Un Live Che Non Fa Prigionieri! Anche Perché Ci Sono Già…. Mark Collie – Alive At Brushy Mountain State Penitentiary

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Mark Collie & His Reckless Companions – Alive At Brushy Mountain State Penitentiary – Wilbanks Entertainment CD

Spero che mi perdonerete la battutaccia del titolo, ma era difficile resistere… Non so quanti di voi si ricordano di Mark Collie, country singer-songwriter di Nashville abbastanza popolare negli anni novanta, autore di ben cinque album dal 1990 al 1995, con una bella serie di canzoni decisamente elettriche e poco inclini ai compromessi, tra honky-tonk, cover di pezzi rock, qualche ballata di buona fattura e soprattutto tanta energia e brani di sano country moderno. Le vendite non erano neanche male, ma all’improvviso, all’indomani di Tennessee Plates (1995), il silenzio, totale e lunghissimo, interrotto soltanto nel 2006 con la pubblicazione di Rose Covered Garden, un lungo periodo di inattività che non ha fatto certo bene alla sua carriera. Per fortuna le notizie più recenti lo darebbero (il condizionale è d’obbligo) in procinto di tornare nel giro, ma intanto l’appetito viene stuzzicato con la pubblicazione di questo live, il primo per lui, intitolato Alive At Brushy Mountain State Penitentiary, registrato nel 2001 nell’omonima prigione del Tennessee (che ha chiuso i battenti nel 2009), ma messo sul mercato soltanto oggi.

La registrazione di dischi dal vivo nelle prigioni è una vecchia pratica, non solo nel country: gli esempi più noti sono i leggendari album alla Folsom Prison e poi a San Quentin da parte di Johnny Cash, ma anche il disco inciso da B.B. King alla Cook County Jail; anche Mark, che nel 2001 era ancora relativamente popolare, ha pensato di allietare la dolorosa permanenza dei carcerati della prigione di Brushy Mountain, e per farlo si è presentato con una super band. Lo accompagna infatti in questa serata gente come David Grissom, grande chitarrista già al servizio di John Mellencamp e Joe Ely, il tastierista Mike Utley, da decenni nella Coral Reefer Band di Jimmy Buffett, il bassista Willie Weeks (Rolling Stones, Eric Clapton e molti altri), il chitarrista e violinista Shawn Camp (produttore e partner musicale del grande Guy Clark) ed il batterista Chad Cromwell (Neil Young, Mark Knopfler): un gruppo dal pedigree eccezionale, perfetto per accompagnare il nostro nelle sue scorribande elettriche e decisamente coinvolgenti, canzoni che in questa veste live si spostano ancora di più verso il rock; come ciliegina, abbiamo anche un paio di graditi ospiti, e cioè la brava Kelly Willis in tre pezzi e, alla chitarra e voce in Someday My Luck Will Change, il grande bluesman Clarence “Gatemouth” Brown, quattro anni prima della sua scomparsa.

Un gran bel disco di puro country-rock, vigoroso e vibrante, con un leader decisamente in palla ed un pubblico prevedibilmente caldo (anche perché non è che serate come questa fossero frequenti in quel luogo), che risponde spesso con ovazioni ai testi delle canzoni, scelte con cura tra originali e cover in modo da offrire quasi solo brani a tema per così dire carcerario (e quindi non ci sarebbe stata male una bella The Devil’s Right Hand di Steve Earle, uno che in galera c’era pure stato). Attacco potente con One More Second Chance, un rockin’ country (molto più rockin’ che country) ad alto tasso elettrico, gran ritmo e Grissom subito in prima fila a macinare note; I Could’ve Gone Right è una orecchiabile country song che parte lenta ma poi, quando entra la band, fa salire la temperatura, con un motivo diretto ed altro ottimo assolo chitarristico (ma anche Utley fa sentire le sue dita sulla tastiera), Maybe Mexico, che parla della nazione del titolo come possibile luogo di destinazione per un fuggitivo, è un country’n’roll tutto da godere, con il pubblico che si fa sentire al termine di ogni ritornello. Heaven Bound, di e con Kelly Willis, mette in primo piano la bella voce della bionda cantante, per una country song limpida e deliziosa, mentre Got A Feelin’ For Ya (scritta da Dan Penn con Chuck Prophet), ha un ritmo più cadenzato ed elementi quasi soul, con la voce della Willis che si adatta al brano con ottima duttilità.

La fluida On The Day I Die vede Mark tornare al centro del palco, ed è una rock ballad fatta e finita, di country ha poco, e rientra alla perfezione nella categoria di certe canzoni stradaiole di John Mellencamp, mentre la tonica Dead Man Runs Before He Walks ha un buon sapore di country blues elettroacustico sudista; la bella Rose Covered Garden, un folk tune cantautorale di grande presa (una delle migliori composizioni di Mark), precede un’intensa cover di Why Me Lord di Kris Kristofferson, ancora con l’aiuto di Kelly, un’ottima versione che piacerà di certo anche al vecchio Kris. La roccata e ficcante Do As I Say prelude all’arrivo di Clarence “Gatemouth” Brown, che con Someday My Luck Will Change sposta la serata su territori decisamente blues, uno slow notturno di gran classe per sei minuti decisamente caldi e sudati, con la chitarra del bluesman a farla da padrone (ma anche l’hammond di Utley non scherza); il concerto si avvia al termine, il tempo per una Folsom Prison Blues più roccata di quella di Johnny Cash (anche per via dell’assolo di Grissom), e per le conclusive Reckless Companions, altro scintillante country-rock, tra i migliori della serata, e Gospel Train, che come da titolo ci fa spostare di botto in una chiesa dell’Alabama, grazie soprattutto alle voci del Brushy Mountain Prison Choir, grandi protagoniste del brano.

Un gran bel live, ma adesso è tempo che Mark Collie torni del tutto con un disco nuovo al 100%.

