Ma Come Porti La Chitarra Bella Bionda! Joanne Shaw Taylor – The Dirty Truth

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Joanne Shaw Taylor – The Dirty Truth – Axehouse Music

La “sporca verità” è che Joanne Shaw Taylor, la bionda e graziosa chitarrista inglese (solo una constatazione estetica, niente sessismo) è una delle migliori rappresentanti della quarta o quinta ondata del British Blues: scoperta giovanissima da Dave Stewart, in pochi anni, con quattro album pubblicati per la tedesca Ruf, tra cui l’eccellente Live della serie Songs From The Road http://discoclub.myblog.it/2013/12/16/bella-brava-bionda-suona-il-blues-joanne-shaw-taylor-songs-from-the-road/ , si è confermata come uno dei talenti migliori del sempiterno filone albionico delle 12 battute classiche, per quanto energizzate da un approccio sempre vicino al rock di chitarristi del passato, come Page e Paul Kossoff, che a lei spesso vengono accostati. Questa volta, nuova etichetta, la Axehouse Music, un nome, un programma, un ritorno del produttore, Jim Gaines, che si era occupato con profitto del primo album ed una trasferta in quel di Conce, Tennessee, profonda America, per registrare questo nuovo album, The Dirty Truth https://www.youtube.com/watch?v=7nBTuvZfxY8 .

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La Shaw Taylor si è sempre detta insicura della sua voce, ma nel corso degli anni, quella voce roca e con “raspino” intrigante si è imposta come uno dei tratti caratteristici del suo stile: mi sembra di averlo già detto e lo confermo, non diventerà mai Beth Hart o Dana Fuchs, e neppure Bonnie Raitt o Susan Tedeschi, quello è un fatto genetico, ma il cantato è più che adeguato alla bisogna e se lo uniamo con una tecnica chitarristica e una grinta notevoli, il risultato finale dovrebbe accontentare abbondantemente gli appassionati del buon blues(rock). I dieci brani, composti tutti dalla stessa Joanne Shaw Taylor, sono nella loro globalita tasselli di un suono d’assieme, aspro e vigoroso, tirato e variegato, che spazia dalla veloce e tosta Mud Honey, dove voce e chitarra sono subito protagoniste di un suono che si immerge nel mare magnum del genere con la dovuta cattiveria e più di un debito al suono classico americano del Sud https://www.youtube.com/watch?v=WEHboZ4Shho . Notevole anche The Dirty Truth, la title-track, che si innesta con assoluta naturalezza nel brano precedente, conferendo una sorta di unitarietà al suono dell’album, con la chitarra sempre presente e ricca di mille nuances https://www.youtube.com/watch?v=TSOrOz2PEVY , aggressiva ma ricca di tecnica, con una sezione ritmica, quella del primo album, che vede Dave Smith al basso e Steve Potts alla batteria, elegante e molto efficace.

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Se aggiungiamo le tastiere di Rick Steff, già presente dal secondo disco, ad esempio l’organo di una Wicked Soul, che tenendo fede al nome, si impadronisce del suono southern che probabilmente si respira nell’aria del Tennessee, unendolo alla solista sempre fluente e ricca di inventiva della Taylor, veramente una brava chitarrista. Fool In Love vira ancor di più verso sonorità soul e si apprezza anche la bella tessitura dell’impianto vocale della canzone e il delicato assolo della solista, squisito nella sua semplicità. Wrecking Ball, con una chitarra più fluente ed espansiva, si appoggia su un corposo groove funky della sezione ritmica ed in particolare del basso, mentre Tried, Tested And True è la classica ballata sudista, dolce e malinconica, ricca di feeling https://www.youtube.com/watch?v=A_ezs5BhOcM e Outlaw Angel si spinge ancora più a Sud, verso il Texas di mastro SRV, con la quota rock del brano che si fa decisamente più pressante nel reparto solistico, perché la giovane suona di fino ma anche di potenza all’occorrenza.

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Shiver And Sign conferma la solidità dell’impianto sonoro di questo disco, semplice ma ben rifinito nei suoni, con chitarra, soprattutto, voce e organo che si incastrano alla perfezione nei giri della sapiente sezione ritmica. La Joanne Shaw Taylor, soprattutto nel Live, oltre che per Stevie Ray Vaughan ha sempre espresso una certa affinità con l’Hendrix meno pirotecnico https://www.youtube.com/watch?v=7p9Z7Ol6WQI  e più “nero” ed essenziale di Fire, Crosstown Traffic o Manic Depression, e nei due brani conclusivi, Struck Down e Feels Like Home, con le dovute proporzioni, si estrinseca questo sound, al contempo stringato e ricco di tecnica, che è un po’ la caratteristica di tutto The Dirty Truth, a conferma del talento di questa giovane donzella, dall’ugola “vissuta” e dalla chitarra sfavillante, tra le migliori “nuove facce” (e non solo) del Blues contemporaneo https://www.youtube.com/watch?v=CuED_LU5u3w , ma anche “The UK Queen Of Rockin’ Blues”, come è stata definita.

Bruno Conti

La Chitarra E’ Il Suo “Amuleto” Portafortuna! Chris Duarte – Lucky 13

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Chris Duarte Group – Lucky 13 – Blues Bureau/Shrapnel Records

Ormai credo non occorra ribadire per l’ennesima volta chi sia Chris Duarte, e che genere faccia! Detto mille volte (più o meno) su queste pagine virtuali, due l’anno scorso: nel 2013 infatti Duarte ha pubblicato sia un disco nuovo in studio che un doppio Live http://discoclub.myblog.it/2013/09/13/nuovi-guitar-heroes-chris-duarte-group-live-5685960/ . Diciamolo ancora una volta: power guitar trio o se preferite Texas blues-rock. Con la sua immancabile Fender Stratocaster acquistata quando era un ragazzino il buon Chris cerca sempre di infiammare gli appassionati dei grandi chitarristi https://www.youtube.com/watch?v=BzNMlyxpD8Q  e anche se non ha mai tenuto fede completamente alle previsioni che lo volevano come l’erede designato di Stevie Ray Vaughan, sempre in quei dintorni musicali si è mosso, tra blues, rock and roll, piccoli tocchi di jazz, ma negli ultimi anni, grazie al sodalizio con Mike Varney, proprietario e factotum della Shrapnel records, co-produttore anche di questo album, si è spostato, di tanto in tanto, verso un suono più heavy, quasi confinante con il metal o con le “esagerazioni” della scuola Satriani-Vai-Van Halen. Quindi quello che bisogna capire di ogni album di Duarte non è tanto il genere (che è un derivato) quanto la qualità del disco in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=quzHYx2e7WQ .

