Anche Senza Fratelli Ed Amici E’ Sempre Grande Musica! Gregg Allman – Live: Back To Macon, GA

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Gregg Allman – Live: Back To Macon, GA – Rounder/Universal 2CD + DVD

Mandati definitivamente in pensione gli Allman Brothers Band (anche se nel mondo della musica non è mai detta l’ultima parola, basti vedere i Grateful Dead che, dopo i concerti d’addio, ci hanno preso gusto e hanno deciso di proseguire con l’aiuto di John Mayer) Gregg Allman ha oramai soltanto più la carriera solista della quale prendersi cura, anche se l’età avanzata e la salute non proprio di ferro lasciano più di un dubbio per il futuro (anche se ha già programmato concerti fino al 2016). Il suo ultimo disco di studio, Low Country Blues (del 2011) http://discoclub.myblog.it/2011/01/12/il-notaio-conferma-grande-disco-gregg-allman-low-country-blu/  era forse il suo lavoro migliore insieme all’esordio solista Laid Back, un solido disco di rock-blues nel quale il vecchio Gregg dimostrava di non aver perso un’oncia né dell’antico magic touch né della sua proverbiale maestria (oltre a mostrare una grinta invidiabile per un quasi settantenne). Ora il nostro pubblica questo doppio Back To Macon, GA, registrato nella cittadina dove tutto ebbe inizio (ma anche dove finirono in maniera tragica le vite prima del fratello Duane e poi di Berry Oakley) il 14 Gennaio dello scorso anno nella suggestiva cornice della Grand Opera House, un teatro di appena mille posti costruito nel lontano 1884.

Nel corso del concerto Gregg ripercorre un po’ tutta la carriera, inserendo naturalmente anche parecchi brani della band che gli ha dato la popolarità (ma evitando fortunatamente Two the Hard Way, il disco inciso nei settanta con l’allora fidanzata Cher), fornendo una performance solida e vibrante, lontana dell’essere solamente un pretesto per autocelebrarsi come hanno fatto di recente, peraltro molto bene, i Lynyrd Skynyrd con One More For The Fans (nel quale compare pure Allman stesso con la splendida Tuesday’s Gone), anche perché un progetto analogo dedicato a Gregg era già uscito lo scorso anno, il bellissimo All My Friends. In Back To Macon vediamo quindi Gregg accompagnato solo dalla sua road band (oltre al figlio Devon ospite alla chitarra e l’ex Allman Brothers Marc Quinones alle percussioni, abbiamo Scott Sharrard alle chitarre, Ron Johnson al basso, Ben Stivers alle tastiere, Steve Potts alla batteria, Jay Collins al sassofono, Art Edmaiston e Dennis Marion alla tromba, mentre Gregg si divide tra piano, organo e chitarra), senza neppure mezzo ospite (Warren Haynes in almeno una canzone potevo anche aspettarmelo, Dickey Betts no dato che non si parlano da anni), ma il risultato finale è forse ancora più compatto ed unitario, in quanto c’è solo Gregg con le sue canzoni, senza gli alti e bassi tipici dei tributi.

Inutile dire che nei  sedici brani del doppio CD (nel DVD, o BluRay, ce ne sono due in più, Stormy Monday e Floating Bridge) c’è di che godere, grazie ad una serie formidabile di pezzi che, anche se in molti casi si conoscono a menadito, fa sempre un immenso piacere riascoltare, anche se in versioni più sintetiche e meno dilatate di quelle proposte dagli Allman Brothers. Circa un’ora e mezza (nel CD) di grandissima musica, durante la quale Gregg, che è ancora in possesso di una formidabile voce, ci delizia con una serie di performance elettriche e ad alto tasso emozionale, ben seguito da un ensemble di musicisti che non ha paura di nessuno.

Il primo CD si apre, forse non a caso, nello stesso modo del mitico Live At Fillmore East, cioè con il classico di Blind Willie McTell Statesboro Blues, potente come sempre, con Sharrard che cerca di non far rimpiangere Duane (compito assai arduo), Gregg che canta subito alla grande e piano e fiati che girano a mille. Poi il nostro alterna classici degli Allman ad episodi del suo passato solista (qui presenti in misura maggiore): tra i primi troviamo una grintosa Ain’t Wastin’ Time No More, con un grande assolo chitarristico, e soprattutto la strumentale Hot’Lanta, infuocata come nelle migliori serate degli ABB, mentre tra i secondi la fluida I’m No Angel, tipica southern ballad, calda e profonda (e che voce), il blues lento e notturno con accenni jazzati Queen Of Hearts, eseguito con classe sopraffina, lo scattante blues di Muddy Waters I Can’t Be Satisfied, unico estratto da Low Country Blues a parte Floating Bridge sul DVD, la cover di These Days di Jackson Browne (era su Laid Back), che ci fa apprezzare il Gregg Allman balladeer, lo scintillante slow Brightest Smile In Town, introducendo il quale Gregg ricorda con orgoglio che è stato inciso anche da Ray Charles, per terminare con una squisita cover di I’ve Found A Love di Wilson Pickett, piena di anima, con Gregg che canta come se non ci fosse domani e la band che suona da Dio.

Nel secondo dischetto si ribaltano le gerarchie, in quanto del repertorio solista di Gregg sono presenti soltanto la solida Before The Bullets Fly e l’inedita Love Like Kerosene, un veloce rock-blues scritto da Sharrard, buono ma non trascendentale. Poi è tutto ABB, a partire da quella che è erroneamente considerata la canzone più popolare del Gregg Allman solista, cioè Midnight Rider: la versione famosa è infatti quella su Laid Back, ma Gregg l’aveva già “provata” qualche anno prima con i Brothers su Idlewild South; a seguire abbiamo una tostissima Don’t Keep Me Wonderin’, la leggendaria Melissa, una ballata che non ha bisogno di presentazioni ma va solo ascoltata in religioso silenzio, la mitica Whipping Post, che qua non è forse nella sua versione definitiva (è molto più corta di come la facevano gli ABB) ma è sempre un gran bel sentire, ed il classico di Sonny Boy Williamson One Way Out (che chiude il concerto), un pezzo che Gregg secondo me riuscirebbe anche a suonare bendato e con una mano sola.

Un bellissimo live album, che chiude, forse, il cerchio di una splendida carriera, con il rimpianto di non aver mai visto passare dalle nostre parti un musicista di questo calibro.

Marco Verdi

L’Ultimo Dei “Veri” Chitarristi Blues, In Gran Forma! Buddy Guy – Born To Play Guitar

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Buddy Guy – Born To Play Guitar – RCA/Silvertone/Sony

La foto di copertina è probabilmente un omaggio al suo “discepolo” Hendrix, mangiatore di chitarre, nel disco vengono ricordati due grandi che non ci sono più, come Muddy Waters B.B. King, e tutto il disco è incentrato sul suono di uno dei più grandi chitarristi che il Blues abbia mai prodotto, forse l’ultimo dei grandissimi ancora in vita, ora che BB ci ha lasciato. Buddy Guy, 79 anni compiuti il 30 luglio, il giorno primo della pubblicazione di questo Born To Play Guitar, quarto album di studio consecutivo prodotto dal bravo Tom Hambridge (oltre al Live del 2012), ennesima dimostrazione che se questi artisti vengono affidati ad un produttore capace sono ancora in grado di fare faville. Hambridge, oltre a produrre, suona la batteria, arrangia e compone gran parte del materiale di questo album, sceglie i musicisti, tutti eccellenti: Billy Cox al basso (un omonimo o l’originale?), Kenny Greenberg, Bob Britt, Rob McNelley Doyle Bramhall II, alle chitarre aggiunte, Tommy MacDonald, Michael Rhodes  e Glen Worf, che si alternano ancora al basso Kevin McKendree o Reese Wynans, alle tastiere, che sono coloro che Hambridge utilizza abitualmente nelle sue produzioni, oltre alle McCrary Sisters, alle armonie vocali. Ospiti speciali, Kim Wilson, Billy Gibbons, Joss Stone e Van Morrison. E il risultato è ancora una volta ottimo, come era stato per il precedente Rhythm And Blues di due anni fa http://discoclub.myblog.it/2013/07/25/buddy-guy-non-lascia-anzi-raddoppia-il-30-luglio-compie-77-a/, quasi 60 anni di carriera e 28 album di studio non hanno intaccato la voglia di Buddy Guy di fare buona musica blues!

