Giovani Talenti Si Affermano! Samantha Fish – Wild Heart

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Samantha Fish – Wild Heart – Ruf Records/Ird 07-07-2015

Recentemente, recensendo l’ultimo disco di Laurence Jones http://discoclub.myblog.it/2015/05/05/lo-shakespeare-del-blues-magari-laurence-jones-whats-it-gonna-be/ , avevo tirato in ballo anche tutti gli altri giovani, perlopiù inglesi, che sono suoi compagni di etichetta alla Ruf, ma il nome di Samantha Fish, in parte a ragione, visto che è americana, Kansas City, la sua città di origine, non era stato fatto tra i talenti da tenere d’occhio https://www.youtube.com/watch?v=zDvhSGtaRBs . Rimedio, subito dopo l’ascolto di questo Wild Heart, che mi pare veramente un ottimo disco di rock-blues e dintorni. Già i primi due, Runaway (http://discoclub.myblog.it/2011/09/14/giovani-talenti-crescono-samantha-fish-runaway/)  e Black Wind Howlin’, entrambi prodotti da Mike Zito https://www.youtube.com/watch?v=0dO0tmBO9vQ , sembravano dei buoni dischi, ma, sempre per citarmi, concludevo la recensione del primo disco (che leggete al link) così: “ Globalmente la ragazza se la cava brillantemente e le consiglierei di insistere su quello stile rock and soul dei due brani citati all’inizio” (uno dei due, una cover di Lousiana rain di Tom Petty). Non solo la brava Samantha ha insistito ma ha allargato la sua linea d’orizzonte sonoro a ballate alla Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, ma anche a brani decisamente tirati, che suonano molto rock & roll, grazie alla presenza della seconda solista di Luther Dickinson, che è pure il bassista e produttore di Wild Heart, ed in alcuni brani rispolvera il vecchio gusto per il rock-blues del periodo in cui suonava con i Black Crowes (e quindi per proprietà transitiva un sound à la Stones e Led Zeppelin). Sicuramente contribuisce pure la presenza alla batteria di Brady Blade, uno che ha una lista di collaborazioni impressionante, dai Dukes di Steve Earle agli Spyboy di Emmylou Harris, ma anche Indigo Girls, Buddy Miller, Anders Osborne e Tab Benoit.

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Proprio con quest’ultimo e Tommy Castro, la Fish ha condiviso il Six Strings Down Tour, vera palestra di miglioramento per lei e alla riuscita del disco contribuiscono anche le locations dove sono stati incisi i vari brani, dai Brady Studios di Shreveport, Lousiana, gli Ardent e i Royal Studios di Memphis; Tennesse, nonché il Zebra Ranch dei North Mississippi Allstars, ognuno ha contribuito a donare quell’atmosfera che caratterizza i vari brani. Si parte sparatissimi con Road Runner, con un dualismo slide/solista che spinge subito il brano verso una grinta rock-blues che mancava nei dischi precedenti, grazie anche alle ottime armonie vocali di Shontelle Norman-Beatty e Risse Norman, di nuovo presenti con belle armonizzazioni nella ballata sudista Place To Fall, che non ha nulla da invidiare a certi brani di Susan Tedeschi (forse solo la voce, certo  la Fish è migliorata, ma non fino a quel punto, il resto è un dono di natura) e anche la lap steel di Dickinson è fondamentale nell’atmosfera sonora della canzone, di grande coinvolgimento emotivo https://www.youtube.com/watch?v=an9g70oklvk . Blame In On The Moon, con un ritmo diddleyano, le solite slide e steel di Luther, aggiunte alla solista della Fish, confermano la qualità di questo brano, grande impianto sudista ribadito nella jam finale, mentre Highway’s Holding Me Now, con il basso pompato di Dickinson, una chitarra acidissima e la voce grintosa, ha quello spirito rock tra Crowes e Zeppelin citato prima.

Go Home viceversa è una bellissima ballata di stampo quasi acustico, ricca di belle melodie e con un arrangiamento sontuoso, tipo le cose migliori della Raitt, che ribadisce la crescita della Fish anche come autrice (tutti suoi i brani, meno le due cover): una Jim Lee’s Blues Pt.1, a firma Charley Patton, un blues arricchito dal mandolino di Dickinson e dalla seconda chitarra di Lightnin’ Malcolm, altro compagno di avventura della brava Samantha. Turn It Up, con il volume delle chitarre alzato a manetta, ricorda quel sound alla Black Crowes citato in apertura, con le due soliste che si fronteggiano gagliardamente su un groove quasi kudzu blues https://www.youtube.com/watch?v=VBi-JvFvlaw . Anche Show Me, l’unico brano dove non c’è Dickinson, non abbassa la tensione sonora, sempre quasi minacciosa e pronta ad esplodere in scariche chitarristiche micidiali alla Jimmy Page https://www.youtube.com/watch?v=8jlmEw2FALE . Poi riaffiora il lato più gentile e ricercato, nella lunga Lost Myself, nuovamente impreziosita dalla lap steel del NMA nel finale in crescendo del brano, con la title-track Wild Heart, di nuovo un violentissimo boogie-rock zeppeliniano di grande impatto e ricco di riff,  con accenni di jam chitarristiche, riservate per l’eccellente Bitch On The Run, altro ottimo esempio di rock-blues quasi stonesiano con i due che si lasciano andare https://www.youtube.com/watch?v=31Tg95EuDTA . L’ultimo brano è l’altra cover, I’m In Love With You, scritta da Junior Kimbrough, un insolita ballata acustica e gentile per l’inventore dell’Hill Country Blues, assolutamente deliziosa e che chiude in gloria un disco veramente bello. Esce ufficialmente il 7 luglio, ma lo trovate già in circolazione.

