Il Talento ” Dietro Un Velo”? Jess Klein – Behind A Veil

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Jess Klein – Behind A Veil – Motherlode Records (solo sul suo sito) http://jessklein.com/ – 2012

Se siete stanchi di ragazzine delicate che cantano con voce delicata, ma preferite le ragazze grintose che hanno qualcosa da dire, mi permetto  di consigliarvi (per chi non la conosce) Jess Klein, una bella e brava cantautrice di area “bostoniana” (un bacino molto prolifico per la canzone d’autore americana). La ragazza, nata a Rochester (New York), è molto versatile: ha dipinto, ha preso lezioni di danza classica, ha suonato il clarinetto, ha scritto racconti e ha sempre canticchiato. Nel 1995 Jess decise di trascorrere un annetto in Giamaica, e il padre (deceduto quest’anno dopo una lunga battaglia con la SLA) le regalò per l’occasione la sua vecchia chitarra acustica, che ha portato Jess Klein a scoprire un interesse più importante degli altri e a dedicarsi interamente al “songwriting”. Per farla breve da Kingston a Boston il passo non è breve, ma nemmeno impossibile, e la Klein diventa in poco tempo una delle beniamine musicali della città, tanto è vero che per Draw Them Near (2000) l’album del vero debutto si muove la “crema” della città stessa (Ken Coomer batterista dei Wilco, Paul Kolderie dei Morphine, George Howard e David Henry per la produzione. Negli anni a seguire la Klein, con alti e bassi, incide lavori come Strawberry Lover (2005), City Garden (2006), un rarissimo Live House Of Satisfaction (2007), e l’ottimo Bound To Love (2009).

Trasferitasi da Boston a Austin, Jess per Behind A Veil (con produttore esecutivo un certo Phil Collins, sarà lui, non credo!) si avvale dei migliori “talenti” del posto, tra i quali Bill Masters alle chitarre e banjo, Mark Addison al basso e piano, Jeremy Bow batteria e percussioni, Rick Moore al sax, e le coriste Wendy Colonna e Noelle Hampton, per canzoni che nei testi risentono inevitabilmente degli ultimi eventi sfavorevoli della sua vita (oltre alla morte del padre, anche la separazione dal suo compagno).

L’inizio con la “title-track” Behind A Veil  è uno dei più promettenti, ritmo, chitarre taglienti, voce sofferta, una canzone così perfetta che se fossi un dj radiofonico non me la lascerei scappare. Con Wilson Street Serenade si viaggia dalle parti del “soul”, una ballata incantevole con il controcanto di Wendy e Noelle. Lovers And Friends inizia con una acustica vecchio stile, supportata da un banjo, una batteria avvolgente, con un crescendo e un cantato convinto. Ancora meglio la successiva Beautiful Child, una ballata da brividi con la voce di Jess che segue la melodia dell’arpeggio della chitarra. Splendida. La seguente Tell Me This Is Love è un brano dal “riff” rockeggiante con batteria e tastiere in evidenza, mentre Riverview dimostra che l’interprete conta, quando la voce valorizza un brano dall’arrangiamento scarno (batteria e banjo). Un intro particolare apre Simple Love una ballata superba, con un ritornello che ti entra in testa, cantato con grande passione e convinzione, un brano che rimarrà a lungo nelle orecchie e nel cuore. Mona è più elettrica, ricorda gli esordi della Klein, mentre A Room Of Your Own e Unwritten Song sono canzoni  più “normali”,  forse troppo artificiose.

Un disco ben fatto ed equilibrato che conferma il talento di Jess Klein, dotata di una voce morbida e avvolgente, un autrice che, come ha sottolineato l’autorevole rivista musicale “No Depression” cavalca un suono rock-mainstream, non ha forse una personalità straripante, ma trovando parecchie affinità con le colleghe Catie Curtis, Kathleen Edwards, Brandi Carlile, Shannon McNally, Gina Villalobos, e soprattutto Lucinda Williams, contribuisce alla rinascita del rock d’autore al femminile. Consigliata a tutti gli amanti delle cantanti che sanno dare emozioni.

Tino Montanari

Un Nuovo EP, “Piccolo Ma Sincero”. ZZTop – Texicali

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ZZTop – Texicali EP – American Recordings/Universal – Solo download

Sono solo quattro brani, ma la prima cosa che mi viene da dire è che “sembrano” gli ZZTop, e già non è poco. Questo Texicali è un piccolo appetizer dell’album ancora senza titolo, prodotto da Rick Rubin, che dovrebbe uscire alla fine dell’estate. E il fatto che escano questi brani è un buon segnale, vuol dire che questo disco non farà la fine del fantomatico progetto di cover di C S N, sempre curato da Rubin. Che nel frattempo è stato scaricato dalla Sony-BMG, dove ricopriva il ruolo di co-presidente della Columbia, e quindi baracca e burattini, con la sua etichetta American Recordings, si è ri-trasferito alla Universal (ormai le major sono quelle, non c’è molta scelta).

Tornando all’EP, il sound è tornato quello classico degli anni ’70, niente sintetizzatori, sequencers, batterie elettroniche, solo del sano boogie-southern-rock-blues. Almeno a giudicare da questi quattro brani, che si possono solo scaricare dalle varie piattaforme per il download, mi sembra che i tre “barbuti” (due veri ed uno di cognome) abbiano deciso, con l’aiuto di Rubin, di tornare a fare quella che è la loro musica: era dai tempi di El Loco e Deguello, e ancora meglio nei precedenti dischi, che il gruppo non si esprimeva a questi livelli. Ok, la voce di Billy Gibbons ormai ti fa venire voglia di regalargli un pacchetto di pasticche per la gola, ma la chitarra del leader e la sezione ritmica hanno ripreso a suonare con un vigore e delle sonorità, che salvo sporadiche eccezioni, sembravano relegate alla notte dei tempi.