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Questo Lucky 13 (sarà mica il suo tredicesimo album?) lo vede affiancato da una nuova, ennesima, sezione ritmica, John McKnight alla batteria e Kevin Vecchione al basso, e alle prese con quattordici brani che portano tutti la sua firma, quindi niente cover per l’occasione. Pertanto la domanda inevitabile è, un buon disco? A giudicare dalla partenza direi sicuramente di sì: You Know You’re Wrong è subito un poderoso rock-blues, a cavallo tra Hendrix e SRV, le due principali influenze di Chris, una solida ritmica, un cantato più convincente del solito e poi partono le evoluzioni della solista, tirate ma molto ben delineate anche a livello sonoro, insomma quello di meglio che ci si aspetta da questi tipi di dischi, tanta chitarra ma suonata con costrutto, la tecnica non è certo quella che fa difetto a questo signore, magari ogni tanto le idee diventano confuse. Questa volta pare che ci siamo, è uno dei dischi “giusti”, Angry Man è puro Texas blues-rock con la chitarra e la sezione ritmica che ci danno dentro di gusto, persino con le dovute sfumature R&R presenti negli episodi migliori della sua discografia, anche Crazy For Your Love è uno di quegli “strascicati” blues texani che erano tra le perle dell’opera di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=IJDw183eJEg , con Duarte che va a pescare anche un cantato alla Joe Walsh, o questa è l’impressione di chi scrive, mentre Who Loves You, con la ritmica che swinga di brutto, ha addirittura una patina sonora vecchio stile. Ottima anche Here I Come, sempre eccellente blues-rock old fashioned, ma ad alta gradazione chitarristica.

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Addirittura la lunga Let It Go è il classico slow blues tiratissimo che non può mancare in questo tipo di dischi, un brano di quelli da “faccine”, avete presente quando i solisti vanno a pescare fino in fondo alle loro budella l’ispirazione e la tensione per rilasciare degli assolo di devastante intensità e quindi il viso del chitarrista si contorce in espressioni facciali che fanno temere episodi fisici irreversibili, e questo mi pare il caso, anche se non posso verificare. E fin qui tutto bene, anzi benone, quasi 35 minuti di ottima musica, pure Man Up non è male, un rockettino di quelli leggeri ma piacevoli, proprio alla Joe Walsh vecchia maniera. Ma poi il tamarro che è in Duarte (e probabilmente in Varney) esplode, voci distorte e filtrate, chitarre esagerate, ritmica fracassona, per una Not Chasing It dove l’idea di un Hendrix futurista si scontra con la pochezza di idee, ma sempre meglio di Weak Wheels che sembra Jimi fatto, dai Red Hot Chili Peppers, non benissimo https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc. Ain’t Gonna Hurt No More, per fortuna ci riporta al classico, confortevole rock-blues, molto derivativo, va bene, ma almeno suonato con passione e perizia, anche se non si tratta di un brano memorabile, lavoro della solista alla parte https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc . Poi c’è una mini-suite Meus Via Vita Suite divisa in tre parti: una sognante e leggermente psichedelica Let’s Go For A Ride, dal suono molto West-coastiano, Minefield Of My Mine, che vira verso l’Hendrix più sperimentale, una cavalcata strumentale ricca di invenzioni chitarristiche e infine Setting Sun, dove l’organo di Art Groom, accentua la vena acida di questo lungo brano, che peraltro è tra le cose migliori mai trovate nella discografia di Duarte, che ci lascia per concludere, con un altro strumentale, Jump The Trane, un boogie rock’n’roll che ci permette di sperimentare nuovamente la grande tecnica di questo virtuoso dello chitarra elettrica. Quindi questa volta molte più luci che ombre, a parte quella sbandata nella parte centrale, uno dei dischi migliori della sua discografia.

Bruno Conti

Meglio “Solo” Che Accompagnato, O Anche Non Un Vero Texano Ma… Mike Zito And The Wheel – Songs From The Road

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Mike Zito And The Wheel – Songs From The Road – CD+DVD Ruf Records

Questa volta telecamere e tecnici della Ruf (o chi per loro), sono in trasferta in Texas, al Dosey Doe In The Woodlands, nei sobborghi di Houston. A differenza di altri titoli recensiti della serie, parliamo del DVD (visto che i contenuti sono più interessanti, e diversi, nel supporto video). La confezione si vende sempre insieme, il CD ha undici brani, il DVD tredici: però il DVD ha sei brani non presenti nel disco audio (più un lungo contenuto extra), che a sua volta ha tre canzoni non inserite nel DVD. Non facevano prima a farli uguali, dato che sono uniti? Sì, ma SSQCD (sono strane queste case discografiche, ci devono essere dei pensatori non indifferenti alle spalle di queste mosse)! Quello che conta è che il contenuto è tra i migliori in assoluto di questa serie Songs From The Road. Mike Zito, oltre ad essere uno dei Royal Southern Brotherhood, ha anche una avviata carriera solista, con i suoi The Wheel, e l’ultimo album, Gone To Texas , ma anche i precedenti non sono male, è stato segnalato da chi scrive tra le cose migliori in ambito rock-blues-roots-soul-southern, c’è un po’ di tutto nella sua musica e io ve lo ricordo http://discoclub.myblog.it/2013/06/15/girovagando-per-il-sud-degli-states-mike-zito-gone-to-texas/ .

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Anzi, vi dirò di più, lo preferisco in questa versione rispetto ai RSB. Ma torniamo sul palco, Zito è accolto come uno di casa (anche se in effetti è un texano oriundo di St. Louis, Missouri) sull’accogliente palco del piccolo locale caratteristico Dosey Doe, il pubblico è caldo e affettuoso e Mike li ripaga con una grande prestazione: Don’t Break A Leg, posta in apertura, sembra un incrocio tra James Brown e l’Average White Band, un funky-rock che, grazie anche alla presenza di Jimmy Carpenter al sax, scalda i presenti. Greyhound è subito un grande brano di stampo southern, ma con un riff stonesiano, venature soul e con Mike Zito bollente alla slide. I Never Kwew A Hurricane, scritta con il “socio” Cyril Neville, è un’ottima ballata deep soul che mette in evidenza la bella voce roca del nostro, nonché l’ottimo lavoro del sax di Carpenter, che è il solista del brano, e ottima spalla di Zito in tutto il concerto. Hell On Me è il primo Texas rock-blues, con chitarra, organo (Lewis Stephens, a occhio un veterano di mille battaglie) e sax a spalleggiare Mike, che inizia a pigiare sul pedale del wah-wah con mucho gusto. Notevole anche Pearl River, nuovamente firmata con Neville, uno slow blues di grande intensità, con Zito ispirato sia nella parte vocale come in quella solistica, con un assolo da sentire, per tecnica e feeling.

