria di un tablet? Ovviamente la risposta non la so (se mai mi capiterà di incontrare il buon Greg glielo chiederò!), ma il panorama sullo sfondo dell’immagine, per me che abito a Milano, pare sicuramente quello di una delle vie più famose del centro della città lombarda e non lo skyline della capitale del Texas, dove Izor abita.

E tutto questo dove ci porta? A niente, ma era un modo simpatico per introdurre questo nuovo personaggio della scena blues americana, un armonicista e cantante che secondo molti è destinato a riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa del grande Gary Primich, mentre per altri, lo stile di Izor, non solo legato al blues, lo avvicina al lavoro di un personaggio come James Harman, che non è solo strumentista e cantante, ma anche ottimo autore di canzoni, particolare che lo lega a questo signore, che ha firmato tutti i dodici brani di questo Close To Home, disco che abbraccia anche le influenze maturate nella sua lunga permanenza in quel di New Orleans, quando era nella band di Jumpin’ Johnny Sansone e poi il suo girovagare in giro per il mondo che lo ha portato anche ad esibirsi in Italia (da qui, penso la foto) accompagnato dal Max Prandi Vintage Trio, debitamente ringraziato nelle note del CD.

La musica che si ascolta in questo disco spazia dal classico shuffle di apertura, Get My Money, dove Izor soffia con vigore nella sua armonica ma svela anche le sue ottime capacità vocali, un cantato degno dei suoi illustri predecessori, ottimamente illustrato anche nella misteriosa Can’t Get Right, dove accanto alla sua armonica cromatica si apprezza anche il lavoro dei due ottimi chitarristi che lo accompagnano in questo album, Mike Keller (seconda chitarra dei Thunderbirds) e Willie Pipkin, spesso impiegati nella band di un altro grande armonicista texano, quel Kim Wilson, leader anche dei Fabulous Thunderbirds, a cui sembra ispirarsi il sound decisamente più rock di un brano come Straight Time che potrebbe però venire anche da un disco vintage dei Blasters. Coinvolgente e divertente pure il breve strumentale Three-Eyed Tiger che consente alla cromatica di Greg di lanciarsi anche verso temi musicali spagnoleggianti o messicani, inconsueti per un disco blues. What It’s Going To Take devia addirittura verso sonorità tra country e R&B e ci permette di gustare ancora l’ottima vocalità del “ragazzo” e l’immancabile armonica di cui è senza dubbio un virtuoso. The Rub torna al blues più classico, un lento di quelli torridi e “cattivi”, cadenzato ancora dalla fioriture improvvise della cromatica e dalla voce evocativa dell’ottimo Izor.

Call Me Lonesome, già dal titolo, profuma di Texas country, un valzerone strappalacrime in cui ci narra le sue disavventure amorose e anche l’armonica, per rispetto, si ingentilisce, per tornare vibrante nella lunga Broadway, forse il miglior esempio di blues urbano presente in questo Close To Home, caratterizzato anche da una decisa performance vocale. L’armonica è nuovamente protagonista in Hooper Street,un brano ispirato al sound di gente come Sonny Boy Williamson ed altri maestri del Blues, mentre in From Hello, una bella ballata influenzata dal suono della Crescent City, l’armonica riposa e ci si concentra sulle sue virtù di cantante, notevoli in questo brano e sulla chitarra di Keller (o è Pipkin? Francamente non lo so, ma il risultato è ottimo!). Anche in G.I. Blues niente armonica, ma come da titolo le 12 battute classiche non mancano, ancora dominate dal lavoro preciso dei due solisti e dal “bravo cantante” Izor. Che poi si scatena all’armonica nella conclusiva title-track, Close To Home, un notevole strumentale che chiude in gloria questo ottimo lavoro. Prendete nota del nome, please!

Bruno Conti    

Suonerà Ancora Il Blues (E Non Solo) Per Voi! Bryan Lee – Play One For Me

bryan lee play one.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bryan Lee – Play One For Me – Severn Records

Torna Bryan Lee “giovanottone” quasi settantenne (a seconda delle biografie, già compiuti o meno, con questi bluesmen non si sa mai), residente in quel di New Orleans da lunga data, ma nativo del Wisconsin. E lo fa con il suo primo disco per la Severn, dopo anni di militanza con la canadese Justin’ Time: uno dei migliori stilisti del blues ancora in attività tra le vecchie glorie, in possesso di una tecnica chitarristica notevolee, esplicata soprattutto nei concerti dal vivo, ma anche di una voce potente e vellutata allo stesso tempo, con molti punti di contatto con quella di BB King (anche lui, ormai, suona seduto ai concerti dal vivo). Questo Play One For Me è meno “selvaggio” di altre prove discografiche di Lee, più raffinato e ricercato negli arrangiamenti a cura di Willie Henderson, spesso anche con l’uso di archi e fiati, coordinati dal terzetto di produttori, Kevin Anker, David Earl (il boss della Severn) e Steve Gomes, negli studi di Annapolis, MD, di proprietà dell’etichetta.

