Dopo Quasi 50 Anni Ancora Insieme Per Un Concerto Esplosivo. Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre

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Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre – 2 CD/DVD Rhino Records/Warner

I Doobie Brothers sono sempre stati un formidabile gruppo dal vivo, ma forse non avevano mai pubblicato un album che rendesse pienamente merito alla loro reputazione di  live band: in effetti negli anni sono usciti vari dischi registrati in concerto, l’ultimo come data, nel 2011, quello al Greek Theater, inciso però nel 1982, quindi il più recente rimane il Live At Wolf Trap del 2004. Questa volta però le cose state fatte per bene: dopo il tour del 2018 (fatto insieme agli Steely Dan), perché i Doobies hanno comunque continuato a suonare dal vivo senza soluzione di continuità dall’ultima reunion del 1987, poi ribadita nel 1997, quando è entrato nella formazione in pianta stabile come terzo chitarrista, cantante e violinista, John McFee, già presente nell’era Michael McDonald, quando però Tom Johnston era stato poco presente e Patrick Simmons era in ogni caso in un ruolo più subalterno rispetto a McDonald. Dicevo che per l’occasione tutto è stato organizzato alla perfezione; questi sono i Doobie Brothers rock, al limite aggiungendo gli immancabili elementi soul e country, ma si tratta di quelli più energici e gagliardi, quindi oltre ai tre leader, per la serata speciale al Beacon Theatre di New York del 15 novembre dello scorso anno (replicata anche la serata successiva), troviamo Ed Toth alla batteria (ex Vertical Horizon) e Marc Quinones (ex Allman Brothers) alle percussioni, che con il bassista John Cowan completano la sezione ritmica, il grande Bill Payne alle tastiere, Marc Russo al sax, che per l’occasione è raggiunto da Michael Leonhart, tromba, e Roger Rosenberg, sax baritono, della sezione fiati degli Steely Dan.

Il risultato finale è strepitoso, in quanto nella serata speciale, definita “One Night, Two Albums” il gruppo esegue integralmente Toulouse Street e The Captain And Me, i due dischi migliori della loro discografia, il tutto ripreso e registrato splendidamente a livello sonoro, con Bob Clearmountain che ha curato il mixaggio. E anche l’impatto di insieme è veramente gagliardo: sin dalle prime note di Listen To The Music si capisce che sarà un grande concerto, il riff inconfondibile di chitarra, l’organo di Payne ad accarezzare la melodia, con le splendide armonie vocali quasi meglio dell’originale, Johnston ha ancora una voce formidabile, e le chitarre cominciano a scaldare i motori subito, che partenza fantastica, con il pubblico che sta già godendo. Anche Rockin’ Down The Highway è una macchina da guerra rock perfetta, con le chitarre arrotate e Payne che è passato al piano per un altro brano impeccabile; pure le canzoni meno note, alcune mai eseguite in concerto, come l’elettroacustica e caraibica Mamaloi, dove si gustano le percussioni di Quinones, e l’altro pezzo di Simmons, dedicato a New Orleans, come la bellissima Toulouse Street, in cui McFee è impegnato al violino, ben sostenuto dal sax di Russo, sono notevoli. E ancora eccellenti Cotton Mouth, con tutta la sezione fiati in azione e la chitarra di McFee in spolvero, come pure l’organo di Payne, e la bluesata Don’t Start Me Talkin’ diventa l’occasione per una lunga jam strumentale.

Certo, i brani celebri come la coinvolgente Jesus Is Just Alright scatenano l’entusiasmo del pubblico, ma anche la dolce ed intricata White Sun e la potentissima Disciple, con chitarre a manetta, non scherzano. Chiude la prima parte del concerto la sinuosa ed acustica Snake Man, di nuovo con McFee in evidenza, ma è un attimo è la band appare nuovamente sul palco per proporre tutto l’album The Captain And Me, con una sequenza da sogno. Quattro brani, uno in fila all’altro, strepitosi: Natural Thing,  bellissima, seguita dall’introduzione della band e poi l’uno-due micidiale di Long Train Running e China Grove, ancora una volta all’essenza più preziosa della migliore musica rock, in versioni arricchite dai fiati la prima e una vera esplosione di riff la seconda. E anche il blues di Dark Eyed Cajun Woman non scherza, per non dire di versioni deliziose di Clear As The Driven Snow dal finale travolgente come prevede l’originale, mentre Without You rocca e rolla di brutto, prima di lasciare spazio alla sequenza dedicata a Simmons con il trittico della west coastiana South City Midnight Lady, con McFee alla pedal steel, la potente Evil Woman e l’intermezzo strumentale di Busted Down Around O’Connelley Corners,

Brani che fanno da preludio al gran finale, prima con la travolgente Ukiah, presa a velocità da autovelox, poi ad una complessa e quasi commovente versione della corale The Captain And Me, che conclude la sezione dedicata a questo album perfetto. I tre bis immancabili sono altri pezzi da novanta del loro repertorio, come il devastante rock’n’soul di una colossale Take Me In Your Arms (Rock Me), il gospel rock di una estatica Black Water e la ripresa full band con sezione fiati aggiunta di Listen To The Music. Che dire, una vera goduria: e nessun brano, neanche accennato, di Michael McDonald, ma quella era un’altra band, i veri Doobie Brothers sono questi! Nei prossimi giorni articolo retrospettivo in due parti sulla loro carriera discografica.