Invece, sin dalle prime note di I Gotsta Get Paid, una sorta di sciogilingua in “risposta” alla classica Just Got Paid che si trovava sull’altrettanto classico Rio Grande Mud (e della quale Bonamassa fa una monumentale versione dal vivo con tanto di Flying V Gibson all’opera), le chitarre di Billy tornano a “ruggire” come ai tempi d’oro, con gli immancabili riff boogie del southern rock più legato al blues nuovamente in azione a dispetto degli anni che passano e delle mode musicali che si susseguono. Quindi, per fortuna, niente di nuovo sul fronte musicale, solo chitarre cattive e basso e batteria a martellare i ritmi. E gli altri due brani, anche questi brevi e concisi, meno di quattro minuti ciascuno, Chartreuse e Consumption, avrebbero tranquillamente trovato posto tra i migliori brani della loro discografia: la prima cantata da Dusty Hill, messo meglio nel reparto vocale di Gibbons e ancora in grado di pompare alla grande sul suo basso, con la batteria di Frank Beard immancabile contraparte nella sezione ritmica. Consumption è una ennesima, ma sempre benvenuta, ulteriore variazione dei temi boogie che il trio ha perfezionato nel corso di oltre quarant’anni di onorata carriera. La “sorpresa” è Over You, una inconsueta, per loro, lenta ballata, quasi romantica, cantata con passione e con quel poco di voce rimasta da Billy Gibbons, che la nobilita nella parte centrale con un lirico e bellissimo assolo di chitarra che ci riappacifica ulteriormente con i bei tempi andati, che possono tornare.

Sono solo quindici minuti, ma se il buongiorno si vede dal mattino, bentornati!

Bruno Conti

In Irlanda Un Numero 1, Grande Talento! Mick Flannery – Red To Blue

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Mick Flannery – Red To Blue – Emi Music Ireland 2012

Il nome di Mick Flannery fa parte di quella lunga lista di piccoli e grandi tesori nascosti della musica Irlandese. mick%20flannery Circa un paio di anni fa ho letto il nome di questo artista originario di Blarney (nella contea di Cork), e completamente ignorando qualsiasi informazione sul personaggio, con curiosità mi sono addentrato nel suo mondo musicale. Fin dal primo ascolto devo dire che Mick mi ha particolarmente affascinato, “in primis” per la struttura musicale che ricorda per certi aspetti la sonorità di David Gray, e la malinconia di Damien Rice. Flannery è un cantautore dotato di una voce interessante e di una penna che si muove con estrema naturalezza tra ballate semiacustiche, brani più marcatamente folk, e “songs” pianistiche di raffinata eleganza, influenzato da artisti della caratura di Tom Waits, Leonard Cohen e l’immancabile Bob Dylan.

Il suo album di debutto Evening Train (uscito a livello indipendente nel 2005 e ri-pubblicato dalla Emi irlandese nel 2005), lo porta a vincere come primo musicista irlandese, l’ambito International Songwriting Competition in quel di Nashville, Tennessee, mentre White Lies (2008) diventa disco di platino ed è nominato per il premio Choice Music Prize, e questo nuovo lavoro Red To Blue uscito nel Marzo di quest’anno, è stato tre settimane al primo posto della classifica Irlandese, e il tour promozionale è stato un grande successo per Mick, con il “sold-out” in tutti i concerti, in particolare all’Olympia Theatre di Dublino. Red To Blue ha una lunga genesi: alcune canzoni infatti vengono scritte da Flannery nel corso di due viaggi in America , a Boston nel 2010 (No Way To Live e Boston) e Nashville nel 2011 (Keepin Score e Red To Blue) con l’aiuto di Declan Lucey e Dave Farrell. Tornato nella sua verde Irlanda il buon Mick ha radunato i suoi fidati musicisti, tra i quali Hugh Dillon alle chitarre, Brian Hassett al basso. Christian Best alla batteria, Karen O’Doherty al violino, la cantante Yvonne Daly ai cori, e sotto la curata produzione di Ryan Freeland (un tipo che in passato ha lavorato con gente del calibro di Son Volt, Ray LaMontagne, Aimee Mann, Joe Henry, Grant-Lee Phillips), ha sfornato questa “perla”.

Gone Forever si apre con un assolo di armonica all’avvio, per poi svilupparsi in un rock-blues, mentre Heartless Man è una ballata sofferta cantata al meglio da Mick. Spuntano gli archi in Only Gettin On una dolce ninna-nanna con il controcanto della Daly, seguita da una malinconica Ships In The Night con arpeggio di flamenco iniziale e violino “assassino” di Karen O’Doherty in chiusura. Keepin’ Score è un brano dal passo gentile e con una struttura melodica accattivante, mentre Red To Blue alza il ritmo del disco con una sezione ritmica a tempo di marcia. Si ritorna alla ballata intimista con Up On That Hill, dove i cori disegnano un piccolo gioiello musicale, per passare poi con No Way To Live ad un incursione nel rock, con un finale in crescendo di una sezione fiati, mentre Get That Gold degna del miglior David Gray. Gli archi compaiono spesso nelle sue canzoni, come ad esempio in Down The Road, mentre Lead Me On è una ballata pianistica dalle forti suggestioni poetiche, uno dei brani più belli dell’intera raccolta, che ci mostra senza mezze misure le qualità di questo artista. Chiude in maniera splendida un valzer romantico come Boston, con la voce appassionata di Mick che canta un ritornello meravigliosamente semplice, con il pianoforte di supporto. Incantevole.

Tenendo conto che fino a qualche tempo fa, la sua occupazione primaria era lavorare la pietra (ma pare che quando gli hanno comunicato che il suo album era andato al 1° posto delle charts irlandesi, scalzando Madonna e davanti a Springsteen, stesse lavorando a un caminetto), ci troviamo di fronte in ogni caso ad un notevole talento e nonostante in patria, come detto, abbia successo, non si capisce perché tante “strombazzate” riviste musicali del settore non ne abbiamo parlato come assolutamente merita. Red To Blue può essere senz’altro il primo passo per avvicinarsi ad un cantautore onesto e sincero, anche se, per la verità, i suoi CD non sono di facile reperibilità. Per quanto mi riguarda, visto che fra qualche mese sono da quelle parti (Dublino), se trovo qualche copia, la porto a casa.