Proprio Tom Hambridge, con l’aiuto di Richard Fleming, costruisce una sorta di piccola cronistoria autobiografica nella title-track, uno slow Chicago Blues di quelli duri e puri, dove Buddy racconta la sua vicenda di giovane virgulto nato a Lettsworth in Lousiana con le 12 battute già incorporate nelle sue vene, mentre Wear You Out è un poderoso boogie-rock-blues dove Guy, sempre in gran voce, e Billy Gibbons, un po’ meno, duellano però con le chitarre, nel pezzo del disco che più concede alle dinamiche del rock, ma quando ci vuole ci vuole, e qui i due fanno veramente sfracelli con le loro Stratocaster https://www.youtube.com/watch?v=hThlFYaUXds . Back Up Mama è un altro lento di quelli ad alta intensità con il nostro amico che gigioneggia e dispensa blues di gran qualità, spalleggiato dai musicisti citati sopra, tutti che si dannano l’anima per tenere botta ad un Buddy in gran spolvero, ottimi Bramhall e Wynans (o è McKendree?) al piano. Too Late è un  brano che porta la firma di Charles Brown e Willie Dixon, vecchio cavallo di battaglia di Little Walter, permette a Guy, grazie alla presenza di uno scatenato Kim Wilson all’armonica, di ricreare i vecchi duetti con Junior Wells. Whiskey, Beer And Wine, uno dei cinque brani co-firmati da Buddy Guy è un’altra poderosa costruzione sonora con la solista che dispensa sciabolate di blues, ma grazie alla precisa costruzione di Hambridge non è mai sopra alle righe, come in passato succedeva di tanto in tanto nei vecchi dischi. E anche Kiss Me Quick, il secondo duetto con Kim Wilson, è un perfetto esempio di come deve suonare il blues elettrico nel ventunesimo secolo https://www.youtube.com/watch?v=DYOkbVwkLuk : come lo si suonava sul finire anni cinquanta a Chicago con il grande Muddy.

Addirittura Crying Out Of One Eye, ancora con la firma Guy/Hambridge, e con l’aiuto di una sostanziosa sezione fiati, suona come un brano tratto dal vecchio Blues Jam At Chess registrato a Chicago con i Fleetwood Mac di Peter Green, un blues dove la chitarra è alla ricerca di sonorità lente e spaziali. Sempre a proposito di Chess Records, (Baby) You Got What It Takes, il duetto con una Joss Stone finalmente in grado di esprimere i suoi talenti in modo efficace e misurato, sembra un brano tratto dal vecchio repertorio di Etta James o ancor più Koko Taylor, con Hambridge che aggiunge un pizzico di genio nella trovata di aggiungere una sezione di archi https://www.youtube.com/watch?v=fYfWNYecvJA . In Turn Me Wild  Buddy Guy innesta il pedale wah-wah e lascia andare la sua solista in modalità più selvaggia, come solo lui sa fare, uno dei maestri della moderna chitarra elettrica, quello che ha insegnato a Jimi due o tre trucchetti su come si suona il blues, qui lo dimostra ancora una volta https://www.youtube.com/watch?v=c7yfVy0Fm24 . Crazy World, con la voce filtrata e carica di eco, sospesa su un tappeto di organo, e di nuovo con il wah-wah più atmosferico di Guy, ci illustra una ulteriore sfaccettattura di questo artista sempre in grado di variare il suo stile all’interno delle grande strade della musica del diavolo (o del Signore). Smarter Than I Was, altro brano autobiografico costruito ad hoc da Hambridge, mostra ancora una volta perché gente come gli Stones e Clapton idolizzano questo signore di quasi ottanta anni, una vera leggenda vivente, in grado di cavare dalla sua chitarra torrenti di note ribollenti, come se il tempo per lui si fosse fermato.

Negli ultimi tre brani è tempo di ricordare e commemorare: prima con una Thick Like Mississippi Mud che ricorda le folate elettriche anni cinquanta, anche con fiati, del suo vecchio datore di lavoro e maestro, quel McKinley Morganfield con cui Guy ha lavorato relativamente poco, apparendo però in alcuni degli album migliori del Muddy Waters inizio anni ’60, nello specifico Muddy Waters Sings Big Bill Broonzy e Folk Singer, due capolavori di equlibri sonori. Non c’entra quasi nulla con il resto a livello sonoro, in teoria, ma Flesh And Bone (Dedicated To B.B. King), il duetto con Van Morrison, è una ballata quasi celtic soul, tipica del rosso irlandese, cantata meravigliosamente da entrambi, con Buddy Guy che ricama arabeschi con la sua chitarra e i fiati e le McCray Sisters che aggiungono quello spirito cerimoniale tipico del miglior gospel, un omaggio sentito e realizzato con classe immensa, bellissima canzone. E anche la seconda dedica a Waters, una delicata e quasi acustica Come Back Muddy, si riappropria dello stile di Folk Singer con assoluta naturalezza e un pizzico di nostalgia, per concludere in gloria un album che si candida come uno dei migliori della carriera di Buddy Guy: signori, questo è il vero Blues, con la B maiuscola, è lui è veramente nato per suonare la chitarra!

Bruno Conti

Live “Senza Spina” Per Pochi Intimi! The Nighthawks – Back Porch Party

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The Nighthawks – Back Porch Party – Eller Soul

Secondo il modesto parere di chi scrive i Nighthawks non fanno più un bel disco dai tempi di American Landscape, o addirittura un gran disco dagli anni ’70, quando in formazione c’era ancora Jimmy Thackery, e visto che negli ultimi anni mi è capitato spesso di recensire album del quartetto blues americano http://discoclub.myblog.it/2014/09/08/longevi-prolifici-pero-ne-hanno-fatti-cosi-tanti-the-nighthawks-444/ , l’ho detto e ripetuto più volte, quindi mi scuso se lo avete già letto, ma questa è la verità. I dischi non sono mai brutti, anzi, la passione non manca, la classe e il mestiere neppure, ma latita quel sacro fuoco che un tempo animava i dischi e le performances dal vivo della storica band di Mark Wenner: anche la trovata, l’escamotage, come volete chiamarla, di registrare un disco unplugged, senza amplificazione elettrica, dal vivo in studio, l’avevano già utilizzata per Last Train To Bluesville, disco registrato nel 2009 per una emittente radiofonica e pubblicato nel 2010 con buoni riscontri di critica http://discoclub.myblog.it/2011/01/16/vecchie-glorie-5-the-nighthawks-last-train-to-bluesville/ .

Per questo Back Porch Party ripetono l’esperimento:anche se a giudicare dagli applausi scarni ci saranno una cinquantina di persone presenti, forse meno, negli studi di registrazione Montrose a Richmond, Virginia dove è stato registrato l’album. Per l’occasione almeno i Nighthawks cambiano completamente il repertorio rispetto al precedente disco unplugged, pur andando sempre a pescare nel repertorio di classici R&R, blues e swing, ma non mi pare che il disco decolli mai verso vette stratosferiche, il divertimento non manca, Wenner è sempre fior di armonicista, anche se la voce a tratti perde un po’ i colpi, ben bilanciata però da quelle di tutti gli altri componenti del gruppo che si alternano con successo alla guida vocale dei brani, spesso anche con armonie vocali d’insieme pimpanti ed accattivanti, Stutso e Castle sono una sezione ritmica agile e tecnicamente in grado di sopperire alla mancanza dei volumi “elettrici”, Paul Bell è chitarrista che riesce a giocare le sue carte anche nella dimensione “senza spina”, ma può bastare?