Bruno Conti

“Nuovi” Dischi Live Dal Passato 2. Linda Ronstadt – Live In Hollywood

linda ronstadt live in hollywood

Linda Ronstadt – Live In Hollywood – Rhino/Warner CD

Sembra quasi impossibile che un’artista dalla lunga e luminosa carriera (purtroppo interrotta da diversi anni a causa del morbo di Parkinson) come Linda Ronstadt non avesse mai pubblicato un disco dal vivo, pratica quasi obbligatoria per ogni musicista di successo negli anni settanta. E di successo Linda ne ha avuto per davvero, in quanto stiamo parlando probabilmente della cantante donna più popolare in America almeno nella seconda parte dei seventies, con diversi album e singoli andati al numero uno (e quello era ancora il periodo in cui i dischi si vendevano ed in classifica ci andavi solo se eri bravo). Questa mancanza è stata oggi in parte riparata dalla sempre benemerita Rhino con l’uscita di questo Live In Hollywood, testimonianza audio di un concerto televisivo tenuto dalla Ronstadt nell’aprile del 1980 ai Television Center Studios, ed andato in onda all’epoca per il canale via cavo HBO.

Una performance coi fiocchi, i cui nastri si pensava che fossero stati persi da anni, fino a quando il produttore e tecnico del suono John Boylan si è imbattuto quasi per caso nel classico scatolone il cui contenuto non rifletteva quanto c’era scritto all’esterno; Boylan aveva cercato per diverso tempo le bobine originali di questo show, specie dopo aver assistito ad una versione di esso uscita in un bootleg DVD di pessima qualità, ed è riuscito nel suo intento proprio quando aveva cominciato a perdere le speranze. Il risultato finale dimostra però che i suoi sforzi sono valsi a qualcosa, in quanto siamo di fronte ad una performance coi fiocchi da parte di un’artista al massimo del suo potenziale, la cui importanza si capisce ancora di più se si leggono i nomi della band stellare che l’accompagna: Danny “Kootch” Kortchmar alla chitarra, Dan Dugmore alla steel, Billy Payne (dei Little Feat) alle tastiere, Bob Glaub al basso, Russell Kunkel alla batteria, l’ex compagno di Linda negli Stone Poneys Kenny Edwards a banjo e chitarra, oltre al noto produttore Peter Asher alle percussioni e lo stesso Asher con Wendy Waldman alle voci, un gruppo di veri e propri habitué nei dischi dei musicisti che all’epoca contavano, specie in California.

Il concerto originale era durato un’ora e venti, ma per questo CD Boylan ha selezionato con l’aiuto della Ronstadt stessa le dodici performance a loro giudizio migliori (più una bonus track che però altro non è che la presentazione dei musicisti da parte di Linda), per quasi cinquanta minuti di ottimo country-pop-rock made in California, cantato e suonato alla grande, e con la ciliegina di un suono reso eccellente dalle moderne tecnologie. Si inizia con una splendida versione, puro rock californiano, di I Can’t Let Go (di Chip Taylor, come saprete la Ronstadt è sempre stata essenzialmente un’interprete), chitarre in primo piano e prestazione grintosa: Linda è in forma vocale top ed i membri della band si dimostrano subito degni della loro fama. La rilettura da parte della cantante di Tucson del classico di Buddy Holly It’s So Easy è uno dei grandi brani degli anni settanta, e quella sera Linda ne offre una versione più trascinante che mai, mentre tutti sappiamo che Willin’ dei Little Feat è un capolavoro assoluto, e la cantante la riprende con classe e maestria, guidata sapientemente dal piano liquido di Payne (che credo conoscesse la canzone piuttosto bene): interpretazione strepitosa di un brano monumentale.

La sbarazzina e solare Just One Look, un successo di Doris Troy, è un’altra grande hit di Linda, e mantiene il suo sapore anni sessanta, Blue Bayou di Roy Orbison (cantante che all’epoca non era ancora stato riscoperto), con ultimo verso cantato un spagnolo, non è esplosiva come quella di Roy, ma resta comunque una bella resa, mentre Faithless Love è una deliziosa country ballad scritta da J.D. Souther. A quell’epoca Linda aveva appena pubblicato un nuovo album, Mad Love, dal quale sono tratte la sinuosa Hurt So Bad (di Little Anthony & The Imperials), puro soft rock californiano di classe, e la roccata e coinvolgente How Do I Make You, scritta da Billy Steinberg, songwriter poco noto al grande pubblico ma responsabile, tra le altre, di vere e proprie hit come Alone delle Heart, Like A Virgin di Madonna, Eternal Flame delle Bangles e True Colors di Cyndi Lauper. Poor Poor Pitiful Me è una delle grandi canzoni di Warren Zevon, e Linda la riprende in modo vivace e ruspante, ma l’highlight del CD è una notevole versione della classica You’re No Good (Dee Dee Warwick), con una strepitosa jam finale guidata da Kortchmar che porta la durata del pezzo a sei minuti. Finale a tutto rock’n’roll con Back In The U.S.A. di Chuck Berry e con l’evergreen degli Eagles Desperado, versione lenta per sola voce e piano, cantata al solito splendidamente.