Bruno Conti

Facce Poco Raccomandabili, Ma Disco Molto Raccomandato! Da Birmingham, Alabama Via Nashville, Banditos

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Banditos – Banditos – Bloodshot Records/Ird

Quando vi capita tra le mani il CD di una band all’esordio, e questo omonimo album è tale per i Banditos, nell’era di internet digiti il nome e vai a vedere cosa trovi. Uno dei primi luoghi dove capiti è il sito del gruppo o della casa discografica, quindi leggi e vai ad approfondire. Nel frattempo inizi ad ascoltare, perché se l’occhio vuole la sua parte, anche l’orecchio reclama la sua quota, meglio se allenata. Nel caso in questione, sul sito della Boodshot trovi questa frase: “con la potenza di una locomotiva Super Chief, il disco di esordio dei Banditos magnificamente si appropria di elementi di acid-rock-blues anni ’60, boogie alla ZZ Top, Garage punk e rockabilly (aggiungo io), southern rock “ibrido” à la Drive-By Truckers (vengono da Birmingham, Alabama e più a sud ci sono solo la Florida, la Louisiana, un pezzo di Texas e le Hawaii), il choogle dei Creedence, il groove blues alla Slim Harpo, l’hill country della Fat Possum (sarà il banjo di Stephen Pierce), dove incidevano i Black Keys degli inizi. e il rock furibondo dei Georgia Satellites, senza dimenticare infusioni di bluegrass, soul e doo-wop”. E intanto pensi, sì figurati, e magari una cantante che ricorda Janis Joplin! “Eh la Madonna!”, avrebbe detto Pozzetto ai tempi, e invece è tutto vero, naturalmente con le dovute proporzioni e pensando che siamo al disco di esordio ( comunque rodato da 600 spettacoli in giro per gli Stati Uniti), ma questo sestetto che ha scelto Nashville, città di elezione e residenza, è un gruppo da tenere d’occhio, ascoltare e inserire nei “names to watch and listen” ( e a questo proposito ci sono parecchi video su YouTube dove si può apprezzare la valentia dei ragazzi)!

Il risultato finale poi, pur non essendo per forza di cose originale a tutti i costi, è comunque genuino e sorprendente e non è la somma dei singoli fattori citati. Oltre a Pierce al banjo (anche elettrificato) e voce, troviamo Corey Parsons, chitarre elettriche ed acustiche, nonché una delle tre voci soliste, la prorompente Mary Beth Richardson, il fattore Janis della band, che per certi versi li avvicina anche agli Alabama Shakes di Britanny Howard (quelli del primo disco, però); completano la formazione Jeffrey Salter, chitarra e Danny Vines e Randy Wade, la sezione ritmica. Tanti baffi, barbe, capelli e cappelli, nella foto di copertina che li ritrae con una bandiera a stelle e strisce sullo sfondo, ma anche qualità nei dodici brani a firma collettiva, tutti assai vari e diversificati nelle loro soluzioni sonore. La cosa che si nota subito dall’ascolto, fin dal primo brano The Breeze, è l’energia e la grinta che trasuda dalle canzoni, un banjo frenetico, una voce maschile tirata e il controcanto della Richardson che potrebbero ricordare l’incrocio di voci dei vecchi Jefferson Airplane, ma anche i primi Lone Justice di Maria McKee, tra batterie punkeggianti, un organo aggiunto che fa molto 60’s acid rock, chitarre in feedback ma controllate nel loro furore garage, e siamo solo al primo pezzo https://www.youtube.com/watch?v=jj7rCnkvSEM .

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Poi si vira improvvisamente, con Waitin’, verso un country energico, con stilettate cow punk, con la voce potente di Mary Beth a guidare le danze, tra chitarre twangy, ritmi sempre mossi e piacevoli intermezzi strumentali quasi bluegrass https://www.youtube.com/watch?v=_qvom4ca68c . Golden Grease, ci porta a sonorità tra il boogie e l’energia di band come i Truckers o i Georgia Satellites per la parte maschile, con chitarre elettriche quasi psichedeliche e il cantato che, a tratti, si spinge verso lidi jopliniani, nel lato femminile, con la somma delle parti che crea una sorta di voce ibrida che ha tratti simili al Marty Balin dei primi Jefferson https://www.youtube.com/watch?v=EeZ-lPz3EnI . No Good, influenze soul e rock, è una ballata degna della miglior Janis, cantata con passione e grande stamina dalla Richardson https://www.youtube.com/watch?v=nGcWEOBotmc , mentre Ain’t It Hard, con l’organo Farfisa aggiunto alle procedure sonore di chitarre e banjo, amplifica l’effetto psych-garage e continue variazioni di tempi ed atmosfere sonore. Still Sober (After All These Years) ,(ispirata da Simon?), è un country rockabilly futuribile https://www.youtube.com/watch?v=Mqk2OJHZrj0 , mentre Long Gone, Anyway accentua l’effetto old style con un assolo (?) di kazoo di Beth, giuro!

Old ways è un’altra ballata blues accorata, dove i paralleli con quella signora texana sono inevitabili e non sfavorevoli https://www.youtube.com/watch?v=_T-7MEJz2CQ , Can’t Get Away potrebbe uscire da qualche session segreta per riproporre Highway 61 Revisited con i Lone Justice e Blue Mosey #2, con l’aggiunta di una pedal steel sognante è puro country-rock di ottima grana, mentre in Cry Baby Cry, tornano a viaggiare a velocità da locomotive lanciate, con un pianino scatenato a duellare con le chitarre e il banjo, e le voci si incrociano in modo perfetto. Chiude Preachin’ The Choir, un’altra ballatona atmosferica, dove la pedal steel non addolcisce il suono ma lo rende ancora più acido e psichedelico, soprattutto nella lunga jam strumentale. Se vi piacciono Beth Hart e Dana Fuchs, oltre a tutti gli altri ricordati. Decisamente bravi!