Tino Montanari     

Un Bluesman “Texano” Del Mississippi. Omar And The Howlers – I’m Gone

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Omar And The Howlers – I’m Gone – Big Guitar Music

A nove anni dall’ultimo album di studio, Boogie Man, che risaliva al 2003, Omar Kent Dykes ha convocato nuovamente la sua pattuglia di “ululatori” passati e presenti per una nuova puntata della saga di Omar & The Howlers, iniziata nel lontano 1973, anche se il primo frutto discografico è Big Leg Beat del 1980, come spesso accade uno dei suoi migliori in assoluto. Secondo le leggende metropolitane, Omar festeggia quest’anno i suoi 50 anni di carriera, in quanto sarebbe entrato nella sua prima band a 12 anni. Nato nel 1950, i conti tornano: però, per la serie allora vale tutto, potrei dire che visto che a quell’età giocavo con le figurine, sono uno dei fondatori della Panini. Il nostro amico è nato a McComb, Mississippi, un piccolo paesino che curiosamente ha dato i natali anche a Bo Diddley ed è la località vicino alla quale si è schiantato l’aereo che trasportava i Lynyrd Skynyrd. Forse per evitare questi futuri pericoli Omar si è trasferito in Texas, a Austin, già nel 1976, in un periodo dove iniziava a fiorire una scena blues locale che contava tra le sue punte di diamante i fratelli Vaughan e di cui Omar and The Howlers sarebbero stati (e sono tuttora) tra i migliori rappresentanti.

Dopo una serie di  recenti album solisti e collaborazioni, tra l’altro una proprio con Jimmie Vaughan, On The Jimmy Reed Highway, Dykes si è fondato la propria etichetta discografica, la Big Guitar Music, nome quanto mai esplicativo, e ha deciso di regalarci un nuovo capitolo della sua Enciclopedia sulla musica texana: rock and roll, blues, rockabilly, country, gli elementi ci sono tutti e come di consueto vengono frullati in quello stile inequivocabile che spesso nel passato li ha accostati all’altra grande band di “genere”, ovvero i Fabulous Thunderbirds. In questo caso non c’è l’armonica fra gli strumenti utilizzati ma chitarre, soprattutto chitarre e ancora chitarre, oltre naturalmente alla voce potente e vissuta di Omar, a suo agio in tutti i generi trattati.

Dal rockabilly boogie blues dell’iniziale title-track con il vocione che fa concorrenza a John Lee Hooker come profondità e una chitarra scintillante, per un risultato che sta a cavallo tra i Fabulous Thunderbirds e i Blasters più attizzati passando per il blues super classico di All About The Money per arrivare al country puro di una Drunkard’s Paradise che sembra una versione riveduta per i nostri giorni di Me And Bobby McGee, con acustiche e pedal steel a sostituire i soliti riff blues. Che ritornano nel ritmo alla Bo Diddley della vigorosa Wild And Free e nei ritmi elettrici a metà tra Chicago Blues e Stevie Ray Vaughan di Down To The Station. Omar Dykes ci regala dal suo songbook (tutte scritte per l’occasione) un eccellente tributo al suo stato d’adozione, Lone Star Blues è uno slow blues strumentale in trio con tanto di scat nella parte centrale che ne illustra anche le capacità tecniche come chitarrista poi ribadite nelle velocità frenetiche dell’irresistibile Omar’s Boogie.

Finito l’intermezzo strumentale Goin’ Back To Texas è un altro di quei blues ribaldi e scanditi che hanno sempre fatto parte del repertorio della Band mentre Let Me Hold You è una ballatona lenta quasi alla Willie Nelson, una country song profumata di Blues, cantata come Dio comanda. Move Up To Memphis è un altro di quei brani a cavallo tra blues e rock che hanno fatto la fortuna del gruppo in passato e che non mancano in questo ritorno mentre l’unica cover presente è uno dei super classici del Blues, I’m Mad Again, uno dei cavalli di battaglia di quel John Lee Hooker citato prima, vocione d’ordinanza, atmosfere sospese e ritmi ciondolanti per una versione da manuale. Si poteva anche finire qui ma Take Me Back è un bel rockabilly blues che avrebbe potuto entrare con onore nel repertorio di Elvis e nel testo cita nomi e luoghi che hanno fatto grande questa musica. Bel finale per un bel disco.

Bruno Conti

Confermo: E’ Proprio Brava! Rumer – Boys Don’t Cry

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Rumer – Boys Don’t Cry – Atlantic Deluxe Edition

Penso che se uscite e chiedete al classico “uomo della strada” di farvi il nome di una cantante inglese di successo, almeno otto su dieci vi faranno il nome di Adele, mentre i restanti due, avidi consumatori di reality e talent show, vi potranno citare Susan Boyle. Pochi vi faranno il nome di Rumer: eppure la cantante anglo-pakistana (avrebbe dovuta essere tutta anglo, ma forse dopo sei figli avuti dal marito la madre ha voluto provare qualcosa di diverso e si è rivolta al cuoco…ma per le note biografiche vi rimando a Wikipedia) ha superato con il suo debutto Seasons Of My Soul, uscito nel Novembre del 2010, la ragguardevole cifra delle 500.000 copie vendute, quantità di tutto rispetto in un momento di profonda crisi del mercato discografico.

Tutte copie meritate, dalla prima all’ultima (piuttosto forse è esagerato il successo della pur bravissima Adele, mentre della Boyle non parlo, talento non significa solo una voce formidabile): Bruno vi aveva detto meraviglie di Seasons Of My Soul (e io condivido),  perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul.html un disco di puro pop, ma suonato ed arrangiato alla grande, e con la voce calda e piena d’anima (soulful, letteralmente) di Rumer (nata Sarah Joyce, il nome è in onore della scrittrice Rumer Godden). Una voce che la stampa inglese aveva paragonato a quella della sfortunata Karen Carpenter (del famoso duo The Carpenters), ma molti, me compreso, vedevano tracce, anche nello stile oltre che nella voce, di Dusty Springfield, Laura Nyro, Carole King ed un pizzico del Van Morrison di dischi come Tupelo Honey.

