Una Bella Festa Musicale All’Insegna Del Miglior Country-Rock Californiano. Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour/Deliverin’ Again

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Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour /Deliverin’ Again– DSDK 2CD o DVD

Quando si pensa al country-rock californiano in voga a cavallo tra gli anni 60 ed i 70, la mente va subito agli Eagles (anche se il loro esordio avverrà solo nel 1972) e poi ai Byrds (gli ultimi anni), ai Flying Burrito Brothers e per molti anche a CSN&Y, nonostante nel famoso supergruppo la componente country non fosse molto presente. In pochi invece si ricordano dei Poco (scusate il bisticcio di parole), gruppo formato nel 1968 per iniziativa degli ex Buffalo Springfield Richie Furay e Jim Messina (quest’ultimo era entrato negli Springfield un attimo prima del loro scioglimento) ed autori di alcuni ottimi album specie nel primo periodo fino al 1976 (ma vi parlerà prossimamente del gruppo in maniera più dettagliata Bruno, con una retrospettiva ad hoc). Oggi i Poco sono ancora in vita con una formazione completamente rimaneggiata (l’unico membro presente in tutte le varie lineup, Rusty Young, è passato a miglior vita da neanche un mese, ma comunque si era già ritirato da qualche anno), e quindi l’unico ex componente a tenere alto il vessillo del gruppo è rimasto proprio Furay, che ha appena pubblicato un bellissimo doppio CD dal vivo, 50th Anniversary Return To The Troubadour, che celebra la stagione d’oro della band da lui fondata, e della quale fino al 1973 è stato uno dei principali autori e voci soliste.

A dire il vero in questo live, che documenta una serata speciale al Troubadour di Los Angeles nel 2018, non è ben chiaro cosa venga festeggiato, in quanto i 50 anni del titolo partono in effetti dal ’68, con i nostri che all’inizio si facevano chiamare Pogo ed al Troubadour avevano tenuto i loro primi concerti, ma poi nel secondo CD viene riproposto canzone per canzone il live Deliverin’, uscito in effetti a gennaio del 1971 ma che col Troubadour non c’entra una mazza essendo stato registrato nel 1970 a Boston e New York. Facezie a parte, 50th Anniversary Live At The Troubadour è un album davvero bellissimo, in cui un Richie in ottima forma ci fa rivivere una stagione unica e irripetibile della nostra musica, con una prima parte di concerto, intitolata Still Deliverin’, che offre una panoramica del meglio della sua carriera, mentre nel secondo dischetto (Deliverin’ Again), come ho già detto troviamo l’omaggio al live del ’70. Furay è ancora in possesso di una voce bella e giovanile, e viene accompagnato da una band solidissima che vede sua figlia Jesse Furay Lynch alle armonie vocali, Scott Sellen alle chitarre e banjo, Jack Jeckot alle tastiere, armonica e chitarra, Aaron Sellen al basso, Alan Lemke alla batteria, Dave Pearlman alla steel guitar e dobro e, nella seconda parte, un ospite speciale a sorpresa che vedremo a breve.

Si parte col botto con il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, scritta da Neil Young ma cantata da Richie anche in origine, preceduta da una lunga intro strumentale in crescendo e col ritmo subito alto: grande melodia e refrain, chitarre in palla e coretti che profumano di California. Dal repertorio degli Springfield in questa prima parte Furay suona anche Go And Say Goodbye (di Stephen Stills, ma l’avevano incisa anche i Poco), gustoso country-rock con banjo e chitarre in gran spolvero ed un eccellente ritornello corale, e quattro pezzi dei Poco, a partire dalla splendida Let’s Dance Tonight (dall’album Crazy Eyes, l’ultimo con Richie), rock song di livello assoluto con un motivo solare ed irresistibile, eseguita in modo grintoso e con ottimi intrecci vocali tra padre e figlia (e Furay dimostra di avere ancora l’ugola di un trentenne). Due brani provengono dall’omonimo secondo album della band, la slow ballad Don’t Let It Pass By, distesa, rilassata e con un bell’assolo di armonica, ed una strepitosa rilettura di quasi nove minuti della sontuosa rock ballad Anyway Bye Bye, piena di stop and go, cambi di ritmo, melodia superba, chitarra di Sellen in tiro ed anche un intermezzo pianistico quasi jazzato.

Stranamente Furay sceglie anche una canzone recente dei Poco, e che quindi non gli appartiene: Hard Country proviene dall’ultimo studio album del gruppo All Fired Up (2013), ed è una incantevole ed ariosa country ballad splendidamente eseguita e lasciata alla voce squillante di Jesse, una piccola ed inattesa gemma. Infine Richie propone quattro pezzi dal suo repertorio solista (purtroppo nessuno dal bellissimo The Heartbeat Of Love del 2006), che reggono molto bene il paragone con i pezzi classici, e di cui tre provengono dal suo lavoro più recente Hand In Hand, 2015: la pulsante e coinvolgente We Were The Dreamers, dedicata proprio ai suoi anni nei Poco e con un’altra melodia da applausi, la limpida e toccante ballata Wind Of Change, altri sei minuti di grande musica tra organo, chitarre ed armonie vocali da brivido, e l’incalzante Someday, puro country-rock che dimostra la sicura influenza che il nostro ha avuto sugli Eagles; per finire con il travolgente bluegrass elettrico Wake Up My Soul (una delle bonus track di studio inserite nel disco dal vivo Alive del 2016), ennesimo pezzo delizioso sotto ogni punto di vista, con il banjo ancora sugli scudi.

E veniamo alla seconda parte ed alla riproposizione di Deliverin’, che conteneva ben cinque canzoni inedite, una da Poco, quattro dall’esordio Pickin’ Up The Pieces e due dei Buffalo Springfield. Si inizia con un uno-due decisamente potente e rockeggiante formato da I Guess You Made It e C’mon, entrambe con il solito aroma country di base; a questo punto sale sul palco il già citato ospite, ovvero un applauditissimo Timothy B. Schmit, che dopo l’esordio del 1969 aveva sostituito nei Poco il bassista Randy Meisner (cosa che si ripeterà negli Eagles): il lungocrinito Tim impreziosisce con la sua voce angelica Hear That Music, da lui anche scritta, un altro country-rock assolutamente trascinante. E’ poi la volta della languida country ballad Kind Woman con la steel in grande evidenza, una delle più belle canzoni di Richie, scritta all’epoca degli Springfield per la sua futura moglie (con la quale è ancora insieme dopo 51 anni), seguita da tre pezzi suonati in medley esattamente come sul live del 1970: lo squisito country-grass Hard Luck e le note A Child’s Claim To Fame e Pickin’ Up The Pieces, due canzoni una più bella dell’altra. L’orecchiabile ed avvincente You Better Think Twice è un omaggio del nostro al suo autore Jim Messina, ed è seguita dal ruspante rockin’ country A Man Like Me; finale con un altro strepitoso medley di ben undici minuti che mette in fila Just In Case It Happens, Yes Indeed, lo strumentale Grand Junction e Consequently So Long, in un tripudio di ritmo, chitarre, steel e cori da pelle d’oca. Ma c’è spazio anche per un bis (ancora con Schmit sul palco a duettare con Richie), una fulgida versione della title track dell’album A Good Feelin’ To Know (1972, uno dei più belli dei Poco), che chiude definitivamente un concerto magnifico ed un live che sarà sicuramente tra i migliori dischi dal vivo del 2021.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 3. Poco – The Epic Years 1972-1976 : Gli Anni Di Paul Cotton