In ogni caso il CD è piacevole e divertente, nello swingante R&R della iniziale Rock This House, un vecchio brano del repertorio del Jimmy Rodgers bluesman o nella spiazzante rivisitazione di un brano come Walkin’ After Midnight, canzone da sempre legata ad una voce femminile, come ad esempio quella di Patsy Cline, o nei rockabilly Jana Lea, dove affiora il vecchio impeto, e Hey Miss Hey, presa a tutta velocità. C’è anche pathos nella versione intensa di una Down The Hole che si ricorda nel repertorio di Tom Waits, brano in cui Wenner soffia con vigore nell’armonica, ma non attizza più di tanto questa dimensione unplugged in un classico come Tiger in Your Tank, che ha ben altra potenza nell’originale di Muddy Waters o nella recente poderosa ripresa nel live di Joe Bonamassa. E anche Matchbox, quella di Ike Turner e Rooster Blues, non resteranno negli annali delle dodici battute, pur essendo versioni oneste e sentite. Rollin’ Stone, pure nella versione unplugged, non perde lo status del super classico, però ne ho sentite versioni migliori (quelle due o trecento), mentre Down To My Last Million Tears illustra anche il lato country “scoperto” dalla band nell’ultima parte di carriera e Back To The City è un altro swing che fa il paio con l’iniziale Rock This House. Pare che il sei politico non usi più, che ne dite di tre stellette per una stiracchiata sufficienza?

Bruno Conti  

Archivi Inesauribili E Preziosi! Rory Gallagher – Irishman In New York

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Rory Gallagher – Irishman In New York 2 CD S’more Entertainment/Rockbeat Records

Il 14 giugno del 1995 moriva a Londra Rory Gallagher, aveva solo 47 anni, ma la lunga dipendenza dal cocktail tra gli alcolici e le pastiglie sedative che prendeva per superare la paura del volo sviluppata negli ultimi anni, ebbe la meglio sul suo fegato e nonostante un tentativo di trapianto fatto all’ultimo istante, il grande musicista irlandese dovette soccombere alla sua malattia. Fino al gennaio di quell’anno Gallagher aveva continuato a suonare, ma nell’ultimo concerto tenuto in Olanda era visibilmente malato e fu costretto ad interrompere la sua ennesima tournée. Perché in effetti i concerti dal vivo sono sempre stati il fiore all’occhiello di una carriera comunque leggendaria, costellata anche da grandi album di studio ma soprattutto da tantissimi dischi live, alcuni tra i più belli della storia della musica rock (e blues). Non considerato uno dei primissimi chitarristi nelle classifiche di categoria (Rolling Stones nel suo elenco lo pone al 57° posto), Rory godeva comunque della stima incondizionata dei suoi colleghi: Brian May, Bonamassa, Gary Moore, Johnny Marr, per ricordarne alcuni di quelli recenti, lo citavano tra i loro preferiti, mentre leggenda (o verità), non sapremo mai, vuole che Jimi Hendrix incalzato da un giornalista che gli chiedeva come ci si sentisse ad essere il più grande chitarrista del mondo, rispose: “Non lo so, chiedetelo a Rory Gallagher”! E qualcuno a Cork, in Irlanda ha dedicato un enorme murale a questa dichiarazione.

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In ogni caso quest’anno sono già venti anni dalla scomparsa e proseguono le pubblicazioni di materiale d’archivio tratte dalle inesauribili scorte curate dal fratello Donal (ma non solo), che culmineranno a fine agosto con la pubblicazione da parte della Universal di un cofanetto quadruplo I’ll Remember, dedicato alla sua prima band, i Taste, che conterrà gli album originali rimasterizzati nei primi due CD e due dischetti di materiale dal vivo, inedito, registrato a Stoccolma, Londra e al Festival di Woburn Abbey. Nel frattempo, lo scorso anno, è uscito il bellissimo box dedicato al celebre Irish Tour ’74 http://discoclub.myblog.it/2014/09/16/gradita-consistente-sorpresa-rory-gallagher-irish-tour-boxset/, considerato il suo miglior disco dal vivo in assoluto, anche se io preferisco il Live In Europe di due anni prima, ma è una questione di differenze infinitesimali. Comunque dopo la sua morte di album postumi, soprattutto dal vivo, ne sono usciti molti: tra i migliori in assoluto Notes From San Francisco, metà in studio e metà live, il doppio delle BBC Sessions, il Live At Montreux CD + 2 DVD e quello delle Beat Club Sessions che torna agli inizi della sua carriera http://discoclub.myblog.it/2010/10/11/cosi-non-ne-fanno-piu-rory-gallagher-the-beat-club-sessions/ Chi scrive, per fortuna ( o purtroppo, perché il tempo passa) ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo ai tempi d’oro, e quindi non posso che confermare le meraviglie che si dicono di questo stupendo e genuino personaggio, camicia a quadrettoni d’ordinanza (comprata all’ingrosso e in quantità a qualche liquidazione dove l’altro cliente era Neil Young), chitarra Fender Stratocaster scrostata, ma dal suono meraviglioso, e una grinta e una potenza quasi paranormali, purtroppo alla fine pagate.

Ora esce questo doppio Irishman In New York, pubblicato dalla Rockbeat americana, che è la testimonianza di un concerto registrato al My Father’s Place il 7 settembre del 1979, nel tour americano a cavallo tra l’uscita di Photo-Finish dell’anno prima (presente con quattro brani) e Top Priority, in uscita dieci giorni dopo, di cui Rory Gallagher presenta in anteprima Keychain. Tra l’altro, curiosamente, come ha ricordato il fratello Donal, l’irlandese considerava come suoi album migliori Defender e Fresh Evidence, forse non perché fossero i più belli (sicuramente non lo erano) ma in quanto ultimi usciti, e il più recente è sempre il migliore per un’artista. Tornando al concerto di New York, formazione in trio, con Gerry McAvoy al basso e Ted McKenna alla batteria ed un repertorio che alterna vecchi classici, materiale più recente e brani meno noti e quindi non è un doppione rispetto ai moltissimi Live in circolazione e poi non dimentichiamo che ogni concerto di Gallagher era un evento, per la passione e la furia chitarristica che il nostro donava sempre al suo pubblico. Tratto da un broadcast radiofonico dell’epoca il sound è ruspante, ma decisamente buono e presente.

Si parte subito fortissimo con Shin Kicker e anche se il CD presenta alcune analogie con il repertorio presente nel disco ufficiale dell’epoca Stage Struck (dove però non erano riportati i classici e la durata era molto più ridotta) è sempre un gran bel sentire. D’altronde se di Grateful Dead, Dylan e Johnny Winter con le loro bootleg series, in tempi recenti Gov’t Mule e Phish, esistono decine di registrazioni Live, non si vede perché non possa essere così anche per Rory Gallagher, che era un vero animale da palcoscenico, non tanto a livello scenografico, quanto a consistenza qualititativa dei suoi spettacoli, ma potremmo citare moltissimi altri artisti di cui esistono concerti, ufficiali e non, in quantità, che non valgono l’opera del nostro. Tornando al concerto, il brano di apertura, tratto da Photo-Finish,  ha una potenza inaudita, con Rory che estrae dalla sua Stratocaster un mare di note e riff, la voce forte e sicura, un misto di classe e rabbia che lo avvicina al Johnny Winter degli esordi, tra R&R e blues, con la solista che rilancia continuamente, in un florilegio di citazioni del grande songbook della chitarra elettrica. The Last Of The Indipendents viene dallo stesso disco e l’intensità non cala di una briciola, anzi, se possibile, la velocità accelera verso ritmi supersonici in questa orgogliosa dichiarazione di intenti verso il mondo della musica, con Rory che inizia a fare i numeri sul manico della sua chitarra, di cui era un vero virtuoso, anche se forse non sembrava vista la violenza sonora che scaturiva da quel piccolo e nervoso ometto (per l’occasione munito anche di giubbetto di jeans, oltre alla immancabile camicia a quadrettoni). Il terzo brano, Keychain, è l’unico estratto del nuovo album in uscita, Top Priority, ma il pubblico gradisce lo stesso, si tratta di un brano più lento ed intenso, un hard blues di quelli tipici di Gallagher, con tanto di assolo acido e contorto, quasi hendrixiano, puro power rock trio, seguito da una potentissima Moonchild, uno dei brani migliori di Calling Card, una vera scarica di adrenalina e anche la riffatissima The Mississippi Sheiks, sempre uno dei brani nuovi dell’epoca, non cede di intensità.