Ora esce il tanto atteso secondo album, intitolato Boys Don’t Cry, che, a differenza del debutto che era composto da brani originali (tranne due), è formato interamente da cover di canzoni che hanno avuto una profonda influenza su di lei: uno potrebbe pensare ad una mossa astuta della casa discografica in mancanza di materiale nuovo, ma, una volta ascoltato il disco, l’operazione ha perfettamente senso. Rumer infatti affronta un repertorio che più eterogeneo non si può (si passa da Neil Young a Hall & Oates, da Townes Van Zandt a Isaac Hayes, e così via, ma niente Carpenters, Springfield, Nyro, ecc.), facendo suo ogni brano con la sua voce spettacolare, sostenuta come sempre da arrangiamenti misurati ma di gran classe (la parola classe la ripeterò spesso nel corso di questa recensione), con una serie di ottimi musicisti, sui quali spicca senz’altro lo straordinario David Hartley al pianoforte: il produttore (ma non di tutto il disco) è come nel primo disco Steve Brown, suo scopritore e mentore. Piccola nota prima di iniziare la disamina dei brani: anche questo album esce incomprensibilmente in due versioni, una con dodici canzoni ed una deluxe con sedici, ed io vorrei tanto conoscere un giorno chi compra la versione con meno brani per risparmiare quattro/cinque Euro…

L’album si apre con P.F. Sloan, brano scritto da Jimmy Webb e dedicato al noto autore di hits anni sessanta (in coppia con Steve Barri): inizio per chitarra acustica, voce subito “sul pezzo”, intervento di oboe (chi suona ancora l’oboe nei dischi?) e ritornello corale strepitoso. Sarah canta con la stessa facilità con la quale io mi infilo un paio di calze. (Bella tra l’altro l’idea di pubblicare nel libretto interno al CD l’elenco dei brani con il dettaglio di autore, anno, album di provenienza e copertina dell’album stesso). It Could Be The First Day (Richie Havens) è arrangiata come se fosse una ballata di Burt Bacharach (un altro folgorato dal talento della ragazza, tanto che ha voluto conoscerla di persona), con soave arrangiamento d’archi e la voce di Rumer che si estende eterea lungo tutto il brano. Forse un po’ “troppo” commerciale, ma che classe! Be Nice To Me (di Todd Rundgren) sembra provenire da un disco anni settanta di Carole King: la band segue Sarah (mi piace alternare il vero nome a quello d’arte) con leggiadria e…indovinate? Esatto: classe! C’è anche posto per il flugelhorn (vedi commento sull’oboe di prima), ci mancano solo il glockenspiel e l’harpsicord ed abbiamo riunito tutti gli strumenti vintage.

Travelin’ Boy (Paul Williams) è un lento da brividi (sentite come canta), con accompagnamento classico, piano e chitarra su tutti; Soulsville (Isaac Hayes) mantiene un po’ dello spirito originale, un errebi lento da applausi, arrangiato con gusto e misura e Rumer che modula le corde vocali da par suo. Same Old Tears On A New Background (Stephen Bishop), per voce, piano e poco altro (vibraphone, questo mancava!) è più sul versante Laura Nyro, mentre Sara Smile, di Hall & Oates, viene spogliata degli inutili orpelli tipici del duo di Philadelphia, per diventare una solida ballata dominata da piano e organo. Superba, e poi Rumer con quella voce può fare ciò che vuole. Passare da Hall & Oates a Townes Van Zandt è come pranzare da McDonald’s e cenare da Cracco: Flyin’ Shoes è una delle grandi canzoni del songbook americano, e questa versione dominata dal piano, con delicati interventi di armonica e steel guitar, è semplicemente inarrivabile. La migliore del disco (almeno fino ad ora), quasi commovente. Home Thoughts From Abroad (Clifford T. Ward) è pochissimo strumentata, costruita com’è attorno alla voce inimitabile di Sarah; con Just For A Moment (tratta da un album poco noto di Ronnie Lane in coppia con Ron Wood) siamo dalle parti della Springfield.

Brave Awakening (Terry Reid) è arrangiata in modo sofisticato ma per nulla stucchevole, con hammond e coro femminile che fanno tanto soul, mentre We Will, di Gilbert O’Sullivan, cantata come sempre alla grandissima (ma il brano in sé è forse quello che mi piace meno), chiude la versione “normale” del disco. Il primo bonus è Andre Johray di Tim Hardin, languida e raffinata, seguita da Soul Rebel di Bob Marley, dove fortunatamente (almeno per me) il reggae viene cancellato per farla diventare una perfetta ballata “alla Rumer”, con un tocco sixties che non guasta. L’album si chiude definitivamente con due grossi calibri: My Cricket di Leon Russell (deliziosamente country got soul) e soprattutto A Man Needs A Maid (and a wife needs a cook avrebbe aggiunto sua madre, scherzo signora, non mi fulmini da lassù!) di Neil Young, il brano più noto della raccolta, tratto da Harvest che è l’album più noto del canadese. Un brano che mi stupisce sentito cantare da una donna (leggete il testo e capirete), ma Rumer rilascia una versione manco a dirlo da pelle d’oca, anche Neil approverà di sicuro. Tra le cover dell’anno fin da adesso, assieme a quella di Townes.Che dire di più, penso di non dover aggiungere altro, grande musica e grandissima interprete: di solito a dischi di questo tipo (di cover intendo) viene fatto seguire a breve distanza un altro album con brani nuovi di pacca. Speriamo quindi di non aspettare un altro anno e mezzo.