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Poco – The Epic Years 1972-1976 – 5 CD HNE/Cherry Records – 30-08-2019

Poco, sono uno dei gruppi storici (tutt’ora in attività) e tra i migliori rappresentanti del country-rock americani: nati alla fine degli anni ’60 dall’incontro di due dei membri dei Buffalo Springfield, ovvero i cantanti e chitarristi Richie Furay e Jim Messina, con il futuro Eagle Randy Meisner al basso e George Grantham alla batteria, e con l’aggiunta dell’asso della pedal steel guitar Rusty Young. Di loro esistono varie antologie retrospettive, la migliore delle quali è indubbiamente il doppio CD The Forgotten Trail 1969-1974, un piccolo box, ricco anche di materiale inedito, che fotografa gli anni migliori della band americana. Mentre l’unico altro cofanetto, oltre a questo di cui stiamo parlando, è Original Album Classics, che raccoglie i primi 5 album di studio, quelli usciti proprio tra il 1969 e 1973.

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Della band californiana esistono anche parecchi dischi dal vivo, alcuni usciti postumi in CD negli anni 2000, ma in generale la loro discografia è servita piuttosto bene in Compact Disc. Diciamo che di questo The Epic Years non si capisce del tutto la scelta degli album, visto che anche i primi tre dischi, oltre a Deliverin’, il primo album Live del 1971, era usciti per l’etichetta del gruppo Columbia: quindi nel box troviamo il quarto, quinto, sesto e ottavo disco di studio, più il Live del 1976. L’unica cosa che li unisce, ipotizzo, ma tiro ad indovinare, è la presenza come voce solista e chitarrista di Paul Cotton, entrato nei Poco in sostituzione di Jim Messina dal terzo album From The Inside e presente in tutti gli album del cofanetto. Nella formazione in quegli anni, nel 1970, era arrivato anche Timothy B. Schmit, in sostituzione di Randy Meisner, passato agli Eagles, dove verrà proprio sostituito ancora una volta da Schmit.

Ecco i contenuti completi del box, solo due album hanno delle bonus tracks:

[CD1: A Good Feelin’ To Know (1972)]
1. And Settlin’ Down
2. Ride The Country
3. I Can See Everything
4. Go And Say Goodbye
5. Keeper Of The Fire
6. Early Times
7. A Good Feelin’ To Know
8. Restrain
9. Sweet Lovin’
Bonus Tracks:
10. I Can See Everything (Remix)
11. A Good Feelin’ To Know (Single Edit)

[CD2: Crazy Eyes (1973)]
1. Blue Water
2. Fools Gold
3. Here We Go Again
4. Brass Buttons
5. A Right Along
6. Crazy Eyes
7. Magnolia
8. Let’s Dance Tonight
Bonus Tracks:
9. Nothin’s Still The Same
10. Get In The Wind
11. Believe Me

[CD3: Seven (1974)]
1. Drivin’ Wheel
2. Rocky Mountain Breakdown
3. Just Call My Name
4. Skatin’
5. Faith In The Families
6. Krikkit’s Song (Passing Through)
7. Angel
8. You’ve Got Your Reasons

[CD4: Cantamos (1974)]
1. Sagebrush Serenade
2. Susannah
3. High And Dry
4. Western Waterloo
5. One Horse Blue
6. Bitter Blue
7. Another Time Around
8. Whatever Happened To Your Smile
9. All The Ways

[CD5: Live (1976)]
1. Medley: Blue Water / Fools Gold / Rocky Mountain Breakdown
2. Bad Weather
3. Ride The Country
4. Angel
5. High And Dry
6. Restrain
7. A Good Feelin’ To Know

Devo dire che tutti i dischi dei Poco, almeno fino a Rose Of Cimarron del 1976 (e anche tra quelli successivi ce ne sono alcuni buoni), sono molto belli, ma i cinque contenuti nel box sono probabilmente i migliori in assoluto, con una preferenza del sottoscritto per A Good Feelin’ To Know Carzy Eyes, gli ultimi due con Richie Furay, che poi rientrerà in formazione tra il 1987 e il 1990, e spesso, soprattutto dal vivo, collabora ancora con la band fino ai giorni nostri, e anche Paul Cotton è rimasto con il gruppo dal 1970 al 1988 e poi dal 1992 al 2010. L’unico membro originale sempre presente dal 1969 a oggi è Rusty Young. Quindi se volete conoscere una delle band più importanti nella storia del country-rock (armonie vocali celestiali, voci soliste incredibili, ottimi chitarristi e uno dei più grandi interpreti della pedal steel in assoluto) direi che questo box sarebbe da avere, magari insieme agli altri due segnalati nel Post. Se amate il genere o conoscerlo, come si suol dire, imperdibili.

The Epic Years 1972-1976, salvo rinvii, dovrebbe uscire il 30 agosto.

Bruno Conti

In Attesa Del “Nuovo” Album Stay Around In Uscita Il 26 Aprile, Ecco 8 Dischi Da Avere Se Amate La Musica Di JJ Cale! Parte I

jj cale naturally

Ce ne sarebbero anche più di 8, gran parte della sua discografia meriterebbe di  essere (ri)conosciuta, ma questi diciamo che sono gli essenziali, sette più il tributo postumo curato dal suo fan ed amico Eric Clapton.

Naturally – 1971 – Shelter/A&M/Mercury  – ****

Quando nel 1970 Eric Clapton pubblica sul suo omonimo disco di esordio solista la cover di After Midnight https://www.youtube.com/watch?v=AvxJ0TVvVzE , Cale era uno squattrinato musicista che viveva a Los Angeles, dove era letteralmente alla fame: quando sente il brano alla radio quasi non ci crede, e il suo amico produttore Audie Ashworth gli propone di entrare in studio di registrazione e capitalizzare quel successo con un proprio album che avrebbe proposto il Tulsa Sound prima negli Stati Uniti e poi in tutto al mondo. Soldi non ce n’erano per cui Cale ed Ashworth raccolgono un gruppo di musicisti pagati con le tariffe sindacali minime e in qualche brano JJ utilizza una primitiva drum machine da lui stesso “inventata”,  grazie ai suoi trascorsi come ingegnere del suono. Il disco, 12 brani firmati dallo stesso Cale, ha un suono minimale, spesso quasi come fossero dei demo (quali erano in effetti), ma contiene alcune delle canzoni più famose del songbook del musicista di Oklahoma City.