I Wonder Who è il classico slow blues che non può mancare in un concerto di Rory, un brano di Muddy Waters dove Gallagher dimostra la sua perizia di grande bluesman bianco, uno di quelli che conosceva l’argomento come pochi altri in circolazione e qui la chitarra scorre fluida e ricca di feeling e tecnica. con un fantastico lavoro di vibrati e toni. A seguire uno dei brani più noti, quella Tattoo’d Lady che era il titolo di uno dischi più belli della sua discografia, anche nella versione senza pianoforte, un torrente di note e ritmo. Poi c’è l’intermezzo acustico a base di slide guitar, Too Much Alcohol (perché sapeva!), un vecchio brano di J.B. Hutto che coinvolge alla grande il pubblico presente, peccato venga sfumato nel finale, ottima anche l’interpretazione quasi ragtime della divertente e complicata Pistol Slapper Blues. La seconda parte riprende con una tiratissima Shadow Play, sempre tratta da Photo-Finish, altra fucilata rock-blues di grande potenza, con Bought And Sold, tratta da Against The Grain, pezzo presente anche su Stage Struck, dove Gallagher dimostra che era un uomo fatto riff, una inesauribile fabbrica di scariche chitarristiche. Walk On Hot Coals, viene da Blueprint, uno dei dischi migliori di studio, datato 1973, e raramente, la troviamo nei Live di Rory (quella di Irish Tour in effetti è insuperabile), versione poderosa e coinvolgente con quel misto di uso della chitarra tra ritmica e solismo tipico del miglior power blues trio, poi ribadito in uno dei suoi cavalli di battaglia, quella Messin’ With The Kid, che anche se è un classico del blues e del rock, per me rimane sempre legata inscindibilmente alla figura di Gallagher, con la chitarra che infiamma il pubblico presente. I due bis sono Bullfrog Blues, un boogie incredibile e sfrenato, e qui sono indeciso tra la sua versione e quella dei Canned Heat, una bella lotta, ma forse vince quella di Rory e Sea Cruise, che nasce come R&R pianistico di Frankie Ford, e diventa un altro violentissimo attacco alle coronarie del pubblico presente, aggredito da un tornado chitarristico, anche slide, e vocale che conclude in gloria un fantastico concerto https://www.youtube.com/watch?v=B4KfRakagTg !

Bruno Conti

Un Chitarrista Per Chitarristi (Non Solo)! Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here

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The Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here – Eller Soul Records

Questo signore, partito dal natio Missouri per recarsi a Nashville, dove sarebbe diventato uno stimato sessionman, prima come mandolinista e chitarrista slide, poi anche armonicista (e se serve, violinista), nel corso degli anni ha sviluppato una carriera solista parallela che lo ho portato ad essere uno degli artisti “indipendenti”  più amato dai colleghi. Mark Knopfler, che ha firmato le note per il suo album del 1996 First Blood (uno dei migliori di Mike, il secondo album uscito per la Dead Reckoning, etichetta fondata insieme a Kieran Kane, Kevin Welch, Tammy Rogers) gli valse poi, anni dopo, la chiamata a far parte della Band di Knopfler nel Sailing to Philadelphia Tour. Recentemente lo si è visto e sentito, come armonicista, nel fantastico Muddy Wolf At Red Rocks di Bonamassa e il chitarrista newyorkese, nello scrivere le brevi note di questo nuovo If You Think it’s Hot Here, si è chiesto perché non gli abbia chiesto di cantare almeno un brano in quella serata (e di suonare la chitarra, magari slide, aggiungiamo noi, infatti attualmente fa parte della touring band di Joe). Ma Mike Henderson, anche se non incideva un disco solista dal 1999, è veramente un uomo per tutte le stagioni, country, blues e rock sono stati il suo pane quotidiano, è un ottimo autore, tanto che Adele ha interpretato la sua If It Hadn’t Been For Love per il Live At The Royal Albert Hall; con la band bluegrass Steeldrivers di cui fu uno dei membri fondatori nel 2008, insieme all’amica Tammy Rogers, ha inciso due album, anche se nel nuovo CD firma solo tre brani, insieme ad un paio di rivisitazioni di classici e alcune cover di stampo decisamente blues.

Perché, in effetti, pur con tutte le influenze musicali citate, stiamo parlando di un gagliardo disco di blues elettrico. I Bluebloods, con cui ha firmato l’ultimo Thicker Than Water nel 1999, non ci sono più (e parliamo di gente del calibro di Reese Wynans e Glen Worf), e neppure Kingsnakes e Bel Airs, con cui pure ha suonato, ma nella nuova formazione troviamo Kevin McKendree, uno dei migliori tastieristi attualmente in azione, al basso c’è Michael Rhodes e alla batteria Pat O’Connor, meno conosciuto, già vecchio socio di Mike dai tempi dei Bel Airs, che a giudicare dal disco ha comunque un bel drive. Se aggiungiamo che Henderson ha pure una bella voce, era quasi inevitabile che il risultato sarebbe stato ottimo. Si passa dall’iniziale I Wanta Know Why, un solido rockin’ blues dove Henderson scalda subito voce e chitarra slide, ben coadiuvato dal piano di McKendree, anche produttore dell’album, subito grintoso e dal ritmo scandito https://www.youtube.com/watch?v=BnDECpKNVbk , poi seguito da ben due cover estratte dal songbook di Hound Dog Taylor, una vorticosa Send You Back To Georgia, dove il classico boogie blues di Taylor è ben segnato dalla batteria di O’Connor, mentre Henderson, dopo un intermezzo travolgente del pianino di McKendree, continua ad esplorare il fretboard della sua Fender, con un’altra sventagliata di bottleneck guitar devastante https://www.youtube.com/watch?v=KWT0GJMNuJs  e poi raddoppia con le classiche 12 battute di una It’s Alright dove il blues è ancora il padrone assoluto, sempre con la slide in evidenza. R.S. Field, recente produttore del Terraplane di Steve Earle, gli dà una mano a livello compositivo, per una title-track che ha profumi soul e gospel, anche grazie alla presenza di due vocalist aggiunti, bella ballata di stampo sudista questa If You Think It’s Hot Here, mentre McKendree si divide tra piano e organo Hammond con risultati eccellenti.

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Un altro brano notevole di  Henderson è Weepin’ And Moanin’, slow blues di quelli torridi con la chitarra sugli scudi, e anche la voce non scherza https://www.youtube.com/watch?v=yGAtjuxUzHQ , pezzo che non ha nulla da invidiare alla ripresa di Mean Red Spider, un Muddy Waters “minore”, se mai ne ha fatti, dove il ritmo funky della batteria ben si sposa con l’intensità della traccia, per non parlare della versione di If I Had Possession di Robert Johnson, che parte sulle ali di una slide acustica e poi diventa un fantastico blues elettrico in crescendo con gli altri strumenti che entrano a canzone già sviluppata e la rendono travolgente https://www.youtube.com/watch?v=6k1KEkcErqk . Notevole anche Unseen Eye, dal repertorio di Sonny Boy Williamson, dove Henderson inchioda uno dei soli più fluidi e passionali del disco, prima di dedicarsi al puro R&R, via blues, di una Matchbox nuovamente travolgente anche grazie al piano di McKendree https://www.youtube.com/watch?v=lPMXQCgQ0LA  e Gamblin’ Blues ci spinge più a Sud, verso il Texas, sulle note di un poco noto brano di Melvin Jackson, con Mike Henderson di nuovo sugli scudi, istigato dal groove eccellente della sua sezione ritmica deluxe. Conclude Rock House Blues, l’unico brano dove il nostro si esibisce all’armonica, accompagnato solo dal piano di McKendree. Degna conclusione di un ottimo album di uno dei migliori gregari in circolazione, per una volta ancora protagonista assoluto.