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Dirty Blonde è sempre Texas blues, ma innervato anche da una dose di R&R, grazie alla presenza del sax e con Stephens che ci regala un bel intervento quasi barrelhouse al piano, prima di lasciare spazio alla solita chitarra malandrina. One Step At A Time è una bellissima canzone scritta da Anders Osborne, con Zito che passa all’acustica e trasforma questa ballata mid-tempo con accenti quasi segeriani (nel senso di Bob). Ottimo anche Subtraction Blues, un funky-blues-rock alla Little Feat, con Stephens e Zito che fanno i Payne e i Lowell George (o Barrére, fate voi) della situazione, mentre Judgment Day, scritta con Gary Nicholson, è il momento Stevie Ray Vaughan della serata, un ennesimo Texas Blues, ma di quelli veramente “cattivi”, sempre sostenuto dall’ottimo lavoro di raccordo del sax, la solista ci regala un assolo, diviso in due parti, teso e lancinante, rilanciato da un finale che termina in un’orgia di wah-wah. Gone To Texas è la canzone più bella di Mike Zito, praticamente la storia della sua vita verso la redenzione, un southern rock d’autore, cantato a voce spiegata, melodia ben delineata e la parte strumentale che ricorda la Marshall Tucker Band per quella interazione sax/chitarra (eh, Toy Caldwell, bei tempi).

Let Your Light Shine On Me, solo voce e chitarra acustica, è l’occasione per un simpatico siparietto, con la piccola figlia di Zito che sale sul palco ad “aiutare” il babbo, che poi, per il finale del concerto, passa a una bellissima Gibson Flying V azzurra, quella a freccia per intenderci, infila il bottleneck e anche un blues di quelli duri e puri, Natural Born Lover, torrenziale e travolgente, con la slide che vola scatenata sul manico della chitarra. L’ultimo brano, Texas Flyer, è un altro funky blues molto coinvolgente, con tutto il gruppo in spolvero. Negli extra del DVD, c’è una sezione chiamata Storyteller Videos (sulla falsariga della trasmissione di VH1) dove Zito racconta la genesi di tre suoi brani e li esegue in acustico: Tornando al CD, troviamo ancora una bella cover di Little Red Corvette di Prince, quasi springsteeniana, una “libidinosa” Rainbow Bridge, che ricorda ancora il miglior Seger e C’mon Baby, altra lunga ballatona struggente. Gli americani dicono “Value For Money”, non posso che ribadire, gran bella musica. La recensione è finita, ma me lo sparo un’altra volta e confermo, meglio “solo” (ossia senza RSO), che “male” accompagnato!

Bruno Conti   

Un Altro “Epigono”! Già, Ma Di Chi? Magic Red & The Voodoo Tribe – The First Temptation

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Magic Red & The Voodoo Tribe – The First Temptation – Mystery Media Inc.

Periodicamente mi capitano tra le mani dei CD della serie “missione impossibile”. Prendiamo questi Magic Red & The Voodoo Tribe, chi sono costoro (o costui) e da dove sbucano? Voi direte, semplice, smanetti un po’ in rete e trovi tutto quello che ti interessa! Giusto! Però, tanto per cominciare, nella biografia sul suo sito, non appaiono nome, luogo di nascita, attuale residenza (parrebbe New York, da altre fonti): in compenso, assolutamente “disinteressati”, troviamo i soliti giudizi magniloquenti. E per cominciare ad inquadrare il personaggio leggi, “Il più grande chitarrista che abbia mai visto dai tempi di Stevie Ray Vaughan” Steve Kennedy, Vice Presidente Vendite Sony Music, “Il più grande chitarrista sconosciuto del mondo” Tim Brack, del management di Kid Rock (?!?), e così via, con molti che lo presentano, di volta in volta, come un incrocio tra Stevie Ray Vaughan (che è ricorrente), Van Halen, Hendrix e Satriani. Segovia no, strano! Quando vedo questi giudizi mi insospettisco subito. Possibile che se è così bravo non si sia mai sentito nominare? Prima di addentrarci ulteriormente, posso comunque confermare che effettivamente bravo è bravo https://www.youtube.com/watch?v=9z7TG8kiqNo#t=13 .

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Se dovessi paragonarlo a qualche recente “scoperta” penserei a BB Chung & The Buddaheads, ovvero Alan Mirikitani, un altro che miscela, blues, rock classico, Hendrix e virtuosismo alla chitarra in un cocktail affascinante http://discoclub.myblog.it/tag/bb-chung-king/ , con una discografia cospicua. E’ apparso dal nulla? Ovvio che no, in effetti questo The First Temptation è il primo disco di Magic Red con i Voodoo Tribe, risale al lontano 1999, nel frattempo ne ha pubblicati altri cinque, un altro con il gruppo, Fire and Soul , tre completamente strumentali, di cui uno, Station Identification, abbastanza recente, che contiene una trentina di brani sui due minuti ciascuno, per ipotetici spot pubblicitari o musica da film (che dovrebbe essere la sua attività, l’unica cosa certa, oltre al fatto che il soprannome gli deriva dal colore dei capelli), ovviamente ho dato una ascoltata veloce a tutta la discografia trovando anche tre ulteriori CD antologici, divisi per genere: le ballate, i pezzi rock, il blues. Il tutto è stato ristampato (o più semplicemente rimesso in circolazione) in tempi recenti, dalla sua etichetta, la Mystery Media, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=tCHQoxv4FW8 .

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Manco a farlo apposta, il migliore, come spesso succede, è proprio il primo, l’album di cui parliamo, quello che meglio fonde la sua passione per il rock più tirato, il blues, gli strumentali virtuosistici, con il supporto di un’ottima band e di un cantante, un certo Patrick Vining, con una voce ruvida e potente, che potrebbe ricordare vagamente il Chris Farlowe dei tempi che furono. Quindi gli appassionati della chitarra elettrica più o meno sanno cosa aspettarsi: violente scariche di energia chitarristica, tra Hendrix, Vaughan o l’hard rock del Bonamassa più tirato, come nell’iniziale riffatissimo strumentale Sister Harrys Booogie, dove Magic Red comincia ad arrampicarsi sul manico della sua solista per estrarne dalle corde una serie di improvvisazioni ricche di inequivocabile virtuosismo. Ancora rock-blues ad altra gradazione per una grintosa Low Rent Blues, dove la voce dell’ottimo Vining si divide il proscenio del brano con la chitarra di Red, sempre onnipresente, in quelle sue scale che uniscono le “esagerazioni” di un Vai, un Van Halen, un Satriani, tutti debitamente ringraziati nelle note del CD, con il sound più classico di Albert Collins, BB King o Clapton, anche loro citati nei ringraziamenti del libretto.