Marco Verdi

Sempre Texani…Ma Molto Più Famosi! ZZ Top Tonite At Midnite: Live Greatest Hits From Around The World

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ZZ Top – Tonite At Midnite: Live Greatest Hits From Around The World – Suretone Records/Warner

Credo siate d’accordo con me nell’affermare che gli ZZ Top non facciano un disco in studio degno della loro fama da” illo tempore”: bisogna risalire agli anni ’70, e pure il disco solista di Billy Gibbons dello scorso anno, Perfectamundo, non ha fatto molto per ristabilire la loro reputazione. Però dal vivo il trio è ancora una poderosa macchina di boogie-rock texano, con ampie spruzzate di blues e per quanto la voce di Gibbons, mai fantastica, sia ormai ridotta al lumicino, con i loro riff ed il solismo di Billy, ben coadiuvato dalla potenza devastante di Frank Beard alla batteria e Dusty Hill al basso, i tre barbudos sono ancora capaci di scaldare arene e stadi in giro per il mondo. Per questo live hanno pensato all’escamotage del Greatest Hits, quindi i grandi successi pescati dal loro sterminato repertorio e da molte diverse date del tour mondiale: quindi diciamo che se ancora una volta non hanno pubblicato quel bel doppio dal vivo che ci si aspetta da loro (in fondo gli altri dischi Live usciti finora erano versioni in CD di concerti nati per il DVD, o nel caso del leggendario Fandango!, un misto studio/live), comunque questa loro ultima fatica può essere definita soddisfacente, se non definitiva.

La qualità del suono è peraltro ottima, forse un filo pompata e lavorata a tratti, sembra persino che a Gibbons sia tornata la voce e anche se in fondo non è vero che ci sono tutti i successi, ci accontentiamo: Got Me Under Pressure da Eliminator, Rough Boy da Afterburner e Pincushion da Antenna non sono forse primissime scelte. Ma in Rough Boy registrata dal vivo a Londra c’è la solista aggiunta di Jeff Beck, che regala il suo tocco di classe alle già notevoli evoluzioni di Gibbons, per un brano che stranamente per loro è una ballata, per quanto sempre duretta, anche se la tastiere, qui e altrove, ce le potevano risparmiare, e l’iniziale Got Me Under Pressure, registrata a New York, era pur sempre uno dei brani migliori di Eliminator il loro ultimo album degno di nota, va subito di boogie alla grande. Beer Drinkers & Hell Raisers viene dalla data di Las Vegas, e tiene fede al proprio titolo con una scarica di riff a destra e manca, come pure una micidiale Cheap Sunglasses estratta dal concerto di Parigi, dove Gibbons e soci ci danno dentro alla grande. Waitin’ For The Bus ,con tanto di armonica, ripresa dalla serata di Nashville è un ritorno alle loro radici blues (rock) e viene da Tres Hombres, forse il loro massimo capolavoro, come pure la successiva Jesus Left Chicago, e qui non si prendono prigionieri. Legs la potevano fare solo a San Paolo in Brasile, di nuovo Eliminator, mi sembra che la versione dal vivo, anche con gli inserti di synth che fecero rumore all’epoca, non sia malaccio, ma Sharp Dressed Man, Live from LA, è decisamente migliore, con il classico boogie del trio dispiegato a piena potenza.

Di Rough Boy si è detto, Pincushion, dal concerto di Berlino, a parte la potenza del basso di Hill, che pompa come un dannato, non è una delle mie prime scelte, subito redenta da quello che è uno dei quattro o cinque riff imprescindibili della storia del rock (pensate il vostro), La Grange, registrata nel loro home state, Dallas, Texas, grandissima versione, con Billy Gibbons in grande spolvero e anche I’m Bad I’m Nationwide, dalla serata di Vancouver, non scherza un c..zo, scusate il francesismo, rock-blues da manuale. Dal concerto di Roma viene estratta una Tube Snake Boogie costruita per fare muovere il pubblico a tempo di rock, mentre per Gimme All Your Lovin’, un altro dei classici, torniamo in Texas, questa volta a Houston, e il rito collettivo si rinnova a tempo di riff boogie e R&R. E Tush, un altro dei brani blues-rock indimenticabili la potevano fare solo a Chicago, altra versione energica con Billy Gibbons indemoniato alla slide. E infine, per incontrarsi in un territorio comune, una bella Sixteen Tons di nuovo con Jeff Beck, membro aggiunto onorario per l’occasione, in un brano dove sembra quasi di sentire i Led Zeppelin, o era il Jeff Beck Group l’inventore, se no il vecchio Jeff mi mangia vivo!?! Nonostante sia assemblato da diversi concerti e quindi c’è una fastidiosa pausa tra un brano e l’altro, gran bel disco, fosse stato un doppio sarebbe stato perfetto.

Bruno Conti

Due Notevoli Ristampe…Nel Segno Del Texas! Steve Earle – Guitar Town/Terry Allen – Lubbock (On Everything)

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Steve Earle – Guitar Town/30th Anniversary Edition – MCA/Universal 2CD

Terry Allen – Lubbock (On Everything) – Paradise Of Bachelors 2CD

Parliamo di due ristampe, ma non ristampe qualsiasi, in quanto nella fattispecie si tratta di due dischi a loro modo fondamentali, l’uno perché ha dato il via ad una carriera luminosa (e l’album in sé è considerato tra i più importanti nell’ambito della rinascita del country nella seconda metà degli anni ottanta), ed il secondo perché è semplicemente un capolavoro, il miglior lavoro di uno degli artisti di culto per eccellenza: entrambi i dischi, poi, hanno il Texas come elemento in comune.

Steve Earle, a dire il vero, è sempre stato un texano atipico, in quanto ha vissuto per anni a Nashville e da parecchio si è spostato a New York, ma la sua musica, almeno nei primi anni, risentiva non poco dell’influenza del Lone Star State. Penso che un disco come Guitar Town non abbia bisogno di presentazioni: considerato giustamente come uno degli album cardine del movimento new country breed (solitamente associato a Guitars, Cadillacs di Dwight Yoakam, uscito lo stesso anno), contiene una bella serie di classici di Steve, brani che hanno resistito nel tempo e che ancora oggi suonano freschi ed attuali, in più con una qualità di incisione decisamente professionale (è stato uno dei primi album country ad essere inciso in digitale), che questa nuova edizione ha ulteriormente migliorato. Non dimentichiamo che Steve aveva avuto molto tempo per preparare queste canzoni, dato che aveva iniziato a frequentare l’ambiente giovanissimo già negli anni settanta (era nel giro di Guy Clark e Townes Van Zandt), ma non era mai riuscito a pubblicare alcunché prima del 1986, complice anche una fama di ribelle e di persona dal carattere poco accomodante (con già tre matrimoni falliti alle spalle, mentre oggi siamo arrivati a sette), che da lì a qualche anno lo condurrà anche dietro le sbarre. Earle nel corso della sua carriera ha suonato di tutto, dal rock, al folk, alla mountain music, al blues, ma Guitar Town, così come Exit 0 uscito l’anno dopo, era ancora un disco country, anche se molto elettrico e con poche concessioni al suono di Nashville, merito anche dei Dukes, band che accompagnerà Steve praticamente durante tutta la carriera, pur con vari cambi di formazione (questa prima versione vede gente del calibro di Richard Benentt, in seguito collaboratore fisso di Mark Knopfler, Bucky Baxter, poi per anni in tour con Bob Dylan, Harry Stinson ed Emory Gordy Jr., che produce anche il disco).