Ci sono voluti cinquant’anni per avere un disco dal vivo di Linda Ronstadt, e Live In Hollywood ha il merito di farci tornare idealmente nel bel mezzo di un periodo in cui la California, musicalmente parlando, era al centro dal mondo.

Marco Verdi

Il Leone Di Detroit Torna A Ruggire (Con Un Paio Di Stecche). Bob Seger – I Knew You When

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Bob Seger – I Knew You When (Deluxe Edition) – Capitol/Universal

Soltanto tre anni separano il nuovo album di Bob Seger dal precedente Ride Out, e questa è già una buona notizia per chi lo ha seguito con passione durante la sua lunga e gloriosa carriera, caratterizzata dagli esaltanti live shows (purtroppo solo in terra americana) in cui ha dato il meglio di sé, come testimoniano gli splendidi Nine Tonight del 1981 e, soprattutto, Live Bullet del ’76, considerato da molti uno dei più importanti live album della storia del rock a stelle e strisce. Da parecchio tempo ha diradato le sue uscite in studio, soltanto tre negli ultimi ventidue anni, fino a far temere un definitivo ritiro dalle scene. Che non se la passi benissimo fisicamente è comprovato dal fatto che abbia dovuto posticipare parecchie date dell’attuale Runaway Train Tour a causa di problemi alle vertebre, ma almeno la sua voce non ha perso un grammo della ruvida irruenza che l’ha sempre caratterizzata, come possiamo verificare in quest’ ultimo I Knew You When. Già nel pezzo d’apertura, Gracile, Bob ci fa intendere che non ha nessuna voglia di gettare la spugna dandoci dentro senza risparmiarsi in un rock blues dalla ritmica granitica che ricorda certi suoi anthems degli anni settanta. Ottima la scelta delle due covers presenti nell’album: Busload Of Faith,  tratta da New York, lo splendido affresco che Lou Reed  dedicò alla sua città nel 1989,e Democracy, ironica e visionaria traccia del talento poetico di Leonard Cohen, presente su The Future, del’92. Seger rivisita entrambe con passione e bravura, irrobustendo la prima con sezione fiati e cori femminili, oltre a due fulminanti assoli di chitarra (il primo del mago della slide Rick Vito), e la seconda con una ritmica più incisiva, da marcia militare, e un bel violino sullo sfondo a sostituire l’armonica dell’originale.

The Highway ha un bel passo, tipico di tante composizioni del rocker di Detroit perfette per l’ascolto in macchina. Un buon pezzo, nonostante la presenza di una tastiera un po’ invadente che ne appesantisce la melodia. Non possiamo procedere senza prima citare colui a cui Seger ha dedicato quest’intero lavoro, Glenn Frey, il leader degli Eagles deceduto nel gennaio 2016. Tra i due perdurava da mezzo secolo una profonda e sincera amicizia e Bob ha voluto celebrarla con due toccanti canzoni. La prima, dal titolo emblematico, Glenn Song, una delle tre bonus tracks della deluxe edition, è un malinconico ricordo dei tempi andati cantato con voce rotta dall’emozione. La seconda dà il titolo all’album ed è una di quelle stupende ballate che sono da sempre il vero marchio di fabbrica del rocker di Detroit. Melodia impeccabile, scandita dal pianoforte (presumo suonato dal grande Bill Payne) e ritornello che ti entra sottopelle per non uscirne più. Della stessa categoria, non sono niente male Something More con un bel solo centrale condiviso tra sax e chitarra elettrica, Marie, dall’incedere solenne e drammatico che rimanda allo stile del già citato Cohen, e I’ll Remember You, un lentaccio assassino con pregevoli cori femminili che avrebbe fatto la sua bella figura su qualunque disco delle aquile californiane.

Purtroppo troviamo anche un paio di episodi meno riusciti, che non intaccano il giudizio comunque positivo sull’album. The Sea Inside, dalla ritmica pesante e dalle chitarre roboanti che si mescolano ad una tastiera che sembra citare Kashmir dei Led Zeppelin, è un tentativo di fare hard rock in modo insipido ed anacronistico. Peggio ancora Runaway Train, che pare un pezzo rubato agli ZZ Top del  periodo più scarso, con batteria elettronica, coretti scontati e melodia anonima, malgrado il buon intervento del sax nel finale. Di ben altra levatura sono, per fortuna, le prime due tracce aggiunte nella deluxe edition: Forward Into The Past è un solido rock cantato a voce spiegata dal protagonista ben supportato come di consueto dalle coriste, con chitarre elettriche e piano che si alternano sapientemente. Ancora meglio si rivela Blue Ridge, che ti cattura subito con un’ accattivante struttura melodica scandita dal costante rullare della batteria e da un intrigante uso delle tastiere. Un brano che certamente farà la sua bella figura se inserito nelle scalette dei futuri concerti.