Call Me The Breeze (poi resa celeberrima dai Lynyrd Skynrd su Second Helping) è appunto uno dei brani che prevede l’utilizzo della drum machine, un riff e un ritornello tipici dello stile laidback di JJ, il suo tocco di chitarra raffinato, guizzante ed inconfondibile e quella voce quasi sussurrata che sarà sempre il suo marchio di fabbrica; l’album contiene anche la sua versione di After Midnight, più “pigra” e rilassata di quella di Clapton, ma deliziosa. Nel disco suonano molti musicisti di valore (Tim Drummond, Carl Radle, Norbert Puttnam, David Briggs, Mac Gayden, Weldon Myrick, Karl Himmel, tanto per ricordarne alcuni) e i risultati si sentono, il suono sarà anche minimale ma ricco di particolari e con una passione per i dettagli quasi minuziosa, che poi sarà sempre presente anche nelle sue opere successive. Parliamo di una versione molto personale delle 12 battute del blues riviste attraverso la sua ottica: tutti i brani sono ottimi, Call The Doctor e le vivaci, Woman I Love, Bringing It Back, con fiati e armonica, a metà tra Clapton e il sound futuro degli Steely Dan ridotto all’osso, ma anche la splendida ballata Magnolia (che ricordo in una versione meravigliosa su Crazy Eyes dei Poco https://www.youtube.com/watch?v=Pkh2hUbwTmo ), Crazy Mama, con un wah-wah malandrino, il suo unico successo nei Top 40 USA, un errebì inconsueto come Nowhere To Run, insomma tutto molto bello.

jj cale really

Really – 1972 – Shelter/A&M/Mercury – ***1/2

Really esce l’anno dopo, è ancora un ottimo album anche se non contiene molte canzoni celebri: I musicisti impiegati sono in metà dei brani  quelli dei  Muscle Shoals Sound Studios e gli altri dei Bradley’s Barn di Nashville, una delle mecche della country music, tra cui Josh Graves e Vassar Clements, due che JJ Cale ammirava moltissimo e per lui era stato un onore suonare con loro. L’iniziale Lies è uno dei suoi brani tipici, come pure la brillante I’ll Kiss The World Goodbye e la raccolta Changes che perfezionano il suo Tulsa Sound, mentre If You’re Ever In Oklahoma, Playin’ In The Streets e Louisiana Woman appartengono alla categoria bluegrass meets JJ Cale, e il resto è il “solito” ottimo stile laidback, ma brillante, del miglior JJ.

jj cale okie

Okie – 1974 – Shelter/A&M/Mercury – ***1/2

Okie, altro titolo stringato come d’uso nei suoi dischi, prevede ancora una volta l’uso più o meno degli stessi musicisti, e quindi con echi country e anche gospel, diversamente dal precedente contiene moltissimi brani famosi che saranno ripresi da altri artisti e una rara cover country di Ray Price, I’ll Be There (If You Ever Want Me): per il resto troviamo I Got The Same Old Blues, suonata anche da Clapton e brani ripresi dai Brother Phelps, da Herbie Mann, Bill Wyman, Poco, Randy Crawford, Tom Petty, a dimostrazione dell’ecumenismo della musica del nostro, canzoni tra cui spiccano Rock And Roll Records, The Old Men And Me, Cajun Moon, I’d Like To Love You Baby e Anyway The Wind Blowss, tanto per citarne alcune, oltre all’altra cover country della splendida Precious Memories.

jj cale troubadour

Troubadour –1976 –  Shelter/A&M/Mercury –  ***1/2

Troubadour “forse, “ma forse, non è tra I migliori album del nostro amico, però contiene Cocaine, che l’anno successivo diventerà un successo colossale per Clapton, uno dei riff più famosi della storia del rock e la futura tranquillità finanziaria garantita vita natural durante per Cale.

Nel disco c’è anche un altro brano che Slowhand inciderà su Reptile nel 2002, ovvero l’incalzante Travelin’ Light, brano ripreso anche dai Widespread Panic e usato, nella versione di JJ, come sveglia mattutina sullo shuttle spaziale. Tra l’altro il disco, per gli standard di Cale, ha un suono più variegato, tra country, R&B, rock, un pizzico di swing, oltre all’amato blues, e spiccano l’iniziale Hey Baby, con la pedal steel di Lloyd Green, la swingante Hold On, con quella di Buddy Emmons, nonché la quasi caraibica You Got Something, il R&R di Ride Me High, la cover sempre energica del pezzo blues I’m A Gypsy Man di Sonny Curtis, e il funky fiatistico Let Me Do It to You, a completare un altro ottimo album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Un Archeologo Texano Che Vive In Inghilterra Che Musica Fa? Facile: Del Country-Rock Californiano! George St. Clair – Ballads Of Captivity And Freedom

george st.clair ballads of captivity

George St. Clair – Ballads Of Captivity And Freedom – George St. Clair CD

Interessantissimo debutto per questo texano che da anni risiede in Inghilterra, dove svolge la sua professione principale di archeologo ed antropologo. George St. Clair, grande appassionato di musica, da anni si diletta nella composizione, ed oggi ha finalmente deciso di pubblicare in proprio questo Ballads Of Captivity And Freedom (bel titolo), un disco che nella sua ora di durata ci regala una bella serie di canzoni di classico country-rock cantautorale. C’è poco del nativo Texas in questi brani, la fonte di ispirazione principale di George sono le sonorità californiane degli anni settanta, il suo pane quotidiano sono gruppi come gli Eagles ed i Poco, o solisti come Jackson Browne, e le canzoni hanno arrangiamenti diretti, classici, con chitarre e pianoforte in evidenza e quasi sempre una bella steel in sottofondo: i musicisti rispondono ai nomi di David Cuetter, Dan Lebowitz, Amy Scher, Mike Stevens, Kirby Hammel e Ben Bernstein, sessionmen sconosciuti ma in grado di fornire un suono limpido e compatto, perfetto per le ballate terse di George.