Anche il gruppo che accompagna Bryan è una novità per lui: alcuni veterani della scena blues americana, Kim Wilson, armonica e Johnny Moeller, alla chitarra ritmica, dai Fabulous Thunderbirds, Kevin Anker e Steve Gomes che non si limitano a produrre ma suonano anche tastiere e basso e Rob Stupka, un batterista che oltre che con la famiglia Allison (Luther e Bernard) ha suonato con molti nomi del blues contemporaneo, alcuni presenti anche in questo CD. Equamente diviso tra cover e brani originali, cinque per categoria, il disco ha un suono più “tradizionale” rispetto ad altre prove di Bryan Lee più influenzate dal rock, ma ogni tanto si infiamma, come in una “cattiva”, visto anche il titolo, versione di Evil Is Going On che tutti conosciamo semplicemente come Evil ed è proprio il classico scritto da Willie Dixon per Howlin’ Wolf. Altrove Lee è più mellifluo, come nell’ottima cover, ricca di soul, del classico Aretha (Sing One For Me), cantata in origine da George Jackson, ma “coperta” anche da Cat Power nel suo disco di rivisitazioni Jukebox, qui Bryan suona in punta di dita ed è coadiuvato a meraviglia dai suoi pards e dalle sezioni fiati ed archi, per una versione sontuosa di questo brano.

Ma l’omone di Two Rivers, le cui dimensioni ricordano quelle dei due King, B.B. e Albert, è perfettamente a suo agio anche quando rivisita un brano del repertorio del terzo King, Freddie, It’s Too Bad (Things Are Going So Tough), un blues lineare con la solista che scivola sinuosa sulla ritmica felpata del gruppo di Lee. O in una ottima versione di When Love Begins (Friendship Ends), un brano scritto da Aaron Willis per Bobby Womack, che sembra, nel suo andamento maestoso, uno dei classici Stax di Isaac Hayes o meglio ancora del già ricordato Albert King, con gli archi e i fiati che colorano il suono mentre il wah-wah di Moeller discretamente si mette al servizio della solista di Bryan Lee che realizza una delle migliori performance del disco. Di Evil abbiamo detto, aggiungerei l’ottimo lavoro dell’armonica di Kim Wilson, nel brano suddetto e abbiamo un quartetto iniziale di canzoni di grande spessore. Ma anche quando Lee si dedica al proprio repertorio come nella poderosa You Was My Baby (But You Ain’t My Baby Anymore), la chitarra è sempre guizzante e tirata, la ritmica pompa di gusto e i risultati si sentono. L’ultima cover è un brano Straight To Your Heart di un oscuro ma valido bluesman di nome Dennis Geyger, conosciuto da Lee probabilmente nel suo girovagare per concerti negli States, onesto ma non memorabile.

Più vibrante il classico slow-blues dall’andatura caracollante, Poison, che racconta di avventure in quel di New Orleans e ha nel suo DNA il voodoo della città adottiva di Bryan, con voce filtrata e minacciosa, armonica d’ordinanza di Wilson e tutta la band che ripete il rito classico delle 12 battute che sfocia in un assolo tagliente della solista di Lee. Let Me Love You è un’altra slow ballad deliziosa ad alta gradazione soul, tra Memphis e New Orleans, arrangiata con gran classe da Henderson, un piccolo gioiellino, sempre impreziosito dalle evoluzioni della solista. Non male anche Why con l’organo di Anker a duettare ancora una volta con la chitarra, mentre Lee declama con piglio gagliardo il testo della canzone, prima di rilasciare un altro assolo dei suoi. Sixty-Eight Years Young oltre a chiarire il dato anagrafico è un onesto funkaccio, vagamente alla James Brown, con una strana chitarra molto trattata a farsi largo tra i ritmi marcati del pezzo, sempre buono ma inferiore agli altri brani di un disco blues e dintorni dai contenuti notevoli. Bryan Lee ancora una volta non delude!