Marco Verdi

Buon Sangue Non Mente, Un Affare Di Famiglia! Spain – The Soul Of Spain

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Spain – The Soul Of Spain – Glitterhouse 2012

Avviso ai naviganti: il figlio di Charlie Haden è tornato. Gli Spain sono la creatura di Josh Haden figlio d’arte, suo padre è infatti il notissimo bassista jazz, leader della mitica Liberation Music Orchestra, collaboratore stretto di Ornette Coleman e “sideman” in centinaia di dischi. La band si è formata nel ’93 ed ha esordito nel ’95 con l’acclamato The Blue Moods of Spain, ricevendo il plauso della stampa mondiale, e Josh, al tempo in compagnia della sorella Petra si è creato subito un folto seguito. Passati quattro anni da quel disco, ma il progetto Spain nel contempo ha suonato dal vivo ed è apparso in vari album e colonne sonore (come non ricordare l’eccellente brano incluso nella “soundtrack di End Of Violence di Wim Wenders), sono usciti con She Haunts My Dreams e I Believe, per poi terminare la loro storia con il capitolo finale Spirituals The Best Of Spain (2003), con l’aggiunta di due canzoni incise all’inizio di carriera, e di tre registrate dal vivo. La prima “line-up” degli Spain (quella di The Blue Moods of) comprendeva Josh, Petra e Tanya Haden, Merlo Podlewski, Ken Boudakian e Evan Hartzell, mentre per questo ritorno Josh ha voluto rimettere in piedi il gruppo con nuovi membri, Randy Kirk tastiere e chitarre, Matt Mayhall percussioni e batteria, Daniel Brummel chitarre acustiche e elettriche, ma sempre con l’apporto delle tre “grazie” Petra, Rachel e Tanya Haden.

La voce di Josh apre il disco con la dolce Only One in perfetto stile Cowboy Junkies (periodo The Caution Horses), batteria semplice in evidenza, voce profonda e pochi accordi di chitarra. Without A Sound ha un inizio simile ma questa volta è il piano a condurre la melodia a ritmo di valzer, mentre Because Your Love è  ritmica e rimanda ai pezzi dei Velvet Underground. Si prosegue con due ballate, che sono il marchio di fabbrica degli Spain, I’m Still Free e I Love You, con sonorità notturne, e un uso continuo di tastiere e chitarre arpeggiate. Il ritornello di All I Can  Give è ammaliante, mentre nella splendida Walked On The Water brano jazzato e notturno, solcato dal violino di Petra e dal violoncello di Tanya, troviamo il quarto componente della famiglia, la gemella Rachel ai cori. La pianistica Sevenfold potrebbe stare benissimo in un disco di Bruce Hornsby, seguita dal brano più veemente del lavoro Miracle Man, che sfiora la psichedelia. L’intro di Falling ricorda Colour My World (un sottovalutato brano dei Chicago), e la degna chiusura è affidata alla ballata elettrica Hang Your Head Down Low, lunga e sinuosa, che viene introdotta dalla voce profonda di Josh e si sviluppa attraverso rarefatti accordi di chitarra ed un uso semplicemente perfetto delle tastiere.

 Gli Spain danno vita ad una musica dai contorni poetici, con un suono estremamente curato e pulito nel quale brillano i limpidi arpeggi delle chitarre, le misurate variazioni delle tastiere, e la calda e coinvolgente, intima e profonda voce del “leader”. Josh scrive composizioni con testi che hanno spesso temi ricorrenti, come l’amore e le esperienze personali, dal carattere semplice e introspettivo, dalle atmosfere affascinanti e suggestive, che continuano a crescere ascolto dopo ascolto. Se non avete mai incrociato sulla vostra strada le canzoni degli Spain, è sicuramente questa l’occasione per farlo, lasciandovi trasportare nel loro mondo dei sogni, con la musica di Josh Haden, il frutto di uno scrittore sensibile e un musicista di talento.

 Tino Montanari

Questo Dove Ce Lo Avevano Tenuto Nascosto Per Tutti Questi Anni? Muddy Waters & The Rolling Stones – Live At The Checkerboard Lounge Chicago 1981

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Muddy Waters & The Rolling Stones – Live At The Checkerboard Lounge Chicago 1981 – Eagle Rock DVD+CD o DVD 10-07-2012

Per essere sinceri si era a conoscenza da anni di questo concerto ( e sotto forma di bootleg ha circolato più volte e si è visto “spesso” anche in televisione e su YouTube), tenutosi il 22 novembre del 1981 al Checkerboard Lounge di Chicago, il locale di Buddy Guy, con una capienza di ben 200 posti, dove i grandi bluesmen si esibivano spesso, questo per esempio è uno dei tanti bootleg dedicati all’evento, comprensivo di scaletta:

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Checkerboard Lounge, Chicago
November 22, 1981

DVD 1

Complete Gig (Mono)

High Gen Source (OK Quality):

01 Youre Gonna Miss Me When Im Gone ( John Primer on guitar & vocal )
02 Sweet Little Angel
03 Flip Flop And Fly ( Lovie Lee on piano & vocal )
04 Muddy Waters Intro
05 Baby, You Dont Have To Go
06 Country Boy

Low Gen Source ( Good Quality ) – With The Rolling Stones:

07 Baby Please Dont Go
08 Hoochie Coochie Man
09 Long Distance Call
10 Mannish Boy
11 Got My Mojo Working ( With Junior Wells And Buddy Guy )
12 Next Time You See Me ( With Buddy Guy )
13 Talking About My Woman ( With ??? )
14 Clouds In My Heart ( Jam )
15 Champagne And Reefer
16 Jam 2

DVD 2

01 Complete Gig Conclusion (Mono)

Stereo Source – Stones Edit

02 Mannish Boy
03 Next Time You See Me ( With Buddy Guy )
04 Hoochie Coochie Man
05 Long Distance Call
06 Talking About My Woman
07 Champagne And Reefer

Muddy Waters (Mono)

08 Baby Please Dont Go 1 ( Cut )
09 Baby Please Dont Go 2

Ma questa volta esce a livello ufficiale, casualmente, in occasione del 50° anniversario della nascita degli Stones, che ultimamente si sono anche messi a vendere su www.stonesarchive.com dei Bootleg ufficiali, solo per il download, al momento ne sono usciti tre: Live In Brussels 1973, LA Friday (Live 1975) e Hampton Coliseum (Live 1981).