Guitar Town andrà al numero uno in classifica, ma Steve a questo non importerà, dato che da lì a due anni darà alle stampe il suo capolavoro, Copperhead Road, pieno di sonorità rock non molto nashvilliane, con grande scorno dalla MCA che pensava di fare di lui una superstar. E’ sempre un grande piacere riascoltare comunque grandi canzoni (e futuri classici del genere) come la title track, Good Ol’ Boy (Gettin’ Tough) e Someday, scintillanti country-rock come Goodbye’s All We’ve Got Left e Fearless Heart, o country puro come la tersa Hillbilly Highway, chiaramente influenzata da Hank Williams, ma anche esempi dello Steve balladeer, con le lucide ed intense My Old Friend The Blues e Little Rock’n’Roller (ma Think It Over e Down The Raod non sono certo dei riempitivi): tutti brani che se conoscete un minimo il nostro non vi saranno certo ignoti. Il secondo CD di questa edizione per il trentennale ci propone un concerto inedito, registrato a Chicago a Ferragosto dello stesso anno, inciso benissimo, e con Steve e Dukes  in gran forma che suonano tutte le canzoni di Guitar Town, in veste molto più rock che su disco (che qua e là qualche arrangiamento più “cromato” ce l’aveva), oltre a sette pezzi in anteprima da Exit 0 (su dieci totali), tra cui segnalerei la springsteeniana Sweet Little 66, il country’n’roll The Week Of Living Dangerously e la trascinante San Antonio Girl, uno splendido tex-mex in puro stile Sir Douglas Quintet, ed in più la sua signature song The Devil’s Right Hand, due anni prima di Copperhead Road ed in versione molto più country (ma l’aveva già incisa Waylon Jennings, che Steve ringrazia prima di suonarla) ed una solida rilettura elettrica di State Trooper, proprio quella del Boss.

terry allen lubbock

Terry Allen è invece sempre stato legato a doppio filo al natio Texas, dal momento che le sue canzoni ne hanno sempre parlato in lungo e in largo, e questa può essere una delle ragioni per le quali all’interno dei confini texani è una vera e propria leggenda, ma al di fuori non ha mai sfondato. Però Terry se ne è sempre fregato, ha sempre fatto musica quando aveva la voglia e l’ispirazione (appena nove dischi in quarantun anni parlano chiaro), e non ha mai cambiato il suo stile diretto, ironico e pungente, a volte persino “perfido”, al punto che l’ho sempre visto, dato che è anche un ottimo pianista, come una sorta di Randy Newman texano, ma con una vena sarcastica spesso ancora più accentuata, quasi a livello di Warren Zevon (che quando voleva sapeva essere cattivo come pochi). Anche apprezzato pittore, Allen è considerato in maniera un po’ riduttiva un artista country, ma in realtà è un songwriter fatto e finito, capace di scrivere canzoni geniali e di usare il country come veicolo espressivo. Il suo esordio, Juarez (già un ottimo disco) è datato 1975, ma è con il doppio Lubbock (On Everything), uscito quattro anni dopo, che il nostro firma il suo capolavoro, un disco pieno di grandi canzoni, che non ha una sola nota fuori posto, suonato e cantato alla grande e che negli anni è sempre stato considerato un album di grande ispirazione da parte dei suoi colleghi, e ancora oggi è giudicato uno dei progenitori del movimento alternative country. Negli anni Lubbock ha beneficiato di diverse ristampe in CD, ma tutte, volendolo far stare su un solo dischetto, presentavano diverse parti accorciate, canzoni in ordine diverso e talvolta persino eliminate (High Horse Momma), così da snaturare l’opera originale. Oggi finalmente esce per la Paradise Of Bachelors (*NDB etichetta specializzata in artisti oscuri, ma spesso interessanti: Hiss Golden Messenger, Itasca, Nathan Bowles, Steve Gunn, ma anche Michael Chapman) questa bellissima ristampa in doppio CD digipak, ricco libretto pieno di note e commenti (anche di Allen stesso), un suono parecchio rinvigorito e, cosa più importante, per la prima volta dal vinile originale le canzoni conservano la loro lunghezza e sono messe nell’ordine corretto. Ed il disco si conferma splendido, con Terry accompagnato da una band da sogno (con Lloyd Maines come direttore musicale, polistrumentista e produttore, più Ponty Bone alla fisarmonica, Kenny Maines e Curtis McBride a basso e batteria, Richard Bowden al violino, oltre a Joe Ely all’armonica ed al suo chitarrista dell’epoca Jesse Taylor).

Con una serie di canzoni splendide, a partire dalla più famosa, la straordinaria New Dehli Freight Train che era già stata pubblicata due anni prima dai Little Feat nell’album Time Loves A Hero, qui in una versione potente e più country di quella del gruppo di Lowell George, ma pur sempre un grandissimo brano. Il pianoforte è centrale in tutte le canzoni, fin dall’apertura di Amarillo Highway, una country song strepitosa, cantata con forza e suonata in modo magnifico, con un ritornello memorabile, subito seguita dalla languida High Plains Jamboree, tutta incentrata su piano e steel, dallo scintillante honky-tonk The Great Joe Bob e dalla straordinaria The Wolfman Of Del Rio, solo voce, piano e chitarra, ma con un motivo splendido ed un feeling enorme. E ho nominato solo le prime quattro, ce ne sono ancora diciassette, ma il livello resta sempre altissimo, a tal punto che la parola capolavoro non è sprecata: mi limito a citare la squisita The Girl Who Danced Oklahoma, puro country come oggi non si fa quasi più, l’irresistibile Truckload Of Art (ma dove le trovava canzoni così?), le imperdibili Oui (A French Song) e Rendezvous USA, con testi da sbellicarsi e musica sublime, la bossa nova anni sessanta Cocktails For Three, la già citata High Horse Momma, un gustoso pastiche in puro stile dixieland, le caustiche FFA e Flatland Farmer, unite in medley e con uno strepitoso finale chitarristico, la geniale The Pink And Black Song, tra rock’n’roll e doo-wop, e la deliziosa The Thirty Years War Waltz, tra le più belle del disco e con Terry formidabile al piano.