Diamo dunque il nostro bentornato a Bob Seger, nella speranza di poterlo ammirare un giorno anche dalle nostre parti. Intanto, godiamoci questo I Knew You When che ha in sé il giusto calore per contrastare le fredde giornate invernali che ci attendono.

Marco Frosi

Ritorna Uno Degli Album “Classici” Degli Anni ’80 In Versione Deluxe! Stevie Nicks – Bella Donna

stevie nicks bella donna

Stevie Nicks – Bella Donna – Atco/Rhino Deluxe Edition 3 CD

Ci sono dei dischi che risentiti a distanza di tempo risultano delle mezze delusioni, altri che sorprendono per l freschezza che hanno mantenuto nel tempo e poi ci sono i capolavori senza tempo. Direi che questo Bella Donna di Stevie Nicks probabilmente non rientra nella terza categoria, ma ci si avvicina molto: non sentivo il disco da parecchi anni e devo ammettere che riascoltandolo 25 anni dopo la sua uscita originale mi sono meravigliato di quanto sia bello. Dieci canzoni, tutte di grande qualità, e del tutto all’altezza di quanto la bionda di Phoenix, ma californiana per elezione, abbia fatto con la sua band, i Fleetwood Mac, di cui è sempre stata strenua “difenditrice” (per quanto il vocabolo al femminile suoni male), l’unica del trio delle stelle, con Lindsey Buckingham e Christine McVie, sempre presente nelle varie reunion del gruppo. La storia di Bella Donna, narrata con dovizia di particolari nel corposo libretto che è allegato alla tripla versione Deluxe, è abbastanza nota, ma facciamo un veloce ripasso. Siamo alla fine del 1980, i Fleetwood Mac sono al termine del tour mondiale per promuovere Tusk, disco che non ha ripetuto le vendite colossali di Rumours, ma ha raggiunto comunque i due milioni di vendite complessive e l’unanime plauso della critica, però quello viene considerato il disco di Buckingham (anche se ci sono ben cinque canzoni di Stevie, tra cui la splendida Sara). Comunque i rapporti amorosi intrecciati (e la loro fine), tra i vari componenti del gruppo hanno creato un ambiente quasi invivibile, la tensione tra Nicks, Buckingham e Mick Fleetwood è alle stelle, quindi Stevie. nelle pause tra una data e l’altra, si rifugia spesso nelle hall degli alberghi dove trova un pianoforte, per scrivere bozzetti di quello che sarà il suo primo album solista.

Ma prima fonda la propria etichetta, la Modern Records, all’interno del gruppo Warner/Atco, trova un produttore, Jimmy Iovine (scelto perché la Nicks voleva chiunque stesse producendo i dischi di Tom Petty), che poi diventerà anche il suo fidanzato, il quale le procura, in mancanza di un gruppo, alcuni dei migliori musicisti, non turnisti (questa è una pregiudiziale fondamentale), che suonavano in alcune delle migliori band americane: ed ecco Roy Bittan dalla E Street Band, Michael Campbell, Benmont Tench e Stan Lynch degli Heartbreakers, Don Felder e l’ex boyfriend Don Henley dagli Eagles, ma anche il chitarrista di Elton John Davey Johnstone, Waddy Wachtel alle chitarre, Bill Payne dei Little Feat al piano in un pezzo, Bobbye Hall alle percussioni, Bob Glaub al basso e Russ Kunkel alla batteria, per una sezione ritmica da sogno, oltre alle sue inseparabili amiche, e grandi esperte di armonie vocali, Lori Perry e Sharon Celani. Tutti coadiuvati da Iovine, che reduce dai suoi lavori, prima con John Lennon e Bruce Springsteen, poi con Meat Loaf e la Patti Smith di Easter, a soli 27 anni è uno dei produttori del momento, anche grazie al suo successo con Damn The Torpedoes di Tom Petty And The Heartbreakers, che convince, grazie alla loro complicità amorosa, la sua fidanzata, che comunque gli presenta una serie di splendide canzoni, alcune appena composte, altre recuperate dal passato, a registrare come singolo, un pezzo che Tom Petty e Mike Campbell avevano scritto apposta per lei (e da lì nascerà una “amicizia” e una collaborazione tra i due che proseguirà per tutti gli anni ’80), la bellissima Stop Draggin’ My Heart Around, uno splendido esempio del miglior rock americano dell’epoca.