Bruno Conti

Novità Di Aprile Parte II. Olivia Chaney, Alabama Shakes, Bodeans, John Mayall, Jimbo Mathus, Dwight Yoakam, Villagers, Soundstage Blues Summit, Railroad Earth

Olivia Chaney The Longest River

Ultima parte dedicata alle novità in breve di Aprile, andiamo a ritroso con le uscite, magari di alcune non escludo una recensione completa, mentre quelle che non vedete la avranno sicuramente. Mi sono accorto che era rimasto indietro un titolo tra quelli in uscità il 28 aprile, cioè oggi, almeno negli Stati Uniti, in Italia uscirà il 12 maggio: si tratta dell’esordio su etichetta Nonesuch di Olivia Chaney, una cantante inglese messa sotto contratto dall’etichetta americana del gruppo Warner, che fa parte anche lei della ristretta (ma non troppo) pattuglia di nuovi talenti che vale la pena investigare. Nata a Firenze nel 1982, con mamma australiana, cresciuta a Oxford e ora basata a Londra, la Chaney, come si desume dalla nata di nascita, non è più una giovanissima, ed in effetti ha già collaborato con vari musicisti e gruppi inglesi negli anni passati, dagli Zero 7 a Seth Lakeman, nel penultimo disco di Alasdair Roberts A Working Wonder Stone, ai collettivi Folk Police e Concerto Caledonia, oltre ad altri, quindi discograficamente e in concerto Olivia è sempre stata molto attiva, ma in effetti questo The Longest River è il suo disco d’esordio (a parte un EP pubblicato nel 2010) https://www.youtube.com/watch?v=v0lr8ax_mm4 . In possesso della classica voce da folksinger, chiara e cristallina, il repertorio di Olivia Chaney oscilla tra proprie composizioni, brani tradizionali folk, il tutto con arrangiamenti dove la chitarra acustica o il piano https://www.youtube.com/watch?v=-rGUInwyCRQ , vengono arricchiti da arrangiamenti di archi, tocchi di harmonium suonati dalla stessa Chaney, violino e viola, chitarre eletriiche arpeggiate, sonorità che ci catapultano nel classico mondo del british folk degli anni ’70, quello dei Fairport, dei Pentangle, dell’Albion Band delle sorelle Collins, quindi bella musica tra le influenze della nostra amica, che cita anche Dylan, sui dischi del quale ha imparato a suonare la chitarra, aggiungerei anche le prime Judy Collins e Joni Mitchell, quelle più classiche. Comunque se volete verificare (e finché dura, poi rimarranno validi gli altri due link) qui potete ascoltare l’intero album in streaming nel soundcloud http://www.thebluegrasssituation.com/read/listen-olivia-chaney-longest-river

alabama shakes sound & color

Il primo disco degli Alabama Shakes di Britanny Howard era stato un fulmine a ciel sereno: rock alla Janis Joplin, soul della Stax, southern rock, blues elettrico, il tutto miscelato alla perfezione e veicolato dalla poderosa voce della ragazza di Athens, Alabama. Per questo nuovo Sound And Color, pubblicato il 21 aprile, come il precedente etichetta Rough Trade, si segnala un passaggio verso sonorità più “moderne”: prodotto da Blake Mills, autore lo scorso anno del buon Heigh Ho, in questo album c’è molto meno rock classico e più contemporary soul (qualcuno ci ha visto l’impronta di Prince per il falsetto o della Winehouse per il suono ricco di eco, ma il funky non lo ha inventato l’amico di Minneapolis e il falsetto lo usava spesso anche Joan Armatrading) https://www.youtube.com/watch?v=iraraKH0_Tk , per cui meno ruspante e genuino del precedente, diciamo che l’effetto è meno immediato, ma nell’insieme non mi dispiace, anzi, a tratti è intrigante https://www.youtube.com/watch?v=-oib0a2_itA  e comunque non mancano brani vicini al sound di Boys And Girls https://www.youtube.com/watch?v=x-5OX7CO26c . Questo è uno di quelli che vorrei recensire più approfonditamente, e sempre tempo permettendo, lo sto ascoltando con attenzione, quindi rimando il giudizio definitivo, per il momento positivo con riserva, però preferisco il precedente.

bodeans i can't stop

Secondo album in studio della formazione dei Bodeans senza Sam Llanas ( e dodicesimo complessivamente); Kurt Neumann e il nuovo Sam Hawksley, si dividono le parti di chitarra e basso, la produzione del disco e in alcuni brani anche la batteria, quando non c’è Kenny Aronoff che è una garanzia, almeno sulla carta. Alle tastiere c’è il pavese Stefano Intelisano, da quasi tre lustri trasferitosi in quel di Austin, Texas. Il CD si chiama I Can’t Stop, etichetta Free And Alive Records, non ho avuto occasione di sentirlo, quindi mi astengo dai giudizi anche se ho letto delle critiche positive, ma i tempi gloriosi degli anni ’80 e ’90 mi sembrano passati.

john mayall live in 1967

Questo tecnicamente farebbe parte dei “bootleg ufficiali radiofonici” recensiti recentemente, ma esce per una fantomatica Forty Below Records e si tratta di un rarissimo concerto dei Bluesbreakers di John Mayall, anzi una serie di concerti, tenuti nel brevissimo periodo, tre mesi nel 1967, da qui il titolo, in cui quelli che sarebbero diventati da lì a poco i Fleetwood Mac, Peter Green, John McVie e Mick Fleetwood divisero il palco con Mayall https://www.youtube.com/watch?v=GRA33BMkuZE , anche se solo Green partecipò poi alla registrazione di A Hard Road. Chi legge il Blog sa che Peter Green è uno dei miei chitarristi preferiti in assoluto e quindi non potrei mai parlare male di questo CD, però la qualità a tratti è veramente scadente, mentre soprattutto in alcuni dei blues lenti https://www.youtube.com/watch?v=rgFIGZ4xspo si gode della tecnica e del feeling di colui  https://www.youtube.com/watch?v=OwCAPDwYic0 che allora sostituì Eric Clapton nella formazione, senza farlo assolutamente rimpiangere https://www.youtube.com/watch?v=irhdeQhurj8 . Valore storico 10, qualità sonora complessiva 6.5, quelli che ho linkato sono tutti incisi piuttosto bene per l’epoca, considerando che vengono da vecchi bootleg.

jimbo mathus blue healer

Dovrebbe essere il dodicesimo album solista di Jimbo Mathus questo Blue Healer, Live e dischi come Tri-State Coalition compresi, ma esclusi quelli registrati con il suo primo gruppo Squirrel Nut Zippers, in teoria ancora in attività e con la South Memphis String Band . Il disco, il terzo per la Fat Possum, è la consueta miscela di rock-blues, country, ballate sudiste, southern rock tirati come l’iniziale Shoot Out The Lights, con Eric Ambel alla chitarra solista https://www.youtube.com/watch?v=1RHIn8zbloE, i tempi scanditi dall’organo e ancora dalla chitarra della poderosa title-track https://www.youtube.com/watch?v=vydkLzSTJQM o mid-tempo tra country e New Orleans come la pianistica Love And Affection https://www.youtube.com/watch?v=5jlco87Rfqo e sembra quindi uno tra i suoi migliori in assoluto, tutti i dodici brani di ottima qualità, senza cedimenti, e che confermano la classe e la bravura di questo musicista di Oxford, quella del Mississippi però!