Bruno Conti

Una Delle Grandi Della Musica Folk Americana: L’Ultima “Pellerossa” ! Buffy Sainte-Marie – Power In The Blood

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Buffy Sainte-Marie – Power In The Blood – True North Records

Riappare a sei anni dall’ultimo album Running For The Drum (08), questa arzilla signora (è nata nel 1941),  la cantautrice Buffy Sainte-Marie, una che nella sua lunga carriera è stata attiva su molti fronti contro “l’establishment” americano, diventando per il popolo “pellerossa” (ma non solo), una vera “icona”. Beverly (nome d’arte Buffy) nata da genitori indiani nella riserva Cree del Saskatchewan canadese, viene scoperta dal manager Maynard Soloman, che la porta a diventare un personaggio importante della scena del Greenwhich Village folk di New York (grazie ad alcune sue composizioni portate al successo da altri artisti). Il suo primo disco su Vanguard It’s My Way (64), contiene una delle più belle e note canzoni di protesta di sempre, The Universal Soldier https://www.youtube.com/watch?v=DbKa2gapq_M  che diventerà un grande successo in seguito per Donovan e Glen Campbell, e la famosa Cod’ine, una lenta ballata contro la droga https://www.youtube.com/watch?v=d3bfqlTCHZk (ripresa da numerosi gruppi degli anni ’60, fantastica la versione dei Quicksilver Messenger Service). Anche negli album successivi Many A Mile (65), Little Wheel Spin And Spin (66), Fire & Fleet & Candlelight (67), gran parte dei brani parlano della situazione degli indiani d’America. I’m Gonna Be A Country Girl Again (68) viene registrato a Nashville, mentre nel seguente Illuminations (70) fanno capolino i primi arrangiamenti elettronici, ma il grande successo internazionale arriva con Soldier Blue, una delicata ballata dedicata ai massacri nelle guerre indiane e tema del film Soldato Blu https://www.youtube.com/watch?v=LlrOaJFf6tg  ( con una meravigliosa Candice Bergen e Peter Strauss) tratta dall’album She Used To Wanna Be A Ballerina (71) registrato con l’ausilio di Ry Cooder e di Neil Young con i suoi Crazy Horse e che conteneva un brano dello stesso Neil e uno di Leonard Cohen, a cui farà seguire due dischi “minori” come Moonshot (72) e Quiet Places (73).

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Con Buffy (74) la “nostra” effettua una  svolta artistica, passando ad una musica più convenzionale e pop, per poi subito ritornare con Changing Woman (75) e Sweet America (76) con canzoni basate su materiale popolare indiano,  e melodie originali del popolo “pellerossa”. all’inizio degli anni ’80, Buffy sposa in terze nozze (il primo matrimonio con un insegnante di surf) il compositore Jack Nitzsche (Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo) e si ritira dalle scene per quindici anni, a parte la parentesi del ’83 quando Up Where We Belong, (da lei scritta per Joe Cocker e tema del film Ufficiale e Gentiluomo), si aggiudica l’Oscar come migliore canzone da colonna sonora. Il ritorno discografico avviene con Coincidence And Likely Stories (92) con nuove sonorità elettroniche, a cui segue Up Where We Belong (96), una collezione dei suoi grandi successi riproposti per l’occasione in una nuova veste sonora https://www.youtube.com/watch?v=M7C1JLd30Uk , un imperdibile Live At Carnegie Hall (04), e l’ultimo lavoro in studio il sopracitato Running For The Drum con allegato un DVD con un interessante documentario sulla carriera di Buffy Sainte-Marie https://www.youtube.com/watch?v=TbqsVyDO7gQ  (a completamento vi consiglio anche varie raccolte del primo periodo Vanguard).

Questo nuovo lavoro Power In The Blood è stato registrato a Toronto con tre dei migliori produttori di musica del Canada, Michael Wojewoda (Rheostatics), Chris Birkett (Sinead 0’Connor) e Jon Levine (Serena Ryder) tutti noti per successi pop e materiale più esoterico, e contiene intriganti rielaborazioni di brani del passato, due cover abbastanza sorprendenti, e nuove canzoni. Si parte con una formidabile versione di una delle sue prime canzoni It’s My Way, rivoltata come un calzino con un suono potente, seguita dalla title track Power In The Blood,  una cover degli Alabama 3 con un arrangiamento techno-pop che ci poteva risparmiare, il tradizionale We Are Circling su un moderno tessuto tribale https://www.youtube.com/watch?v=YxZilJNVmc0 , e la rilettura di due brani della “lista nera” di Lyndon B. Johnson, Not The Lovin Kind e la famosa Generation, assai efficace.

Con Love Charms (Mojo Bijoux) e la ninna-nanna magistrale di Ke Sakihitin Awasis (I Love You, Baby) arrivano le prime ballate cantate da Buffy in uno stile confidenziale e il suo particolare vibrato, per poi passare alla dolce litania di Farm In The Middle Of Nowhere (sulla sua vita in mezzo alla natura) https://www.youtube.com/watch?v=JgvJ1GxP0y0 , e ad un’altra inaspettata cover degli UB4O Sing Our Own Song su un testo modificato dalla Sainte-Marie, con un ritornello dal canto tribale. Ci si avvia alla fine con la struggente elegia di Orion scritta con il marito Jack (prima della sua scomparsa), il canto accorato di una trascinante The Uranium War, e lo splendore di una gioiosa Carry It On, un inno alla nuova generazione dei nativi americani https://www.youtube.com/watch?v=Ow2_j3YF06o .

Per quanto nel corso della sua carriera abbia attraversato diversi campi artistici, dalla recitazione all’attivismo politico, dalla televisione per bambini alle colonne sonore, dalla canzone rock alla musica country, Buffy Sainte-Marie non è mai stata (a parte dalla sua gente e da molti colleghi) considerata come il suo talento avrebbe meritato, e sarebbe ora che questa simpatica signora che ha inciso parecchi ottimi album e ha composto molte belle canzoni (mai banali nei testi), venga riscoperta dai tanti amanti della buona musica, perché se vogliamo trovare una via alternativa, dobbiamo cercarla tra la gente che conosce la maniera di comunicare fuori dagli schemi, e Buffy Sainte-Marie è sicuramente una degna rappresentante di questa scuola di pensiero.

Tino Montanari

Canned Heat, Un Live Tira L’Altro! Stockholm 1973

canned heat stockholm 1973

Canned Heat – Stockholm 1973 – Cleopatra

Ormai non passa mese senza che non esca qualche “ristampa” dei Canned Heat, o meglio, qualche ristampa dei C.H. della Cleopatra Records. Lo scorso mese è uscito il Carnegie Hall 1971 con John Lee Hooker, per luglio è previsto un Illinois Blues 1973, mentre questo mese ci occupiamo di Stockholm 1973. In effetti chiamarle ristampe è improprio, visto che si tratta di materiale che, almeno ufficialmente, non era mai uscito in passato, però circolava sotto forma di bootleg o filmati in rete.

canned heat carnegie hall 1971

Il concerto di Stoccolma in particolare proviene da uno spettacolo televisivo registrato per la televisione svedese, Opopoppa, che ospitava importanti artisti stranieri in transito per la Scandinavia, tra i tanti registrati dalla TV locale ricordiamo Manfred Mann, Todd Rundgren e Frank Zappa, mentre la data dello show dei Canned Heat fu il 17 giugno del 1973, un paio di giorni prima del leggendario Festival di Roskilde, che si tiene ancora oggi, regolarmente, tutti gli anni, il più vecchio in Europa. Ma trattasi di altra storia.