L’album inizia in maniera scintillante con Tularosa, un country-rock che profuma di California anni settanta, ed il paragone con gli Eagles viene rafforzato dalla voce di George, che ricorda quella di Glenn Frey: motivo decisamente orecchiabile e solare, con steel e violino protagonisti. The Places Where They Prayed si mantiene sullo stesso livello https://www.youtube.com/watch?v=VBuQCtgXejU , e non si sposta musicalmente dal Golden State (di Texas neanche l’ombra, ma va bene lo stesso), una ballata limpida e discorsiva tra Browne ed il miglior John Denver, mentre Autumn 1889, con i suoi otto minuti di durata, è uno degli highlights del disco, uno slow dal delizioso gusto melodico e dal raffinato accompagnamento basato su chitarra acustica e pianoforte, con il motivo che si apre a poco a poco. Niente male anche Corridors, tutta giocata su una chitarra arpeggiata, un leggero gioco di percussioni ed una ritmica veloce ma leggera.

Good Times è vero country in puro stile honky-tonk, un bel piano da taverna e la chiara influenza di Byrds e Flying Burrito Brothers. La lunga Cynthia propone un’accattivante fusione tra una classica melodia folkeggiante ed una percussione che dona un tocco esotico https://www.youtube.com/watch?v=b0VSkfLF3IQ , Up To Fail è decisamente più elettrica, quasi come fosse una rock ballad sferzata dal vento alla Neil Young (ed è una delle più riuscite), mentre Lie To Them è ancora country, spedito, scorrevole e di nuovo con la steel in primo piano. Cimarrones è un lento molto classico, forse già sentito ma piacevole, New Mexico è una bellissima western song, tersa ed immediata, e che non si schioda dai seventies come decade di riferimento. Il CD, quasi un’ora di musica davvero piacevole, si chiude con Pedro Paramo, tra California e Messico https://www.youtube.com/watch?v=6L3t60H7rdA , e con il puro folk di Talkin’ Mesquite, con George che si cimenta con successo anche nel talking, come da titolo. E’ uscito da qualche mese ma vale la pena di cercarlo.

Marco Verdi

Una Eredità Per Nulla Smarrita, Anzi Molto “Viva”! Outlaws – Legacy Live

outlaws legacy live

*NDB Leggendo un commento su loro Live dell’86 che vedete a fianco, e che a grandi linee condivido, mi sono accorto che non avevo ancora postato la recensione di questo doppio dal vivo degli Outlaws, uscito qualche tempo fa, e visto che il Southern rock è sempre bene accetto sul Blog e il Live è notevole, rimedio subito.

Outlaws – Legacy Live – 2 CD SPV/Steamhammer

Ultimamente c’è stata una vera proliferazione di pubblicazioni dedicate a dischi dal vivo degli Outlaws, spesso eccellenti, come il Los Angeles 1976, o comunque molto buone, vedi Live At The Bottom Line Live ’86, entrambi editi dalla Cleopatra http://discoclub.myblog.it/2016/09/14/meglio-il-live-uscito-lo-scorso-anno-anche-male-the-outlaws-live-at-the-bottom-line-new-york-86/ . Ora esce questo Legacy Live, registrato nel tour del 2015 dall’ultima formazione della band, quella che vede presenti dei membri originali solo il cantante e chitarrista Henry Paul e il batterista Monte Yoho. Con loro ci sono anche, nella line-up comunque a tre chitarre, Steve Grisham (Henry Paul Band, Brothers Of The Southland), già presente nel periodo 1983-1986 e Chris Anderson (anche con Dickey Betts, Lucinda Williams e Lynyrd Skynyrd) dal 1986 al 1989, entrambi alla solista, oltre al bassista Randy Threet e al tastierista Dave Robbins, tutti (ri)entrati nella band negli anni 2000. Non c’è più Hughie Thomasson, l’altro leader, scomparso nel 2007, mentre nel disco del 2012 It’s About Pride, l’ultimo in studio, alla chitarra c’era l’ottimo Billy Crain. E contrariamente alle mie aspettative (e a quelle di molti altri fan) anche questo doppio dal vivo è molto buono, la band della Florida è in gran forma e propone il proprio southern aggressivo e chitarristico con una grinta e una vivacità che latitano in altre formazioni storiche del rock sudista.

Niente di nuovo, e ci mancherebbe, ma i nostri non appaiono bolliti e neppure troppo sopra le righe, riuscendo a non fare troppo rimpiangere il periodo d’oro degli anni ’70, il 1975 per la precisione, l’anno di uscita del primo album, di cui nel tour si festeggiava il 40° Anniversario. 21 canzoni (compresa la breve intro iniziale) dove scorrono i grandi successi del gruppo, ma anche alcuni brani tratti da It’s About Pride: si parte subito bene con una gagliarda There Goes Another Love Song, che mette subito in evidenza anche gli elementi country presenti nel DNA del gruppo, sia con ottime armonie vocali, sia con il sound dove le chitarre sono regine, ma la melodia non è mai assente, senza esagerare con continue prove troppo muscolari (che non mancano comunque, non temete). Eccellente anche un altro classico come Hurry Sundown, dove i classici e continui rilanci del loro credo musicale sono in bella evidenza, con assoli di chitarra che si susseguono a ritmo serratissimo. Ma pure la recente Hidin’ Out In Tennessee non sfigura rispetto al vecchio repertorio, con le chitarre spesso impegnate ad armonizzare all’unisono nel classico sound à la Outlaws e poi scatenarsi in micidiali call and response; Freeborn Man era su Lady In Waiting, quando c’era ancora Billy Jones, ed è la consueta perfetta miscela di country e rock di gran classe, anche con cambi di tempo repentini e raffinati. Ma nell’alternanza tra nuovi e vecchi pezzi non ci sono discrepanze, buoni entrambi, come conferma la riffatissima Born To Be Bad del 2012 dove sembra di ascoltare degli ZZ Top più melodici, o Song In The Breeze dal 1° omonimo album.

Girl From Ohio ricorda un pezzo di country-rock degli Eagles, della Nitty Gritty o dei Poco, mentre nell’unisono splendido delle soliste in Holiday sembra di ascoltare i Wishbone Ash migliori. Poi, certo, ci sono i cavalli di battaglia: Gunsmoke, di nuovo da Hurry Sundown o la lunga e tirata Grey Ghost, la title-track del disco omonimo, dove si apprezza di nuovo il finissimo intrecciarsi delle varie chitarre soliste; si torna di nuovo al country velocissimo e corale di una South Carolina che mi ha ricordato di nuovo moltissimo i primi Eagles e nell’attimo successivo passiamo ad una ballata mid-tempo avvolgente come So Long e ancora a una Prisoner, tratta da Lady In Waiting, che ondeggia tra Pink Floyd ed Allman Brothers. Cold Harbor,elettroacustica e raccolta, quasi alla CSNY, è seguita da Trail Of Tears, dall’inedito Once an Outlaw, l’ultima prova postuma con Thomasson. Notevole pure la corale It’s About Pride, dove risalta anche il piano di Robbins, ma a ben vedere non c’è un brano debole in questo bellissimo doppio dal vivo, come conferma il gran finale, prima con la scatenata Waterhole, che rievoca certi strumentali splendidi dei dischi dei Poco, poi la deliziosa Knoxville Girl, sempre dal primo classico album e Green Grass And High Tides, che è la loro Free Bird, un vero festival delle chitarre elettriche, tredici minuti di pura goduria dove le soliste si rincorrono, si intrecciano e si scatenano in modo splendido. E non è finita, perché pure l’entusiasmante (Ghost) Riders In The Sky dimostra che gli attuali Outlaws, almeno dal vivo, non hanno nulla da invidiare alla loro versione più giovane dei tempi che furono. Grande disco!