Ma nel disco ci sono altre 9 canzoni, tra cui 3 ulteriori singoli: la poderosa Edge Of Seventeen, dedicata alla prima moglie di Petty, Jane, e il cui titolo nasce da un equivoco, quando Stevie chiese loro da quando si conoscevano lei gli rispose “from the age of seventeen” con un forte accento della Florida e la canzone prese quel titolo, oltre ad uno dei riff di chitarra più conosciuti dell’epoca, creato da Waddy Wachtel, e intorno al quale le Destiny’s Child di Beyoncé hanno costruito la loro hit Bootylicious, mentre il pezzo della Nicks è un grande esempio di rock californiano, degno delle migliori cose dei Fleetwood Mac, con le tre vocalist scatenate. La vellutata, fin dal titolo, Leather And Lace, era nata come una canzone da donare a Waylon Jennings e Jessi Colter per un duetto non utlizzato, e nel disco la ballata acustica viene eseguita in coppia con Don Henley, che entra solo nel finale, ma la canta da par suo. After The Glitter Fades, splendida, è una canzone dall’impianto country, con la pedal steel di Dan Dugmore e il piano di Roy Bittan in grande evidenza, oltre a Stevie che la canta in modo celestiale, con quella voce riconoscibile fin dalla prima nota, una delle più caratteristiche del rock americano.

Tra le altre canzoni la title-track è un’altra perfetta ballata mid-tempo di stampo west-coastiano, romantica e corale, di nuovo con il piano, questa volta Benmont Tench, protagonista assoluto, ma splendido anche il lavoro di tessitura della chitarra di Wachtel e i saliscendi nella costruzione sonora del brano; Kind Of Woman porta anche la firma di Tench, e grazie agli arpeggi dell’acustica di Johnstone potrebbe ricordare il sound dell’Elton John “americano”, ancora perfetto il lavoro di chitarra di Waddy Wachtel, uno dei grandi non celebrati dello strumento, mentre Think About It, che porta anche la firma di Roy Bittan, vede la presenza, proprio al piano, di Bill Payne, la canzone è una sorta di esortazione all’amica e compagna di avventura nei Mac, Christine McVie, a pensarci bene prima di andarsene dalla band , un altro brano molto bello, ma non ce n’è uno scarso, con un arrangiamento avvolgente e il suono nitido e ben delineato creato da Iovine, con tutti i musicisti registrati live in studio. After The Glitter Fades, di nuovo dalla chiara impronta country, con chitarre, piano e pedal steel celestiali, è un messaggio della giovane Stevie, alla futura stella Nicks, scritto in gioventù quando lei e Lindsey si arrabattavano tra mille mestieri in cerca di una futura gloria. How Still My Love è un altro brano dove si apprezza il classico sound pop-rock di eccellente fattura tipico dei Fleetwood Mac d’annata, come pure Outside The Rain, altra canzone forse minore, ma comunque di sicura presa, con la conclusiva The Highwayman, dove appaiono ancora Johnstone, Henley e Mike Campbell, brano di nuovo intimo, quasi dolente, ma di caratura superiore.

Nel secondo CD della confezione ci sono versioni alternative di Edge Of Seventeen, più lunga e meno rifinita, con alcune false partenze, Think About It, quasi più bella dell’originale, How Still My Love dove un organo svolazzante aggiunge fascino e brio alla costruzione del pezzo, Leather And Lace, in versione alternativa acustica, senza Henley, ma comunque bella, Bella Donna, è in formato demo, solo voce e piano. Poi ci sono alcuni inediti: Gold And Braid, uscita solo nel cofanetto Enchanted, anche questa volta con falsa partenza, ma poi diventa un bel pezzo rock, Sleeping Angel, in una versione alternativa con mandolino, rispetto a quella più rock usata nella colonna sonora di Fast Times At Ridgemont High, che troviamo in chiusura del dischetto, altra canzone di buona fattura. Come pure If You Were My Love, prevista per Mirage e poi apparsa nel recente 24 Karat Gold, e The Dealer prevista in Tusk, e pubblicata solo, con nuovo arrangiamento, sempre in 24 Karat Gold, questa avrebbe fatto un figurone in Tusk, Rumours o Bella Donna, dove volete. Manca ancora l’altro brano tratto da una colonna sonora, Blue Lamp, dal film di animazione Heavy Metal (il genere musicale non c’entra), suono fin troppo pompato e anni ’80, quelli non buoni, comunque non orribile.

Il terzo CD prevede un concerto strepitoso, registrato al Wiltshire Theatre di Beverly Hills nella serata finale, 13 dicembre del 1981, del brevissimo tour per promuovere l’album: 14 brani in tutto, con una band della madonna, Roy Bittan, Benmont Tench, Waddy Wachtel, Bob Glaub, Russ Kunkel, Bobby Hall e le due coriste Lori Perry e Sharon Celani, con la presentazione del babbo di Stevie Nicks, e versioni lunghe e poderose di sette brani dell’album, oltre a Gold Dust Woman, minacciosa e tirata, Gold And Braid, che manco i migliori Fleetwood Mac forse avrebbero saputo fare meglio, e anche una versione tiratissima di I Need To Know, degna dei migliori Heartbreakers, oltre a sontuose versioni di Dreams, Angel, Sara  e in conclusione, dopo una incredibile Edge Of Seventeen di quasi nove minuti, anche una magnifica Rhiannon. Pochi giorni dopo sarebbe rientrata nei ranghi per registrare insieme agli altri Fleetwood Mac il nuovo album Mirage, ma questo Bella Donna rimane il suo quasi capolavoro, a maggior ragione in questa versione potenziata: splendido, forse l’ho già detto?