Bruno Conti

Due “Vecchi Marpioni” Del Blues Tornano All’Elettrico. Smokin’ Joe Kubek & Bnois King – Road Dog’s Life

smokin' joe kobek road dogs.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Smokin’ Joe Kubek & Bnois King – Road Dog’s Life – Delta Groove

Dopo l’Unplugged Close To The Bone, uscito lo scorso anno per la Delta Groove, l’accoppiata Smokin’ Joe Kubek & Bnois King (una delle più collaudate ed affidabili del blues moderno) per questo secondo disco con l’etichetta di Van Nuys, California, torna alla formula classica del blues elettrico ( vedi smokin%27+joe+kubek Have Blues Will Travel) e per farlo si affida ad alcuni personaggi che gravitano intorno alla casa discografica: il Boss Randy Chortkoff è il produttore dell’album, ma si alterna anche con Kim Wilson, all’armonica in alcuni brani, Kid Andersen, il chitarrista di Little Charlie & The Nightcats si divide gli spazi della solista con Kubek e King, in una gagliarda That Look On Your Face, dove le chitarre ci danno dentro alla grande. E la sezione ritmica Willie J. Campbell, Jimi Bott è quella degli ottimi Mannish Boys. Sempre perché i musicisti, checché quello che pensano alcuni, sono importanti. E qui siamo ben coperti.

Anche le canzoni ovviamente rivestono la loro importanza e Kubek e King, per l’occasione ne hanno scritte alcune veramente gustose. Ma partiamo dalle cover: per una giusta ecumenicità ce n’è una degli Stones, Play With Fire e una dei Beatles, scritta da George Harrison, Don’t Bother Me. Più classicamente blues-rock la prima, interessante la versione rallentata della seconda, una delle canzoni meno note di George, che prende vita in questa bella e raffinata versione con un paio do lirici assolo di entrambi a nobilitarla nella parte centrale e finale.

Per il resto è business as usual per i due compari che, nonostante la vita da cani sulla strada, se la ridacchiano sulla copertina del disco e ci deliziano con una ulteriore dose di ottimo blues and roll Texas style:dalle atmosfere sudiste di Big Money Sonny passando per il suono rootsy di Come On In per arrivare al blues puro di Nobody But You affidato alle voci e alle armoniche di Kim Wilson e di Chortkoff, con le chitarre taglienti sempre all’erta.

E poi di nuovo con il piede sull’acceleratore per la title-track che conferma le ottime attitudini rock-blues del boogie del trio, ma anche in grado di prodursi in un classico slow cadenzato come K9 Blues o nelle derive vagamente latineggianti di That Look On Your Life sempre con le due chitarre impegnate a deliziare l’ascoltatore. Face to Face è più normale, ma in Ain’t Greasin’, di nuovo con Kim Wilson di supporto, il sound ricorda molto quello dei gloriosi T-Birds. Talkin’ Bout Bad Luck è il classico bluesazzo urbano alla Muddy Waters, bello tosto e “minaccioso” mentre la conclusiva That Don’t Work No More, vagamente R&R, è piacevole ma nulla più. Delle due cover si è detto, direi una cinquantina di minuti di buona musica, non solo per bluesofili incalliti.

Bruno Conti

Un Gallese In Australia. Gwyn Ashton – Radiogram

gwyn ashton radiogram.jpg

 

 

 

 

 

 

Gwyn Ashton – Radiogram – Fab Tone/Proper

Anche Gwyn Ashton è un “cliente abituale” del sottoscritto, un nome ricorrente: avevo parlato sul Busca del suo precedente album, Two-Man Blues Army, un onesto, anche buono, esercizio di rock-blues, rock classico, influenzato da Hendrix e Gallagher e con un notevole tiro chitarristico. Per chi non avesse letto quella recensione, ricordo che Ashton è un gallese emigrato in Australia da ragazzino, dove è diventato uno dei punti di riferimento della scena blues down under, con una discreta carriera alle spalle e forse un punto di arrivo nell’album citato. Ora con questo Radiogram, registrato in Inghilterra, mixato a Los Angeles e masterizzato in Australia, il nostro amico Gwyn sposta l’asse sonoro della musica verso un sound più tipicamente rock, anche radiofonico come lascia intendere il titolo del CD, nel senso della vecchia radio FM degli anni ’70, dove potevi ascoltare musica più composita.