Bruno Conti

Ancora Una Volta Degni Della Loro Fama! Blue Rodeo – 1000 Arms

blue rodeo 1000 arms

Blue Rodeo – 1000 Arms – TeleSoul Records Canada

Ogni appassionato della buona musica ha una predilezione particolare per un gruppo o un solista, al di fuori dei grandi nomi più ricorrenti: il sottoscritto ce l’ha, tra gli altri, per i canadesi Blue Rodeo. Chi legge queste pagine virtuali avrà visto sempre giudizi più che lusinghieri di chi scrive per la band di Jim Cuddy e Greg Keelor, che considero una delle migliori in assoluto di quelle uscite nell’ultimo trentennio (come si vede dai video non sono più dei giovanotti), tra i migliori eredi della grande tradizione che ha avuto soprattutto nella Band l’esempio più fulgido nell’ambito Americana, country-rock, roots music, come diavolo volete chiamarlo, in generale tra i gruppi provenienti dal continente nord-americano. Dopo l’eccellente Live At Massey Hall dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2015/12/06/dei-migliori-album-dal-vivo-del-2015-blue-rodeo-live-at-massey-hall/ , i Blue Rodeo tornano con questo 1000 Arms, il loro quattordicesimo album di studio, che conferma una rinnovata verve del quintetto canadese, dopo le derive un filo più bucoliche del peraltro ottimo In Our Nature http://discoclub.myblog.it/2013/11/14/festeggiano-25-anni-e-spiccioli-di-carriera-con-un-grande-di/ , e del successivo album di carattere natalizio http://discoclub.myblog.it/2014/12/07/il-solito-disco-natalizio-blue-rodeo-merrie-christmas-to-you/ . Il gruppo raramente ha sbagliato un colpo, con loro si va a colpo quasi sicuro Nell’album in questione appare per l’ultima volta il membro aggiunto (ma in pratica fisso nella band da 17 anni) Bob Egan, sopraffino suonatore di pedal steel e mandolino fin dai tempi di Palace Of Gold. Ovviamente il gruppo ruota soprattutto intorno alle canzoni, alle voci e armonie vocali di Cuddy e Keelor, ma anche il secondo chitarrista (con Cuddy) Colin Cripps e il tastierista Michael Boguski contribuiscono con i loro tocchi di finezza al risultato finale, oltre al dancing bass inimitabile del veterano Bazil Donovan.

Al solito Jim Cuddy è quello dalla voce più solare, giovanile, che rimanda a Paul Cotton o Richie Furay dei Poco, mentre Greg Keelor ha un timbro più roco e crepuscolare, anche se il meglio lo danno, come di consueto, negli splendidi intrecci vocali che sono il loro marchio di fabbrica. E le canzoni di qualità non mancano neppure in questa occasione: che sia il country-rock riflessivo dell’iniziale splendida Hard To Remember, con il marchio di Keelor, tocchi jingle-jangle quasi byrdsiani, quelle armonie vocali immancabili e un suono caldo ed avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=j44YVch6Qbk , oppure una solare I Can’t Hide This Anymore, un brano di Cuddy, che con il suo mandolino e le chitarre acustiche ed elettriche, sembra uscito da uno dei primi dischi dei Poco o degli Eagles. Molto bella anche la mossa Jimmy Fall Down dove fa capolino anche una armonica https://www.youtube.com/watch?v=dg0B_-eX-6I  o la riflessiva Long Hard Life, dove Jim Cuddy racconta di una relazione finita male con la consueta passione. Rabbit’s Foot di nuovo a guida Keelor, vira decisamente verso il rock, sembra un pezzo, e pure di quelli belli, di Tom Petty con gli Heartbreakers, di nuovo chitarre tintinnanti, ritmi incalzanti e intrecci vocali splendidi, fino ad un break chitarristico da manuale; 1000 Arms è una delle consuete ballate strappacuore di Cuddy, con la pedal steel sugli scudi, come se il country-rock degli anni ’70 non fosse mai tramontato.

Dust To Gold viceversa è uno di quei pezzi più “lunatici” ed ombrosi di Greg Keelor, con la pedal steel, l’organo e il piano a sottolineare l’atmosfera più cupa della canzone, sempre infiorata dalle loro armonie vocali inconfondibili https://www.youtube.com/watch?v=E4ZhU8aQEZ4 . Superstar, con un corno francese ad arricchire il sound, è uno dei consueti tuffi di Cuddy nell’amato songbook beatlesiano, a passo di carica e con una melodia accattivante, controcanti vorticosi ed interventi chitarristici e pianistici ficcanti https://www.youtube.com/watch?v=SXDSLFQv5NI ; Mascara Tears con Cuddy al Wurlitzer, è pero un brano crepuscolare di Keelor che sembra uscire da On The Beach di Neil Young, tra pedal steel e organo “piangenti”. Can’t Find My Way Back To You, un altro resoconto su un amore finito male di Cuddy (sono sfortunati questi ragazzi!) ha però una bella melodia vivace e mossa, ancora con tocchi younghiani, ma anche aperture country-blues deliziose, mentre So Hard To See è un’altra delicata ballata, questa volta di impianto decisamente acustico, con una spennellata di guitar-synth che fa le veci di una sezione archi e il piano e le chitarre acustiche a caratterizzarne il sound. A chiudere il solito pezzo epico che i Blue Rodeo ci riservano sempre per il gran finale: The Flame è uno dei loro classici brani in crescendo, firmato da Keelor (anche se sul disco tutte le canzoni sono marchiate Cuddy-Keelor), un organo quasi doorsiano, la solita pedal steel e le chitarre che scaldano l’atmosfera nella vibrante parte centrale strumentale. Gran finale per un ottimo album, ancora una volta degno della loro fama.