La band che giunge nella nazione dove viveva la famiglia di Henry Vestine è ancora cambiata rispetto a quella che aveva registrato il concerto della Carnegie Hall, Joel Scott Hill, il chitarrista che aveva sostituito “Blind Owl” Alan Wilson, viene a sua volta rimpiazzato da James Shane che firma tre canzoni di quello che era l’album dell’epoca della band, The New Age, di cui due vengono anche eseguite nel corso del concerto, mentre viene aggiunto alle tastiere Ed Beyer, di cui la band esegue Election Blues, che dai 6 minuti della versione di studio si dilata, come era caratteristica della band, oltre i dieci minuti, e infine al basso, al posto di Antonio de la Barreda (che con Adolfo Fito de la Parra, che rimane alla batteria, mi ha sempre ricordato “Chico” di Zagor,  questo per ampliare il lato culturale) il fratello minore di Bob, Richard Hite. Completano la formazione le due stelle del gruppo, il chitarrista Henry Vestine, grande solista, che nelle parole di  Fito riportate nel libretto non aveva nulla da invidiare a Clapton e agli altri grandi dell’epoca, e non gli si può dare torto (ma anche il primo bassista Larry Taylor era un prodigioso strumentista e pure l’altro vecchio chitarrista Harvey Mandel, non scherzava) e la voce solista e armonicista Bob “The Bear” Hite, che dal vivo aveva l’ingrato compito di cantare anche i brani che all’apice della band erano affidati alla voce sottile e particolare di Wilson.

Comunque il concerto si apre con il vocione di Hite, alle prese con la loro cover di Let’s Work Together, un brano di Wilbert Harrison che in origine si chiamava Let’s Stick Together, ma comunque lo si chiami è sempre un poderoso boogie nel classico stile del gruppo, con l’Hite minore che pompa con gusto al suo basso, mentre Vestine ci delizia con il suo stile chitarristico, e l’organo di Beyer aggiunge profondità al sound. Segue On The Road Again, che con l’inconfondibile riff di armonica e chitarra, anche slide, è sempre un classico senza tempo, pur con la voce di Hite a sostituire quella di Blind Owl e l’organo che rende “strano” l’arrangiamento. Harley Davidson Blues è uno dei brani portati in repertorio da Shane, un piacevole country-blues-rock cantato dall’autore che però c’entra poco con il resto, mentre Election Blues è un classico torrido slow blues, anche con partenza dove cannano la tonalità del brano e ripartono, in diretta, come nulla fosse,  inizia piano e poi nel classico crescendo concede ampio spazio alla solista di Henry Vestine e poi al piano di Beyer, qui molto più pertinente al suono della band. Non male So Long Wrong, l’altra canzone di James Shane, incisivo anche all’altra solista, un pezzo tirato e variegato che fa da apripista ad uno dei momenti topici del concerto, il classico Shake’n’Boogie, qui di soli 14 minuti contro la versione monstre da 20’ del concerto alla Carnegie, ma sempre un gran bel sentire quando il gruppo inizia a sviscerare “il boogie” come solo loro sapevano fare, non per nulla ancora oggi quando vogliamo parlare di qualcuno tosto, si parla di “Boogie alla Canned Heat”! Conclude Goodbye For Now, il brano con cui spesso finivano i loro concerti all’epoca, un altro blues lento che porta la firma di Mandel e De La Parra, cantato da Shane, che non era un gran cantante, ma la parte strumentale è notevole. Come vedete repertorio abbastanza diverso dal concerto a Montreux del 1973 (quello con Clarence Gatemouth Brown, pubblicato dalla Eagle) e che conferma la potenza Live della band.

Bruno Conti

Led Zeppelin Ristampe, 31 Luglio Capitolo Finale! Presence, In Through The Out Door, Coda

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E cosi siamo arrivati (o meglio, ci arriveremo al 31 luglio quando uscirà l’ultima serie di ristampe), si conclude l’epopea della (ri)pubblicazione delle edizioni rimasterizzate e potenziate dei Led Zeppelin, con gli ultimi tre album ufficiali di studio della loro discografia, poi cosa dovremo aspettarci: i live, qualche “sorpresa” o l’oblio? Vedremo, quando sarà il momento. Per ora godiamoci queste nuove uscite, anche se l’idea di pubblicarle in piena estate quando di soldi non ne girano molti non è stata particolamente brillante, comunque anche nel resto dell’anno le “botte” si susseguono e luglio e agosto nel mercato anglosassone ed americano sono considerati due dei mesi migliori per le uscite discografiche, quindi facciamocene una ragione.

Come si usa dire, in alcune occasioni il meglio arriva alla fine e, stranamente, visto che era il meno interessante del lotto, quello che presenta le più gradite sorprese è proprio l’ultimo album Coda, ma andiamo con ordine con le liste dei contenuti delle varie ristampe. Versioni che prevedono l’album singolo, la versione Deluxe doppia, sia in CD che in vinile e la Superdeluxe quadrupla con due CD e due LP, meno appunto Coda, che sarà triplo e sestuplo nelle versioni potenziate. Per le immagini sopra dei vari album ho riportato solo le versioni Superdeluxe, mentre per le tracklists le versioni doppie e triple:

Led Zeppelin – Presence (quella più strimizita)

Tracklist
Disc 1:
1. Achilles Last Stand
2. For Your Life
3. Royal Orleans
4. Nobody’s Fault But Mine
5. Candy Store Rock
6. Hots On For Nowhere
7. Tea For One

Disc 2:
1. Two Ones Are Won
2. For Your Life (Reference Mix)
3. 10 Ribs & All/Carrot Pod Pod (Pod)
4. Royal Orleans (Reference Mix)
5. Hots On For Nowhere (Reference Mix)