La vena blues è sempre presente e anche l’amore per Hendrix e certo rock-blues classico, I Just Wanna Make Love per il primo e Don’t Wanna Fall, che ha nel riff più di un punto di contatto con Badge dei Cream, per il secondo. Il blues è più mascherato: quando leggi, sul badge della copertina, appunto, il nome di Kim Wilson tra gli ospiti del disco, ti viene da esclamare “apperò”, poi ascolti l’iniziale Little Girl dove appare l’armonicista di Detroit (eh sì, perché non è ne californiano né texano, come pensano in molti) e lo ritrovi solo nei venti secondi dell’outro del brano e potrebbe essere chiunque, anche il gatto dei miei vicini, o l’ottimo Johnny Mastro che poi suona in altri brani come la bluesata, questa sì, Let Me In. Cosa voglio dire con questo? Che Gwyn Ashton è un buon musicista, un pedalatore delle sette note, ma rimanendo nel paragone ciclistico, non è un fuoriclasse, uno da “classiche” o Giri, è uno che può vincere la corsa di giornata, ha classe alla chitarra, un buon tocco, ma non rimarrà nella storia della musica, anche se nello stesso tempo, gli appassionati del genere rock/Rock-blues possono accostarsi con piacere a questo disco, certi di non beccarsi la fregatura epocale.

Si può acoltare la ballatona power-rock di spessore, come Fortunate Kind, con armonie vocali di Mo Birch, vecchia veterana della scena musicale e la seconda chitarra di Robbie Blunt, indimenticato, da pochi, chitarrista dei Bronco, una quarantina di anni fa e in anni più recenti nella band di Robert Plant. Oltre all’hendrixiana I Just Wanna Make Love (che è poi quella di Willie Dixon), la chitarra di Ashton si gusta anche nel power-trio rock di Dog Eat Dog o nella raffinata Angel (che non è quella di Jimi). Se proprio vogliamo essere pignoli Ashton non è un fulmine di guerra come cantante ma se la cava egregiamente tutto sommato e nella finale Bluz For Roy, presumo dedicata a Buchanan, sciorina un repertorio da chitarrista coi fiocchi, con un intricato lavoro  di toni e finezze varie, da certosini della Fender (che fa bella mostra di sé nel libretto interno del dischetto). Anche For Your Love non è quella degli Yardbirds, ma permette all’ospite Don Airey (che è proprio quello di Deep Purple e Rainbow) di dare una rinfrescata al suo organo (inteso come strumento musicale, bisogna stare attenti al doppio senso) e anche Comin’ Home, con un discreto lavoro alla slide di Ashton, completa il cerchio sonoro dell’album con un omaggio al vecchio rock classico inglese degli anni ’70.

Bruno Conti

Un “Corsaro” Delle Sette Note! Mark Knopfler – Privateering

mark knopfler privateering.jpgmark knopfler privateering super deluxe.jpg

 

 

 

 

 

 

Mark Knopfler – Privateering – Mercury Records 2012 – 2 CD

A quasi un ventennio dalla fine del connubio con i Dire Straits, torna il più “americano” dei musicisti scozzesi (per la precisione di Glasgow), Mark Knopfler, con un disco molto atteso, un doppio album a cui, stando alle cronache, il chitarrista stava lavorando almeno da due anni, e visto il risultato e l’immediato successo di critica di Privateering, mai tempo è stato speso meglio. Mark ha lasciato i Dire Straits (una delle maggiori macchine da soldi della musica), o almeno il nome, poi è sempre lui, per costruirsi una solida fama di “soundmaker” (Colonne Sonore) Local Hero (83), Cal (84), The Princess Bride (87), Last Exit To Brooklyn (89) Wag The Dog e Metroland (98), e percorrere una carriera solista senza clamori (facendo solo quello che voleva fare), partendo dal notevole Golden Heart (96), Sailing To Philadelphia (2000), The Ragpicker’s Dream (2002), Shangri-La (2004), un piccolo gioiello di EP come The Trawlerman’s song (2005), Kill To Get Crimson (2007), e Get Lucky (2009) senza dimenticare le varie collaborazioni con John Illsey, Chet Atkins, The Notting Hillbillies, e lo splendido disco in coppia con la grande Emmylou Harris All The Road Running (2006), seguito da un tour ed un DVD dal vivo.