Bruno Conti        

Il Titolo Dice (Quasi) Tutto, Per Il Resto Ci Pensa Lui! David Bromberg Band – The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues

david bromberg band the blues, the whole blus and nothing but the blues

David Bromberg Band – The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues – Red House/Ird

Come spara a titoli cubitali in prima pagina il “Delta Times – Dispatch” (?!?(, fittizio giornale inventato dal come sempre ironico David Bromberg (è uno dei tratti salienti e più apprezzati del suo carattere), questa volta parliamo di The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues: non che nel passato il musicista nativo di Philadelphia (ma da lungo con base a Wilmington, nel Wisconsin, dove ha anche una bottega di liutaio, specializzata nella riparazione di violini) non abbia trattato l’argomento con la sua grande classe e perizia tecnica, ma questa volta le 12 battute classiche vengono sviscerate in tutte le declinazioni conosciute. Il blues elettrico tosto e tirato di scuola urbana, il blues jazzato e swingante, anche con fiati, quello acustico di stampo folk, il country blues, con qualche deviazione anche verso New Orleans e dei tocchi di stile cantautorale. Insomma quello che Bromberg ha sempre fatto nel passato, ma con l’occhio decisamente rivolto al Blues. Il nostro, come è noto, dopo una lunga e gloriosa carriera, soprattutto negli anni ’70 come solista, ma anche come sideman di lusso per Dylan, Jerry Jeff Walker, Willie Nelson, Jorma Kaukonen, più o meno ad inizio anni ’80 sembrava avere appeso la chitarra al chiodo, anche se a fine anni ’80 erano usciti ancora un paio di ottimi album, poi però il silenzio, interrotto nel 2007 dal disco in solitaria Try Me, e soprattutto dai due eccellenti Use Me del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/06/06/in-deciso-anticipo-ma-david-bromberg-use-me-uscita-ufficiale/ e il successivo Only Slightly Mad http://discoclub.myblog.it/2013/12/10/recuperi-fine-anno-parte-1-david-bromberg-band-only-slightly-mad/.

Ora, nel 2016, con una nuova etichetta alla spalle, la Red House, David Bromberg e la sua Band ci provano ancora una volta: e il risultato è notevole, come di consueto per questo signore. Di Bromberg è nota la perizia alla chitarra acustica ed elettrica (ma in passato anche a violino, mandolino, dobro e pedal steel), oltre alla sua enciclopedica conoscenza del repertorio musicale americano (un po come Ry Cooder), sfruttata per andare a pescare sia brani tradizionali come canzoni note e meno note di autori anche importanti, il tutto sempre con quella levità, arguzia e perizia tecnica, che unite al suo stile vocale asciutto, sempre sornione, benché rigoroso quando serve, pronto comunque all’uso di testi salaci e “vignette” divertenti che spesso provengono anche dalla propria penna. Tutti ingredienti che troviamo profusi a piene mani nel nuovo album. Con la brillante produzione di Larry Campbell (bastino ricordare le sue collaborazioni con Levon Helm Dylan), aiutato dalla sua ottima band abituale, aumentata da una sezione fiati, e in un brano da alcune vocalist di supporto, tra cui la moglie di Campbell, Teresa Williams e la moglie di Bromberg, Nancy Josephson (leader della Angel Band), oltre al luminare delle tastiere, il grande Bill Payne dei Little Feat.

L’apertura è affidata a Walkin’ Blues, uno dei classici assoluti, attribuito a molti, ma come ricorda lo stesso Bromberg nelle note del CD, ripreso dalla versione di Robert Johnson. Per l’occasione il brano diventa un blues elettrico urbano, quasi scuola Chicago, con doppio assolo di chitarra, il primo del secondo solista Mark Cosgrove, il secondo dello stesso David, impegnato anche alla slide, grande lavoro di Payne al piano, e il sound rimanda proprio ai Little Feat appena ricordati, con la sezione ritmica eccellente formata da Butch Amiot al basso e Josh Kanusky alla batteria. Il pezzo successivo viene definito di autore ignoto, in quanto di How Come My Dog Don’t Bark When You Come ‘Round? esiste anche una versione di Dr. John, ma Bromberg dice non trattarsi della stessa canzone, in quanto questa ha un testo diverso, salace ed ironico (quasi zappiano a tratti, quando faceva i suoi blues parlati) tipico del buon David, che musicalmente si avvicina al sound di un suo vecchio datore di lavoro, quel Jorma Kaukonen degli Hot Tuna, che vengono citati per l’uso del violino da parte di Nate Grower (in ricordo di Papa John Creach) anche se l’arrangiamento di Campbell prevede pure un uso corposo della sezione fiati, con ben quattro elementi, oltre a Payne alle tastiere, e quindi un suono quasi da big band, delizioso. Il George “Little Hat” Jones autore di Kentucky Blues, non è la nota stella del country, ma un quasi omonimo degli anni ’30 e il pezzo è un gustoso e saltellante country-blues, come evidenziato dal titolo, di nuovo con Nate Grower protagonista al violino, mentre David è all’acustica e Mark Cosgrove al mandolino, giocoso. Un altro brano assai godibile è la versione di Why Are People Like That, una canzone scritta dal musicista di New Orleans Bobby Charles, ma interpretata anche da Muddy Waters nel suo Woodstock Album, quello dove apparivano musicisti della Band, e la fusione tra la chitarra pungente e bluesy di Bromberg, l’assolo di piano elettrico geniale di Payne e l’uso costante dei fiati lo rendono un ponte ideale tra blues classico e musica della Louisiana. Per non doversi misurare con l’immane bravura di Ray Charles e del suo piano, il nostro amico trasforma la sua A Fool For You, in un delicato folk blues per sola voce, con arditi falsetti, e chitarra acustica, strepitosa.