E in più questa serata è particolare, perché a tutti gli effetti si tratta di un concerto di Muddy Waters, in cui i suoi fedeli discepoli nel Blues (e solo quattro di loro, Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Ian Stewart) si presentano a rendere omaggio al Maestro (che sarebbe morto alla fine di aprile del 1983 a “soli” 68 anni), il giorno precedente al loro trittico di concerti come Rolling Stones al Rosemont Horizon di Chicago. Nella band di Waters per l’occasione si esibiscono anche Buddy Guy & Junior Wells.

Il tutto è stato rimixato e rimasterizzato da Bob Clearmountain e sarà disponibile in un DVD (+CD) di circa 90 minuti, con il seguente contenuto (i dati mi sembrano più precisi rispetto all’edizione “pirata”):

1. Sweet Little Angel
2. Flip Flop And Fly
3. Muddy Waters Introduction
4. You Don’t Have To Go
5. Country Boy
6. Baby Please Don’t Go
7. Hoochie Coochie Man
8. Long Distance Call
9. Mannish Boy
10. Got My Mojo Working
11. Next Time You See Me
12. One Eyed Woman
13. Baby Please Don’t Go (Instrumental)
14. Blow Wind Blow
15. Champagne & Reefer

E vissero tutti felici e contenti, per quella sera. Attendiamo fiduciosi. Questo è un bel regalo per l’estate che si avvicina!

Bruno Conti

Proseguono I Festeggiamenti! Better World Coming – Lowlands & Friends Play Woody

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Better World Coming – Lowlands & Friends Play Woody

Una decina di giorni fa ricevo una mail da Edward Abbiati che mi annuncia che l’album dedicato a Woody Guthrie per festeggiare l’anniversario del centenario della nascita (il prossimo 14 luglio) è pronto. “Però aspetta a parlarne così creiamo un po’ di rumore a ridosso dell’uscita” (si svelano gli altarini di “massicce” manovre di marketing): non c’è problema aspettiamo, questo è un Blog, un diario, come dice la parola, con cadenza giornaliera (come dovrebbe essere per tutti, se no che “Diario” è). Poi arriva il contrordine, guarda che il disco è pronto, ma attenzione, aggiungo io, non è facile da trovare, se siete nella zona di Pavia (patria di Ed e dei Lowlands) dovreste trovarlo da questa settimana, se vi trovate nel resto d’Italia, a parte qualche negozio specializzato, lo troverete ai loro concerti (ma purtroppo ultimamente non ne fanno molti) oppure, per tagliare la testa al topo, lo prenotate sul loro sito e vi arriva comodamente a casa  http://www.lowlandsband.com/.

Finite le “incombenze promozionali” passiamo al dischetto. I “festeggiamenti”, come dico nel titolo, sono iniziati ormai dallo scorso novembre, prima con l’uscita di Note Of Hope, poi il disco New Multitudes di Farrar, Yames, Johnson & Parker, ad aprile la ri-pubblicazione ampliata di Mermaid Avenue di Billy Bragg & Wilco, l’EP dei Lowlands per il Record Store Day, ne ha parlato (e suonato) Bruce al South By Southwest di Austin: se volete approfondire anch’io ne ho parlato più volte, usate la funzione “cerca” nel Blog e scrivete Woody Guthrie e qualcosa troverete.

Nel CD c’è un track by track, brano per brano, scritto da Ed, mi sono detto, “perché non fare un track-by-track del track by track?” Perché no! L’album inizia con un Intro, un breve brano strumentale per piano solo che al primo ascolto (prima di leggere le note) suonava familiare: in effetti si tratta di This Land Is Your Land ,che i più attenti, scorrendo la lista dei brani, noteranno non c’è tra le canzoni riprese, anche se…

Quindi l’album si apre con This Train, un brano sui treni, quasi inevitabile se si vuole parlare della musica e della vita di Guthrie. Ed dice di essersi ispirato alla versione di Johnny Cash e alla famosa biografia Bound For Glory, il cui titolo è citato nel testo del brano. Nel disco i “Friends” sono tanti, cominciamo ad introdurli: Roberto Diana alla chitarra e Francesco Bonfiglio al piano sono i due Lowlands superstiti, Maurizio Gnola Glielmo alla national guitar e Francesco Limido all’armonica sono i due “macchinisti” per il ritmo del treno, il mandolino di Alex Cambise e il banjo di Nicola Crivelli (che si dedica anche alle armonie vocali) provvedono ad aumentare la quota – com’è quella parola di quattro lettere che piace molto? – ah sì, Folk! Il ritmo, quello vero, è dato dagli shakers di Fabrizio Cassani e dai “sacchetti di plastica” di Furio Sollazzi. Heaven My Home, oltre a molti dei musicisti già citati, introduce anche il dobro di Marco Rovino e la voce di Lisa Liz Petty che aggiunge una quota femminile più gentile alle procedure oltre a quella più ruvida di Ivano Grasselli. Inutile dire che i vari musicisti si adoperano anche ad altri strumenti nel corso del disco, aggiungerei che questa versione, sempre nelle parole di Edward, è modellata su quella di Joel Rafael.

I Ain’t Got No Home è una delle più celebri e belle canzoni di Guthrie, anzi di Springsteen, infatti se fate una ricerca su Google vi viene come risultato (in moltissimi casi), testo di I Ain’t Got No Home Bruce Springsteen, Lyrics (in effetti era in quel disco e VHS, altri tempi, uscito negli anni ’90, chiamato Folkways A Vision Shared)…La versione Lowlands è molto raccolta, solo i tre del gruppo più l’armonica che aggiunge profondità al suono. All’attacco della successiva More Pretty Girls, dopo una fascinosa introduzione per piano e trombone (Daniele Zanenga) mi sono chiesto come aveva fatto Ed a coinvolgere Tom Waits, invece è il vocione di Sergio “Tamboo” Tamburelli. Better World Coming, la title-track, voce e chitarra, è affidata in questo caso al solo Edward Abbiati, niente Roberto Diana, questa è la “prova”, no è la versione definitiva, vai tu! Two Good Meen racconta la famosa storia di Sacco e Vanzettti vista da Woody Guthrie, rivista dai Lowlands unisce Italia e Irlanda, mandolini e bodhran, chitarre e fisarmoniche, e per gradire, qualche “schiaffeggiamento di cosce”.