Registrato ai British Grove Studios di Chiswick (di proprietà dell’artista), e sotto la produzione dei fidati Chuck Ainlay e Guy Fletcher oltre allo stesso Knopfler, Privateering è un lavoro impeccabile che si avvale di uno stuolo di musicisti di rango, tra i quali Richard Bennett alle chitarre, Guy Fletcher alle tastiere, Jim Cox al piano, la sezione ritmica affidata a Glenn Worf (basso) e Ian Thomas (batteria), John McCusker e Mick McGoldrick (whistle, flauto, violino e cornamuse) la sezione Irlandese del gruppo, e ospiti importanti come Phil Cunningham alla fisarmonica, Kim Wilson armonicista dei Fabulous Thunderbirds, Paul Franklin alla pedal-steel, il mandolino di Tim O’Brien, la tromba di Chris Botti, e la dolce voce di Ruth Moody delle Wailin’ Jennys,  per venti brani dove si alternano roots-rock, celtic-rock, folk-rock e blues-rock, affidati anche ai virtuosismi della sua chitarra (la leggendaria Fender Stratocaster) elettroacustica.

Il primo CD si apre con due ballate folk-country Redbud Tree e Haul Away che ricordano vagamente le sonorità del compianto Johnny Cash, e dal blues elettrico Don’t Forget Your Hat, graffiato dalla magnifica armonica di Kim Wilson. Con Privateering e Miss You Blues arrivano le ballate struggenti, rese al meglio dalla voce calda e nostalgica di Mark, per tornare poi al passato con una Corned Beef City dal Dire Straits sound, seguita dalla dolcissima Go Love, in assoluto uno dei pezzi più intensi del lavoro e dal caldissimo blues di Hot Or What, segnato dal bellissimo fraseggio tra chitarra, piano e armonica. Chiudono il primo CD due “ballads”, la splendida Yon Two Crows che profuma d’Irlanda, con il suono delle sue cornamuse, e Seattle una song ambientata nella città della pioggia, con la bella voce di Ruth Moody ai cori.

Il secondo CD inizia con Kingdom Of Gold, una ballata classica ancora in territorio Irlandese, cui segue il blues sincopato di Got To Have Something, e la notturna e malinconica Radio City Serenade, aperta dalle note della tromba di Chris Botti. I Used To Could e Gator Blood  sono in ambito swamp-blues (un nuovo corso per Mark), mentre con Bluebird si esalta il chitarrismo di Knopfler, nel quale il tocco inconfondibile e le svisate si dispiegano in tutta la loro eleganza. Una struggente melodia accompagna Dream Of The Drowned Submariner (una toccante storia reale di un naufragio), mentre Blood And Water è molto simile, con la chitarra che pennella melodie e ci regala emozioni. Today Is Okay (sempre in ambito bluesy) è coinvolgente e suonata con la consueta maestria dal gruppo, mentre armonica, banjo e un’atmosfera campestre fanno da cornice alla traccia conclusiva After The Beanstalk, per quasi novanta minuti di muisca di qualità.

Mark Knopfler è un artista tranquillo, e questa tranquillità si nota ancora maggiormente nella sua musica, rilassata, lenta, calda, le sue ballate piene di pace sono legate alla musica Irlandese, ai profumi del folk, con fisarmoniche, cornamuse e violini che lasciano il segno, con la voce calma e profonda che distilla ogni parola, una musica che entra nel cuore e ci rende migliori. Non si scopre certo oggi il valore di Mark Knopfler, e come per ogni suo disco, l’ascolto deve essere apprezzato sino in fondo, centellinato, come un buon whisky scozzese.

Tino Montanari

NDT: Per i “fans” (e per il vostro portafoglio) il CD viene commercializzato in diverse versioni, è infatti possibile scegliere tra l’edizione standard (2 Cd), un edizione deluxe con un CD bonus con 5 brani extra, un edizione costituita da due vinili, e infine sarà venduto un deluxe box set, formato dai CD, LP, un DVD documentario, una stampa artistica numerata ed altri gadgets. Buona fortuna!