Se non avete Lubbock (On Everything) è assolutamente arrivato il momento di correre ai ripari, se viceversa possedete anche una delle precedenti ristampe non è strettamente necessario l’acquisto di quest’ultima edizione, ma almeno andate a risentirvelo.

Marco Verdi

Nuovi Talenti Da Scoprire! Annika Chambers – Wild And Free

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Annika Chambers – Wild And Free – Oarfin Records

Per quanto si cerchi di tenerci sempre informati su eventuali nuovi talenti da “scoprire” (uno dei piaceri dell’appassionato della buona musica), ogni tanto sbucano fuori dal nulla dei nomi mai sentiti, soprattutto nell’immenso panorama della scena indipendente americana. In Texas in particolare ce ne sono moltissimi: l’ultimo arrivo, almeno per me, è Annika Chambers, giovane blues woman nera da Houston https://www.youtube.com/watch?v=WtKzcfz788M  (non a caso il gruppo che l’accompagnava nel primo CD del 2014, Making My Mark, era quello delle Houston All-Stars). Il termine giovane nell’ambito blues è sempre opinabile, visto che si esordisce spesso abbastanza avanti negli anni, ma a occhio, a giudicare dalla copertina, dovrebbe avere una trentina di anni (la biografia, essendo una signora, non lo dice): già una vita ricca di eventi, una passione giovanile per la musica, ma anche il desiderio di entrare nell’Esercito, dove ha passato 7 anni e mezzo prima di tornare al suo primo amore, il blues, che come sapete non lo richiede espressamente, ma se succede è meglio, narra di grandi e piccoli disastri, e in effetti la nostra amica qualche vicissitudine l’ha passata. Prima una lunga separazione dal padre, poi qualche guaio durante il periodo nell’esercito, che, proprio recentemente, l’ha portata a passare sei mesi in prigione per corruzione (una storia di mazzette quando aveva 23 anni) e anche problemi di dipendenza, ora pare risolti.

E quindi dopo il disco del 2014 che le aveva fatto vincere vari riconoscimenti come Talento Emergente, e la sparizione improvvisa per qualche mese, ora Annika Chambers è pronta a lanciare questo nuovo Wild And Free, dove con lei collaborano, sia come autori che come musicisti, alcuni ottimi talenti locali, a partire dal bassista e co-produttore Larry Fulcher, a lungo con Taj Mahal e nella Phantom Blues Band e Richard Cagle, l’altro produttore e ingegnere del suono, tra i nomi coinvolti i più noti sono il batterista Tony Braunagel e il tastierista David Delagarza, ma anche gli altri contribuiscono alla riuscita di questo solido album di blues elettrico, con qualche venatura funky e anche molto soul, siamo dalle parti di Shemekia Copeland, Joanna Connor, senza dimenticare grandi del passato come Koko Taylor, Tina Turner, Etta James o “sorelle bianche” come Beth Hart e Dana Fuchs. Lo stile è abbastanza grintoso e chitarristico, almeno nella parte iniziale dell’album, come evidenzia la poderosa apertura di Ragged And Dirty, anche basata sulla sua vicenda personale, le soliste e l’organo viaggiano, il basso pompa e la batteria è precisa e pulita, tutto al proprio posto come si conviene, la voce è duttile e vissuta, insomma il talento c’è. City In The Sky è un notevole mid-tempo corposo, dove si apprezzano anche gli ottimi interventi delle voci di supporto e una bella slide d’atmosfera.

Better Things To Do accelera di nuovo i tempi, il suono ha anche una decisa connotazione rock contemporanea, come pure Give Up Myself, sempre vivace e pulsante, mentre Six Nights And Day è un funky blues gagliardo che ricorda appunto le citate Copeland e Koko Taylor, con la voce che ha qualche lontana parentela con la grande Aretha Franklin, grazie all’arrangiamento gospel con tanto di call and response con i vocalist aggiunti. Put The Sugar To Bed è la prima ballata dell’album, un bel brano dagli evidenti spunti soul, sempre con la voce in evidenza, e anche Reality evidenzia il lato più riflessivo della musica della Chambers, con piano elettrico e organo a guidare le danze. Don’t Try And Stop The Rain è  ottimo deep soul di pura matrice sudista, con il basso sinuoso di Fulcher a dettare I tempi e la voce che è tutta da gustare anche in questa versione più morbida e meno grintosa. Why Me, di nuovo tra blues e soul, è più attendista e sospesa, ma si apre a piacevoli inserti ricchi di melodia, dove la voce scivola naturale per il puro piacere dell’ascoltatore. I Prefer You ricorda ancora la prima Aretha (quella dei vecchi tempi) o Etta James, sempre fatte le dovute proporzioni, con Piece By Piece, notturna, jazzy e raffinata, con il piano e una chitarra acustica a sottolineare il bel timbro vocale sfoggiato dalla brava Annika Chambers per l’occasione. Love God, posta in conclusione, è uno splendido gospel cantato a piena ugola da questa giovane cantante che si rivela come uno dei nomi da tenere d’occhio nel panorama della musica nera, ma anche in generale.

Gran voce.

Bruno Conti

Un Gradito Ritorno. Jack Ingram – Midnight Motel

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Jack Ingram – Midnight Motel – Rounder

Jack Ingram a partire dagli anni ’90 è stato uno tra i nostri preferiti (o almeno uno dei miei): ha registrato molti album, prima a livello locale, poi con il terzo Livin’ Or Dyin’, prodotto da Steve Earle, ha fatto quello che sembrava il grande passo verso il successo, ma come spesso succede in queste storie, l’etichetta che lo aveva scelto ha chiuso, praticamente pochi giorni dopo l’uscita del disco. Ingram ha comunque proseguito imperterrito a fare buona musica, pubblicando anche parecchi album dal vivo, ben cinque, oltre a uno in comproprietà con i fratelli Charlie e Bruce Robison (quest’ultimo ancora con lui nel nuovo disco). Poi, nel 2009, è sparito dalla circolazione. Anche se, come dice lui stesso nelle interviste che accompagnano l’uscita di questo nuovo Midnight Motel, ha continuato a fare musica, raccogliendo idee per il nuovo album, che poi ha finanziato attraverso Pledge Music. Negli anni sabbatici si è dedicato ad attività filantropiche e ha fatto il Dj per varie radio country in giro per gli States, poi quando è stato pronto ha firmato un contratto con la Rounder (una etichetta che è una certezza per gli amanti della buona musica, anche se purtroppo il CD non verrà distribuito in Europa) ha raccolto una pattuglia di ottimi musicisti, sotto la produzione di Jon Randall  (altro buon musicista texano di area country, autore di vari discreti album), e nelle cui fila troviamo Charlie Sexton e lo stesso Randall alle chitarre, Chad Cromwell alla batteria, Bukka Allen alle tastiere e l’appena citato Bruce Robison alle armonie nella canzone Can’t Get Any Better Than This.