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Lo slow blues Don’t Mean Nothing appartiene più a questa seconda fazione, con le fluentissime divagazioni della solista che si avvicinano di più agli stilemi del genere, sempre con un occhio anche su SRV, comunque un bel sentire in entrambi i casi https://www.youtube.com/watch?v=09h7BhTKvXs , e Vining si difende alla grande. Tried To Keep You Satisfied vira quasi sul R&R misto a blues, mentre l’esagerata The Devil Lives In My Amplifier, di nuovo strumentale, ha decisi contorni quasi metal, sia pure di quello buono. Love Me Tonight rende omaggio al suono hard rock anni ’70, tornato molto di moda in tempi recenti, con Magic Red impegnato alla slide e Vining sempre in ottima forma (nome da ricordare) https://www.youtube.com/watch?v=_pCeIYrx3g8 . On And On è una delle più hendrixiane del lotto (o alla Trower se preferite, uno dei suoi migliori epigoni), con Bad Attitude che si spinge sui lidi del southern boogie-rock texano https://www.youtube.com/watch?v=JdqnVOpDlCY , ancora rock-blues per Guitar Man e Looking Down On The World, un altro strumentale “esagerato” come For You Michael, prima di concludere con la breve Those before me, solo Magic Red e la sua chitarra, in questo caso tra blues e jazz.

Bruno Conti

Ebbene Sì, Eccolo Di Nuovo! Anteprima Joe Bonamassa – Different Shades Of Blue

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Joe Bonamassa – Different Shades Of Blue – Mascot/Provogue 23-09-2014

Un altro!?! Già immagino che questa sarà stata la prima reazione a caldo di molti di voi all’annuncio di questo nuovo, ennesimo, disco di Joe Bonamassa. E’ stata anche la mia. Poi ragionandoci sopra a mente fredda, uno fa due calcoli: in effetti l’ultimo album di studio, Driving Towards The Daylight, è uscito nel maggio del 2012. Oddio, è vero che nel frattempo sono usciti due album in collaborazione con Beth Hart, uno in studio e uno doppio dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/ , il Beacon Theatre – Live From New York https://www.youtube.com/watch?v=duBkUREYP-o , il terzo e ultimo capitolo con i Black Country Communion, Afterglow, considerato cosa vecchia, ma uscito “solo” nell’ottobre, sempre del 2012. Le due collaborazioni con i Rock Candy Funk Party, compreso l’eccellente Live At Iridium http://discoclub.myblog.it/2014/04/08/supergruppo-famosi-tranne-mr-bonamassa-rock-candy-funk-party-takes-new-york-live-at-the-iridium/ . Vogliamo aggiungere i quattro capitoli concertistici della serie Tour De Force, preceduti dal fantastico An Acoustic Evening At The Vienna Opera House.

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Bisogna ammettere che non sono pochi, medie che non si vedevano dai tempi aurei del rock, quelli a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 quando la prolificità non dico fosse considerata un punto di merito, ma non era neppure merce così rara. Come recita il comunicato stampa che annuncia l’uscita di Different Shades Of Blue, prevista per il 23 settembre, stiamo parlando del primo album di materiale originale di Joe Bonamassa da due anni a questa parte, scritto tutto a Nashville, nell’arco del 2013, anno in cui si era astenuto dal pubblicare nuovi dischi di studio, una rarità, aggiunge l’estensore di quelle note, nella frenetica attività del nostro. Brani scritti  anche con Jonathan Cain, James House e Jerry Flowers, oltre al suo collaboratore abituale, il produttore Kevin Shirley, che ancora una volta siede dietro la consolle. Non saprei dirvi quali e con chi, perché nelle informazioni che ho al momento non è riportato. Posso aggiungere che il disco, nelle intenzioni di Bonamassa, è una sorta di ritorno alle matrici blues della sua musica, ma cercando al contempo di aggiungere al lavoro un lato maggiormente “sperimentale” rispetto ai progetti precedenti https://www.youtube.com/watch?v=Ev0oreq0LIo .

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Il disco, concepito a Nashville, è stato poi registrato in quel di Las Vegas, allo Studio At The Palms, con la consueta abbondante pattuglia di collaboratori: non c’è più Arlan Schierbaum alle tastiere, sostituito dal “mitico” Reese Wynans, coronando il sogno di Joe di suonare con un componente dei Double Trouble di uno dei suoi miti di gioventù, Stevie Ray Vaughan. Solita sezione ritmica con Anton Fig alla batteria e Carmine Rojas al basso, che viene affiancato da Michael Rhodes, che lo suona in alcuni brani. La novità sostanziale è la piccola sezione di fiati, retaggio delle collaborazioni con Beth Hart, che aumenta ulteriormente la quota blues & soul, Lee Thornburg, a tromba e trombone e Ron Dziubla ai sassofoni, oltre all’immancabile Lenny Castro alle percussioni, i backing vocalists, Doug Henthorn e Michelle Williams e una sezione archi, la Bovaland Orchestra, usata con parsimonia, a occhio, anzi a orecchio, direi in un brano. In totale undici  brani, di cui uno, è un breve frammento strumentale di un minuto e venti https://www.youtube.com/watch?v=ctMIr_bNb80 .

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Vediamoli. Hey Baby (New Rising Sun), il brano appena citato, suona (e lo è) come un breve omaggio a Jimi Hendrix, un altro degli eroi del pantheon musicale del nostro. Oh Beautiful! Solo voce, con molto eco, poi parte un riff, direi circa Led Zeppelin II, un pezzo rock con l’organo di Reese Wynans che incombe sulla chitarra di Bonamassa che oscilla tra Kashmir e derive simil psichedeliche, prima di esplodere in uno dei suoi classici assoli, un misto di classe e di potenza (credo che ormai siamo tutti d’accordo che il buon Joe non sia solo un volgare picchiatore, ma uno dei migliori chitarristi dell’attuale epoca della musica rock). E qui lo dimostra, Page rimasterizza i suoi vecchi dischi, Bonamassa “rimasterizza” il passato. Love Ain’t A Love Song ricorda le collaborazioni con Beth Hart, che hanno riportato a galla il mai sopito amore di Joe per il blues e il soul, e in genere con quei tipi di musica che prevedono l’uso dei fiati, Thornburg e Dziubla, ben spalleggiati da Henthorn e Williams, rispolverano questo stile funky-blues non solo nei classici del passato, ma pure in queste nuove composizioni “ispirate” a queste coordinate. La produzione di Shirley porta tutto alla luce con un nitore sonoro che ci permette di apprezzare anche le evoluzioni sonore della solista. Living On The Moon è il primo blues puro, fiatistico, ma con un drive boogie shuffle che si apre alle continue invenzioni della solista, sempre in grande spolvero, ma utilizzata con gusto e misura. Heartache Follow Wherever I Go è una ulteriore variazione su questo canovaccio Blues fiatistico, un pezzo cadenzato, con le percussioni di Lenny Castro che aggiungono un piccolo tocco di esotismo, mentre l’organo di Wynans è sempre ben presente, fino a un ricchissimo assolo di Bonamassa, prima con il wah-wah, poi esplorando quasi con libidine trattenuta il manico della sua chitarra https://www.youtube.com/watch?v=n9V8f9fRuIw .