Un Armonicista Olandese? Big Pete – Choice Cuts

big pete.jpg

 

 

 

 

 

 

Big Pete – Choice Cuts – Delta Groove Productions

Un armonicista olandese? Anzi, un armonicista olandese Blues, e pure di quelli bravi! Non solo, ma anche un ottimo vocalist. Potrebbe sembrare una cosa strana, perché in effetti di solito si collegano gli olandesi al ciclismo o naturalmente al calcio ma non si penserebbe alla musica e al Blues in particolare. E invece i Paesi Bassi hanno una lunga tradizione in questo campo, non solo Shocking Blue e Golden Earring come nomi conosciuti in ambito musicale ma già a fine anni ’60 in pieno “British Blues” Boom in Olanda operavano gruppi come Cuby & The Blizzards e i Livin’ Blues che poi avrebbero avuto una carriera pluridecennale facendo dell’ottima musica.

In ogni caso il salto per arrivare a Pieter “Big Pete” Van Der Pluijim è di quelli lunghi e tortuosi: un giovane che già da teenager si appassiona di Blues ed in particolare di quello di Lester Butler è da triplo salto mortale. Un musicista non conosciutissimo, di culto, bianco, che ha operato negli anni ’90 come leader dei Red Devils, autori di un unico album prodotto da Rick Rubin e che erano stati scritturati per suonare nell’album solista di Mick Jagger Wandering Spirit, il suo unico disco valido, ma i loro brani poi non furono utilizzati e uno solo è apparso nell’antologia di Jagger. In quel gruppo c’erano un paio di Blasters, Bateman e Taylor e alcuni dei loro pezzi sono apparsi anche nel cofanetto postumo di Johnny Cash Unhearted dove suonano come backing band. Poi Butler ha suonato in un altro gruppo, i 13, prima di morire per una overdose nel maggio del 1998.

Tutto questo è collegato a Choice Cuts il disco di debutto registrato dal giovane Big Pete per la Delta Groove in quel di North Hollywood, California dove appaiono alcuni dei musicisti coinvolti nei vecchi dischi di Butler insieme a molte altre “stelle” del Blues contemporaneo.

Tanto per chiarire subito, il disco è bello, sono tutte cover scelte con minuzia nel grande repertorio della “musica del diavolo” e gli ospiti si alternano al proscenio nei vari brani aggiungendo spessore all’ottima house band utilizzata da Big Pete e che vede Alex Schultz alla chitarra, autore di un paio di album da solista e che ha suonato con Tad Robinson, Rod Piazza, William Clarke, i già citati 13 e una valanga di altri nomi in ambito Blues, al basso c’è Willie J Campbell e alla batteria Jimi Bott.

E poi tutti gli ospiti: dopo l’iniziale Driftin’ firmata proprio da Lester Butler, sei minuti di torrido blues con l’armonica di Big Pete in grande evidenza e cantato anche con notevole autorità e bella voce si passa a Can’t You SeeWhat You’re Doin’ To Me un classico brano del repertorio di Albert King con la chitarra tirata e lancinante di Schultz che cerca di ricreare lo spirito dell’originale con grande impegno e ottimi risultati, per arrivare al primo ospite Kim Wilson che sfodera la sua armonica per una Act Like You Love Me di grande intensità e con un suono molto pimpante, tipico della produzioni Delta Groove. Just To Be With You di Roth Bernard non la conoscevo ma è uno slow blues di quelli DOC con la chitarra di Kirk Fletcher e il piano di Rob Rio a duettare con Big Pete con ottimi risultati.

Don’t Start Crying di James Moore alias Slim Harpo la faceva anche Van Morrison (ma dove sei?) ai tempi dei Them ed è uno di quei brani veloci e tirati che ti attizzano con la chitarra di Schultz e l’armonica di Pete che si dividono il proscenio. I Got My Eyes On You con il suo mood alla Help Me vede un altro armonicista come ospite, Al Blake mentre Hey Lawdy Mama la faceva anche Clapton ai tempi e Kirk Fletcher estrae dal cilindro (dicasi chitarra) un notevole solo per l’occasione. Ottima anche la tiratissima I Was Fooled di Jody Williams con un ficcante assolo di Shawn Pittman che si conferma uno dei migliori axemen delle ultime generazioni. In tutti i brani Big Pete suona e canta con passione e trasporto come nell’ottima cover dell’Howlin’ Wolf d’annata Rockin’ Daddy dove la chitarra solista è nelle mani di Kid Ramos. Left Me With A Broken Heart è cantata da Johnny Dyer mentre in Just A Fool dal repertorio di Little Walter la solista è quella di Rusty Zinn. In Chromatic Crumbs uno strumentale per virtuosi l’armonica di Big Pete viene sostenuta dalle soliste di Schultz e John Marx. La conclusione è affidata a I’m A Business Man un brano di Willie Dixon che è l’occasione per Pete di duettare con la “melodica” di Paul Oscher.