Led Zeppelin – In Through The Out Door

Tracklist
Disc 1:
1. In The Evening
2. South Bound Saurez
3. Fool In The Rain
4. Hot Dog
5. Carouselambra
6. All My Love
7. I’m Gonna Crawl

Disc 2:
1. In The Evening (Rough Mix)
2. Southbound Piano (South Bound Saurez)
3. Fool In The Rain (Rough Mix)
4. Hot Dog (Rough Mix)
5. The Epic (Carouselambra – Rough Mix)
6. The Hook (All My Love – Rough Mix)
7. Blot (I’m Gonna Crawl – Rough Mix)

Led Zeppelin – Coda (decisamente la più interessante del lotto, con alcune chicche notevoli, una Sugar Mama notevolissima del 1968, così come Baby Come On Home https://www.youtube.com/watch?v=UEocukvkkSM , un inedito strumentale del 1970, St. Tristan’s Sword e altri brani rari, tra cui quelli con la Bombay Orchestra)

Tracklist
Disc 1:
1. We’re Gonna Groove
2. Poor Tom
3. I Can’t Quit You Baby
4. Walter’s Walk
5. Ozone Baby
6. Darlene
7. Bonzo’s Montreux
8. Wearing And Tearing

Disc 2:
1. We’re Gonna Groove (Alternate Mix)
2. If It Keeps On Raining (When The Levee Breaks – Rough Mix)
3. Bonzo’s Montreux (Mix Construction In Progress)
4. Baby Come On Home
5. Sugar Mama ( Mix)
6. Poor Tom (Instrumental Mix)
7. Travelling Riverside Blues (BBC Session)
8. Hey, Hey, What Can I Do

Disc 3:
1. Four Hands (Four Sticks – Bombay Orchestra)
2. Friends (Bombay Orchestra)
3. St. Tristan’s Sword (Rough Mix)
4. Desire (The Wanton Song – Rough Mix)
5. Bring It On Home (Rough Mix)
6. Walter’s Walk (Rough Mix)
7. Everybody Makes It Through (In The Light – Rough Mix)

Direi che è tutto, magari Coda una recensione al momento della uscita potrebbe meritarla.

Bruno Conti

Elegia In Musica Per Un Premio Nobel! Eric Andersen – Shadow And Light Of Albert Camus

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Eric Andersen – Shadow And Light Of Albert Camus – Meyer Records – EP

Se questo EP Shadow And Light Of Albert Camus ha preso forma, dobbiamo ringraziare il pittore Oliver Jordan che, durante una grande mostra allestita nel 2013 a Aix En Provence (in occasione del centenario della nascita del grande scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, Premio Nobel e anarchico francese), ha riacceso in Eric Andersen la sua passione giovanile per Albert Camus. Il risultato è stato che il buon Eric ha composto musica e testi ispirandosi a famose opere letterarie  come La Peste, La Caduta, Lo Straniero, Il Ribelle, e con il solo aiuto del “nostro” Michele Gazich al violino e piano, si sono riuniti al Topaz Studios di Cologne e ne sono uscite quattro canzoni.

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L’elegia parte con l’iniziale The Plaguee (Song Of Denial), una ballata acustica con interventi mirati del violino di Gazich, passando poi alla struggente malinconia di una The Stranger (Song Of Revenge) con il pianoforte vellutato di Eric e il violino di Michele, una folk-song come The Rebel (Song Of Revolt) che ricorda i tempi nostalgici del Greenwich Village tanto cari ad Andersen, e per terminare l’elegia, la lunga The Fall (Song Of Gravity) (circa dodici minuti), una “suite” in parte declamata e in parte cantata dalla magnetica voce di Eric. In attesa del nuovo album Dance Of Love And Death in uscita forse entro l’anno https://www.youtube.com/watch?v=jD4J0-V65dQ , questo EP è una piccola opera (comunque quasi mezz’ora di musica, ventisei minuti e fa la pari con l’altro mini album, The Cologne Concert, qui ricordato http://discoclub.myblog.it/2011/08/18/mini-nel-formato-ma-grande-nei-contenuti-eric-andersen-the/), che merita di essere ascoltata con attenzione, di un artista che fa parte della grande famiglia del “folk americano”, un storico personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni, a cui bastano pochi accordi di chitarra, armoniose note di pianoforte  e un violino suonato da un grande musicista italiano, per proporre meravigliose canzoni di soave intensità.

Tino Montanari

Torna Il “Peccatore” Del Folk Canadese! Lee Harvey Osmond – Beautiful Scars

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Lee Harvey Osmond – Beautiful Scars – Latent Recordings

I Lee Harvey Osmond rimangono la creatura preferita di Tom Wilson, e lo testimonia questo nuovo lavoro Beautiful Scars, dopo il folgorante esordio con il bellissimo A Quiet Evil (10) e il successivo The Folk Sinner (12) http://discoclub.myblog.it/2013/02/26/un-collettivo-acid-folk-dal-freddo-canada-lee-harvey-osmond/ : prodotto come gli altri da Michael Timmins (“mente” dei Cowboy Junkies). Il buon Tom è considerato una “icona” del rock canadese,  a fronte di una carriera quasi trentennale, all’inizio con una band molto popolare nel paese delle “Giubbe Rosse”  come i Junkhouse, in seguito con il combo Blackie & The Rodeo Kings (con Colin Linden e Stephen Fearing), e anche una discreta da solista, prima di darsi anima e corpo nel progetto di questo gruppo canadese di “folk-psichedelico e acido”, i bravissimi e intriganti Lee Harvey Osmond.

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L’attuale “line-up” della band, oltre al consueto “zampino” di Michael Timmins, è formata dal leader Wilson alla chitarra acustica e voce, Michael Davidson al vibrafono, Dan Edmond al piano, Aaron Goldstein alle chitarre e pedal steel, Josh Finlayson (degli Skydiggers) al basso, Jesse O’Brien alle tastiere, oltre al fido Ray Farrugia (era già nei Junkhouse) alla batteria e percussioni, e come “vocalist” aggiunta Andrea Ramolo (emergente cantautrice canadese) e il figlio di Wilson, Thompson.