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Never Give All Your Heart torna alle tessiture rock più classiche del musicista newyorkese, piano acustico e chitarra lancinante a cavalcare un brano che ondeggia tra momenti riflessivi e atmosfere più rarefatte, fino all’ingresso dell’organo di Wynans e da lì va nella stratosfera del rock, con un assolo di quelli che sprizzano potenza pura e reiterata. Torna il blues, in una versione ancora più canonica, con uno shuffle ad altra gradazione fiatistica. I Gave Everything for you (‘Cept The Blues), con la solista a duettare con il piano su sonorità care ai maestri del passato. La title track, nonché singolo portante del disco, Different shades of blue, è una di quelle hard ballads malinconiche e melodiche che sono nelle corde del Bonamassa più mainstream, chitarre acustiche ed elettriche che si intrecciano con naturalezza, in un brano che piace fin dal primo ascolto, glorificato dal “solito” fluentissimo” e conciso assolo nel finale https://www.youtube.com/watch?v=Z3_GOk36JD0 . Get Back My Tomorrow è uno dei brani che cerca di sperimentare con diverse soluzioni sonore, tra strumenti elettrici ed acustici che cercano di allontanare il mood dalle classiche 12 battute, ma è anche uno di quelli che al momento mi convince meno. Trouble Town, viceversa, è un super funky fiatistico che tiene conto anche delle recenti avventure collaterali con i Rock Candy Funk Party, meno jazz e più sanguigno blues, con una bella slide. Conclude So What Would I Do, un bellissimo lento che non poteva mancare in un disco di Joe Bonamassa che si rispetti, Reese Wynans a piano ed organo, tira la volata al suo titolare che ben si comporta con una interpretazione vocale che ha quasi dei richiami allo stile di Ray Charles, anche nell’uso degli archi, nobilitata da un misurato assolo, più di finezza che di forza, a conferma della bravura di questo signore https://www.youtube.com/watch?v=BEQUo_QHqSQ . Non ancora un capolavoro ma un ennesimo lavoro solido e convincente. Esce il 23 settembre, edizione con libretto Deluxe di 64 pagine, ma senza brani extra, ovviamente più costosa, negli Stati Uniti e poi in Europa uscirà anche la versione “normale” senza libretto, più risparmiosa!

Bruno Conti       

Rock, Blues E Soul, Una Miscela Perfetta! Seth Walker – Sky Still Blue

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Seth Walker – Sky Still Blue – Royal Potato Family

Quando ascolti un album come questo Sky Still Blue ti verrebbe da dire “non solo Blues”, ma poi riflettendo, in effetti è blues, o quantomeno una musica chiaramente influenzata dalle classiche 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=P9eZLvPNJaU . Anche se risulta mediata dalle esperienze musicali e di vita di Seth Walker, uno che in una carriera che ormai si estende su quasi due decadi e otto album (con questo) pubblicati, ha portato la sua musica dalla natia North Carolina al Texas, Austin, dove è vissuto per oltre dieci anni, poi a Nashville e infine a New Orleans, dove vive da un paio di anni e questo disco è stato registrato. Walker ha uno stile, sia vocale che chitarristico, molto laconico, mi verrebbe da dire una sorta di JJ Cale in trasferta in Louisiana, con questa resa sonora molto laidback, però ricca di nuances jazzate, à la Mosè Allison, se fosse stato un chitarrista, ma anche Charles Brown e Ray Charles, per volare alti e visto che siamo da quelle parti.

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La classe ovviamente non è quella ma Walker si difende alla grande, aggiungendo una quota funky della Crescent City, un pizzico di soul e gospel, grazie alla presenza delle McCrary Sisters, e, con l’aiuto di Oliver Wood, dei Wood Brothers, che produce, suona la seconda chitarra e si è portato il fratello Chris (Medeski, Martin & Wood) con il suo contrabbasso, oltre a una cinquina di canzoni, firma questo disco, molto raffinato e da centellinare negli ascolti, Sicuramente contribuiscono alla riuscita di questo bel dischetto anche Gary Nicholson, presente come autore in un paio di brani e che aveva prodotto il precedente Time Can’ t Change, oltre a partecipare anche a Leap Of Faith, entrambi gli album registrati in quel di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=e3VYeq2czK8 , e che meritano, se volete approfondire, la vostra attenzione. Delbert McClinton, che ha partecipato all’ultimo album citato, quello del 2009, è un fan e ne ha cantato le lodi, le riviste americane, di settore e non, giustamente lo portano in palmo di mano, e Seth Walker in questo disco fa di tutto per meritarsi tutti i complimenti ricevuti.

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Lo fa senza sforzo apparente, con un lavoro che mette a frutto tanti anni di carriera e dove confluiscono le influenze citate prima, a cui si aggiungono le sue passioni per T-Bone Walker e Stevie Ray Vaughan, due musicisti che stanno agli antipodi.  Walker non è un cantante formidabile, ma assai interessante, la chitarra viaggia sempre su traiettorie inconsuete, tra jazz, blues e certo blue-eyed soul dalle fragranze delicate, anche gli altri musicisti utilizzati sono perfetti nei loro compiti, dalla sua road band, Steve McKey, basso e Derrick Phillips alla batteria, oltre a Jano Ritz che nei Wood Brothers suona la batteria, ma qui si inventa tastierista deluxe, a organo, piano e piano elettrico. E poi le undici canzoni sono veramente belle: che siano lo swampy blues, molto New Orleans, della deliziosa Easy Come, Easy Go, con la voce di supporto di Brigitte De Meyer, il titillante pianino di Ritz e la chitarra insinuante e magica dello stesso Walker, oppure il blues sanguigno (che non manca nell’album e nella precedente produzione del nostro amico) della potente Trouble (Don’t Want No), che ci fa capire perché il primo brano nel repertorio di inizio carriera di Seth era Cold Shot di SRV https://www.youtube.com/watch?v=XlMoAZ7mczE .

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Nel disco troviamo anche lo slow blues, virato gospel, quasi una magica ballata, di Grab Ahold, con le armonie vocali delle sorelle McCrary e un breve inserto di scat voce-chitarra https://www.youtube.com/watch?v=ihLg49jPdkY . Per non parlare (ma invece parliamone, perché no?) di una Another Way, tra funky moderato, quasi blue-eyed soul, alla Steely Dan, con un bel pianino elettrico a duettare con la chitarra  e lo strano R&B “valzerato” (ma esiste?) e acustico di Tomorrow, sempre raffinatissimo. All That I’m Askin’ alza la quota funky, aggiunge la tromba di Ephraim Owens, mette in evidenza il contrabbasso di Wood e ci aiuta a tuffarci nei meandri di New Orleans, con un sound comunque decisamente jazzato.