E anche il trattamento che viene riservato a Eyesight To The Blind è geniale. Molti ricorderanno il pezzo di Sonny Boy Williamson nella versione elettrica che ne faceva Eric Clapton nella colonna sonora di Tommy, ma anche in una versione torrida live di oltre venti muniti, con Carlos Santana, nel Crossroads II Live In The Seventies. Per l’occasione diventa un delizioso swing blues, incentrato sul violino di Grower e l’organo di Payne, notevole anche l’assolo in punta di fioretto di David alla chitarra. 900 Miles è un altro brano pescato dalla tradizione country e folk, la faceva anche Woody Guthrie, ma qui viene rifatto come se fosse un pezzo blues alla Howlin’ Wolf, duro e tirato, con un sound rock-blues gagliardo e la slide di Bromberg di nuovo in azione, mentre Yeld Not To Temptation era un brano scritto da Deadric Malone portato alla fama da Bobby Blue Bland, ma David dice di essersi ispirato alla versione che ne facevano Tracy Nelson, Marcia Ball Irma Thomas in uno splendido disco che si chiamava Sing It: in effetti la canzone è quella dove appare la formazione più ampia, i cinque fissi del gruppo, con Payne di nuovo eccellente all’organo, la sezione fiati e le tre vocalist aggiunte, oltre a Campbell e a un percussionista, e il brano profuma di gospel e blues in pari misura, splendido. I fiati rimangono anche per la successiva You’ve Been A Good Ole Woman, ma con l’aggiunta di violino e mandolino il vecchio pezzo di Bessie Smith, diventa simile ad uno classici del periodo fine anni ’70 della David Bromberg Band, di nuovo tra swing, New Orleans sound e i divertiti doppi sensi aggiunti dal nostro amico alla canzone.

Delia, altro traditional, compariva già nel primo splendido album di Bromberg, ma qui appare come un duetto tra lo stesso David e Larry Campbell, alla slide acustica, per un brano tradizionale che racconta di un assassinio avvenuto la viglia di Natale del 1900 e di cui viene usata una versione arricchita da un verso di Townes Van Zandt, versione intima ed intensa, un classico del folk blues. La title-track, scritta da Gary Nicholson e dal grande Russell Smith (facciamo il giochino, chi ricorda gli Amazing Rhythm Aces alzi la mano?), è un altro brano full band, con Marco Benevento al piano e la sezione fiati Lou Marini, Steve Bernstein Birch Johnson (e citiamoli, sono bravissimi) aggiunta, di nuovo un tuffo nel suono classico della band di Bromberg dei tempi d’oro, grande blues fiatistico. Gli ultimi due brani portano la firma del titolare dell’album,This Month che è una vera jam elettrica e pulsante, uno slow blues tirato, con Bromberg, Cosgrove Payne che vanno di brutto, e come traccia finale You Don’t Have To Go, un perfetto shuffle con uso di slide, violino e piano che riassume alla perfezione lo spirito del disco “Blues, solo blues, nient’altro che blues”!. Fatto in modo splendido!

Bruno Conti   

E Pure Queste Sono Le Ristampe Che Ci Piacciono! Dolly Parton/Emmylou Harris/Linda Ronstadt – The Complete Trio Collection

parton harris ronstadt the complete trio collection

Dolly Parton/Emmylou Harris/Linda Ronstadt – The Complete Trio Collection – Rhino/Warner 3CD