dwight yoakam second hand

Dwight Yoakam sono parecchi anni che non sbaglia un album, dopo “le tre pere” del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/09/26/tre-pere-e-palla-al-centro-dwight-yoakam-3-pears/, l’artista che tutti pensano californiano, per il suo amore per il Bakersfield sound del suo idolo Buck Owens o al limite di Nashville, per la sua chiara estrazione country (rock), ma in effetti è nato a Pikeville, piccola località del Kentucky, centra ancora l’obiettivo con Second Hand Heart, quattordicesimo album in quasi 30 anni di carriera (se non contiamo i dischi di cover, quelli natalizi, i Live, le compilations). Uno dei rari casi in cui il successo di vendita, con i dischi sempre nelle Top 20 generali e Top 5 country, questo nuovo compreso, e quello di critica, quasi unanime nei giudizi favorevoli, coincidono https://www.youtube.com/watch?v=J3mazds9omg . Dieci brani, otto nuovi firmati da Dwight, una cover del traditional Man Of Constant Sorrow, legata agli Stanley Brothers https://www.youtube.com/watch?v=bYfAON5WM64  e una scritta da Anthony Crawford (collaboratore storico di Yoakam e leader dei Sugarcane Jane, con la moglie Savana Lee), dal titolo criptico di V’s Of Birds  https://www.youtube.com/watch?v=nd5U3tgcGGw una bella ballata. Il CD è uscito il 14 aprile per la Warner Nashville, è prodotto dallo stesso Dwight Yoakam ed è il solito classico country, ma di quello buono, lontano mille miglia dal sound ammuffito di molte produzioni attuali provenienti da Nashville https://www.youtube.com/watch?v=UaSf947O38Y

villagers darling arithmetic

Nuovo disco, il terzo per i Villagers, gruppo irlandese che ruota intorno alla personalità di Conor O’Brien, piccolo genietto della musica britannica. Lo stile viene definito indie folk, ma secondo chi scrive, da subito affascinato dalla sua musica e dal suo talento http://discoclub.myblog.it/2010/06/18/anche-lui-di-nome-fa-conor-the-villagers-becoming-a-jackal/, poi ribadito nel successivo (Awayland), tutti su Domino, come anche questo Darling Arithmetic, il nostro è un degno successore della grande tradizione della buona musica che viene dal Regno Unito (ma non solo). Il nuovo album, come al solito giustamente incensato dalla rivista Mojo (e da tutte le altre) https://www.youtube.com/watch?v=_hD0wd2HUVs , ha un suono ancora più intimo e tranquillo dei precedenti https://www.youtube.com/watch?v=8UsYbProrac , registrato in solitaria da O’Brien in una piccola località nei pressi di Dublino, contiene nove bozzetti delicati (undici nella versione Deluxe per il download) dove si può gustare il raffinato gusto per i particolari di questo talentuoso musicista https://www.youtube.com/watch?v=icaRVYQ5-Nc .

soundstage blues summitrailroad earth live red rocks

Per concludere un paio di segnalazioni di DVD musicali, entrambi usciti solo sul mercato americano. Il primo, Soundstage Blues Summit In Chicago, 1974 attribuito a Muddy Waters and Friends, è sicuramente molto interessante, però NTSC Regione 1, durata solo 59 minuti, etichetta Sony Legacy. Per il resto, a giudicare dai contenuti e dai musicisti presenti, si tratta di una piccola chicca:

  1. Blow Wind Blow – Introduction performed by Muddy Waters
  2. Long Distance Call performed by Muddy Waters
  3. Messin’ with the Kid performed by Nick Gravenites & Junior Wells
  4. Stop Breaking Down performed by Junior Wells
  5. Mannish Boy performed by Muddy Waters
  6. Wang Dang Doodle performed by Willie Dixon & KoKo Taylor
  7. Walking Through the Park performed by Johnny Winter
  8. Hootchie Kootchie Man performed by Muddy Waters & Willie Dixon
  9. Sugar Sweet performed by Dr John
  10. Got My Mojo Workin’ performed by Muddy Waters

Tra i musicisti presenti in questo concerto registrato nel luglio del 1974, oltre a quelli citati, anche Mike Bloomfield, Phil Guy, Luther Snake Boy Johnson, Robert Margolin alle chitarre, Jerry Portnoy all’armonica (che si aggiunge a Junior Wells), Buddy Miles e Willie  Big Eyes Smith alla batteria e Pinetop Perkins al piano e Calvin Fuzz Jones e Rollo Radford al basso.

L’altro DVD come durata non ha problemi, anzi, sono circa 180 minuti, quasi tre ore, Live At Red Rocks, come recita il titolo, quindi nello stupendo anfiteatro naturale nei pressi di Denver, Colorado, nel luglio del 2013. In questo caso la difficoltà sta nella reperibilità, distribuito direttamente negli Stati Uniti dai Railroad Earth attraverso la loro etichetta Black Bear Records https://www.youtube.com/watch?v=GSthr–YsR4e nel prezzo, oltre i 30 dollari più le spese di spedizione (ma cercando si trova anche a meno). Ne varrebbe la pena perché la grass jam band del New Jersey è fantastica dal vivo (ma anche in studio http://discoclub.myblog.it/2014/01/24/gli-ultimi-fuorilegge-del-jam-roots-grass-railroad-earth-last-of-the-outlaws/), la location è suggestiva, il suono e le immagini sono fantastiche.

E’ tutto, alla prossima, vado a vedermi Beth Hart!

Bruno Conti

Nothing But The Blues…And More, Senti Che Roba: Può Bastare?! Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks

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Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks -2CD/2DVD/BRD Provogue/Edel

Sappiamo tutti che Joe Bonamassa, per usare un eufemismo, è un artista prolifico, e quindi essendo passati ben sei mesi dall’ultimo, ottimo, album di studio, Different Shades Of Blue http://discoclub.myblog.it/2014/09/10/ebbene-si-eccolo-joe-bonamassa-different-shades-of-blues/ , ci si chiedeva quale sarebbe stata la prossima mossa di Joe. Ma in effetti l’artista di Utica, stato di New York, la mossa l’aveva già pianificata lo scorso 31 agosto del 2014, quando, nel meraviglioso anfiteatro naturale di Red Rocks, a due passi da Denver, Colorado, e di fronte a 9.000 entusiasti spettatori, ha organizzato una speciale serata unica dedicata al Blues ed in particolare a quello di due titani delle 12 battute come Muddy Waters e Howlin’ Wolf, da cui il titolo Muddy Wolf At Red Rocks. Negli ultimi anni il buon Joe sembra avere “messo la testa a posto”: una ottima serie di album, in studio e dal vivo (non ve li ricordo tutti perché sono veramente tanti) ma non sbaglia un colpo, e non è che prima non avesse fatto buoni dischi, ma la sua carriera, quantomeno a livello critico, era stata più discontinua. Diciamo che la collaborazione con il produttore sudafricano Kevin Shirley, ha giovato ad entrambi i personaggi, con un percorso lento ma sempre più sicuro, disco dopo disco, stanno creando un body of work che rivaleggia con quelli dei grandi Guitar Heroes del passato.