Per me il “centrepiece” del disco (se guardate la traduzione di centrepiece potreste trovare centrotavola o trionfo, propenderei per la seconda) è Plane Wreck At Los Gatos (Deportees), uno dei primi brani che ho sentito di Guthrie, al di fuori dell’inevitabile Dylan, qualche annetto fa, in una magnifica versione dei Byrds contenuta in The ballad of Easy Rider, e che per me rimane insuperabile, con la voce di Roger McGuinn e la string bender di Clarence White  che convogliano tutta la desolante malinconia e tristezza contenuta in questo brano. Ma Ed e amici hanno tentato la strada della versione corale, cantata a più voci, verso dopo verso, un po’ alla This Land Is Your Land, che non c’è (o sì?): e allora si susseguono le voci di Edward Abbiati, Franco Limido, Paolo Terlingo, Jimmy Regazzon, Maurizio Gnola Glielmo e le armonie di Nicola Crivelli, Betty Verri e Claudio Raschini, con l’assolo di armonica di Ragazzon, il mandolino di Cambise e la fisarmonica di Bonfiglio ad aggiungere emozioni a questa canzone ispano-americana che già di suo è bellissima, se la fai bene diventa devastante e qui ci siamo!

Stepstone è l’altro brano di Guthrie, rifatto nella “versione” di Joel Rafael, con un bel organo, sia Vox che Hammond ad aggiungersi all’ottimo dobro di Rovino, la batteria dal battito “militare” di Sollazzi e la voce di supporto della Verri aggiungono fascino ad una eccellente versione dove svetta anche la solista acustica di Roberto Diana, fedele compagno di molte avventure musicali. Going Down The Road è un altro bellissimo brano del songbook di Guthrie e Ed racconta di averla vista suonare nel 1996 a Dublino da Joe Ely e Bruce Springsteen. La versione qui presente si appoggia ancora una volta sui tre Lowlands, acustica, fisarmonica e dobro, che rimangono anche per la successiva Lonesome Valley, molto evocativa. Ci avviamo alla conclusione e quindi un altro brano di quelli corali è ideale per concludere il disco, Hard Travelin’ è un altro dei brani classici “di viaggio” di Woody Guthrie e se alla fine non resisti e ci attacchi una coda con This Land Is Your Land dove tutti cantano e suonano fino a che… “Til We Outnumber Them”. Un po’ di sana “retorica” non guasta mai. L’Outro è sempre la versione strumentale del celeberrimo brano.

Bruno Conti

P.S. Per chi fosse interessato ho visto che il 9 luglio la Smithsonian Folkways pubblicherà questo triplo CD con allegato libro di 150 pagine dal titolo di Woody At 100 -The Woody Guthrie Centennial Collection che è quello che vedete qui sotto in versione gigante.

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Un “Arzillo Vecchietto” Di 76 Annni, Ma Che Bravo! Johnnie Bassett – I Can Make That Happen

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Johnnie Bassett – I Can Make That Happen – Sly Dog Records

Johnnie Bassett è un gagliardo settuagenario, 76 anni per la precisione, che fa dell’ottimo Blues tinteggiato di soul e ricco di funky. Questo I Can Make That Happen è solo il 6° album in una carriera iniziata già negli anni ’50,  anche ci sarebbe pure un live del 1994 che inaugura la sua carriera discografica a quasi 60 anni suonati, e forse (ma senza il forse), questo ultimo è il suo miglior album in assoluto. Accompagnato dalla crema di due band locali di Detroit, i Brothers Groove e i Motor City Horns e accompagnandosi alla grande con la sua Gibson, di cui è un maestro, Bassett ci regala uno di quei rari dischi che si godono dall’inizio alla fine, un piccolo capolavoro di equilibri sonori tra blues e soul.

Nativo della Florida ma trapiantato a Detroit Mr. Bassett parte sparato con una funkyssima (si può dire!) Proud To be From Detroit con fiati in overdrive, ritmica in spolvero, la chitarra in primo piano e la voce che è ancora in grado di fare meraviglie. Love Lessons è un mid-tempo più rilassato con piano e organo a tratteggiare il suono del brano e la solita chitarra che cesella brevi e ficcanti assoli. Spike Boy è un’altra piccola meraviglia, Bassett nella presentazione sul sito la definisce una “Henry Mancini meets Blues” e per i suoi florilegi fiatistici che incontrano il suono limpido della chitarra e la voce espressiva del leader ci può stare. La title-track ha qualcosa del BB King degli anni d’oro, chitarra limpida e voce espressiva, fiati di supporto e tutta la band che gira a meraviglia intorno alla voce di Bassett, che anche nella scelta delle cover ha un gusto notevole: Cry To Me di Solomon Burke non è un brano facile da cantare, o vai allo scontro frontale con la voce del “King Of Rock’n’Soul” e rischi la figuraccia o ti inventi un arrangiamento divertente ed efficace alla Willy Deville (non so perché mi è venuto in mente lui!) e fai godere l’ascoltatore, come in questo caso.

Anche quando si passa al soul puro come nella sontuosa Teach Me To Love cantata in duetto con la “Diva” locale Thornetta Davis (che di tutte le etichette possibili nel mondo, è sotto contratto per la Sub Pop) Bassett si conferma cantante espressivo e partecipe come pochi. Dawging Around è uno strumentale swingatissimo con spazio per tutta la band ma fin troppo di maniera. Cha’mon è un altro brano ad alta gradazione funky che ci riporta ai temi musicali del brano iniziale e Bassett tenta anche un paio di urletti non male. Reconsider Baby è uno dei classici del Blues, scritto da Lowell Fulsom, l’hanno suonata e cantata un po’ tutti, da Bobby Bland e Magic Sam, per arrivare fino a Clapton e Bonamassa, ognuno nel proprio stile, la versione di Bassett ovviamente è vicina allo spirito dell’originale.