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High Wire, che cita il titolo dell’album nel testo, è una ballata da after hours che scorre sulle note dell’organo e della voce più laidback che mai di Walker, che si cimenta anche in un breve solo all’acustica. Ancora una meravigliosa e vellutata ballata, For A Moment There,  questa volta ricca di soul e con il contrappunto ancora delle bravissime McCrary Sisters, seguita dall’unica cover del disco, un Van McCoy di epoca pre-disco, Either Way I Lose, che diventa blues notturno, quasi minaccioso, con un notevole lavoro alla solista di Seth Walker. Chitarra ancora molto presente nel blues-gospel dell’intensa Jesus (Make My Bed), cantata benissimo e con grande partecipazione https://www.youtube.com/watch?v=YKG_-hnuo5w , come pure la dolcissima Way Too Far, che conclude in gloria questo piccolo gioiellino: veramente bravo!

Bruno Conti     

Giovanotti Di Belle Speranze! Matthew Curry And The Fury – Electric Religion

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Matthew Curry And The Fury – Electric Religion – matthewcurry.com

Ancora un altro giovane “fenomeno” della chitarra? Ebbene sì! Tradotto in soldoni, trattasi di un nuovo chitarrista (e cantante) che si affaccia sulle scene del rock e del blues. Per fortuna ce ne sono sempre di nuovi da scoprire: evidentemente anche in questi tempi duri per la “musica vera”,  tra una boy band e un talent show, quelli bravi cercano di coesistere con i “miti di plastica” e ritagliarsi un loro spazio attraverso il circuito dei concerti e il passaparola tra gli appassionati. Il giovanotto, Matthew Curry, cura anche il lato estetico, bella pettinatura, adatta ad un ragazzo di 19 anni (ma ne dimostra anche meno), però c’è anche parecchia sostanza in questo Electric Religion, che è già il suo secondo disco https://www.youtube.com/watch?v=WviBuAv7WKg . Presentato dalla stampa come un incrocio tra Joe Cocker e un giovane Jeff Beck, a chi scrive sembra piuttosto una via di mezzo tra il primo Johnny Lang, quello più genuino e ruspante e mister Stevie Ray Vaughan, via Jimi Hendrix (è un mancino), con qualche tocco southern blues. Accompagnato dalla sua band, The Fury, dove opera pure un bravo tastierista, tale Erik Nelson, Curry si scrive le canzoni insieme ai suoi soci, il bassista Jeff Paxton e il batterista Greg Neville, e pazienza se i brani ricordano molto cose già sentite, come si dice nessuno nasce “imparato”, quindi il rock classico e il blues sono, spesso anche con una patina radiofonica non fastidiosa ma che dà un tocco di contemporaneità, gli ingredienti base della ricetta di questo disco, poi ci pensano la bravura di Matthew alla solista, la sua bella voce e una notevole varietà e freschezza negli arrangiamenti e nella costruzione dei brani a farne un prodotto che vale la pena di ascoltare.

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Uno che se ne intende di queste contaminazioni tra rock classico, quello commerciale e il blues, come Steve Miller, lo ha voluto in qualità di opening act nel suo recente tour americano. Il disco di cui ci stiamo occupando è in effetti già uscito da qualche mese, ma circolando a fatica nei circuiti della musica indipendente pochi se ne sono accorti, per cui cerchiamo di dargli una piccola spintarella promozionale, visto che merita https://www.youtube.com/watch?v=KfhAtTeUExk . Il primo brano, Love Me Right, ricorda molto le sonorità del primo Johnny Lang, ma anche, se preferite, quelle di John Mayer, di Bonamassa, persino il Jeff Healey dei brani più orecchiabili, un richiamo ai Cream qui, un tocco radiofonico là, l’organo a creare un tappeto sonoro per le evoluzioni della solista, una bella voce, potente e trascinante e il gioco è fatto. Se poi Matthew Curry lascia spazio al rocker che alberga nel suo spirito, Set Me Free potrebbe essere Hey Joe come l’avrebbe fatta SRV se fosse vissuto ai giorni nostri, riff inconfondibile, solito organo, chitarra che comincia a tagliare l’aria e sezione ritmica che picchia con giudizio, niente di trascendentale ma del solido rock-blues di impronta texana.

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Introdotta dal piano di Nelson Six String Broken Heart è una bella ballata rock, sempre con la chitarra in evidenza e con la voce di Curry che dimostra una sorprendente maturità per la sua giovane età. In questa alternanza tra un rock più commerciale e il migliore blues-rock, Put One Over sembra una traccia perduta dei Double Trouble di Stevie Ray, grinta e classe a volontà, assolo di organo e poi quello di chitarra, la ricetta è proprio perfetta (scusate la rima). Hundred Dollar Feet costruita attorno ad un riff corposo di basso e batteria viene dalla scuola sudista degli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=PcObdUqxTvg , chitarra che oscilla tra wah-wah e slide, voce carica di “effetti” e poi l’assolo che esplode dalle casse dell’impianto, come si diceva un tempo, ma anche oggi, play loud! JMH, un titolo che potrebbe sembrare criptico, non lo è per l’enigmista e l’appassionato di musica che convivono nel sottoscritto: non sarà per caso J come James, M come Marshall e H come Hendrix, strano! Se poi il brano cita Fire, All Along The Watchtower, Voodoo Child  nel testo, e tanti altri piccoli passaggi che rimandano alla musica del più grande chitarrista della storia della musica rock, non ultimo l’assolo selvaggio che fuoriesce dalla chitarra di Curry, il gioco è fatto.

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Anche la successiva Genevieve è molto hendrixiana, mentre Bad Bad Day è il classico slow blues che non può mancare in un disco di un virtuoso della chitarra, ben sostenuto dal piano e dall’organo di Nelson il nostro Matthew dimostra che tutto quello di buono che si dice su di lui è assolutamente meritato https://www.youtube.com/watch?v=yWmU793w3gs . Ancora un fantastico composito di Jimi e Stevie Ray per una funky Down The Line che avrebbe fatto un figurone anche su Texas Flood https://www.youtube.com/watch?v=Mq_iW2x5sNw . La conclusione è affidata a Louanna, una ballata pop-rock radiofonica che forse c’entra poco con il resto ma è comunque assai piacevole. Ci siamo capiti?!

Bruno Conti

Nuovo Capitolo Della Serie “Bravo, Ma Basta?” Philip Sayce – Influence

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Philip Sayce – Influence – Mascot/Provogue/Edel

Philip Sayce è uno dei miei “clienti” abituali e ogni tanto mi ritrovo a parlare dei suoi dischi http://discoclub.myblog.it/2010/05/14/hard-rock-blues-dal-canada-philip-sayce-inner-revolution/, ma  non ho ancora capito bene che genere faccia esattamente. O meglio, l’ho capito ma non lo condivido in toto: facendo parte il nostro della categoria dei “guitar heroes”, il genere è un rock-blues assai energico che spesso sfocia in un heavy rock un po’ di maniera, il talento c’è, anche lo stile non difetta, ancorché influenzato (non per nulla il titolo del nuovo album è Influence) https://www.youtube.com/watch?v=3QCzJuduDf8  da mille diversi chitarristi, da Jimi Hendrix, il maestro assoluto a Stevie Ray Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=6lkRiAaWQxU , passando per Eric Clapton (che lo ha chiamato anche all’ultimo Crossroads Guitar Festival), Jeff Healey, con cui ha suonato in passato https://www.youtube.com/watch?v=EOeKcwr2YYE : entrambi canadesi, anche se Sayce in effetti è nato nel Galles.