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Una delle “piccole lacune” da colmare era quella di un disco dedicato completamente al Blues; in effetti in passato Bonamassa, nel 2003, aveva già dedicato un disco che, fin dal titolo, Blues Deluxe, era un tributo alla musica del diavolo, ed infatti viene considerato uno dei dischi migliori della sua discografia, però, accanto ad alcuni brani classici, c’erano anche un paio di composizioni autografe e la title-track, a firma Jeff Beck/Rod Stewart, peraltro bellissima, che non si possono certo considerare pietre miliari della musica nera. Questa volta tutto è stato fatto a puntino: dalla scelta della band che lo accompagna, i “soliti” Anton Fig alla batteria e Michael Rhodes al basso, solidissima sezione ritmica, l’ultimo arrivato, il tastierista della Florida Reese Wynans, vecchio pard di SRV, ma che era già in pista sul finire anni ’60, con i Second Coming pre-Allmans, la sezione fiati composta da Lee Thornburg, Ron Dziubla e Nick Lane, ormai una presenza fissa negli ultimi anni, e, per l’occasione, il chitarrista americano Mike Henderson, che proprio recentemente ha dato alle stampe un nuovo album, If You Think It’s Hot Here, dopo parecchi anni di silenzio discografico, qui utilizzato, con ottimi risultati, come armonicista e Kirk Fletcher dei Mannish Boys, altro veterano del blues, alla seconda chitarra. Il risultato è un bijou, disponibile in doppio CD o doppio DVD  e Blu-Ray (con vari contenuti extra nei supporti video, tra cui un breve documentario sul viaggio di Kevin e Joe al famoso Crossroads, il dietro le quinte del concerto e materiale d’archivio dedicato a Muddy e al Wolf): secondo me il disco meriterebbe almeno 4 stellette, ma visto che ci sono ancora gli scettici che considerano Bonamassa un volgare caciarone dal suono pesante e violento, gli consiglierei di ascoltarsi questo disco o video dal vivo e ricredersi.

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Si tratta veramente di una serata blues con i fiocchi e controfiocchi: fin dall’introduzione atmosferica dello strumentale We Went Down To The Mississipi Delta, all’ultima nota dei credits che scorrono sulla finale Muddy Wolf, Bonamassa e soci dimostrano come si suona O’blues. La prima parte del concerto è dedicata al repertorio di McKinley Morganfield, in arte Muddy Waters, ed ecco così scorrere, preceduta dalla versione originale, Tiger In Your Tank https://www.youtube.com/watch?v=vlqK4DMhawk , un inizio da brividi, per un brano che molti non considerano uno dei super classici, ma che è perfetto con il suo mood swingante per aprire le operazioni, con Joe che comincia a regalarci il primo dei suoi soli, che saranno numerosi e sempre molto variati, con un perfetto uso della solista, misurata, cristallina e perfetta come in rare precedenti occasioni mi è capitato di ascoltare, sempre misurato ma in grado di regalare le sue proverbiali zampate. Da I Can’t Be Satisfied, dove da perfetto band leader comincia a chiamare gli assolo dei suoi musicisti, il primo, Mike Henderson all’armonica e poi il suo, inserito alla perfezione nel contesto di uno dei cavalli di battaglia di Waters https://www.youtube.com/watch?v=_q3L0my3cao . Ma è con You Shook Me che le cose cominciano a farsi serie, Wynans passa al piano, Bonamassa canta sempre benissimo e comincia a scaldare la sua chitarra, per quello che sarà uno degli interventi solistici più belli della serata, con un fiume lungo e torrenziale di note che inizia a scorrere con grande intensità, sembra di ascoltare il suo idolo Eric Clapton in serata di grazia, grande musica. Che non si ferma neppure con Stuff You Gotta Watch, altro swing-blues dove fiati ed interventi misurati di Henderson, Wynans, Fletcher e un ingrifato Bonamassa ci riportano alle origini del blues https://www.youtube.com/watch?v=wvOwOrBrxNI , prima di tramortirci di nuovo con una versione micidiale di Double Trouble, brano che spesso viene accostato anche alla figura di Otis Rush, ma pure a Clapton che ne ha spesso rilasciato delle versioni da manuale, e qui Joe, di nuovo baciato dall’ispirazione dimostra di nuovo perché è veramente un grande chitarrista, in uno degli altri momenti topici della serata.

Real Love raffredda brevemente gli animi (si fa per dire perché è comunque un gran canzone) ma è un attimo, perché Bonamassa dimostra di essere anche un grande chitarrista slide e indossato il bottleneck ci regala una versione devastante di My Home Is On The Delta, Chicago Blues allo stato puro, per concludere la prima parte della serata con il train time inarrestabile di All Aboard, tra sferzate di chitarra ed armonica. Lo show riprende, preceduto da un breve talking di Howlin’ Wolf che ci spiega cosa è il blues, e si riparte proprio con un super classico come How Many Years, con tutta la band in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=9Tk-4aC2lok  e poi si susseguono i ritmi sincopati della immancabile Shake For Me, con retrotoni quasi R&B https://www.youtube.com/watch?v=Hv2hGTGrwvI , la scatenata Hidden Charms in odore di boogie e R&R https://www.youtube.com/watch?v=TWh57xQG3wo , prima dell’immortale riff di Spoonful, condita da un altro assolo di chitarra di quelli da sentire per credere, otto minuti di pura magia sonora, che rievocano le migliori serate dei Cream, perché siamo su quei livelli https://www.youtube.com/watch?v=MJMzjqsitq0 , seguita da un altro dei brani più conosciuti della storia, una pimpante e ricca di ritmo Killing Floor che confluisce in un’altra intensa punta della serata, di nuovo il “lupo” più cattivo, ecco il momento del Diavolo, Evil (is going on), uno slow blues dove c’è spazio anche per l’armonica di Henderson, il solito inarrestabile fiume di note di Bonamassa, ispiratissimo ancora una volta, che entusiasma il pubblico, prima di lanciare l’ultimo brano della seconda parte, All Night Boogie (All Night Long), che finisce in gloria la serata con tutto il gruppo al proscenio, musicisti di classe e sostanza come raramente è dato ascoltare in un concerto blues in questi anni moderni.

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La serata non è finita e Joe ritorna per presentare alcuni dei suoi classici, dove potrà dare luogo anche a qualche escursione con il suo pedale wah-wah, raramente innestato nel corso della serata di blues elettrico, ma ora è tempo di rock-blues, e così arrivano, l’omaggio a Jimi Hendrix di Hey Baby (New Rising Sun), Oh Beautiful e Love Ain’t A Love Song, che allora erano nuove per il pubblico presente, una tiratissima Sloe Gin ed un’epica Ballad Of Joe Henry, tra le due quasi venti minuti di rock-blues feroce e selvaggio che illustrano anche il lato più heavy ed entusiasmante della musica del nostro amico. Titoli di coda, fine: uno dei migliori album dal vivo di questi anni, dovrebbe bastare!

Bruno Conti

“Finalmente”, L’Inevitabile Omaggio Di Joe Bonamassa A Due Grandi Del Blues! Muddy Wolf At Red Rocks

joe bonamassa muddy wolf 2 dvd joe bonamassa muddy wolf 2 cd


Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks – 2 CD/ 2 DVD/ Blu-Ray – J&R Adventures/Mascot/Provogue – 24-03-2015

Il Blues non è certo una materia ignota nel vocabolario musicale di Joe Bonamassa, alla fonte delle proprio canzoni, innervato da rock, jazz, funky, soul e da mille altre sfumature, ma sempre presente nella discografia del chitarrista di New York. Come ha dichiarato lo stesso Joe in varie interviste il suo incontro con le 12 battute è nato dall’ascolto dei “British Guys”, citando come dischi fondamentali il primo Bluesbreakers di John Mayall con Eric Clapton, Irish Tour di Rory Gallagher e Goodbye dei Cream, come influenze primarie e anche Texas Flood di Stevie Ray Vaughan, negli anni della sua gioventù. E tra i grandi chitarristi sono soprattutto quelli inglesi i più amati, oltre a Clapton, Peter Green, Paul Kossoff, Jimmy Page, Jeff Beck, Gary Moore, oltre naturalmente a Jimi Hendrix, mentre i grandi bluesmen neri, T-Bone Walker, Muddy Waters, Robert Johnson, B.B. King e molti altri, sono venuti solo in un secondo tempo, quando Bonamassa ha iniziato ad approfondire le radici della musica che più amava. Brani del songbook classico del Blues appaiono più o meno in quasi tutti i dischi in studio e dal vivo del nostro Joe, ma, fino ad oggi, l’unico album che era andato direttamente ad esplorare questo repertorio era stato Blues Deluxe del 2003, dove accanto a tre brani originali spiccavano nove cover pescate in quel serbatoio, forse non tra le più celebri, e con una, la title-track, firmata da Jeff Beck e Rod Stewart.