Altro blues classico ancorché scritto da Chris Codish, che è il tastierista dell’album e autore di molti dei brani, anche Motor City Blues è ancora un buon esempio della classe del vecchio Bluesman, ma nel finale il disco perde un po’ la spinta dei brani della prima parte e anche Let’s Get Hammered ha un bel groove, buoni interventi chitarristici e vigore vocale da parte di Bassett ma manca di quel quid che era presente in altri brani del’album. Dell’annunciata versione di Wind Cries Mary che mi aveva incuriosito non c’è traccia nell’album ma non inficia il giudizio più che positivo di questa prova di Johnnie Bassett.

Bruno Conti

“Vecchio” Rock Per Nuovi Talenti. Grace Potter & The Nocturnals – The Lion The Beast The Beat

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Grace Potter & Nocturnals – The Lion The Beast The Beat – Hollywood Records Deluxe Edition

Sono sempre stato un “fan” della musica della cantante del Vermont non-quella-grace-ma-grace-potter-and-the-nocturnals.html, ma l’ultimo, omonimo, terzo disco di studio non mi aveva convinto fino in fondo, nonostante alcune critiche positive e qualche canzone di buona qualità. Un suono troppo “leccato”, colpa di un produttore come Mark Batson, abituato a lavorare con gente come Maroon 5, Dr. Dre, Eminem, Nas e compagnia bella leggere-sempre-bene-le-note-grace-potter-and-the-nocturnals.html e quindi le tastiere della Potter erano molto sintetiche e diverse dal suono delle esibizioni live: non dimentichiamoci che Grace Potter and The Nocturnals sin dal 2002, anno della loro apparizione, si sono costruiti una reputazione nel circuito delle jam band e dei Festival, se andate sul sito gratuito (e legale)http://archive.org/ , trovate quasi 400 concerti gratuiti da scaricare (dei Grateful Dead ce ne sono quasi 9.000) e potete rendervi conto di quanto siano bravi dal vivo (non per nulla hanno pubblicato due CD live per i Record Store Day del 2008 e 2012).

Nati intorno al nucleo storico della stessa Grace Potter, tastiere,chitarra, voce e autrice di quasi tutto il materiale, Matt Burr alla batteria e Scott Tournet alla chitarra, da qualche anno hanno aggiunto un secondo chitarrista Benny Yurco, mentre la figura del bassista continua a cambiare, nell’ultimo disco era la quasi omonima Catherine Potter, mentre ora è arrivato tale Michael Liberamento che suona anche percussioni e tastiere varie. Rispetto al disco precedente mi sembra che sia cambiata anche la strategia di marketing della sua casa discografica, lasciando perdere l’immagine di copertina, come direbbe Paolo Hendel, di una “bella topona bionda” in minigonna (non perché non lo sia più!) e puntando più su una iconografia quasi “fantasy”. Nuovo produttore a bordo, Jim Scott, uno che ha lavorato con Wilco, Petty, Tedeschi Trucks Band e una collaborazione in 3 brani con Dan Auerbach dei Black Keys, presente sia come autore che come musicista e produttore nel brano Never Go Back (vabbé, Casio Drum Loop!), quindi un certo “modernismo”, come dire, più sano non manca comunque.

Sin dalla partenza tirata con la neo-psichedelia rock della title-track, la voce potente e sicura si appoggia su un muro di chitarre e tastiere, magari non sarà come l’altra Grace (Slick) o come la grande Janis, ma il cuore batte nelle giuste coordinate musicali. Never Go Back ha troppi Casio, Mellotron, ARP e percussioni sintetiche rispetto alle chitarre, per i miei gusti, ma evidentemente bisogna pure passare nelle radio attuali. Parachute Heart riesce meglio a fondere sonorità moderne e quelle più rock di acoustic e slide guitars, in un melodico mid-tempo che ricorda i Fleetwood Mac a guida Nicks & Buckingham. Stars è una bella ballatona con archi aggiunti cantata a voce spiegata dalla brava Grace. Anche Timekeeper predilige i tempi medi e quel suono “lavorato” tipico di Scott ma si capisce che la sostanza c’è  mentre Loneliest Soul un’altra delle collaborazioni a livello compositivo con Auerbach ha ancora ritmi sghembi e molto lavoro a livello di produzione ma non rimane molto in mente. Turntable, come da titolo, parte con il rumore di una puntina che scende sul vinile e ha una impostazione più da classic rock anche se le sonorità sono da giorni nostri, la vedo bene dal vivo con le chitarre più libere di agire. Keepsake sembra un brano del Greg Kihn del periodo dance-rock, meno dance e più rock. Runaway è il terzo brano scritto con Auerbach, più rock dei precedenti con chitarre e organo in evidenza e cantato con maggiore convinzione.

One Heart Missing è una ballata rock con la solista di Tournet in primo piano e qualche similitudine con gli U2 degli anni ’80. The Divide è un brano dalle atmosfere più composite, ricercate, con i soliti archi di rinforzo voluti dal produttore Scott e mi ha ricordato le Heart del periodo migliore, quando “prendevano” qualche idea dagli Zeppelin. A questo punto finisce la versione normale e partono le bonus: Roulette è un altro brano rock tipico del loro repertorio, come pure All Over You che sarebbero state benissimo anche nella versione standard del disco. C’è poi una versione alternata di Stars cantata in duetto con Kenny Chesney e con Alison Krauss alle armonie che mi sembra, non me ne vogliano, molto meglio di quella con i Nocturnals, Kenny Greenberg, Chad Cromwell, Pat Buchanan, John Jarvis, Dan Dugmore sono fior di musicisti e con l’aggiunta di Mickey Raphael lo ribadiscono nella bellissima ballata Ragged Company, cantata in duetto con Willie Nelson, ci scappa anche un assolo di Hammond fantastico e lei canta benissimo. Futura carriera solista? Non lo escluderei, per il momento “accontentiamoci”!                              

Bruno Conti