Le canzoni di Beautiful Scars devono molto, a parere di chi scrive, al Chris Eckman dei grandi Walkabouts, a partire da una iniziale Loser Without Your Love (con un sax molto à la Morphinehttps://www.youtube.com/watch?v=uHP0YvlIcs4 , passando poi alle trame un po’ “retrò” di una sussurrata Blue Moon Drive, al rumoroso groove di Shake The Hand, per poi tornare alle atmosfere “psichedeliche” gentili di Oh The Gods, e ai delicati arpeggi acustici di una tenue Dreams Come And Go. Si cambia ancora ritmo con la desertica Hey, Hey, Hey (si viaggia dalle parti di Tucson, in compagnia di Calexico e Giant Sandhttps://www.youtube.com/watch?v=e61Lak9CDjQ , mentre la bellissima How Does It Feel è la ballata più “cool” dell’album, dove le note di chitarra e pianoforte accompagnano la rancorosa voce di Tom https://www.youtube.com/watch?v=pl0t4d1tc9g , che fa da preludio alle chitarre cariche di riverberi e al vibrafono di Planet Love https://www.youtube.com/watch?v=kMd8OQa8jUU, all’ossessionante ritmo  funky (tastiere, flauto e chitarre) di una Black Spruce che sembra uscita, almeno nella parte iniziale, dai vinili dei Jethro Tull https://www.youtube.com/watch?v=biComc2UChE , e andando a chiudere le “cicatrici” personali di Wilson, con le sonorità folk di una struggente Bottom Of Our Love.

Tom Wilson scrive canzoni eleganti, scure, che partono dal “roots rock” ma vanno oltre, con una miscela equilibrata di blues, rock, country e folk, con una spruzzata di sana psichedelia (che lo stesso autore riconosce nel genere “acid-folk”), e, come nei dischi precedenti, anche tutti i brani di questo lavoro (registrato e mixato nello studio di Toronto di Timmins) richiedono diversi e ripetuti ascolti per essere assimilati nella loro totalità. Per chi vuole approfondire, questo Beautiful Scars rivela ad ogni passaggio nel lettore CD qualcosa di sorprendente e affascinante,  la perfetta chiusura del cerchio di un autore innovativo e rivoluzionario, che con i suoi Lee Harvey Osmond vuole regalare un sound libero dalle mode e fuori dagli schemi, che può sicuramente piacere a tutti gli appassionati della buona musica (sicuramente tutti i lettori di questo blog). Che sia la volta buona per ampliare la cerchia?

Tino Montanari

From Los Angeles, California, The Dawes – All Your Favourite Bands

dawes all your favorite bands

Dawes – All Your Favourite Bands – Hub Records

Ma non erano i Doors? Ovviamente anche loro, from Los Angeles, California. Ma visto che pure i Dawes vengono da lì, consentite il giochetto di parole del titolo. Quella che conta è la musica, e i fratelli Goldsmith, Taylor, voce e chitarra, leader indiscusso e Griffin, batteria, con l’aiuto di Wylie Gelber, al basso eTay Strathairn, tastiere, confermano che la musica californiana, rivitalizzata dalla crescita di un talento come Jonathan Wilson e dalla “rinascita” di un personaggio come Jackson Browne (tutti musicisti fondamentali nella storia dei Dawes), gode di ottima salute. Ci sono molti altri solisti e gruppi che gravitano in questa area musicale (penso ai Blue Rodeo e Doug Paisley in Canada, un paio di decadi fa i Jayhwaks, di cui i Dawes potrebbero essere gli eredi, se non fossero già i “figli illeggitimi” di una notte di amore tra Jackson Browne e gli Eagles migliori del primo periodo), ma il quartetto di L.A, con questo All Your Favorite Bands, conferma tutto quanto di buono aveva fatto nei primi tre album (ne avevano pure fatti un paio quando si chiamavano Simon Dawes e in formazione c’era ancoral ‘ottimo Blake Mills), anzi, sotto la guida di David Rawlings, che regala una produzione sontuosa e ricca di dettagli, ma registrata in presa diretta e quindi immediata, come dovrebbe sempre essere per questo tipo di dischi, per evitare di infilarsi nel loro metaforico buco del…, mi fermo ma avete capito, e ultimamente succede ad alcuni, abbastanza spesso.

Il disco si apre con questa Things Happen qui sopra, perfetto singolo rock, come non se ne fanno quasi più, bella melodia, armonie musicali fantastiche, incrocio di chitarre e tastiere, tutto molto semplice, ma lascia già intuire dove andrà a parare tutto il resto del disco. Che comprende almeno tre piccoli “capolavori” (troppo? diciamo gioiellini), le tre canzoni più lunghe, ricche ed elaborate: Somewhere Along The Way è una sontuosa ballata mid-tempo alla Jackson Browne, circa 1974/1976, con le deliziose armonie vocali del gruppo arricchite dal delicato lavoro del piano di Strathairn e dai tocchi delle chitarre acustiche, probabilmente di Rawlings e Richard Bennett e da un ricamo della elettrica di Taylor Goldsmith, di nuovo pressoché perfetta, l’epitome del sound californiano, un piccolo appunto, peccato che sfumi dopo “soli” 5 minuti e 40 secondi. Altra canzone bellissima è I Can’t Think About It Now, un brano degno delle migliori composizioni degli Eagles più ispirati, con il tocco di genio delle armonie vocali delle McCrary Sisters e di Gillian Welch che rendono quasi epico un brano giocato sui chiaroscuri di chitarre elettriche fantastiche, organo e sezione ritmica raffinatissima nel leggero crescendo della parte centrale strumentale, un vera delizia per i padiglioni auditivi dell’ascoltatore https://www.youtube.com/watch?v=FVqIJjkMEwY . A completare questo trittico da sogno i quasi dieci minuti di Now That It’s Too Late, Maria, un’altra ballata che ai temi sonori già ricordati aggiunge spunti degni della Band, con l’organo che quasi fluttua sullo sfondo, mentre la chitarra di Taylor Goldsmith tratteggia un lavoro ritmico-solista di rara bellezza e la voce è ispirata e avvolgente, per lasciare spazio ad una coda strumentale finale dove la solista e il piano si completano a vicenda https://www.youtube.com/watch?v=g2Vc9c6p2qs .