Il tutto è stato registrato in presa diretta, con tutti i musicisti schierati in studio come fossero sul palco di una esibizione live, senza sovra incisioni e senza eventuali correzioni, anche per eventuali errori nei testi dei brani, addirittura è stato lasciato lo scambio di opinioni tra musicisti tra un brano e l’altro. Il risultato, ancora una volta, è un ottimo album, forse, come dice di lui stesso, non riuscirà a raggiungere i livelli di due dei suoi eroi musicali come Jerry Jeff Walker e Mick Jagger, ma a modo suo non rinuncerà a provarci. Un po’ la traiettoria che ha percorso un altro musicista simile a lui come Pat Green, con questo amore paritario per country e rock, una bella voce e delle canzoni che se non sono diventate dei classici poco ci manca: penso a Seeing Stars, uno splendido duetto con Patty Griffin, Barbie Doll, Airways Motel (quello dei motel è un tema ricorrente nelle sue canzoni), scritta con Todd Snider, che era sull’album prodotto da Steve Earle, e svariate altre. Proprio con Old Motel (eccolo lì) si apre anche il nuovo album, un bel pezzo rock dal motivo circolare, con tante chitarre, la batteria incalzante e la melodia che dopo qualche giro ti entra in testa, bella partenza. Dopo qualche chiacchiera in studio, in cui qualcuno suggerisce “dovremmo farci un video”, si passa a It’s Always Gonna Rain, una bella ballata in crescendo di impronta country, sulla falsariga di Townes van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker, quelli bravi insomma, che Ingram ammira veramente, non è solo mera piaggeria od imitazione, c’è anche sostanza e passione.

I Feel Like Drinking Tonight con dedica iniziale agli amici Hayes Carll, Bruce Robison, Charlie Robison, Jerry Jeff, Roy è un’altra piccola perla di cantautorato texano di quello doc, con steel guitar e un organo solitario che “piangono” sulle sfondo, mentre delle twangy guitars ci fanno godere in primo piano, insieme alla appassionata voce di Ingram. The Story Of Blaine, parlata, verte intorno ad un personaggio, credo legato a Merle Haggard e Buck Owens, e poi evolve nella successiva Blaine’s Ferris Wheel. Un brano che mi ha ricordato moltissimo alcune delle più belle canzoni discorsive di Jerry Jeff Walker, un primis Mr. Bojangles, che a tratti rievoca, comunque quella è un classico senza tempo, questa vedremo, però promette bene. Ma non c’è un pezzo brutto nel disco, molto buona anche la malinconica e struggente Nothing To Fix, come pure la dolce e delicata What’s A Boy To Do, sempre con questo suono seventies di grande impatto. E niente male, per usare un eufemismo, anche Trying,che rievoca certo country-rock di vaglia dei tempi che furono, e intrigante il bozzetto acustico di Champion Of The World, con una deliziosa slide acustica. Ritornano tempi più mossi, quasi alla Mellencamp del periodo heartland rock, per la grintosa I’m Drinking Through It . Ci avviamo alla conclusione, ma rimangono ancora un paio di brani, Can’t Get Any Better Than This, con la seconda voce di Bruce Robison, che mi ha ricordato il sound dei brani della Band, pura Americana music di classe cristallina e il valzerone country di All Over Again, di nuovo intenso e struggente. In coda al tutto c’una versione acustica di Old Motel, che conferma la bontà della canzone. Quindi  un bentornato di cuore al nostro amico Jack Ingram.

Bruno Conti

P.s In questi giorni  forse avrete notato che i Post arrivano un po’ a singhiozzo, ma ho dei problemi tecnici, non nel Blog, ma sul mio PC, spero in fase di risoluzione, quindi cerco di pubblicare ugualmente gli aggiornamenti e magari non escludo di aggiungere qualche puntata dedicata alle prossime uscite discografiche, sia imminenti, entro fine settembre, che a quelle che si succederanno in ottobre e novembre, oltre a quanto già postato in precedenza.

Chi Ha Detto Che, Volendo, In Texas Il Pop Non Si Suona Bene? Robert Ellis – Robert Ellis

robert ellis robert ellis

Robert Ellis – Robert Ellis -New West CD

Robert Ellis, texano di Houston, è un cantautore molto particolare. Intanto nella sua musica non ci sono molte tracce della sua terra d’origine, non fa tipico Texas country-rock: qua e là nel web la sua musica viene definita come un misto di country, pop e jazz, ma è un’etichetta che lascia il tempo che trova. Ellis è prima di tutto un cantautore puro, che parte dalla melodia per poi costruire man mano delle architetture sonore non banali attorno alle sue canzoni: il country non è estraneo al suo background, ma la sua musica è soprattutto pop, comunque un pop ben fatto ed ottimamente arrangiato, con brani di immediata fruibilità pur non essendo molto commerciali e, ripeto, degli arrangiamenti che a volte rimandano all’epoca d’oro della nostra musica, anche se non vedo influenze così chiare nel sound. Certo, Robert deve aver ascoltato a lungo i Beatles nella sua vita, ma anche i Beach Boys ed i primi Bee Gees, oltre a certe cose di Joe Jackson. Il jazz non l’ho trovato nelle undici canzoni di questo Robert Ellis (che, nonostante il titolo, non è il suo primo album, ne ha già altri tre alle spalle, l’ultimo dei quali, The Lights From The Chemical Plant, è del 2014), se non nella raffinatezza di fondo, e nella classe e gentilezza con le quali il nostro porge le sue canzoni https://www.youtube.com/watch?v=snJ_lTsMKlM .