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Nella sua musica c’è anche qualcosa del compagno di etichetta Joe Bonamassa, magari quello più tamarro e rocker dei primi album o dei Black Country Communion, purtroppo, di tanto in tanto, affiora anche un sound alla Lenny Kravitz o tipo la Melissa Etheridge meno ispirata, con la quale peraltro ha diviso, come lead guitarist, i palchi di tutto il mondo per quattro anni. Ho ascoltato il disco in streaming qualche tempo prima dell’uscita, che comunque avverrà questo martedì 26 agosto (il 2 settembre in Italia), e quindi non ho tutte le informazioni sull’album, però ad un ascolto rapido mi sembra buono, forse addirittura uno dei suoi migliori, con i soliti pregi e difetti dei dischi di Sayce. Come detto, nel calderone sonoro di Philip confluiscono mille influenze, sia nei brani originali quanto nelle cover, in questo album assai eclettiche https://www.youtube.com/watch?v=6qMuhy-Qqig .

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Si passa in un baleno dall’hard rock più tirato, a ballate melodiche ma sempre ricche nel reparto chitarristico, brani hendrixiani puri, omaggi ai Little Feat, a sorpresa una bella Sailin’ Shoes o Graham Nash, ancor più sorprendentemente con Better Days, una di quelle ballate classiche e senza tempo, che forse il tempo ha dimenticato, ma non il nostro amico che le rende giustizia con classe e buon gusto. Buon gusto che manca in molte delle orge di wah-wah a manetta, coretti idioti e cliché heavy, come in Easy On The Eyes o in Evil Woman, che non è né quella dei Black Sabbath né quella degli ELO, che sembrano entrambi dei brani di seconda mano del peggior Bon Jovi, con un figlioccio di Hendrix alla chitarra, bravo ma assai scontato. Altrove gli omaggi a Jimi riescono meglio, come nelle atmosfere futuristiche di Triumph, un brano strumentale che ha un giro di accordi che sembra un incrocio tra gli Who diTommy e l’opera omnia di Hendrix. O in Out Of My Mind, un omaggio al Jimi più frenetico di Fire e Crosstown Traffic,anche se ovviamente la classe e l’esecuzione non sono proprio le stesse, però la chitarra c’è e si sente.

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Nell’ambito Hendrix, leggasi quindi come orge di wah-wah, sorprende parzialmente una discreta versione di Green Power, un brano minore del repertorio di Little Richard, che francamente non conoscevo, anche se poi, con l’aiuto del produttore Dave Cobb, che inserisce dei coretti femminili decisamente irritanti, riescono quasi a rovinarla. L’iniziale Tom Devil non è male, sembra un brano dei Cream di Wheel’s On Fire, sempre con i dovuti distinguo e soprattutto per la parte musicale, mentre il lato vocale è quello dove Sayce deve ancora migliorare, e di molto. I’m Going Home è un’altra tiratissima versione del rock according to Philip, decisamente meglio Fade Into You, una lenta cavalcata elettroacustica tra i Pink Floyd e la psichedelia, uno dei territori sonori dove bisognerebbe insistere, chitarre tirate ma sognanti, un po’ Trower e un po’ Gilmour, quindi mille volte derivative, ma cionondimeno molto piacevoli. Tra i momenti positivi c’è anche una bella Blues Ain’t Nothing But A Good Woman, a cavallo tra Healey e Bonamassa, con un gagliardo assolo di Sayce, che anche in questo album. è uno dei motivi che salva il giudizio finale, almeno per gli amanti del genere, rock, sempre rock, fortissimamente rock (anche troppo) e quindi alla fine il solito, bravo, ma…solo per chitarrofili https://www.youtube.com/watch?v=X5kVmCZGSZ8  e https://www.youtube.com/watch?v=QaiGPUSyRS0? Comunque in giro c’è molto, ma moolto di peggio!

Bruno Conti

“Nativo Americano” Ma Pur Sempre Rock! Indigenous featuring Mato Nanji – Time Is Coming

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Indigenous featuring Mato Nanji – Time Is Coming – Blues Bureau/Shrapnel Records

La storia è nota, per cui non vi tedierò troppo, raccontandovela nei dettagli per l’ennesima volta, ma a grandi linee, è noto come Mato Nanji sia un nativo americano, “indigenous” se preferite, cresciuto in una riserva indiana, con un babbo patito per il rock e per il blues, Hendrix e Stevie Ray Vaughan in particolare, passione tramandata al figlio, che negli anni fonda gli Indigenous, la band, con fratelli e sorelle, che registrano una buona serie di album, con cadenza annuale agli inizi, tra il 1998 e il 2000, di un rock-blues poderoso intriso delle influenze citate, ma valido per il notevole virtuosismo del leader e deus ex machina del gruppo. Nel 2006 approdano alla Vanguard con Chasing The Sun e quello che doveva essere il primo scalino di una carriera importante causa l’implosione della band che si scioglie.

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Nanji che è il titolare del nome, dopo un paio di album solisti e una collaborazione con Luther Dickinson e Cesar Rosas (buona, ma non eccelsa, visti i nomi coinvolti), riprende a pubblicare come Indigenous featuring Nato Nanji (che sempre lui è), firma un contratto con l’etichetta di Mike Varney, altro noto patito di chitarristi, come il babbo e con questo Time Is Coming siamo nuovamente a tre album in tre anni.

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Se li conoscete e vi sono piaciuti i precedenti http://discoclub.myblog.it/2012/06/11/un-chitarrista-che-fa-l-indiano-indigenous-featuring-mato-na/  la formula è più o meno sempre quella: brani originali, testi firmati dalla moglie Leah Nanji, musica di Mato, con un consistente aiuto di Mike Varney (che produce anche), una cover “minore” come Good At Feelin’  Bad di Bruce McCabe (mi pare ai tempi nel giro della Lamont Cranston Band e recentemente con Jonny Lang) e, soprattutto tanta chitarra, una Stratocaster sempre con il volume a 10, pedale del wah-wah spesso innestato e canzoni che raramente durano meno di cinque minuti (escluso l’unicaa cover) ma molte volte li superano. Anche questo album non mancherà di accontentare chi ama il genere: la chitarra è fluida, anche la voce ha molti agganci con quella di Stevie Ray, atmosferica senza essere memorabile, con qualche reminiscenza AOR di qualità e derive southern (anche se vengono dal Sud Dakota, che nonostante il nome, è a nord degli States), come nell’iniziale Grey Skies, dove la solista di Nanji ben coadiuvata dalle tastiere di Jesse Bradman inizia a tessere le sue trame rock.