E non è che le altre canzoni siano brutte, anzi: Don’t Send Me Away con la macchina che si trasforma in un contenitore di rimpianti mai dimenticati  “I’m getting on the freeway/Your jacket’s in my car/Your ashes in my ashtray/And I’m there with you, wherever you are.”, ha uno strano tempo di non facile attribuzione, ma è comunque un altro bel pezzo rock, con un tagliente assolo di chitarra che spezza la struttura morbida del brano. All You Favourite Bands, la title-track, è un’altra bellissima ballata di stampo pianistico che poi si apre nella seconda parte e diventa un’altra perla di puro West-Coast sound, degna dei citati Jayhawks (che perlatro californiani non erano). Anche To Be Completely Honest ha le stimmate di quelle ballate dolenti, ma ricche di elettricità, che sono il segno distintivo del miglior Jackson Browne, “solite” armonie vocali da applausi, l’organo e la chitarra sempre in perfetta simbiosi sonora e un’altra canzone di grande spessore qualitativo https://www.youtube.com/watch?v=fYl_6H6wijo . Rimangono la romantica e spezzacuori Waiting For You Call, altra ballata valzerata (la forma preferita di questo album) che per certi versi mi ha ricordato certe incursioni nel genere da parte di Elvis Costello, quando Steve Nye prendeva il bastone di comando, qui coadiuvato dalla pedal steel di Paul Franklin che si “lamenta” sullo sfondo e, last but not least, Right On Time, un bel pezzo rock di quelli più vibranti ed arrembanti, con la batteria a dettare il ritmo, organo, piano e chitarre a delineare le sonorità, ed il cantato di Taylor Goldsmith e soci ancora una volta a costituire la classica ciliegina sulla torta https://www.youtube.com/watch?v=lbeW4mrsPXk.

California uber alles (non quella dei Dead Kenedys).

Bruno Conti

Esagerati! Grateful Dead – 30 Trips Around The World. 30 Concerti, 80 CD, 50 Anni Di Carriera

grateful dead 30 trips

Qualche mese fa, in occasione della pubblicazione della doppia antologia The Best Of The Grateful Dead, avevo espresso le mie perplessità per questa partenza in sordina dei festeggiamenti per il 50° Anniversario della nascita della formazione californiana. Naturalmente (ma me lo aspettavo) i Grateful Dead mi hanno smentito clamorosamente con l’annuncio dell’uscita di questo gigantesco cofanetto di 80 CD, intitolato 30 Trips Around The World, conterrà 30 concerti “inediti”, uno per anno dal 1966 al 1995, il periodo in cui Jerry Garcia è stato alla guida della band. Sul loro sito http://www.dead.net/store/special-edition-shops/50th-anniversary-shop/30-trips-around-sun-box dicono che avrebbero voluto i 30 concerti durante tutto il periodo della prenotazione del Box, ma essendo stati preceduti (internet è micidiale) hanno deciso di confermare la lista dei concerti, eccola:

1966 – 7/3, Fillmore Auditorium, San Francisco, CA
1967 – 11/10, Shrine Auditorium, Los Angeles, CA
1968 – 10/20, Greek Theater, Berkeley, CA
1969 – 2/22, The Dream Bowl, Vallejo, CA
1970 – 4/15, Winterland, San Francisco, CA
1971 – 3/18, Fox Theater, St. Louis, MO
1972 – 9/24, Palace Theater, Waterbury, CT
1973 – 11/14, San Diego Sports Arena, San Diego, CA
1974 – 9/18, Parc des Expositions, Dijon, France
1975 – 9/28, Lindley Meadows, Golden gate Park, San Francisco, CA
1976 – 10/3, Cobo Arena, Detroit, MI
1977 – 4/25, Capitol Theater, Passaic, NJ
1978 – 5/14, Providence Civic Center, Providence, RI
1979 – 10/27, Cape Cod Coliseum, South Yarmouth, MA
1980 – 11/28, Lakeland Civic Center, Lakeland, FL
1981 – 5/16, Cornell University, Ithaca, NY
1982 – 7/31, Manor Downs, Austin, TX
1983 – 10/21, The Centrum, Worchester, MA
1984 – 10/12, Augusta Civic Center, Augusta, ME
1985 – 6/24, River Bend Music Center, Cincinnati, OH
1986 – 5/3, Cal Expo Amphitheater, Sacramento, CA
1987 – 9/18, Madison Square Garden, New York City, NY
1988 – 7/3, Oxford Plains Speedway, Oxford, ME
1989 – 10/26, Miami Arena, Miami, FL
1990 – 10/27, Zenith, Paris, France
1991 – 9/10, Madison Square Garden, NY, NY
1992 – 3/20, Copps Coliseum, Ontario, Canada
1993 – 3/27, Knickerbocker Arena, Albany, NY
1994 – 10/1, Boston Garden, Boston, MA
1995 – 2/21, Delta Center, Salt Lake City, UT

I concerti sono presentati tutti come inediti, almeno a livello ufficiale, ma se non potete permettervi i 699.98 dollari (come al supermercato) del costo, più spese di spedizioni ed eventuali tasse doganali, al di fuori dagli Stati Uniti, qui https://archive.org/details/GratefulDead, come detto in altre occasioni, li potete trovare per lo streaming e il download gratuito (insieme a migliaia di altri concerti regolarmente autorizzati dagli artisti o dai loro manager). Ovviamente se vi potete permettere il cofanetto, il 18 settembre, quando verrà pubblicato, all’interno troverete 73 ore di musica, un 45 giri color oro con Caution (Do Not Stop On Tracks)” 1965 e Box Of Rain” Soldier Field, Chicago, 7/9/95 sui due lati del singolo, un libro di 288 pagine con la storia dei Grateful scritta da Nick Meriwether, che è l’archivista ufficiale della band presso l’Università della California, a Santa Cruz. Se siete ancora più tecnologici verrà pubblicata anche una versione limitata e individualmente numerata (come peraltro quella in CD) di 1.000 copie in formato chiavetta USB, sia in FLAC che in MP3, allo stesso prezzo.