Il disco è prodotto da Ellis stesso, e tra i musicisti spicca senz’altro la chitarra di Kelly Doyle, sempre puntuale senza essere mai invadente, la steel di Will Van Horn e la sezione ritmica di Geoffrey Muller (basso) e Michael Lisenbe (batteria), mentre Robert si occupa delle chitarre ritmiche e del pianoforte. Robert Ellis è un disco che inizialmente avevo approcciato con qualche riserva, ma, man mano che proseguivo nell’ascolto, mi ha convinto appieno, dimostrando che si può venire dal Texas e fare buona musica anche in maniera diversa. L’iniziale Perfect Strangers è tutto meno che country, bensì un pop decisamente raffinato, una canzone dalla melodia complessa ma orecchiabile, un ritmo che entra sottopelle ed un bel pianoforte: qui vedo qualche similitudine con lo stile di Jackson https://www.youtube.com/watch?v=NF69qkvxy7g . How I Love You è ancora più sofisticata, con un ritornello quasi epico ed un crescendo ritmico notevole, anche se Robert si mantiene piuttosto distaccato; California sembra un classico brano intimista dei Fleetwood Mac (a proposito di pop di classe), anche se sembra sempre sul punto di decollare ma poi resta sulle sue, mentre la soffusa Amanda Jane è cantautorato purissimo, raffinata, arrangiata molto bene e decisamente gradevole.

Drivin’ cambia un po’ le carte in tavola, in quanto è l’unico pezzo davvero country della raccolta, introdotto da un bel gioco di chitarre, ha un’atmosfera d’altri tempi ed è cantato con la solita misura https://www.youtube.com/watch?v=yN3p9VnvdCg ; suggestiva anche The High Road, una ballata dal sapore western, compreso un epico arrangiamento orchestrale quasi fosse uscita da un film degli anni cinquanta: è da canzoni come questa che si vede che il nostro ha numeri e creatività. Elephant, tutta basata sull’uso di una chitarra (doppiata da sé stessa) e da una percussione, è bizzarra ma godibile, e ricorda ancora certi esperimenti solisti di Lindsay Buckingham, mentre You’re Not The One, che vede anche la partecipazione di un quartetto d’archi, è pop al cubo, ma non posso dire che non sia interessante, anzi forse è dotata di uno dei motivi più immediati di tutto il CD. Screw è uno strumentale un po’ troppo cerebrale, e se ne poteva fare anche a meno, ma Couples Skate è semplicemente splendida, una pop song scintillante e trascinante, che ricorda i migliori Bee Gees (cioè quelli di dischi come Odessa), arrangiamento geniale ed ottima melodia, di sicuro il brano migliore del disco; chiude la pianistica e ritmata It’s Not Ok: Robert Ellis è la prova vivente che se sei del Texas, puoi fare anche del semplice pop ed i risultati sono comunque degni di nota.

Marco Verdi

Due Texani, Due Chitarre E Belle Canzoni! Randy Rogers & Wade Bowen – Watch This

randy rogers wade bowen watch this

Randy Rogers & Wade Bowen – Watch This – Lil’ Buddy Toons CD

Randy Rogers e Dave Bowen, countrymen texani dal pelo duro, ci hanno preso gusto e, dopo l’ottimo album in duo Hold My Beer dello scorso anno, sono andati in tour: un tour che ha avuto un buon successo, con sale da concerto e dance halls (texane e non) stipate all’inverosimile, e Watch This, registrato a Dallas e San Marcos, è la testimonianza di quelle serate. A dire il vero anche Hold My Beer inizialmente doveva essere un live, ma poi i due, provando i brani nello studio di Lloyd Maines, si sono divertiti a tal punto che, canzone dopo canzone, hanno costruito un disco che è stato votato tra i migliori album di country made in Texas dello scorso anno; se in quel disco Rogers e Bowen avevano una band alle spalle, la tournée che ne è seguita li vedeva sul palco in perfetta solitudine, solo due voci e due chitarre, e Watch This, a parte un intervento all’armonica da parte di Kyle Wieters in West Texas Rain, li vede esibirsi in questa configurazione.

Ebbene, se qualcuno può (legittimamente) pensare che 19 canzoni per quasi un’ora e venti di musica completamente acustica possano alla lunga stancare, voglio rassicurare chi legge che non è affatto così: i due sono showmen consumati, conoscono il loro pubblico alla perfezione e sanno che cosa dargli, hanno un affiatamento perfetto e, last but not least, possiedono entrambi un songbook di tutto rispetto. I 19 brani sono divisi a metà tra canzoni di uno e dell’altro, nove a testa (più un breve ed esilarante divertissement, Whataburger, durante il quale i due si divertono ad improvvisare dei condimenti per un hamburger): non ci sono cover, e neppure un brano tratto da Hold My Beer, ma solo alcuni episodi salienti tratti dalle due rispettive carriere. E, come già accennato, il duo funziona: la musica è Texas country al 100%, tipiche ballate arse dal sole nella miglior tradizione del Lone Star State, ed i due amici sono anche intrattenitori provetti, scherzano, si prendono in giro, intervengono uno nel brano dell’altro, si interrompono a vicenda (come nella finale Saturday Night di Bowen, dove Rogers ad un certo punto si ferma per ben due volte per raccontare due divertenti aneddoti inerenti alla canzone che stanno suonando, per poi ricominciare ad armonizzare come se niente fosse).

Ma, cazzeggio a parte, Watch This è soprattutto musica, eseguita sì just for fun (ed i due si divertono davvero), ma quando suonano e cantano lo fanno in maniera decisamente seria e professionale, anche se lo spirito rimane conviviale: canzoni che più texane non si può (Kiss Me In The Dark, Who I Am, Interstate, Fuzzy, l’opening track Tonight’s Not The Night), brani tra il serio e l’ironico (la trascinante Songs About Trucks di Bowen), oppure ballate nella più pura tradizione di autori come Townes Van Zandt e Guy Clark (West Texas Rain, bellissima); ma il disco va preso nel suo insieme, non c’è una sola canzone da buttare o che non valga la pena ascoltare e, credetemi, al quarto o quinto brano non vi accorgerete neppure più dell’assenza di una band. Due amici, due chitarre, un pubblico caldo e preparato, belle canzoni, humour e tanto feeling: questo (e anche di più) è Watch This.