Bruno Conti

Da Lassù, Country-Rock Natalizio Made In Italy. Piedmont Brothers Band – A Piedmont Christmas

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The Piedmont Brothers Band – A Piedmont Christmas – MRM Records/Appaloosa Ird

Una breve premessa: qualche mese fa, durante l’estate, avrei dovuto recensire l’ultimo album dei Piedmont Brothers Compasses And Maps, poi per vari impegni, sul Buscadero e nel Blog, mi sono ritrovato a rimandare la recensione di quel CD, programmandola per i primi giorni di agosto, fino a che, il 6, purtroppo, gli amici della Ird mi hanno comunicato che Marco Zanzi, il leader della band, era morto dopo una battaglia di circa due anni con un tumore al pancreas. A quel punto non mi sono più sentito di scrivere quella recensione, per timore di fare una sorta di sciacallaggio postumo su un album di unmusicista che se ne era andato. Poi nei mesi successivi, a mente fredda, alcune volte ci ho ripensato, ripromettendomi di parlare comunque della band. Quindi quale occasione migliore che l’uscita di questo CD di canzoni natalizie che era comunque già stato programmato dalla famiglia per una uscita nel periodo invernale. Perché il buon Marco, anche nel periodo più buio della sua malattia, aveva comunque continuato a lavorare e ad incidere nuove canzoni, a dispetto della situazione.

Il disco, e non lo dico per piaggeria, è molto bello e piacevole, quella consueta miscela di country-rock, bluegrass e musica cantautorale, confezionata con gran classe e passione, da Marco Zanzi e Ron Martin, i due co-fondatori di questa band, da sempre coadiuvati da una ampia cerchia di amici, nel corso di sei album (più questi due e compreso un disco di “rarità”) e un paio di Zanzi come solista. Tra gli “amici” gli ultimi a partecipare sono stati Richie Furay, leggendario leader dei Poco, una delle migliori formazioni di country-rock che abbia mai calcato i palcoscenici, e la figlia Jesse Furay Lynch, ma nell’album appaiono anche collaboratori di lunga data. come Katherine Kelly Walczyk, Rosella Cellamaro Doug Rorrer, che si alternano alle voci nei vari brani, con Martin Cecilia Marco Zanzi. Nel disco precedente, Compasses And Map, apparivano alcuni dei grandi luminari del country-rock e del bluegrass, gente come Gene Parsons dei Byrds, Patrick Shanahan della Stone Canyon Band di Ricky Nelson, Rick Roberts dei Firefall e dei Flying Burrito Brothers, alle prese con brani originali e riprese di classici come Tequila Sunrise degli Eagles, Sweet Baby James di James Taylor, Indian Summer di Paul Cotton, dei già citati Poco, It Doesn’t Matter dei mitici Manassas di Stephen Stills Chris Hillman, Teach Your Children di Graham Nash Here Without You di Gene Clark, tutte in versioni brillanti e ricche di verve, in grado di rinverdire i fasti di gente come i citati Poco, Flying Burrito Brothers, Byrds, Eagles, ma anche dei Dillards, grazie al banjo a 5 corde di cui Zanzi era un vero virtuoso, agli impasti tra voci maschili e femminili, e alla perizia strumentale dei vari musicisti impegnati: del vero country-rock made in Italy. Un disco assolutamente da avere per gli appassionati del genere, come pure il disco di Natale, A Piedmont Christmas.

Sono dieci brani, alcuni scritti per l’occasione, altri pescati dalla tradizione, altri ancora firmati da autori non notissimi ma assolutamente validi nell’ambito country e dintorni, forse l’unico autore noto, ma soprattutto tra gli appassionati, è Steve Goodman, di cui viene ripresa una deliziosa e delicata Colorado Christmas, che non a caso è proprio il brano cantato dalla inconfondibile voce di Richie Furay (https://www.youtube.com/watch?v=x1obUh4bqe0, con le armonie vocali della figlia Jesse, e un bellissimo intreccio strumentale creato dal violino di Anna Satta e dal mandolino, dal banjo e dalle chitarre a 6 e 12 corde, del bravissimo pluristrumentista Marco Zanzi. Jesse Furay Lynch canta la più tipicamente natalizia Beautiful Star Of Betlehem, un valzerone country dove la voce alla Emmylou Harris della Lynch ben si intreccia con le armonie vocali di Marco e con svolazzi di chitarra, violino e pedal steel. Altrove, come nella iniziale, vorticosa, Christmastime In The Blue Ridge, cantata da Ron Martin, sembra di ascoltare il bluegrass dei vecchi Dillards o dei Seldom Scene, grazie anche gli inserti di dobro di Alessandro Grisostolo che ben si amalgamano con il picking degli altri musicisti, tra cui Zanzi, qui al mandolino. La “tradizionale” The Holly And The Ivy, cantata da  Katherine Kelly Walczyk, ha degli agganci con la musica tradizionale celtica, grazie alle sue melodie ariose e coinvolgenti ed alla bella voce della Walczyk.

Mary Did You Know, ancora con il violino della Satta in bella evidenza, grazie al sue testo che richiama la natività è uno dei brani più tipicamente natalizi, sempre godibile ed intenso al contempo. The Shepherd’s Dream, un’altra favola stagionale, cantata con voce appassionata da Ron Martin e scritta dallo stesso Marco Zanzi, che la guida con il suo banjo, è un altro eccellente esempio di quel bluegrass-country che è sempre stato il marchio di fabbrica dei Piedmont Brothers, gruppo del tutto all’altezza delle sue controparti americane, il break della solista elettrica di Marco avrebbe fatto il suo figurone nei dischi di tutte le band che abbiamo citato fino ad ora. Notevole anche uno strumentale d’atmosfera come The Goodliest Land, dove i vari solisti si alternano alla guida del pezzo. Rosella Cellamaro canta con voce squillante un’altro brano tipicamente natalizio come la dolce ballata Mother Mary’s Cradle Song Doug Rorrer è la voce solista nel bluegrass scatenato con uso di banjo Back Home (On Christmas Eve) Martin e la Walczyk si alternano come voci soliste nella quasi cameristica There’s A New Kid In Town, una cover di un vecchio brano di Keith Whitley, altro nome noto soprattutto agli appassionati, ma che si ricorda nella versione della Nitty Gritty Dirty Band, altro nume tutelare dei Piedmont. Che altro aggiungere? Se volete fare o farvi un bel regalo, diverso dal solito, siete ancora in tempo ad acquistare questo A Piedmont Christmas che sicuramente negli scaffali dei negozi non farà concorrenza a Michael Bublé o Mario Biondi, ma vi darà più soddisfazioni, se amate questa musica. Se volete saperne di più il sito della band è sempre attivo http://www.piedmontbrothersband.com/home.