Questa è la presentazione video, anche se non c’è molto da vedere o da sentire (a parte il fastidioso effetto del vento, visto che il discorsetto di David Lemieux avviene all’aperto)!

In attesa di prossimi sviluppi (ovvero, altre pubblicazioni relative al cinquantenario) vi rmando alla prossima.

Bruno Conti

Un Piccolo Ripasso Nella Storia Della Chitarra Elettrica! James Burton, Albert Lee, Amos Garrett, David Wilcox – Guitar Heroes: Making History

guitar heroes making history

James Burton, Albert Lee, Amos Garrett, David Wilcox – Guitar Heroes: Making History – Stony Plain/Dixie Frog/Ird

Una volta tanto un titolo (e dei protagonisti) che non si possono equivocare. Si sarebbe potuto chiamare, parafrasando il famoso brano e album di John Hiatt, Masters Of Telecasters, visto che tutti e quattro sono adepti e virtuosi del famoso modello di chitarra Fender. Uno in particolare, James Burton, è considerato, giustamente, uno dei maestri assoluti della chitarra elettrica (ancora al n°19 nella classifica di Rolling Stone dei più grandi di sempre) https://www.youtube.com/watch?v=dz657p72ypk , vediamo perché: oltre che solista nella versione originale di Susie Q. https://www.youtube.com/watch?v=N0L44Zea9Ms , quella di Dale Hawkins per intenderci, per anni chitarrista con Ricky Nelson, poi con lElvis Presley post-comeback https://www.youtube.com/watch?v=1EjIp15d1g4  e nella Hot Band di Emmylou Harris, e con mille altri, nonché inventore del famoso “chicken pickin” https://www.youtube.com/watch?v=6sGm81S2xJY , di cui proprio il suo discepolo, e degno emulo nella terra d’Albione, Albert Lee, è stato uno dei praticanti più significativi, fin dai tempi degli Heads, Hands & Feet (visti ai tempi, grandissimo gruppo https://www.youtube.com/watch?v=1aIft448lBA ), poi anche lui nella Hot Band in sostituzione proprio di Burton https://www.youtube.com/watch?v=ocNPcvLaloo , per anni nella Touring band di Clapton, con gli Everly Brothers nella reunion anni ’80, e ancora con i Rhythm Kings di Bill Wyman, oltre ad avere inciso una ventina di album a nome proprio. Pure Amos Garrett ha un CV da far paura, senza citare le decine di artisti con cui ha suonato, si ricorda il suo bellissimo assolo in Midnight At The Oasis https://www.youtube.com/watch?v=VlrKETxwRvM , nel disco di esordio del 1973 di Maria Muldaur. Il “giovane” del gruppo è il canadese David Wilcox, sicuramente il meno celebre di questi “eroi” e da non confondere con l’omonimo cantautore americano, come aveva fatto chi scrive: infatti mi chiedevo cosa c’entrasse con cotanti chitarristi! Proprio quest’ultimo è il padrone di casa alla Vancouver Island Musicfest, tenutasi in una serata speciale ed unica il 12 luglio 2013 e preservata per i posteri in questo CD, molto bello, ma per dirla alla Sacchi/Crozza non “streordinario” come mi sarei aspettato, anche se…

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I quattro si danno da fare alla grande, coadiuvati dalla ottima band di Albert Lee, dove Jon Greathouse oltre che alle tastiere, è impiegato come voce solista in un paio di brani: pezzi che sono pescati tra i classici ma anche nel repertorio di ciascuno, e forse, vista l’unicità della serata, forse qualche altro brano più celebre avrebbe alzato la qualità del repertorio, a scapito, per esempio, delle scelte dei brani di Wilcox. Una ottima idea del curatore del libretto è stata quella di inserire, canzone per canzone, l’esatta sequenza dei vari soli che si susseguono, a partire dall’iniziale, molto pimpante, That’s Allright (Mama), dove Albert Lee è la voce solista, ma poi gli altri lo seguono in una vorticosa serie di evoluzioni chitarristiche https://www.youtube.com/watch?v=kW0PXAOJLxg , tra country, R&R  e rockabilly, che era (ed è) il tratto distintivo dello stile, sia di Lee quanto di James Burton, per non parlare di una eccellente Susie Q., cantata da Greathouse, che non ha nulla di invidiare (a parte Fogerty) a quella dei Creedence, con tutte le chitarre schierate.

Niente male anche l’esercizio di stile e tecnica che è la versione di Sleep Walk il brano di Santo & Johnny (ebbene sì), con il solo Amos Garrett che la riprende quasi alla Roy Buchanan https://www.youtube.com/watch?v=tXctCNp2kLo , poi di nuovo tutti insieme appassionatamente per una versione della celebre Leave My Woman Alone, uno dei must di Ray Charles, di nuovo tra country, soul e rock, con Albert Lee e Jon Greathouse alla guida della pattuglia dei solisti, che nella seconda parte del brano si scambiano licks in modo libidinoso https://www.youtube.com/watch?v=jsDm_UrCVqk . E fin qui nulla da eccepire, ma la sequenza centrale a guida David Wilcox, con una eccezione, è meno scintillante, sempre tecnica notevole, ma anche un po’ di noia, nel blues di Jimmy Rogers You’re The One e nello strumentale latineggiante Comin’ Home Baby, mentre Flip, Flop and Fly, il vecchio jump di Big Joe Turner (ma anche dei Blues Brothers) è sempre divertente e trascinante https://www.youtube.com/watch?v=Fm0BTjtagN4 , piacevole anche Only The Young, una vecchia ballata scritta da Jimmy Seals, dal repertorio di Ricky Nelson, qui in versione strumentale. Poderosa poi la versione di Polk Salad Annie del vecchio Tony Joe White, priva della parte cantata ma non della grinta del brano https://www.youtube.com/watch?v=bMPuLKvqitk , discreta Bad Apple, di nuovo di Wilcox e fantastica la conclusione con una grandissima, e tirata a velocità supersoniche, versione del cavallo di battaglia di Albert Lee, una Country Boy che riporta la qualità del concerto su livelli superbi https://www.youtube.com/watch?v=2rq4JNhMu10 . Diciamo non più quattro giovanotti, ma Chitarristi (C maiuscola please) così non se ne fanno quasi più!

Bruno Conti