Decisamente un buon disco di Blues classico per questo giovane olandese e per gli amanti del genere!

Bruno Conti      

Piacevole Texas Blues. Johnny Moeller – BlooGaLoo

johnny moeller.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Johnny Moeller – BlooGaLoo! – Severn Records/Ird

Era da un po’ di tempo che ci giravo intorno, quando le copie da recensire sono diventate due mi è parso inevitabile parlarne!

Johnny Moeller non è sicuramente uno dei primi nomi che balza alla mente quando viene chiesto il nome di un chitarrista texano ma fa parte anche lui di quella lunga lista (è nato a Forth Worth una quarantina di anni fa). Ultimamente il suo nome ricorre perché, dal 2007, è il nuovo chitarrista dei Fabulous Thunderbirds ma in passato scorrendo le note di molti dischi di blues da Darrell Nulisch a Gary Primich passando per Lou Ann Barton vi può essere capitato di imbattervi nel suo nome.

A cavallo tra fine anni ’90 e l’inizio della prima decade del 2000 ha già fatto un paio di dischi per un’etichetta locale di Dallas, non a suo nome, ma erano produzioni super indipendenti quindi dobbiamo considerare questo Bloogaloo il suo esordio da solista.
Non sarà questo il disco che scuoterà il blues dalle sua fondamenta ma si tratta di un dischetto, inteso come CD, molto piacevole e vario. Con la partecipazione di alcuni “amici” e in un giusto equilibrio tra cover e brani originali, tra brani strumentali e pezzi cantati (che non sono il suo forte) il disco scorre via piacevolmente, undici brani, poco più di trentacinque minuti di musica.
Si parte con il divertente strumentale Bloogaloo, un Blues misto a Boogaloo, spumeggiante e ritmato con la chitarra di Moeller che intreccia le sue traiettorie con l’organo di Matt Farrell mentre i fiati aggiungono una nota di colore. Sembrano quelle canzoncine stile anni ’60 che si vedevano nei telefilm americani di quegli anni, tipo la sigla di Batman o quelle cose.

Shawn Pittman è un altro chitarrista e cantante texano, e in questa veste di cantante viene utilizzato nella grintosa e bluesata I’m Movin’ on Up, visto che canta decisamente meglio di Moeller.  Trick Bag è un vecchio brano di Earl King, il primo dei quattro cantati da Moeller; conferma che il nostro amico non verrà ricordato negli annali del blues alla voce “grandi cantanti”, temo di no, mentre la parte strumentale è più che adeguata. Got a feelin’ è il primo dei due brani dove appare Kim Wilson alla voce e all’armonica, visto che i T-Birds nella nuova formazione non hanno ancora inciso nulla ma suonato solo dal vivo è l’occasione per sentire il loro classico sound riproposto ancora una volta con mucho gusto. I’m Stuck on you è un duetto tra Moeller e Lou Ann Barton, la cui voce rivitalizza il brano. Theme from the one armed swordsman è un altro di quei brani strumentali da party che sembrano essere uno dei temi musicali preferiti dal nostro amico, piacevole ma nulla più.

Evidentemente Earl King è un musicista che piace a Johnny Moeller visto che è la seconda cover del suo repertorio che appare in questo CD: Everybody’s Got To Cry Sometime, più bluesata della precedente si avvale di una ottima e sentita interpretazione vocale di Lou Ann Barton (ottima cantante molto sottovalutata) e di un pungente lavoro di chitarra del titolare dell’album che illustra i suoi meriti come solista.
Raise your hands è un piacevole funkettone molto cadenzato con un eccellente lavoro nella parte strumentale ed una meno soddisfacente parte vocale a cura del solito Moeller. A questo punto meglio la tirata Well Goodbye Baby cantata ancora con molta partecipazione da Kim Wilson, solito T-Bird style ma grinta e ritmo a volontà. Shufflin’ Around, lo dice il titolo stesso, è uno shuffle strumentale con chitarra e sax a dividersi con il piano gli interventi solistici, non male con quel classico sound del vecchio blues dei tempi che furono.
Tease me baby è un vecchio boogie che John Lee Hooker faceva anche con i Canned Heat, questa versione solo voce (Moeller) e chitarra devo dire che mi ha fatto rimpiangere non poco il vocione del vecchio “Hook”.

Bruno Conti