Bruno Conti

“Puro” Country-Rock Anni ’70! Pure Prairie League – My Father’s Place, Roslyn, New York 1976

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Pure Prairie League – My Father’s Place, Roslyn, New York 1976 – Live Wire 

I Pure Prairie League sono stati una delle formazioni migliori di country-rock nel periodo d’oro del genere nella prima metà inoltrata degli anni ’70, e su questo non ci piove. Hanno pubblicato dieci album tra il marzo 1972 quando usciva il primo omonimo LP e il febbraio 1981 quando veniva pubblicato Something In The Night, i primi otto per la RCA, gli ultimi due per la Casablanca. Ma i migliori sono i primi quattro, fino a If The Shoe Fits, il disco uscito nel gennaio del 1976 e che la band promuove in questo broadcast trasmesso dalla WLIR di New York, un concerto tenuto nello storico locale newyorkese My Father’s Place, con la seconda miglior formazione in assoluto della band, senza più Craig Fuller, che aveva dovuto abbandonare i PPL nel 1972 per strani problemi con la giustizia, dopo l’uscita del secondo album Bustin’ Out, quello per intenderci che conteneva Amie, la loro canzone più famosa, che però era diventata un successo solo nel 1975, a 3 anni dalla data di uscita originale. Poi Fuller, eccellente cantante, avrebbe avuto una buona carriera, prima con gli American Flyer, nel duo Fuller & Kaz e infine nei riformati Little Feat, a cavallo degli anni ’80-’90, da allora se ne sono un po’ perse le tracce anche se guida oggi i riformati Pure Prairie League con cui ha inciso l’ottimo All In Good Time del 2005, e che totalizzano ancora un centinaio di concerti ogni anno.

In questo concerto del 1976 Larry Goshorn è il nuovo chitarrista, entrato in sostituzione di Fuller dal 1974, mentre il leader e voce solista è George Ed Powell, con John David Call a pedal steel, dobro e banjo, che è il punto di forza della band, e Michael Connor alle tastiere, Michael Reilly al basso e Billy Hinds alla batteria, a completare la line-up. Diciamo che proprio a voler essere obiettivi al 100% i PPL,  per chi scrive, sono stati comunque un gradino al di sotto di formazioni come Poco, Flying Burrito, i primi Eagles, New Riders, Ozark Mountain Daredevils, New Riders e Nitty Gritty, ma secondo la critica americana, Bustin’ Out (per AllMusic il miglior disco country-rock di sempre) soprattutto e Two Lane Highway (per Rolling Stone alla pari con Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds, una gemma assoluta nel genere) vengono considerati tra i migliori album in assoluto di country-rock nel periodo d’oro del genere e questo concerto non ha comunque nulla da invidiare al Live ufficiale Takin’ The Stage, uscito l’anno successivo, anzi il suono è più ruspante e meno “lavorato”.


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Le armonie vocali di Call, Reilly, Goshorn e Powell sono eccellenti, John Call alla pedal steel è eccezionale, alla pari con Rusty Young, Buddy Cage, Sneaky Pete e gli altri virtuosi dello strumento, mentre il repertorio ha anche sussulti di classico rock americano alla Doobie Brothers o Little Feat, momenti di bluegrass, e cavalcate chitarristiche, ma anche ampio uso di tastiere, come nella lunga e conclusiva You’re Between Me, uno dei brani scritti da Fuller o nella travolgente Aren’t You Mine con Call e Goshorn al proscenio https://www.youtube.com/watch?v=BX4XdAE30gk , per non parlare di Two Lane Highway un brano che non ha nulla da invidiare ai migliori Poco o Eagles https://www.youtube.com/watch?v=5WzBurY41_A , o la bellissima Amie, sempre di Craig Fuller, una delle più belle country-rock songs di sempre. Ottime anche Kansas City Southern un brano di Gene Clark guidato dalla incalzante steel di Call, le cover di I’ll Fix Your Flat Tire, Merle, scritta da Nick Gravenites, a tempo di western swing e il R&R classico firmato Buddy Holly di That’ll Be The Day. Come pure una Country Song estratta dal primo album, che tiene pienamente fede al proprio titolo, sempre sulle ali della steel di Call, veramente travolgente https://www.youtube.com/watch?v=JFcC6YCh-hE , e anche Harvest un brano di Goshorn che esplora il lato più rock della band, un po’ alla Loggins And Messina, per non parlare di ballate suadenti come Sun Shone Lightly https://www.youtube.com/watch?v=ClwYh84326c . La qualità sonora è più che buona, il contenuto merita e la band ci mette del suo, un buon documento degli anni dorati del country-rock, da non perdere.

Bruno Conti

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

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The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

Novità Di Gennaio Parte Ia. Railroad Earth, Blackie And The Rodeo Kings, Mary Chapin Carpenter, Lucinda Williams, Mark Lanegan, Poco

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Con l’anno nuovo riparte la rubrica dedicata alle novità discografiche, dopo la lunga pausa, praticamente dalla prima decade di dicembre a metà gennaio non era più uscito quasi nulla, se non alcuni dischi “minori”, ma non per questo meno interessanti, recensiti con Post as hoc. Come pure alcuni dischi come Springsteen, Rosanne Cash (devo ammettere che, avendo visto finalmente la confezione della versione Deluxe singola di The River And The Thread, veramente bella, per una volta, sono d’accordo con la casa discografica che ha realizzato questa confezione, costa, ma ne vale la pena, oltre che per i contenuti eccellenti), Bocephus King e altri, sono stati recensiti in anteprima. Alcuni cofanetti di prossima uscita hanno avuto lo spazio delle anticipazioni a lunga gittata, per cui nel confermarvi che i tre dischi sopra citati, oltre al volume 12B della serie dei singoli della Motown sono usciti ieri, 14 gennaio, vediamo cosa altro c’è, diviso in due parti, visto che i titoli interessanti (almeno per il Blog, poi esce altro che non ci interessa) sono parecchi (e alcuni di questi sicuramente avranno diritto anche ad una recensione personalizzata)!

Dall’America il nuovo CD dei Railroad Earth, si chiama Last Of The Outlaws esce su etichetta Black Bear e conferma la band di Todd Sheaffer e John Skehan tra le più interessanti in ambito Bluegrass/Country/Rock/Jam http://www.youtube.com/watch?v=cKxYLjj6tdg  . Cè un lungo brano All That’s Dead May Live Again, diviso in quattro parti, che supera i dieci minuti di lunghezza e anche Grandfather Mountain sfiora i nove minuti, ma in alcuni brani mi sembra di scorgere anche un lavoro più rifinito e minuzioso a livello di canzoni, con dei brani che ricordano, per certi versi, anche i vecchi pezzi dei migliori Poco, quelli degli inizi, con un occhio pure alla melodia. Bel disco in ogni caso http://www.youtube.com/watch?v=5UzLANcRML4