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I’m Telling You, con il suo organo prominente e il wah-wah già a manetta ricorda il classico hard rock primi anni ’70 di gente come Deep Purple o Uriah Heep che le tastiere le avevano spesso in evidenza. Good At Feelin’ Bad, citata poc’anzi, sempre rock-blues è, magari un poco più funky, ma siamo su quelle coordinate. Time Is Coming ha tutte le caratteristiche di una bella “hard ballad “sudista, tra chitarre acustiche ed elettriche, tastiere di supporto, una bella melodia ricorrente nel refrain, una piacevole oasi di “tranquillità” nei ritmi frenetici dell’album https://www.youtube.com/watch?v=RVkNZ_D2jkM . Sun Up, Sun Down dal suono denso e corposo, ha qualche tocco psichedelico  https://www.youtube.com/watch?v=Fw2fnoByLvk come pure Around The World, saranno le tastiere che conferiscono questa impronta molto seventies, forse un filo ripetitiva, ma c’è decisamente molto di peggio in giro.

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La chitarra distorta e minacciosa di Won’t Be Around ci potrebbe riportare al Robin Trower che cercava di rifare Hendrix ad inizio carriera (ma lo fa anche oggi), Nanji, altro epigono, è nel suo elemento, e negli oltre sette minuti “lavora” la chitarra con classe e veemenza https://www.youtube.com/watch?v=o-bQoFTdsoE . Anche la super riffatissima You’re What I’m Living For è l’occasione per il buon solismo del nostro amico, magari gli arrangiamenti non sono raffinatissimi e variati, ma gli appassionati del genere gradiranno, penso. Day By Day è una sorta di heavy slow blues, con una chitarra molto distorta e la voce leggermente “effettata”, So Far Gone ritmata e cattiva prende sia da Stevie Ray come da mastro Jimi, ma quei signori, come si sa, erano un’altra cosa. In Give Me A Reason si sente anche una chitarra acustica, ma è subito sommersa da elettrica e tastiere, Something’s Gotta Change, di nuovo molto vaughaniana e la lunghissima Don’t Know What To Do, uno slow torrenziale https://www.youtube.com/watch?v=dPbCgwbsHU0 , sono altre due occasioni per gustare il virtuosismo chitarristico di Mato Nanjii, che è poi il motivo, credo, per cui si comprano i suoi dischi, e in questo CD ce n’è tanto.

Bruno Conti

Tipa Tosta, Molto Rock E Poco Blues! Kelly Richey Band – Live At The Blue Wisp

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Kelly Richey Band – Live At The Blue Wisp – Sweet Lucy Records Records

“Bella e brava” direi che non si possa dire di questa artista originaria di Lexington, Kentucky, bruttina ma brava non mi permetterei (mi rendo conto che mi sto infilando in un cul de sac),  possiamo dire di questa epigona dichiarata di Stevie Ray Vaughan (e forse ancor più di Jimi) che la dimensione dal vivo è quella più consona a una cantante e chitarrista che ha fatto del blues-rock la sua ragione di vita, D’altronde sei album Live (compreso un DVD) su tredici totali e in venti anni di carriera, lo stanno a testimoniare. Con una nuova Kelly Richey Band che la vede accompagnata da due tipi tosti pure loro, sin dal nome, Freekbass, al basso ovviamente, e il batterista Big Bamn, il gruppo piomba sul Blue Wisp di Cincinnati per un set sulfureo di rock anni ’70 miscelato a Blues, non troppo per la verità, 12 brani, firmati dalla stessa Richey, che vengono un po’ da tutti gli album della sua discografia.

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Diciamo che le sottigliezze della tecnica chitarristica (che pure c’è) non sono il primo pensiero della nostra amica, è evidente subito, fin dall’iniziale e tirata Fast Drivin’ Mama, un chiaro manifesto di intenti, basso e batteria pompano di gusto, la voce è quella della rocker intemerata, lo stile lo abbiamo citato, chitarra dura e tirata e pedalare. I Went Down Easy avrebbero potuto farla tanti colleghi maschi negli anni gloriosi del rock-blues più cattivo, quasi hard, di quegli anni, la chitarra inizia ad urlare e strepitare, mentre la sezione ritmica, per il momento, è precisa e quasi trattenuta. One Way Ticket comincia ad aumentare i ritmi, siamo dalle parti di Beth Hart o Dana Fuchs, senza la classe vocale delle due rockers americane, però con una chitarra che si destreggia tra riff rocciosi e improvvise accelerazioni della solista sulle variazioni funky, soprattutto di Freekbass, che tiene fede al suo moniker https://www.youtube.com/watch?v=YXu7bFeRa7A . La cosa viene portata ai suoi eccessi massimi negli oltre dodici minuti di Sister’s Gotta Problem https://www.youtube.com/watch?v=vUcxMxYEaWI , che era la title-track del primo disco di studio, wah-wah innestato, basso poderoso, anche un po’ di DJ scratching per aumentare il “casino” (niente paura, se non amate, l’hip hop è lontano continenti interi), l’assolo di batteria immancabile nel tipo di musica (non so se proprio mi mancava), e poi quello di un basso molto “effettato”, fanno da apripista all’immancabile orgia chitarristica, anche se Jimi e Stevie Ray avevano ben altra consistenza, e peraltro il rito classico del rock si perpetua per l’ennesima volta https://www.youtube.com/watch?v=xZD96BKlY2Y .

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Workin’ Hard Woman sta sempre dalle parti degli hard-rock irriducibili, mentre Everybody Needs A Change, sempre con il basso funkyssimo solista in primo piano, prosegue sulle derive di Sister’s e alla lunga, devo dire, comincia a stancare. I dieci minuti di Is There Any Reason portano qualche variazione, i tempi si fanno più lenti e dilatati, si vira persino verso certa psichedelica acida, la chitarra si fa più sognante, per quanto sempre debordante, con accelerazioni improvvise in crescendo e basso e batteria che si dividono gli spazi con la solista della Richey, in questo lungo brano strumentale che una sua aura “hendrixiana” ce l’ha, insomma la “giovanotta” sa suonare. Leavin’ It All Behind è abbastanza scontata, il riff di Something’s Going On fa molto Foxy Lady (o era Purple Haze, o entrambe?) e Just A Thing pure, cose sentite quei due o tre milioni di volte, anche se la grinta non manca. Feelin’ Under, ancora con il volume della chitarra a undici, sta sempre da quelle parti e la conclusiva Risin’ Sun, tratta dall’album dello scorso anno Risin’ Sun,ci porta ad una ulteriore dozzina di minuti di grooves e riff https://www.youtube.com/watch?v=fthFcKiYeAs , melodie e idee poche, se le cercate in questo disco avete sbagliato posto, se cercate chitarre fumanti siete in quello giusto!

Bruno Conti