Nel 1987 uscì un po’ in sordina (ma non dimentichiamo che gli anni ottanta furono il nadir di un certo tipo di country tradizionale) un disco accreditato a due regine del country americano (Dolly Parton ed Emmylou Harris) ed una del country-rock (Linda Ronstadt): intitolato semplicemente Trio, quell’album fu un successo strepitoso ed inatteso, e si piazzò al numero uno della classifica di Billboard, vincendo anche un Grammy e vendendo ben quattro milioni di copie. Ed il successo fu pienamente meritato, in quanto Trio era un grande disco di country purissimo, con le tre cantanti in forma eccellente, una scelta di canzoni notevole ed una lista di musicisti in session impressionante (c’è da leccarsi i baffi solo a leggere i nomi: Ry Cooder, David Lindley, Herb Pedersen, Albert Lee, Russ Kunkel, Leland Sklar, Bill Payne, Mark O’Connor). Per il seguito, Trio II, si dovettero attendere ben dodici anni: l’album inizialmente era previsto per il 1994, ma problemi della Harris e della Parton con le loro case discografiche fecero slittare il tutto (e la Ronstadt pubblicò cinque di quelle canzoni, remixate e senza le voci delle due amiche, nel suo album del 1995, Feels Like Home); Trio II, alla fine uscì nel ’99, prodotto come il primo volume da George Massenburg, non fu un successo come il suo predecessore, né era a quel livello artistico, ma comunque un ottimo album di country d’autore, anche se meno spontaneo del primo e con qualche leggera concessione al mainstream: anche qui la lista dei musicisti era degna di nota, con gente come Alison Krauss, David Grisman, Dean Parks, Ben Keith, Jim Keltner ed ancora Lindley. (Piccolo inciso: sempre nel 1999, solo qualche mese dopo, usci uno splendido album in duo di Emmylou e Linda, intitolato Western Wall: The Tucson Sessions, superiore anche al secondo Trio).

Era da tempo che si parlava di una ristampa con inediti dei due album, ed oggi finalmente la Rhino ci consegna questo stupendo triplo, che comprende i due Trio album nei primi due dischetti, ed un terzo con venti brani, dei quali solo due erano già noti, tre remix di pezzi dei due dischi, ma ben quindici outtakes mai sentite prima d’ora, una serie di canzoni fatte e finite che sembrano un album nuovo a tutti gli effetti. Intanto fa un immenso piacere risentire i primi due lavori: del primo, per lo più acustico, suonato alla grande e cantato splendidamente, vorrei ricordare la stupenda apertura di The Pain Of Loving You, un brano della Parton ma cantato da Emmylou, country cristallino e purissimo, l’honky-tonk lento di Making Plans, la strepitosa e toccante ripresa di To Know Him Is To Love Him di Phil Spector, con uno splendido assolo “hawaiano” di Lindley e con Cooder che ricama da par suo, o ancora il capolavoro di Dolly Wildflowers, tra le più belle del disco, o con Linda che si destreggia alla grande con Hobo’s Meditation di Jimmie Rodgers (e che classe), senza dimenticare le scintillanti riletture di Telling Me Lies di Linda Thompson (meravigliosa) o dei traditionals Rosewood Casket e la celeberrima Farther Along. Trio II è, come già detto, un gradino più sotto, ma avercene di dischi così: la purissima Lover’s Return della Carter Family apre l’album, seguita dalla struggente High Sierra, dove le armonizzazioni delle tre cantanti raggiungono vette paradisiache, la soave Do I Ever Cross Your Mind (di Dolly ma cantata dalla Harris), e dal superclassico di Neil Young After The Gold Rush, dove invece domina la Parton.

Per finire con la grandissima Feels Like Home, forse la più bella canzone scritta da Randy Newman negli ultimi trent’anni, alla quale viene riservato un trattamento sontuoso. Il terzo dischetto, intitolato Unreleased & Alternate Takes, Etc., oltre a presentare tre remix inediti (I’ve Had Enough, Lover’s Return e Farther Along) e due pezzi già presenti in due album del 1979 e del 1981 della Harris (la splendida Even Cowgirl Get The Blues di Rodney Crowell e Mr. Sandman, entrambe incluse in quanto Dolly e Linda erano presenti in qualità di ospiti), contiene come ho già detto ben quindici tra versioni alternate ed inediti assoluti: non è il caso di citarle tutte, lascio a voi il piacere di scoprirle (tanto non ce n’è mezza da buttare), ma mi limito a citare quelle a mio parere indispensabili, a cominciare da una versione a tre voci e maggiormente strumentata di Wildflowers, forse ancora più bella di quella del primo Trio, seguita a ruota dalla deliziosa Waltz Across Texas Tonight (scritta da Emmylou con Crowell), in una strepitosa versione del 1994 mai sentita, la delicata Softly And Tenderly, per sole voci, chitarra, mandolino e cello, la squisita Pleasant As May della Parton, che non avrebbe sfigurato sul primo album delle tre, una versione alternata di My Dear Companion forse superiore anche a quella pubblicata nel 1987, il trascinante country-gospel di Pops Staples You Don’t Knock (mi chiedo come abbia fatto a rimanere inedita fino ad oggi), il country purissimo di Are You Tired Of Me e l’intensissima In A Deep Sleep della cantautrice irlandese Triona Ni Dhomhnaill della Bothy Band, con una prestazione vocale superlativa della Ronstadt.

Per completezza devo segnalare che è uscita anche una versione singola, ma secondo me con poca ragione di esistere in quanto racchiude il meglio dei primi due album ed aggiunge la miseria di quattro inediti dal terzo dischetto. Difficilmente potremo avere in futuro un Trio III, date le gravi condizioni di salute di Linda, affetta dal morbo di Parkinson: ragione in più per accaparrarsi The Complete Trio Collection senza indugi. Ancora oggi dischi country di questo livello se ne sentono pochi.

Marco Verdi