Dal Canada arriva il nuovo disco, South, il settimo o l’ottavo (a seconda se Let’s Frolic e Let’s Frolic Again valgono per uno o per due) dei Blackie And The Rodeo Kings, dopo il bellissimo Kings And Queens del 2011, quello delle collaborazioni con tante voci femminili http://discoclub.myblog.it/2011/07/20/blackie-and-the-rodeo-kings-re-e-regine/. Questa volta Stephen Fearing, Colin Linden e Tom Wilson, in rigoroso ordine alfabetico, rivolgono la loro attenzione al suono del Sud degli Stati Uniti (anche se il primo brano si chiama North http://www.youtube.com/watch?v=VbI0pFbkEF0da qualche parte bisogna pur partire) e, manco a dirlo, ancora una volta centrano l’obiettivo, con la loro miscela di country, rock, roots music, un pizzico di blues, tre belle voci e penne http://www.youtube.com/watch?v=g8JvKDoQvi0 . L’etichetta non è più la gloriosa True North dei tempi passati e neppure la Dramatico dell’ultimo disco ma una nuova File Under Music, un nome, un auspicio, basta aggiungere good e poi partire alla ricerca del disco.

mary chapin carpenter songs from the movielucinda williams lucinda williams

Altre due uscite che riguardamo in questo caso voci femminili. Il primo è il nuovo disco di Mary Chapin Carpenter, Songs From The Movies, etichetta Zoe Music/Rounder/Universal, è uscito ieri 14 gennaio http://www.youtube.com/watch?v=McLl3UUl67k . Si tratta delle rivisitazione in chiave orchestrale di alcuni brani classici del repertorio della cantante americana, con gli arrangiamenti a cura di Vince Mendoza, una orchestra di 63 elementi e un coro di quindici, più la partecipazione, tra gli altri, di Peter Erskine, Luis Conte e Matt Rollings. Registrato agli Air Studios di Londra, proprio quelli fondati da Goerge Martin. Forse vi sarà capitato di leggere delle recensioni non particolarmente favorevoli dell’album, per non dire negative, dopo quelle entusiatiche che avevano accolto il precedente Ashes And Roses (http://discoclub.myblog.it/2012/06/10/un-gusto-acquisito-mary-chapin-carpenter-ashes-and-roses/), mentre altri, tra cui il famoso sito Allmusic, ne parlano in termini entustiatici. Come saprà chi legge questo Blog io sono un grande estimatore della cantante di Washington, DC (ma nata a Princeton, NJ) ma devo dire che questa volta, pur avendo sentito il disco un po’ frettolosamente sono più d’accordo con le recensioni negative, anche se non in modo radicale. In effetti è un po pallosetto, ma non così brutto e noioso come dipinto, e nessuna delle nuove versioni è superiore a quelle originali, insomma Joni Mitchell con Travelogue aveva fatto decisamente meglio. Comunque proverò a sentirlo meglio, in caso lo recensisco.

Per Lucinda Williams si tratta della ristampa, in versione doppia Deluxe, dell’omonimo Lucinda Williams, uscito in origine nel 1988 e poi ristampato una prima volta in CD nel 1998 per la Koch Records, con alcune bonus tracks. Si tratta del terzo album della discografia della Williams, quello con Passionate Kisses, brano casualmente portato al successo proprio dalla Mary Chapin Carpenter di cui leggete qui sopra http://www.youtube.com/watch?v=IMGMT3_Dx4k . E anche Changed The Locks aveva avuto una cover di pregio da parte di Tom Petty nella colonna sonora di She’s The One. Quindi un disco di quelli belli, da non confondere con i due acustici degli esordi registrati a cavallo fine anni ’70, primi anni ’80. Il remastering è stato finanziato con l’ormai collaudato sistema del crowdfunding attraverso Pledge Music e nel secondo dischetto c’è un intero concerto registrato a Eindhoven in Olanda nel 1989 con Gurf Morlix alla chitarra, più altri sei pezzi sempre registrati dal vivo per varie emittenti radiofoniche http://www.youtube.com/watch?v=g1sob8iICHw . Esce per la Thirty Tigers e costa poco più di un singolo, quindi direi che si può, anzi si deve, fare. Bello, anzi bellissimo!

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Per finire due ristampe, anzi una antologia con rarità e un twofer, 2in1.

Mark Lanegan esce con questo doppio Has God Seen My Shadow? An Anthology 1989-2011, pubblicata dalla benemerita Light In The Attic, raccoglie materiale tratto dai suoi album solisti e dalle varie collaborazioni, nel corso degli anni, con Isobel Campbell, Soulsavers, Queens Of The Stone Age e Gutter Twins, 20 brani in tutto, più un secondo dischetto con 12, dicasi dodici, brani inediti http://www.youtube.com/watch?v=t6Mex48Eixk . Questo il contenuto:

Disc 1:
Bombed
One Hundred Days
Come To Me
Mirrored
Pill Hill Serenade
One Way Street
Kimiko’s Dream House
Low
Resurrection Song
Shiloh Town
Creeping Coastline Of Lights
Lexington Slow Down
Last One In The World
Wheels
Mockingbirds
Wild Flowers
Sunrise
Carnival
Pendulum
The River Rise

Disc 2 (all previously unreleased):
Dream Lullabye
Leaving New River Blues
Sympathy
To Valencia Courthouse
A Song While Waiting
Blues For D (Vocal Version)
No Contestar
Big White Cloud
Following The Rain
Grey Goes Black
Halcyon Daze
Blues Run The Game (Live)
Anche questo costa all’incirca come un singolo, quindi, uomo avvisato…

Se ne parlava giusto sopra in riferimento ai Railroad Earth. Legend e Indian Summer dei Poco erano usciti negli anni ’90 e ’00 anche in versione CD, ma spesso in versioni non di grande qualità sonora, in qualche caso tratte dai dischi in vinile, a parte le edizioni giapponesi, spesso costose e di difficile reperibilità. Ora la BGO provvede a ristamparli in un unico dischetto che contiene entrambi gli album. Indian Summer, uscito in origine per la MCA nel 1977 http://www.youtube.com/watch?v=iZOuSSmkoaY (é questo quello con la ristampa orribile della Lemon, presa pari pari dal vinile) e Legend del 1978, sempre MCA, il disco di maggior successo della formazione americana http://www.youtube.com/watch?v=a1cZ05l5jrs . Forse gli ultimi due album decenti, anzi buoni, del grande gruppo country-rock per il quale ammetto una grande ammirazione, soprattutto per i dischi dal 1969 al 1974 su Epic (più il live del 1976) che secondo chi scrive, sono tra i migliori in assoluto usciti nel genere, bellissimi e spesso sottovalutati. E Keeping The Legend Alive uscito nel 2004 e poi di nuovo nel 2006 come Alive In The Heart Of The Night è un bellissimo disco dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=yoPJdvowc5Y , con Paul Cotton, Rusty Young, George Grantham e Richie Furay in qualche brano, di nuovo in formazione, quasi la migliore formazione del gruppo dove negli anni hanno militato anche Jim Messina , Randy Meisner e Timothy B. Schmit. Se vi capita.

Alla prossima.

Bruno Conti