Marco Verdi

Country-Gospel D’Altri Tempi! Wade Bowen – Then Sings My Soul

wade bowen then sings my soul

Wade Bowen – Then Sings My Soul: Songs From My Mother – Bowen Sounds CD

Wade Bowen da Waco, Texas, è uno dei più fulgidi esempi di country rocker appartenenti al cosiddetto movimento Red Dirt. Attivo dal 2002, ha prodotto circa una mezza dozzina di album, tutti di fattura più che buona: l’ultimo lavoro, pubblicato lo scorso anno, è stato l’ottimo Hold My Beer, Vol. 1, un perfetto sampler di puro Texas country inciso in coppia con Randy Rogers. Ma questo Then Sings My Soul: Songs For My Mother già dal titolo lascia presagire un qualcosa di diverso: infatti l’album è una collezione di brani della tradizione gospel (ma c’è anche qualcosa di più moderno), un sentito omaggio che Wade sente di dovere a sua madre, che ringrazia nelle note interne con una commossa dedica. Ed il disco, quaranta minuti circa di durata, è una delle cose più belle della discografia del nostro, il quale non affronta i brani presenti con piglio da texano, magari ri-arrangiandoli in chiave country-rock, ma rispetta il loro suono tradizionale e ci consegna un lavoro puro ed incontaminato, dove una bella serie di grandi canzoni brillano di nuova luce grazie all’interpretazione intensa del leader, il quale si circonda di pochi strumenti per dare maggior spazio alle melodie, e come ciliegina sulla torta usufruisce del supporto delle McCrary Sisters ai cori. Un lavoro fatto con passione, che originariamente era stato previsto solo per la vendita online ma, date le richieste, si è deciso di rendere disponibile su larga scala.

https://www.youtube.com/watch?v=qx8M5RoJvUQ

L’album si apre con uno dei classici assoluti del genere, cioè Amazing Grace, che viene proposta in maniera canonica, con un inizio lento per solo piano (ed organo sullo sfondo), Wade che intona con grande partecipazione la ben nota melodia, e la strumentazione che si arricchisce man mano che il brano prosegue (con un bell’assolo di slide, molto alla Cooder). I’ll Fly Away, un inno gospel tra i più conosciuti, è più spedita, ritmo sostenuto, un banjo in sottofondo, motivo cristallino ed orecchiabile ed arrangiamento da country song d’altri tempi; Softly And Tenderly, un pezzo composto addirittura nel 1880, è riproposta come una languida honky-tonk ballad, con l’organo a fornire l’elemento soul: già dalla resa di queste tre canzoni traspare l’amore con cui Bowen ha affrontato questo progetto. Splendida anche Just Over In The Gloryland, altro brano antico (lo hanno fatto anche Bill Monroe e gli Stanley Brothers), con un bel botta e risposta tra voce e coro, melodia tipicamente gospel ed accompagnamento decisamente sudista, un pezzo da godere nota per nota; In The Garden (Tennessee Ernie Ford, Elvis Presley, Willie Nelson e Johnny Cash fra gli altri) è ancora uno slow per voce e poco altro, ma tanta anima, mentre la celeberrima How Great Thou Art (ancora Elvis e Willie, passando per gli Statler Brothers e Dolly Parton) è arrangiata come una moderna country ballad, ma la purezza e la bellezza del brano restano intatti.

https://www.youtube.com/watch?v=ya–crRPkZc

Ed ecco un terzetto di standard famosissimi, che vantano decine di versioni: Farther Along, con un semplice arrangiamento bucolico che esalta la stupenda melodia, molto vicina a quella dei Byrds, un grande brano rifatto splendidamente, Peace In The Valley, lenta, languida, con chitarra acustica e piano a guidare il noto motivo reso celebre ancora da Elvis ma inciso anche da Cash e da Loretta Lynn, e Precious Memories (oltre ai soliti noti, anche J.J. Cale, Emmylou Harris e Bob Dylan), rifatta in maniera vivace e solare, anche se la strumentazione di base rimane acustica. Old Rugged Cross è ancora puro country-folk, ed è impreziosita da un bel controcanto femminile, e prelude ad una sorprendente rilettura di Saved, proprio la title-track del tanto criticato album del 1980 di Bob Dylan, con il nostro che non ne modifica per nulla il potente arrangiamento gospel-rock, riproponendola quasi in maniera calligrafica: non male ma a questo punto meglio l’originale, anche perché in quel periodo Dylan cantava alla grande.

Chiude il CD Take My Hand Precious Lord, ancora un pezzo dal grande pathos e proposto in maniera spoglia ma efficace: un piccolo grande disco, siamo sicuri che la mamma di Wade Bowen da lassù apprezzerà con convinzione.

Marco Verdi

Se Ne Aggiunge Un Altro Alla Lunga Lista. E’ Scomparso Anche Guy Clark, Uno Dei Grandi Della Country Music, Aveva 74 Anni

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Nel mese di marzo, scrivendo un post per commemorare la scomparsa di Steve Young http://discoclub.myblog.it/2016/03/20/se-ne-andato-silenziosamente-era-vissuto/, avevo ricordato un “piccolo film” Heartworn Highways, da cui aveva preso il via la vicenda di molti dei protagonisti della country music dell’altro lato di Nashville, quello dei grandi autori di musica, dei folksingers e anche di alcune future stelle (come John Hiatt, Steve Earle Rodney Crowell). Ma in quella casa di Nashville, in cui si svolge parte della narrazione del documentario, due dei protagonisti principali erano i padroni di casa, Susanna Guy Clark. Il secondo uno delle grandi iconi della country music texana, ma Made in Nashville, dove ha vissuto negli ultimi 40 anni. Clark era malato di tumore da tempo, e non si era mai ripreso del tutto dalla morte della moglie, avvenuta sempre per un cancro nel 2012, e alla quale aveva dedicato nel 2013 il suo quattordicesimo ultimo splendido lavoro My Favourite Picture Of You, vincitore del Grammy l’anno successivo come miglior album folk. Ma partiamo proprio da quel mitico documentario…

Dei musicisti presenti in quel film non ci sono più Townes Van Zandt, Steve Young, Larry Jon Wilson e ora anche Guy Clark, ma loro importanza riverbera ancora oggi in quella che viene chiamata roots music, “Americana”, o più semplicemente country music. Clark è stato un autore, all’inizio per Jeffy Jeff Walker che registrò due delle sue canzoni più belle L.A. Freeway, sulla sua sfortunata avventura californiana e Desperados Waiting for a Train, uno dei capolavori assoluti del genere, entrambe presenti nel suo disco d’esordio Old No. 1, che comprendeva anche She Ain’t Going Nowhere That Old Time Feeling. C’è gente che ammazzerebbe per averne una di quel livello in un album e lui ne aveva inserite quattro e anche le altre sei non erano male, per usare un eufemismo https://www.youtube.com/playlist?list=PL8a8cutYP7foNfzsRn8piq4-PfElph3Cy. Ma Guy aveva continuato a produrre ottimi dischi, Texas Cookin’ nel 1976, a completamento della accoppiata per la RCA, e poi l’omonimo Guy Clark, The South Coast Of Texas Better Days, a completare, nel 1983, il terzetto pubblicato per la Warner.