Però, stranamente, in quel disco, non c’era neppure un brano di Muddy Waters o Howlin’ Wolf. Questo nuovo Live, Muddy Wolf At Red Rocks (che esce a “ben” sei mesi dall’ultima ottima prova di studio del nostro prolifico, in mancanza di un termine migliore, amico http://discoclub.myblog.it/2014/09/10/ebbene-si-eccolo-joe-bonamassa-different-shades-of-blues/) è il resoconto di un concerto tenuto lo scorso anno, il 31 agosto per un evento “one night only”, organizzato nella suggestiva location del famoso anfiteatro naturale nei pressi di Denver; Colorado, ai piedi delle Montagne Rocciose. La particolarità è quella che, come ricorda il titolo, i brani sono un tributo all’opera di due dei più grandi bluesmen elettrici, entrambi su etichetta Chess, prodotti dalla scena musicale america, Muddy Waters e Howlin’ Wolf, con l’aggiunta di sei brani scelti tra i migliori della produzione di Joe Bonamassa, anche quella più recente. La formazione è quella classica degli ultimi dischi, quindi allargata ad una sezione fiati, e con l’aggiunta di Mike Henderson all’armonica e Kirk Fletcher alla seconda chitarra. Gli altri sono i soliti: Anton Fig (batteria), Michael Rhodes (basso), Reese Wynans (piano, organo Hammond ), Lee Thornburg (tromba e arrangiamenti della sezione fiati), Ron Dziubla (sax), Nick Lane (trombone).

Questi i contenuti del doppio CD:

Mississippi Heartbeat (Intro)
Muddy Waters
Tiger In Your Tank
I Can’t Be Satisfied
You Shook Me
Stuff You Gotta Watch
Double Trouble
Real Love
My Home Is On The Delta
All Aboard
Howlin’ Wolf
How Many More Years
Shake For Me
Hidden Charms
Band Introductions
Spoonful
Killing Floor
Evil (Is Going On)

All Night Boogie (All Night Long)
Hey Baby (New Rising Sun)
Oh Beautiful!
Love Ain’t A Love Song
Sloe Gin
Ballad of John Henry

Nella versione DVD e Blu-Ray, negli extra, circa 90 minuti, troviamo filmati girati nel dietro le quinte, uno spazio chiamato “The Originals” con materiale di archivio di Waters e Howlin’ Wolf e un “…To Crossroads”, che racconta il viaggio di Bonamassa e del produttore Kevin Shirley verso il famoso incrocio https://www.youtube.com/watch?v=oKNC8creUCw .

A giudicare dai due filmati già postati in rete e che vedete sopra mi sembra che Bonamassa abbia ancora una volta centrato l’obiettivo. Ovviamente, dopo l’uscita dell’album, prevista per il 24 marzo p.v., ci sarà l’occasione di parlarne più diffusamente.

Bruno Conti

Ne’ Moderno, Ne’ Antico, Solo Blues Sopraffino! Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju

howell devine

Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju – Arhoolie/Ird

Terzo album per questa inconsueta band americana, che prende il nome dai due componenti principali della formazione, Joshua Howell, cantante, chitarrista ed armonicista, e Pete Devine, batterista e percussionista, proponendoci la loro particolare visione del blues, che sembra provenire, grazie a qualche primitiva macchina del tempo, dalle origini di questa musica, intorno agli anni ’20 o ’30, in un qualche juke joint lungo le rive o il Delta del Mississippi, però attenzione stiamo parlando di una band contemporanea, composta da tre musicisti dei giorni nostri, bianchi per di più. Il loro secondo album (e primo per la Aarhoolie, che non metteva sotto contratto un musicista nuovo da una infinità di tempo) aveva un titolo perfetto per definire il tipo di musica, Jumps, Boogies & Wobbles https://www.youtube.com/watch?v=BPXI4ejS7jc , ma anche questo nuovo non scherza, Modern Sounds Of Ancient Juju  (e anche le copertine sono suggestive)! Joshua Howell, il leader, si divide tra chitarra, slide, armonica e canta con un voce spesso laconica e rilassata, ma allo stesso tempo precisa ed espressiva, Pete Devine, utilizza un kit di batteria molto ridotto, ma che gli permette di mostrare comunque una tecnica raffinatissima, sentite cosa non riesce a combinare nella sua composizione, Woogie Man, uno strumentale fantastico dove lui e il nuovo contrabbassista Joe Kyle jr, fanno i numeri ai rispettivi strumenti, mentre Howell lavora di fino all’armonica.

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Quindi musica semplice e primordiale, se vogliamo, come possiamo riscontrare ad esempio nella bellissima cover di I Can’t Be Satisfied di Mastro Muddy Waters, posta in apertura dell’album, forse poco elettrica nella strumentazione, ma elettrizzante nei risultati, con la slide di Howell che guizza e serpeggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=HPArJOgtGCs , se vogliamo fare un paragone forse può ricordare l’R.L. Burnside dei dischi anni novanta per la Fat Possum, meno selvaggio e più misurato, ma ricco di  feeling. Ci sono un paio di brani a firma Frank Stokes, uno dei bluesmen delle origini, It Won’t Be Long Now, dove Devine passa al washboard (come in parecchi brani dell’album) e il suono si fa ancora più minimale, qui si viaggia su sonorità alla Mississippi Fred McDowell o tipo i primissimi Hot Tuna, quelli acustici. Anche la cover di She Brought Life Back To The Dead, scritta da Sonny Boy Williamson II, ha questo suono scarno e primigenio, con un tipo di approccio vocale che potrebbe ricordare i pionieri bianchi del primissimo british blues, Cyril Davies, Alexis Korner e pure il John Mayall degli esordi, grazie all’uso continuo dell’armonica (un altro armonicista che non ha bisogno di presentazioni, Charlie Musselwhite, firma le brevi note di copertina, mentre anche Maria Muldaur ha espresso la sua ammirazione per questa band).

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Si prosegue con un brano originale di Joshua Howell, Let You Go, che comunque suona esattamente come le cover, con la chitarra acustica che sostituisce l’armonica https://www.youtube.com/watch?v=39IML7JMrZA . Quando passa all’elettrica, per l’altra cover di Stokes, Sweet To Mama, il suono rimane laconico ed essenziale ma sempre di grande efficacia, con il piedino che si muove a tempo con il ritmo, detto di Woogie Man, anche House In Field, firmato dall’accoppiata Howell/Devine, potrebbe venire dal repertorio di qualche oscuro bluesman degli anni ’20, mentre Shake ‘Em Down è proprio quella di Bukka White, e qui il sound si fa più elettrico, parte il boogie  https://www.youtube.com/watch?v=8uN6wdBaTmo , sembra quasi di ascoltare i primi Canned Heat o Hound Dog Taylor, con l’amplificazione ridotta al minimo, ma Howell e soci lavorano di fino, la chitarra slide viaggia alla grande e la band dimostra tutto il proprio valore con una grinta notevole. It’s Too Late Brother è un vecchio brano anni ’50, scritto dal batterista della Chess Al Duncan per il suo datore di lavoro Little Walter, ed è un altro tour de force per Howell, altrettanto bravo all’armonica quanto alla chitarra, Rollin’ In Her Arms è un altro brano originale del buon Joshua che dice di essersi ispirato a Howlin’ Wolf, un altro secco blues di grande impatto https://www.youtube.com/watch?v=uPzSNjjNt5s . Chiude la spettacolare Railroad Stomp, registrata dal vivo in un club di Richmond, California, la terra da dove proviene questo trio di musicisti, una classica “train tune” di quelle vorticose https://www.youtube.com/watch?v=15S_ElxpPz4 , con armonica, batteria e contrabbasso che partono per un viaggio nella stratosfera del country-blues. In una parola, bravissimi!

Bruno Conti    

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

johnny winter live bootleg series vol.11

Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti