Le Due Facce Di Un Moderno Outlaw! – Whitey Morgan

whitey morgan sonic ranch

Whitey Morgan And The 78’s – Sonic Ranch – Whitey Morgan CD

Whitey Morgan – Grandpa’s Guitar – Whitey Morgan CD

Prima di affrontare la recensione volevo fare una precisazione: non è che Whitey Morgan abbia pubblicato due dischi contemporaneamente, anzi, a ben vedere nessuno dei due è nuovo, ma siccome di Sonic Ranch (che è dello scorso anno) questo blog non se ne era occupato (ed è un gran bel disco) e che Grandpa’s Guitar è addirittura della fine del 2014, ma arriva solo ora dalle nostre parti, ed entrambi sono di difficile reperibilità, credo sia venuto il momento di omaggiare un countryman che sta contribuendo a rinvigorire, insieme a gente come Jackson Taylor, Jamey Johnson e Sturgill Simpson, il movimento Outlaw, in auge negli anni settanta. Morgan (vero nome Eric David Allen) è di Flint, Michigan, un posto che ben poco ha da spartire con la musica country, ma sembra un texano fatto e finito: fin dagli esordi (Honky Tonk & Cheap Motels del 2008 e soprattutto Whitey Morgan & The 78’s del 2010) il nostro ha infatti proposto un country robusto, chitarristico e maschio, diretto discendente di leggende quali Waylon Jennings (il suo riferimento più marcato), Willie Nelson e Merle Haggard, una musica non soltanto muscolare ma capace anche di far vibrare le corde giuste, grazie ad un songwriting maturo e ad una band solida e rocciosa (la line-up corrente vede Brett Robinson alla steel, Alex Lyon al basso, Joey Spina alla solista e Fred Eltringham alla batteria).

Sonic Ranch è stato pubblicato lo scorso anno, a ben cinque anni di distanza dal lavoro precedente (in mezzo, l’ottimo live Born, Raised And Live From Flint, uscito nel 2014 ma registrato nel 2011, ed il già citato Grandpa’s Guitar che però ha avuto una distribuzione, per usare un eufemismo, un po’ lenta), ma dimostra che Whitey non ha perso smalto, anzi è maturato e la gavetta on the road è servita, in quanto il disco è un ottimo esempio di vera country music, senza fronzoli e sdolcinature di sorta, arrangiato in modo diretto e con una bella serie di canzoni originali e qualche cover di vaglia: l’album è prodotto da Ryan Hewitt e vede tra gli ospiti, entrambi alla steel, Dan Dugmore e soprattutto l’ottimo Larry Campbell.  

Apre il disco Me And The Whiskey, robusto outlaw country con il vocione di Morgan a dominare, tempo cadenzato e chitarre in gran spolvero; Low Down On The Backstreets è puro Waylon, atmosfera leggermente più country, un piano da saloon che fa capolino ed una melodia decisamente anni settanta; Waitin’ Round To Die è uno dei brani più drammatici di Townes Van Zandt (uno la cui musica di solito non veniva suonata alle feste), e l’interpretazione del nostro è tesa ed affilata come una lama, e, grazie anche ad un arrangiamento rock, rende pienamente giustizia all’originale. Still Drunk, Still Crazy, Still Blue è una ballata distesa, ancora con Jennings (ma anche Willie) ben in mente (e pure il titolo fa molto Waylon), grande pathos e nessuna concessione “radiofonica” nel suono; Leavin’ Again è invece un honky-tonk classico, che si distacca da quanto sentito finora: il mood è meno teso, più rilassato (siamo più dalle parti di Haggard), ma Whitey risulta credibile, e godibile, anche in questa veste. La mossa Goin’ Down Rockin’ è proprio una delle ultime canzoni scritte da Waylon (insieme a Tony Joe White) prima di morire, ed è inutile dire che la memoria del barbuto texano è onorata al meglio; Good Timin’ Man è un intenso intermezzo di base acustica, poi entrano anche gli altri strumenti ed il brano si tramuta in una sontuosa ballata crepuscolare. L’album si chiude con due covers, Drunken Nights In The City di Frankie Miller, un altro slow pieno di feeling, e la splendida That’s How I Got To Memphis di Tom T. Hall, un brano terso e limpido, tra i migliori del CD, ed un pezzo originale (Ain’t Gonna Take It Anymore, un rockin’ country roboante e diretto).

whitey morgan grandpa's guitar

Grandpa’s Guitar è invece un album particolare: intanto è acustico (ma Whitey non è solo, ci sono anche Dugmore e Robinson alla steel e Jason Roberts al violino), ed è un lavoro che il nostro ha dedicato al nonno (musicista anche lui), del quale aveva trovato in cantina una cassetta con una serie di incisioni di brani da lui amati, un reperto che Morgan ha sempre custodito gelosamente tra i suoi ricordi più cari e che, parole sue, ha ispirato tutto quello che ha fatto negli ultimi quindici anni.    L’album contiene in maggioranza covers, a partire da una languida interpretazione della malinconica You’re Still On My Mind (un successo di George Jones), per poi mettere in fila una bella serie di classici, tra i quali spiccano il consueto omaggio a Waylon (Just To Satisfy You), uno Springsteen d’annata (la sempre splendida Highway Patrolman), un paio di pezzi di Haggard (I’ll Leave The Bottle On The Bar e la nota Today I Started Loving You Again), una bella ripresa del purtroppo quasi dimenticato Lee Clayton (If You Could Touch Her At All), e la grandissima Dead Flowers dei Rolling Stones, una canzone che farebbe bella figura anche nelle mani di Gigi D’Alessio (…forse ho esagerato…); per chiudere con due brani originali (le intense Grandpa’s Guitar e Another Wine) ed il traditional I Know You preso direttamente dalla cassetta del nonno William.

Se non avete nulla di Whitey Morgan forse Grandpa’s Guitar non è quello da cui cominciare (Sonic Ranch invece è indicatissimo), ma se già lo conoscete può essere un’aggiunta più che interessante.

Marco Verdi

Altre Storie Da Un Moderno “Storyteller” ! The White Buffalo – Love And The Death Of Damnation

white buffalo love and the death

The White Buffalo – Love And The Death Of Damnation – Unison Music Group/Earache Records

I White Buffalo,  li ho scoperti con Once Upon A Time In The West (12) http://discoclub.myblog.it/2012/06/21/c-era-una-volta-nel-west-the-white-buffalo/ , poi si sono confermati con Shadows, Greys & Evil Ways (13) http://discoclub.myblog.it/tag/white-buffalo/ , e adesso mi accingo a consacrarli con questo ultimo lavoro Love And The Death Of Damnation, un’altra di quelle storie che ci vengono raccontate da uno “storyteller” di razza come il titolare del gruppo Jake Smith. I dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il corpulento personaggio, con canzoni dove confluivano le caratteristiche peculiari della sua musica, un ponte ideale tra l’America cantata da Townes Van Zandt e quella dagli “outlaw” degli anni settanta (un nome su tutti, Willie Nelson), appesi ad un filo del “sogno americano”. Oggi come ieri i White Buffalo sono sostanzialmente un trio, composto  dal basso di Tommy Andrews e dalla batteria di Matt Lynott, ma con il fondamentale apporto di “turnisti” di valore come l’amica Jessy Greene (ex Jayhawks) al violino, Doug Pettibone (già nella band di Lucinda Williams) alla lap e pedal steel, Mike Thompson alla fisarmonica, tastiere e piano, il polistrumentista Bruce Witkin, e come ospite in un brano la brava Audra Mae http://discoclub.myblog.it/2010/05/12/che-storia-audra-mae-the-happiest-lamb/ , il tutto sotto la produzione professionale di Mitch Goodman.

La partenza è di quelle forti, e si batte subito il piedino con una travolgente Dark Days https://www.youtube.com/watch?v=NL9-aNzQCf0 , per poi passare alle atmosfere tex-mex di confine di Chico, con le immancabili trombe mariachi, alla ballata folk Go The Distance, una meravigliosa ninna-nanna pianistica come Radio With No Sound, e una tradizionale folk-song come Home Is Your Arms. E poi ancora una perfetta canzone d’amore come I Got You, cantata in coppia appunto con Audra Mae, mentre si torna a muovere il piedino con la ritmata Modern Times, per poi passare alla spettrale Last Call To Heaven, dove un violino e una tromba disegnano un intrigante connubio, di nuovo una ballata avvolgente come Where Is Your Savior https://www.youtube.com/watch?v=FM9jxdLB_EA , il country- rock’n’roll di Rocky (marchio di fabbrica del gruppo), e infine andare a chiudere con le atmosfere a metà fra soul e gospel di una sorprendente Come On Love, Come On In, dove fanno la loro bella figura le coriste Alfie Silas-Durio e Linda McCrary-Fisher https://www.youtube.com/watch?v=SIqGunrIOPI .

Jake Smith è un ragazzone dall’aspetto fisico imponente, una via di mezzo fra Warren Haynes e uno dei tanti “bikers” che imperversano nella serie televisiva Sons Of Anarchy  (infatti sono state usate molte sue canzoni nella colonna sonora), un cantore di storie di altri tempi, che affascina e seduce con la sua voce profonda da rocker, con dei testi profondi, intimi e nostalgici che raccontano la vecchia America. Idealmente con questo Love And The Death Of Damnation,  prosegue un percorso letterario (alla Cormac McCarthy), iniziato con l’epopea di Once Upon A Time In The West e proseguito con la storia di un veterano di ritorno dalla guerra in Iraq in Shadows, Greys & Evil Ways, per finire con questo lavoro più impegnativo ed ambizioso, che conferma i White Buffalo e in particolare Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” dell’ultima generazione, con tutte le carte in regola per arrivare a farsi conoscere anche dal pubblico più distratto  .

NDT: Per ascoltare questo CD al meglio sarebbe opportuno noleggiare una Ford Mustang, entrare in autostrada (in mancanza di una Route 66), e percorrerla, possibilmente, in dolce compagnia.

 

Una Sorta Di Moderna Nitty Gritty Dirt Band, Musica Solare E Deliziosa! Session Americana – Pack Up The Circus

session americana pack up the circus

Session Americana – Pack Up The Circus – Continental Song City / Ird

Come minacciato e promesso, eccomi a parlarvi dei bravissimi Session Americana, visti e sentiti domenica scorsa 3 maggio al Bar Trapani in quel di Pavia, con tanta bella gente e la presenza di personaggi famosi della musica italiana roots, come l’amico Ed Abbiati dei Lowlands, il chitarrista Maurizio “Gnola” Glielmo (è uscito in questi giorni il nuovo album della Gnola Blues Band, Down The Line), Veronica Sbergia e Max De Bernardi dei Red Wine Serenaders, e meno famosi come il sottoscritto e il titolare di questo blog, ma tutti abbiamo apprezzato con gusto la serata.

I Session Americana sono una “all-star-band” che si è formata a Boston nel 2004, iniziando il loro percorso con canzoni country tradizionali e brani classici della tradizione “bostoniana”, andando poi a rileggere pagine di autori come Jimmy Ryan, Mark Sandman (Morphine) e Dennis Brennan. Il loro debutto discografico avviene con Table Top People Vol. 1 e 2 (05), seguito a breve da The Blue Void Trilogy (06) e Table Top People Vol. 3: Beertown (07) che li porta ad avere una certa visibilità e diventare band di supporto di artisti quali Patty Griffin, Peter Wolf e Bill Janovitz dei Buffalo Tom tra gli altri. In seguito la formazione del Massachusetts pubblica una serie di album che vedono alternarsi diversi collaboratori, a partire da Diving For Gold (09), la registrazione di un Live (11), lo splendido Love And Dirt (13), fino ad arrivare a questo nuovo lavoro Pack Up The Circus (con cui si sono fatti notare anche dalle nostre parti), prodotto dalla brava Anais Mitchell.

session americana 1 session americana 2

Il nucleo base attuale della formazione (quello che si è esibito in questo mini-tour) è composto da Ry Cavanaugh alle chitarre, Billy Beard alla batteria, il polistrumentista Dinty Child al banjo, mandolino, organetto e fisarmonica, Kimon Kirk al basso, Jim Fitting all’armonica (componente con Beard anche dei Treat Her Right, storica band i Boston e “antenati” dei Morphine), e la brava italo-americana Laura Cortese al violino, e li vede proporre una musica che spazia dal folk al country, dal soul al bluegrass (con una delicata spruzzatina di jazz), ricca di armonie vocali (cantano tutti), alternando brani classici della tradizione americana, e brani originali composti da alcuni componenti della band.

session americana live session americana 4

Il viaggio “circense” del nuovo album inizia con il gradevole folk-pop della title track Pack Up The Circus, per poi passare alle atmosfere soul di Willing To The Lucky, il delicato swing diYou Always Hurt The One You Love, impreziosito dalle note della tromba e clarinetto, alla tenue ballata folk It’s Not Texas, e cambiare ancora ritmo con la trascinante Vitamin T, dai sapori “caraibici” . Il delicato violino della Cortese introduce una struggente ballata come All For You, per poi ritornare a percorrere i sentieri dello swing con Time Winds Me Up con l’armonica di Fitting in evidenza, alla marcetta Country & western di una piacevole Notary Public, andando a chiudere con due splendide ballate folk, la sognante Mighty Long Time dove spicca la lap-steel di Child, e il solenne incedere di una corale Dark Clouds, fatta su un tessuto di violini e fiati, che cala il sipario su un meraviglioso spettacolo sonoro.

La Session Americana è uno straordinario collettivo di musicisti, che oltre a quelli citati in queste righe annovera: Jon Bistine, Dietrich Strause, Jefferson Hamer, Alec Spiegelman, Adam Moss, Zachariah Hickman, Charlie Rose, Duke Levine, Eliza Carthy e Jennifer Kimball ( delle Story, nonché moglie di Cavanaugh, tanto per non fare torti), un gruppo che in patria ha ricevuto numerosi premi e nomination, diventando per l’area “bostoniana” una vera e propria istituzione. I loro spettacoli dal vivo sono travolgenti, con un vecchio microfono sul tavolo e i musicisti intorno che, a turno, intrecciano voce e strumenti (come se un gruppo di amici si trovasse a suonare insieme), con un mix di brani originali e cover d’autore di Gram Parsons, Emmylou Harris, Little Feat https://www.youtube.com/watch?v=buQ5OGvgDQg  (a Pavia hanno chiuso con una spettacolare versione di Pancho & Lefty del compianto Townes Van Zandt) https://www.youtube.com/watch?v=h_GuW2y_r3E , creando nel pubblico un’atmosfera di forte complicità e divertimento reciproco. Per chi ama il genere una formazione assolutamente da scoprire, che gestisce la sua musica come un continuo “happening”, con canzoni nel segno della tradizione popolare americana, ma contaminate in parte da sonorità moderne e altre volte recuperando i suoni “vintage” delle radici. Vivamente consigliato!

Tino Montanari

Grande Attore, Ma Anche Musicista Coi Fiocchi ! Jeff Bridges & The Abiders – Live

jeff bridges abiders live

Jeff Bridges & The Abiders – Live – Mailboat Records

Mi viene da pensare che senza il film Crazy Heart, oggi il sottoscritto non avrebbe nel lettore questo live di Jeff Bridges & The Abiders. Jeff Bridges, noto attore americano ha sempre avuto una grande passione per la musica, e nel lontano 2000 aveva persino fatto un disco a suo nome Be Here Soon (sofisticate riletture di brani rock, country e soul, con l’aiuto di Michael McDonald e David Crosby), poi la colonna sonora di Crazy Heart lo ha definitivamente consacrato: nel film (che gli ha fruttato l’Oscar come miglior attore protagonista) Jeff canta molto bene canzoni come Hold On To You, Somebody Else, Fallin’ & Flyn’, I Don’t Know e Brand New Angel, e T-Bone Burnett (che musicalmente non è secondo a nessuno), ha capito le potenzialità di Bridges, gli ha trovato la band perfetta, poi insieme hanno trovato le canzoni, e il risultato è stato l’ottimo album omonimo Jeff Bridges (11). E siccome come dice un famoso detto “l’appetito vien mangiando”, arriva al mio ascolto anche questo Live (che non è proprio recentissimo, essendo uscito il 30 Settembre dello scorso anno), registrato durante un caldo concerto estivo al Red Rock Casino di Las Vegas, un totale di quattordici brani, in buona parte pescati dal disco d’esordio e dal film, più alcune cover scelte dal repertorio dei Byrds, Tom Waits, Townes Van Zandt, Creedence Clearwater Revival, e autori più recenti come Stephen Bruton e Greg Brown, CD pubblicato dalla Mailboat Records, l’etichetta di Jimmy Buffett.

Jeff Bridges & the Abiders Perform At The El Rey Theatre jeff-bridges-abiders

Jeff (capelli e barba bianca d’ordinanza) https://www.youtube.com/watch?v=_ct5tYkHrqY  voce, chitarra e tastiere, sale sul palco con i suoi Abiders che sono Chris Pelonis chitarra e tastiere, Bill Flores pedal steel e chitarra, Randy Tico al basso e Tom Lackner alla batteria e percussioni, iniziando con il blues incalzante di Blue Car (che arriva dalla penna di Greg Brown) cantato alla perfezione, seguito dalle atmosfere di frontiera di I Don’t Know, una ballata tra rock e country come What A Little Bit Of Love Can Do https://www.youtube.com/watch?v=oQ1lJFftyyo , la romantica Maybe I Missed The Point e la dolcissima serenata texana Exception To The Rule (del suo amico cantautore John Goodwin)  https://www.youtube.com/watch?v=nRt3Oh2fhlU , la lunga She Lay Her Whip Down con un bel lavoro della chitarra“slide”, andando a chiudere la prima parte omaggiando John Fogerty, con una pimpante e gioiosa Lookin’ Out My Back Door. Dopo una pausa e una bella bevuta di birra, si ritorna sul palco con Jeff che declama nuovamente una bellissima What A Little Bit Of Love Can Do, sorretta da batteria, pedal steel e un crescendo di chitarre, chitarre che “galoppano” anche nella successiva Van Gogh In Hollywood, per poi passare ad una delicata cover di Townes Van Zandt To Live Is To Fly (era in High, Low And In Beetwenhttps://www.youtube.com/watch?v=9J-yQuCbPjI , ad una campestre Fallin’ & Flyin’ recuperata dalla colonna sonora di Crazy Heart https://www.youtube.com/watch?v=TGJm72H31do , una inaspettata Never Let Go di Tom Waits (con Jeff al piano), per una ballata che profuma d’Irlanda (che è sempre nel mio cuore), rispolverando pure la famosissima So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds https://www.youtube.com/watch?v=3vT1ZsE7B6k  , chiudendo omaggiando un autore bravissimo ma poco conosciuto come il compianto Stephen Bruton (da sempre nel cuore di Jeff), con il ruspante blues di Somebody Else. Applausi!

JeffBridgesandtheAbiders jeff bridges live

Dopo il grande successo di Crazy Heart e il disco in studio prodotto da T-Bone Burnett, l’attore-cantante Jeff Bridges fa il disco che ha sempre sognato, un Live ruspante dove interpreta con il supporto di bravi musicisti, una sontuosa “setlist” di ballate, country e rock songs, cantate con una bella voce pastosa, per un CD che non ha scalato le classifiche, ma che potrebbe fare centro nel cuore degli amanti della buona musica. Sentire per credere!

Tino Montanari

P.S. Temo che stasera non vincerà nuovamente l’Oscar per il fim Il Settimo Figlio (che per fortuna non è neppure candidato), ma neanche il recente progetto, ambient e parlato, Sleeping Tapes, entrerà negli annali della musica, al di là dei suoi meriti filantropici!

Le Ballate “Pietose” Di Un Poeta Blues! Malcolm Holcombe – Pitiful Blues

malcolm holcombe pitful blues

Malcolm Holcombe – Pitiful Blues – Gypsy Eyes Music

L’ultima volta che ho visto Malcolm Holcombe dal vivo (qualche mese fa nel locale dell’amico Paolo Pieretto, in quel di Pavia), sono rimasto impressionato per la carica e l’intensità che era in grado di comunicare con la sua musica, accompagnato solamente dalla chitarra acustica e dalla sua voce roca e piena di dolore, in un concerto dove si evidenziava la sua maestria al “fingerpicking”.  A meno di due anni dall’uscita di Down The River (puntualmente recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2012/10/05/lungo-il-fiume-del-country-blues-malcolm-holcombe-down-the-r/ ), arriva dalle nostre parti (e ovunque) il nuovo lavoro di Holcombe, intitolato Pitiful Blues, dieci canzoni di folk-blues suonate in punta di dita, con un manipolo di eccellenti musicisti, tra i quali il produttore Jared Tyler, anche chitarre dobro e mandolino, Paddy Ryan, batteria, solo in Words Not Spoken, Matt Hayes, contrabbasso, Luke Bulla, violino, Travis Fite, chitarra ed ingegnere del suono,  Arthur Thompsonbatteria, nel resto del disco, tutti uniti per raccontare, come sempre, storie della provincia americana, con le quali il nostro buon Malcolm convive quotidianamente.

malcolm holcombe 2

L’album si apre con l’intensa title-track Pitiful Blues, un brano tagliente e sofferto come pochi https://www.youtube.com/watch?v=GwWKrfUKj7w , seguito dalle trame guidate da un violino malinconico in Roots e poi dalla giocosa Sign For A Sally, passando per lo strisciante blues di Savannah Blues https://www.youtube.com/watch?v=CiA_uDtzeqY  e per le atmosfere prettamente folk di Another Despair. Le ballate e i racconti “pietosi” si intensificano con il country-blues di By The Boots, con la dolce e malinconica Words Not Spoken, negli arpeggi acustici con sottofondo di violino di Words Of December, passando per una strepitosa ballata “appalachiana” come The Music Plays On e chiudendo con la commovente e sentita For The Love Of A Child, dove il cuore e il “songwriting” di Malcolm si dimostra più nostalgico del solito.

malcolm holcombe3

Pitiful Blues, decimo album di Holcombe (se non ho sbagliato i conti), contiene il “solito” buon mix di ballate sospese tra blues e folk, accompagnate, oltre che dalla sua chitarra acustica, da slide guitar, violino e banjo, che lascia gli ascoltatori del genere “americana” (quello che viene dalle radici) pienamente soddisfatti, ricco di canzoni dure ma anche piene di speranza, interpretate con la sua voce vissuta ed inconfondibile. Malcolm Holcombe è uno di quegli artisti davvero unici (adorato da personaggi come Steve Earle https://www.youtube.com/watch?v=ESxmy3JmgMs Lucinda Williams), e anche se a chi ultimamente ha visto i suoi concerti appare esteriormente come un vagabondo senza un soldo, uscito miracolosamente con l’aiuto della moglie dalla dipendenza dall’alcolismo e altro, è invece uno che canta meravigliose canzoni ricche di poesia https://www.youtube.com/watch?v=eMVSM8hrxDE , con una voce impregnata di una vita vissuta “pericolosamente”, uno stile che lo avvicina a musicisti come Guy Clark e Townes Van Zandt, tra i pochi che non si limitano a cantare le canzoni, ma le vivono, perché con Malcolm quello che si sente è quello che si ottiene: un segreto della canzone d’autore americana, che una volta tanto sarebbe bene che venisse svelato.

Tino Montanari

Un “Letterato E Musicista” Veramente Eclettico! Andrew Bird – Things Are Really Great Here, Sort Of…

andrew bird things are

Andrew Bird – Things Are Really Great Here, Sort Of… – Wegawam Music

Letterato e musicista, è difficile considerare Andrew Bird un semplice cantautore, sebbene da qualche anno il suo nome compaia con una certa frequenza nell’elenco dei migliori personaggi della nuova canzone d’autore americana. Violinista di formazione classica, Bird ha cominciato come membro aggiunto con la band “retroswing” dei Squirrel Nut Zippers, per poi continuare a puntare la propria attenzione sulla musica del passato, con il progetto Bowl Of Fire. Sciolto anche questo gruppo, Bird si è reinventato una carriera solista, a partire dall’esordio Weather Systems (03) (ma il primo “vero” disco solo, Music Of Hair, era già uscito nel 1996), a cui hanno fatto seguito il magnifico The Mysterious Production Of Eggs (05) https://www.youtube.com/watch?v=dDzm2PkEGt4&list=PLIwDDkSFBCebL5J4vOfeiCDCF_SgCTpMg , Armchair Apocrypha (07), Noble Beast (09), Break It Yourself (12), Hands Of Glory (12), senza contare svariati EP e incisioni live: tutto con il marchio di una musica suonata in un delizioso groviglio di strumenti diversi, basi pre-registrate, che certificano l’attuale e passata, sfuggente, attività artistica di questo personaggio. Nel frattempo, nel corso degli ultimi anni, “l’eclettico” ha anche insegnato musica, composto colonne sonore e collaborato con decine di artisti, crescendo come autore ed allargando il suono dei suoi dischi, che si sono fatti più complessi, sfaccettati e ricchi di idee, con moderne soluzioni melodiche.

andrew bird 1

Questo ultimo lavoro (uscito un po’ a sorpresa) Things Are Really Great Here, Sort Of…  è una bella, e particolare, raccolta di cover dedicata agli Handsome Family, ed in fondo primo o poi c’era da aspettarselo, da uno che si era sempre dichiarato un “fan” dei coniugi Sparks, prima includendo un brano, Don’t Be Scared, nel suo esordio solista, fino ad arrivare alle più recenti versioni di So Much Wine e When That Elicopter Comes, incise rispettivamente per l’EP Give It Away e nell’ultimo album Hands Of Glory. Il nuovo progetto è stato registrato con l’attuale band di Bird che comprende Alan Hampton al basso, Kevin O’Donnell o Justin Glasco, alla batteria, Eric Heywood alla pedal steel, e come ospite alla chitarra e voce la brava Tift Merritt https://www.youtube.com/watch?v=NEdZghRgg2s .

andrew bird 2

Questa incursione nel repertorio degli Handsome Family, Andrew la inizia con l’incedere lento e caracollante di una Cathedral In The Dell, a cui fa seguito il violino pizzicato di The Folled e la splendida, romanzata, Giant Of Illinois, arricchita dalle sfumature del controcanto di Tift Merritt, che troviamo anche nell’andatura “western” di So Much Wine, Merry Christmas. La rivisitazione prosegue con il violino struggente (il suo strumento principale) nella malinconica My Sister’s Tiny Hands https://www.youtube.com/watch?v=5-8zHPgmtqQ , mentre in The Sad Milkman sarebbe facile trovare delle similitudini con il grande Townes Van Zandt, per poi ritrovare la chitarra e la voce di Tift (che è decisiva nel ricreare le note armonie vocali degli Handsome Family), nella ballata alt-country Don’t Be Scared. Verso la fine dell’album, il violino torna protagonista  nella danza folk celtica di Frogs Singing, passando poi per le atmosfere lente di Drunk By Noon e, andando a chiudere, doverosamente, con l’accorata versione in stile “ambient” di uno dei brani di maggior successo di Brett e Rennie Sparks, quella Far From Any Road (Be My Hand) che ha conquistato la notorietà anche come sigla della serie televisiva, ideata da Nic Pizzolatto, True Detective  .https://www.youtube.com/watch?v=p4zluA60hjs

6-Andrew-Bird

Dal lontano ’96 ad oggi, nel corso di una carriera decisamente prolifica, Bird ha maturato una musicalità varia, piuttosto elaborata, dove elementi pop, folk, country e persino di musica classica, si intrecciano con estrema grazia ed eleganza, qualità perfettamente a fuoco pure in questo Things Are Really Great Here, Sort Of … dove le dieci splendide canzoni che lo compongono (anche se ispirate dalla sua band preferita), escono dall’anima di questo talentuoso violinista di Chicago. Tutto sommato la lettura di questa recensione, se vi intriga, serve anche a fare la conoscenza (se ancora non li conoscete), con un gruppo affascinante e geniale come gli Handsome Family http://discoclub.myblog.it/2013/06/18/i-cantastorie-dell-alternative-country-handsome-family-wilde/) .

Tino Montanari

Vecchio Ma “Nuovo”, E’ Rifiorito Un Piccolo Capolavoro – Richard Buckner – Bloomed

richard buckner bloomedrichard buckner bloomed 2 cd

Richard Buckner – Bloomed – Merge Records – Deluxe Edition – Remastered – 2 CD – 25-03-2014

Nell’ambito delle celebrazioni del 25° anniversario della Merge Records (l’etichetta “indie” della North Carolina) dopo le ristampe Deluxe di Nixon dei Lambchop e Living Indoor dei Superchunk, viene immesso sul mercato (a vent’anni dalla prima edizione) Bloomed di Richard Buckner (a dire il vero l’album era già stato ristampato nel ’99 dalla Rykodisc Recordscon l’aggiunta di cinque pezzi). Questa nuova versione, oltre al disco originale rimasterizzato, contiene un CD bonus di undici tracce con sessioni radiofoniche, registrazioni dal vivo e canzoni dell’epoca, alcune poi usate nei lavori successivi.

richard buckner 4 richard buckner 3

Cantautore introspettivo, Buckner ( che viene da San Francisco) interpreta in maniera molto personale un “background” artistico difficilmente classificabile, con canzoni dalle quali trapela un senso di malinconico intimismo, evidenziato oltre che in Bloomed (94), anche nei successivi splendidi  Devotion + Doubt (97), con l’accompagnamento dei Giant Sand e della chitarra di Marc Ribot e Since (98), senza tralasciare l’ambizioso concept-album The Hill (00), progetto dedicato alla famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

richard buckner 1

Bloomed, registrato nell’estate del ’94 (e prodotto da quel mago di Lloyd Maines), vedeva in veste di “sessionmen” lo stesso Maines alla pedal steel, lap steel e dobro, il grandissimo Butch Hancock all’armonica, Ponty Bone alla fisarmonica, Joe Carr al mandolino, Steve Meador alle percussioni e Lanny Field al violino, un disco dove Buckner dimostrava già di avere la vena del cantautore di classe, scrivendo canzoni intense dal passo rallentato, accompagnate da pochi strumenti, in quanto sin dall’inizio sposava una componente prevalentemente acustica. Capita che, riascoltando a distanza di anni (e qui sono tanti!) dischi che colpevolmente si sono dimenticati, si apprezzino di più le forti sonorità country dell’iniziale Blue And Wonder http://www.youtube.com/watch?v=NIToWtcSLfM , la ballata dai toni notturni Rainsquall, una perfetta folk song come 22, e ancora la linea melodica del mandolino in Mud http://www.youtube.com/watch?v=yp_OR7eu3uI , l’incedere della fisarmonica di Ponty Bone nella malinconica Six Years, mentre con This Is Where http://www.youtube.com/watch?v=ulBVus0nFoo e Gauzy Dress In The Sun, con la steel di Maines in evidenza, si viaggia dalle parti del country d’autore, andando a chiudere con la ritmata e lineare Daisychain, Il folk di Desire http://www.youtube.com/watch?v=28IugZ2GvT8 , il country di Up North, la dolce Surprise, A.Z. con il violino di Lanny Field e la lap steel di Maines a disegnare la melodia e la conclusiva Cradle Of The Angel, intima e avvolgente.

richard buckner 2

Il bonus CD vede Richard Buckner nelle vesti del menestrello folk, con le ballate acustiche The Last Ride e Settled Down, mentre The Worst Way, sostenuta solo dalla voce e chitarra di Richard, è seguita da una delle più belle canzoni del disco due, Emma, un accorato lamento d’amore http://www.youtube.com/watch?v=iKHCo_K89Fw  che viene poi addolcito dalla vibrante Hutchinson. Le rimanenti tracce del disco sono versioni di brani già sentiti, molti dal vivo, eseguiti tra il 1995 e il 1997, riprese in forma più acustica e scarna (dove si valorizza anche la bravura chitarristica di Buckner), molto bella una cover di Still Lookin’ For You di Townes Van Zandt http://www.youtube.com/watch?v=w3cHDotqbw8 , registrata dal vivo al World Café nel 1997!

Dotato di una voce splendida, dalla timbrica profonda e intensa, Richard Buckner scrive canzoni impregnate di poesia e sentimento, una musica interiore da ascoltare, brano dopo brano (come in questa pregevole ristampa), canzoni che hanno il potere di catturare l’ascoltatore: un artista di “culto”, sicuramente lontano dal grande pubblico, ma ben dentro al cuore di ogni appassionato di “vera” musica.

Tino Montanari

NDT: Visto che li hanno in catalogo, spero che la Merge ristampi (magari con inediti) anche gli American Music Club di Mark Eitzel. E’ chiedere troppo?

Poesia E Musica Per Un Grande Artista Minore! Sam Baker – Say Grace

sam baker say grace.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sam Baker – Say Grace – Self Released 2013

Sam Baker da Austin, Texas, è un cantautore molto personale, dotato di una voce aspra, quasi “dylaniana”, che parla più che cantare, l’ultimo discendente di una stirpe di songwriters che si riconosce in autori come Guy Clark, John Prine e il grande Townes Van Zandt. Say Grace arriva dopo l’eccelso debutto di Mercy (2004), seguito dagli altrettanto validi Pretty World (2007) e Cotton (2009) a chiudere una trilogia incentrata sui temi della misericordia e della rinascita in forma spirituale (dopo che Sam si ritrovò coinvolto in un attentato che costò la vita ad alcune persone).

La pienezza di suono di questo lavoro (più corposo e variegato rispetto ai precedenti), va attribuita in larga parte alla bravura e qualità dei musicisti presenti, gente come Gurf Morlix e Anthony Da Costa alle chitarre, Rick Richards alla batteria, il polistrumentista Lloyd Maines e Joel Guzman alla fisarmonica, oltre alle due “donzelle” Carrie Elkin e Raina Rose alle armonie vocali, distribuite in quattordici tracce dolenti e intense, cantate con la consueta passione da Sam Baker.

Le canzoni sono tutte di valore, a cominciare dall’iniziale Say Grace, brano delicato accompagnato dai riff chitarristici di Antonio Da Costa, per proseguire con la malinconica The Tattooed Woman, la tenue Road Crew e la splendida Migrants (dedicata alla morte degli immigrati messicani), arricchita dalla fisa di Joel Guzman. Il cuore del disco è circoscritto nella nuda bellezza delle varie White Heat, Ditch, Interlude, Isn’t Love Great, mentre nella teatrale Feast (ispirata da un verso del poeta Yeats) si trovano cenni del miglior Tom Waits. Una voce angelica introduce Sweet Hour Of Prayer, un brano strumentale (da una melodia medievale francese) con il pianoforte in primo piano, a cui fanno seguito due ballads intimiste, Panhandle Winter e Button By Button, con i ricami “rootsy” del violino di Maines, per poi chiudere con la breve ma sempre intensa Go In Peace.

Say Grace è un lavoro bello, profondo, toccante, con pochi strumenti, una voce che racconta storie,  racconti personali, una raccolta di sensazioni ed emozioni, in quanto Baker è uno “storyteller” nato, che sa unire gioia e malinconia, passione e dolore, un disco triste e solitario, perfetto per le prossime giornate autunnali.

L’invito è quindi di avvicinarvi a Sam Baker, un poeta e musicista (e pittore) che chiede a pieno diritto di entrare nel “gotha” del cantautorato Usa, con questo Say Grace: una fortuna (purtroppo) solo per i pochi che lo hanno scoperto e subito amato, visto la difficile reperibilità dei suoi dischi!

Tino Montanari

Meglio Tardi Che Mai! Steve Earle & The Dukes (& Duchesses) – The Low Highway

steve earl the low highway.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Steve Earle – The Low Highway – New West Records 2013 – Deluxe Edition CD/DVD

Per un disguido con il titolare di questo pregevole blog (Bruno), colpevolmente mi accingo a parlarvi solo ora di questo The Low Highway, quindicesimo lavoro nella ormai quasi trentennale carriera discografica di Steve Earle. Originario della Virginia, ma cresciuto a San Antonio, Texas, Earle è certamente uno dei più importanti nomi della scena country-rock-roots americana. Il suo stile musicale, per i pochi che ancora (spero) non lo conoscono, si collega ai grandi della canzone di Nashville, in special modo al compianto Johnny Cash (alle origini), ma successivamente si “abbevera” da rocker come Fogerty, Mellencamp e naturalmente Springsteen. Il buon Steve aveva cominciato a suonare intorno ai vent’anni (apparendo già nel 1975 nel famoso film Heartworn Highways, a fianco di Townes Van Zandt, Guy Clark e dei giovani, come lui, Rodney Crowell e John Hiatt) e ad esibirsi poi con un proprio gruppo, The Dukes (ancora oggi la sua backing band), e nel lontano ’86 firmava per la famosa MCA, esordendo con Guitar Town (ma prima erano uscite le prime registrazioni come Early Tracks), cui fa seguito uno dei suoi capolavori, Copperhead Road (88) che annovera fra gli ospiti i Pogues dello “sdentato” Shane MacGowan ela brava Maria McKee.

Nel successivo decennio accentua la sua inclinazione per il rock con The Hard Way (90), centrando il bersaglio nuovamente con il magnifico live Shut Up And Die Like An Aviator (91), dove oltre ai suoi classici, rivisita Dead Flowers dei Rolling Stones, She’s About A Mover del Sir Douglas Quintet e Blue Yodel # 9 di Jimmie Rodgers, regalando un “sound” di purissimo rock americano (per merito anche dei fidi Dukes). In seguito incappa in un brutto periodo artistico e personale e viene arrestato per tentata rapina a mano armata (indotta dall’incessante bisogno di denaro per droga e alcol), e passa più di un anno in carcere. Il ritorno discografico avviene con Train A Comin’ (95), un album totalmente acustico, mentre la sua ritrovata vena artistica è confermata anche dal seguente I Feel Alright (96) dove spicca You’re Still Standin’ There in duetto con la grande Lucinda Williams. Con The Mountain (99, realizzato con l’ensemble bluegrass della Del McCoury Band, inizia il decennio folk-rock, che trova l’apice nel seguente Transcedental Blues (2000) e in particolare con Jerusalem (2002) e The Revolution Starts Now (2004) dai forti contenuti politici e saltiamo gli ultimi dieci anni per non farla troppo lunga, ma Townes, il doveroso tributo al suo mentore almeno una citazione la merita!

Questo The Low Highway prodotto dallo stesso Earle con Ray Kennedy, vede il determinante apporto dei nuovi Dukes (Chris Masterson alle chitarre e pedal steel, Will Rigby alla batteria, Kelley Looney al basso) e una nutrita rappresentanza femminile, le cosiddette Duchesses, la moglie Allison Moorer alle tastiere, fisarmonica e voce, Eleanor Whitmore moglie di Chris (ovvero The Mastersons) al violino e mandolino, e Lucia Micarelli e Siobhan Kennedy (moglie del produttore) alle armonie vocali, e il disco ci riconsegna un cantautore ancora in grado di scrivere grandi canzoni, partendo dall’iniziale title track The Low Highway, dal folk blues della conclusiva Remember Me, prima di spaziare con disinvoltura fra il rock di 21st Century Blues, il country di Down The Road Pt II, il blues-rock di Calico County, per poi passare alla fisarmonica zydeco di That All You Got? (in duetto con la moglie) al piano old-style di Pocket Full Of Rain, al trascinante violino irlandese e banjo nel bluegrass di Warren Hellman’s Banjo, e riproponendo Love’s Gonna Blow My Way e After Mardi Gras, brani comparsi nella serie televisiva americana Treme (ambientata nella New Orleans post Katrina), il secondo scritto proprio per Lucia Micarelli, anche ottima violinista classica e presente con lui nel tributo a Dylan per Amnesty, Chimes of Freedom.

Steve Earle (58 anni, sette mogli e tre figli se non ho perso il conto), nonostante una vita vissuta sempre sopra le righe (la dipendenza dalla droga, gli arresti, la detenzione e una difficile e sofferta disintossicazione), di album davvero sbagliati non ne ha mai fatti, e in questo The Low Highway c’è materiale a sufficienza per confermarlo come uno dei personaggi più rappresentativi  della musica “Americana” degli ultimi trent’anni.

Tino Montanari

*NDT: Questa Deluxe Edition, esce, come al solito in una versione ampliata con il DVD che include il “making of” del disco e il video di Invisible. 

A Proposito Di Nuovi Dylan, Thom Chacon!

thom chacon.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Thom Chacon – Thom Chacon Pie Records

Di recente su questo blog, in seguito ad un post dedicato a Dan Bern, si è aperto un piccolo dibattito riguardo ai cosiddetti “Nuovi Dylan”, un termine appioppato dalla critica musicale dai primi anni settanta ad ogni musicista che lasciava intravedere la benché minima influenza da parte del bardo di Duluth. Ebbene, Thom Chacon, cantautore originario del Colorado, potrebbe essere solo l’ultimo in ordine di tempo ad essere iscritto di diritto al club dei Nuovi Dylan, ma temo che questa catalogazione semplicistica non gli farebbe giustizia. Certo, non appena Thom apre bocca è impossibile non pensare al grande Bob, tanto il suo timbro è simile a quello dell’autore di Like A Rolling Stone (periodo giovanile, non certo il rantolo waitsiano di oggi), ma volendo andare più in profondità, lo stile si dimostra più variegato.

Molti brani hanno sicuramente una base folk, e quindi riconducibili direttamente a Dylan, ma in molti casi ho notato anche qualche elemento di John Prine e dello Springsteen più cantautorale (due autori comunque definiti anch’essi nuovi Dylan all’epoca) e perfino di Kris Kristofferson e, se vogliamo, Townes Van Zandt (che invece non sono mai appartenuti al club). Musica cantautorale quindi, ma con un quid di personalità che fa di questo Thom Chacon un lavoro pienamente riuscito e soddisfacente (Thom ha altri due dischi all’attivo, Live At Folsom Prison – dove ho già sentito questo titolo? – e Featherweight Fighter, entrambi però abbastanza introvabili), tra i migliori dischi di cantautorato giovane da me ascoltati ultimamente. Certo, a volte la somiglianza vocale con Dylan può essere un limite, in quanto può far pensare ad uno stile derivativo anche quando il suono è più personale, ma in definitiva a noi interessa ascoltare buona musica e quindi non starei troppo a spaccare il capello in quattro.

Un altro punto di contatto con Dylan è dato dal fatto che Thom utilizza la sezione ritmica che accompagna Bob on stage da anni, e cioè Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria (mentre gli altri musicisti, a me sconosciuti, rispondono ai nomi di Arlan Schierbaum, William Wittman e Peter Stuart Kohman, oltre al produttore Perry Margouleff), colorando con gusto e misura una serie di (ottime) ballate di base folk.

*NDB. Ogni tanto mi intrometto, in qualità di Blogger titolare. Arlan Schierbaum è il tastierista (ma suona anche la fisarmonica) nella band di Bonamassa, pure nell’ultimo live acustico, oltre ad essere presente negli ultimi dischi di Beth Hart e John Hiatt e Janiva Magness, quindi uno bravo, fine dell’intervento!

 

Il disco, 12 canzoni, dura all’incirca 35 minuti, e questo a mio giudizio è un altro punto a suo favore (i dischi troppo lunghi talvolta mi stancano).

Apre Innocent Man: passo cadenzato, armonica, voce dylaniana al 100% (periodo ‘63/’64), ma comunque una bella canzone. Ancora meglio American Dream, atmosfera quasi western, con uno stile che si divide tra Dylan e Prine: la strumentazione e parca (come in tutto il CD) ma di grande impatto emotivo. Juarez, Mexico, voce a parte, ha tutte le caratteristiche di una ballata texana di Kristofferson: la melodia, l’andamento dolente, l’arrangiamento scarno (voce, chitarra, basso e fisa) ed il modo di porgere il brano sono tipiche del barbuto cantautore di Brownsville. Non pensate però ad un disco derivativo e basta: le canzoni sono di prima qualità, e quelle sono farina del sacco di Chacon.

La splendida A Life Beyond Here ha un arrangiamento più rock ed un mood irresistibile, un brano scintillante che ha il difetto di durare troppo poco; la folkeggiante Chasing The Pain è tanto semplice quanto intensa, chitarra, voce, una spolveratina d’organo e tanto feeling; Alcohol è più elettrica e con un bel crescendo, ma tutto sommato un gradino sotto alle precedenti. Ain’t Gonna Take Us Alive è un brano più solare, un country-rock Dylan-meets-Prine, vibrante e dal refrain vincente; Big River (non è quella di Cash), è un folk-rock attendista ma cadenzato, con l’aiuto vocale di Bess Chacon (moglie? sorella?). Amy è molto bella, intensa, matura, mentre con No More Trouble torniamo in territori cari a Mr. Zimmerman; la deliziosa folk song Bus Drivin’ Blues porta alla conclusiva Grant County Side, un brano voce-chitarra-armonica scarna ma molto intensa, con uno script degno del Boss.

Bel dischetto: Thom Chacon non è solo uno dei tanti Nuovi Dylan, ma ha abbastanza talento e personalità per far parlare bene di sé anche in futuro.

Marco Verdi