Poi, dopo una pausa di cinque anni, tornerà nel 1988 con Old Friends pubblicato con la Sugar Hill, la prima svolta “indipendente” della sua carriera. Ancora un paio di album con una major, la Asylum, negli anni ’90, poi il ritorno alla Sugar Hill e infine gli ultimi album pubblicati per la Dualtone, tra cui il citato My Favourite Picture Of You, voce leggermente “spezzata” dall’età, ma ancora ricca di fascino e canzoni sempre dai testi affascinanti e letterari https://www.youtube.com/watch?v=USAlhxdqnMg . A Guy Clark è stato dedicato anche uno dei più bei tributi di sempre, sotto la forma del doppio This One’s For Him, di cui leggete qui http://discoclub.myblog.it/2011/12/16/u/. Il grande cantautore texano ha collaborato anche con molti colleghi nel corso degli anni, la sua ultima fatica, recentissima, è stata pubblicata nuovo disco degli Hard Working Americans Rest In Chaos, uscito in questi giorni, in cui il gruppo esegue The High Price of Inspiration, con Clark presente nella registrazione

Ricordiamolo con questa bellissima versione della sua canzone più bella Desperadoes Waiting For A Train, registrata per la trasmissione Austin City Limits nel 1990. La musica parla per lui. Riposa In Pace Guy!

Bruno Conti

Un Altro “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk” One-Man-Band? Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling

lincoln durham revelations of a mind

Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling – Droog Records

Come saprà chi legge le mie recensioni, chi scrive è un seguace dell’assunto di San Tommaso, ossia per credere devo vedere, o meglio ascoltare, anzi, io mi aggancerei addirittura al detto “provare per credere” della scuola filosofica Aiazzone/Guido Angeli. Quindi quando mi capita di leggere, in qualità anche di appassionato non onnisciente, di qualche nuovo nome, presentato come la salvezza del rock (o del blues, o di qualsivoglia genere musicale), ove possibile mi piace comunque verificare se questi incredibili giudizi, spesso estrapolati da cartelle stampa mirabolanti, o dai giudizi di qualche musicista amico, spesso citando fuori contesto qualche sua asserzione, sono rispondenti, almeno in parte alla verità. E sempre ricordando che, per fare un’altra citazione colta, “de gustibus non disputandum est”, ovvero ognuno nella musica ci sente quello che vuole. Per cui quando ho sentito parlare delle mirabolanti proprietà di Lincoln Durham, presentato come un “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk One-Man-Band”, secondo le sue parole, oppure in quelle di Ray Wylie Hubbard (che ha peraltro co-prodotto il suo primo EP e il secondo album) che lo presenta come un incrocio tra Son House e Townes Van Zandt, mentre altri, probabilmente credo senza averlo mai sentito, tirano in ballo Tom Waits, John Lee Hooker, Sleepy John Estes, Ray LaMontagne e Paul Rodgers; a questo punto potrei aggiungere Maradona, Frank Sinatra e anche un Robert Plant, che non ci sta mai male. Se citiamo anche il canto gregoriano e quello delle mondine, abbiamo forti probabilità di azzeccare lo stile esatto.

Mister Durham viene dal Texas, tra Whitney e Itasca, secondo la leggenda suona il violino dall’età di quattro anni (ma checché ne dicano altri recensori, nel disco nuovo, non ne ho trovato traccia, come neppure di mandolini e armonica, che però suona dal vivo), oltre che un one man band è anche un “self made man”, almeno a livello musicale, prima come adepto della chitarra elettrica e di Hendrix e Stevie Ray Vaughan, poi scoprendo il blues e il folk, ma di quelli molto “alternativi”, misti a rasoiate punk, ritmiche primitive, citazioni di vecchi autori, il tutto suonato su chitarre sgaruppate, le cosiddette cigar box, spesso in stile slide, con questo risultato, tra il southern primitivo e qualcosa di gotico, che potrebbe avvicinarlo, se dovessi proprio fare un nome, a Scott H. Biram, altro folle che cerca di demitizzare il blues, con iniezioni di hard-rock, punk, voci spesso distorte e ruvide http://discoclub.myblog.it/2014/03/03/tocchi-genio-follia-sonora-scott-h-biram-nothin-but-blood/ , come fa anche Lincoln Durham. Nel disco, rigorosamente senza basso (a parte un brano, il più lungo, Rage, Fire And Brimstone, che è un poderoso boogie-southern-blues, di stampo quasi “normale”, quasi) è presente comunque un batterista in tutti i brani, di solito Conrad Choucroun, con il bravo Bukka Allen che saltuariamente inserisce qualche botta di Moog.

Per il resto 10 brani in tutto, mezzora scarsa di musica, dove Durham ci rivela tutte le perversioni della sua mente, ma anche della sua musica. attraverso una serie di canzoni che attraversano tutti i gradi di un blues deragliante e spesso selvaggio: dal reiterato canto primevo di una Suffer My Name che il blues lo soffre come un uomo posseduto, a Bleed Until You Die, dove la voce qualche parentela vaga con i citati Rodgers e Plant potrebbe anche avercela, e pure la musica, molto più alternativa e senza vincoli sonori o di genere, pur se con una certa “elettricità” nelle evoluzioni minimali della chitarra e della voce, sempre ai limiti. Creeper, con la sua slide guizzante, anche per il titolo, potrebbe ricordare un altro bianco che il blues lo viveva, come Steve Marriott, senza dimenticarsi il boogie di Johnny Winter o di Thorogood; Bones, quasi meditativa, illustra il lato meno selvaggio e più “tranquillo” del nostro Lincoln, con comunque improvvisi squarci di rabbia sonora. Ma Durham tiene anche famiglia e ogni tanto la moglie (?) Alissa aggiunge le sue armonie vocali come nel violento punk-blues di Prophet Incarnate, o nel canto gotico-sudista della conclusiva Bide My Time. Altrove Rusty Knife è un blues di quelli secchi e serrati, con il moog di Allen che cerca di dare profondità sonora alla primitiva Cigar Box Guitar di Lincoln, la cui voce ogni tanto parte per la tangente, mentre i Gods Of Wood And Stone dell’omonima canzone non sono per nulla rassicuranti, tra giri di banjo e ululati alla luna, ancorati dallo stomping thump della batteria di Choucroun. Noose, l’unico episodio dove appare una chitarra acustica, potrebbe essere quell’anello mancante tra Tom Waits e Townes Van Zandt citato, con le sue oscure trame. Mi piace? Boh! Ve lo dirò se trovo il tempo di sentirlo ancora una ventina di volte, di sicuro non è brutto, ma strano sì.

Bruno Conti