Tre Ore Di Musica Sublime! Jerry Garcia Band – Broadway Act One: October 28th 1987 –

jerry garcia band on broadway act one

Jerry Garcia Band – Broadway Act One: October 28th 1987 – Round/ATO 3CD

Nell’anno dei festeggiamenti per il cinquantenario dei Grateful Dead non poteva mancare almeno una testimonianza solista di Jerry Garcia, che dei Dead era la figura centrale e leader carismatico (anche se la band di San Francisco è sempre stata molto democratica, a volte pure troppo), e devo ammettere che con questo triplo CD Broadway Act One sono state fatte le cose in grande. Il 1987 è stato un anno molto importante per Garcia: dopo i gravi problemi fisici che lo avevano quasi mandato al Creatore nei due anni precedenti, i Dead avevano pubblicato In The Dark, primo album di studio in sette anni, un disco scintillante che mandò il gruppo nella Top Ten americana per la prima volta, seguito da una celebre tournée estiva con Bob Dylan. L’anno finì con Jerry in tour con la sua Jerry Garcia Band, ed il fulcro centrale di quei concerti furono indubbiamente le tredici serate al Lunt-Fontanne Theatre di Broadway, a New York. La particolarità di quella serie di esibizioni furono senza dubbio i due concerti giornalieri, uno pomeridiano ed uno serale, concerti che a loro volta erano divisi in due parti e con due band diverse, una acustica ed una elettrica. Il CD appena uscito prende in esame la serata del 28 Ottobre, evidenziando in particolar modo la parte acustica (i primi due CD, pomeriggio e sera), una configurazione della JGB poco documentata fino ad oggi, lasciando sul terzo dischetto la parte elettrica della serata.

(NDM: nel 2004, per la serie di CD dal vivo Pure Jerry, era uscito un triplo relativo ai concerti del 15 e 30 di Ottobre sempre nella stessa location, ma con due parti elettriche ed una acustica, ma chi già lo possiede non deve preoccuparsi, non esistono due concerti di Garcia – e dei Dead – uguali tra loro).

*(NDB su NDM: parte di quei concerti era già uscita anche nei due CD Almost Acoustic e Ragged But Right) https://www.youtube.com/watch?v=xP6KlcE1YmM

Garcia, oltre che un grande musicista, è sempre stato un esploratore musicale e grande esperto di brani tradizionali, e sporadicamente inseriva parti acustiche anche nei concerti dei Dead (il live Reckoning del 1981, interamente suonato senza strumenti elettrici, è uno dei dischi più belli del Morto Riconoscente), ed i primi due CD di questo Broadway – Act One sono una goduria sotto tutti i punti di vista. In primo luogo il suono è assolutamente spettacolare, forte, pulito, cristallino, e poi Jerry è in grande forma (anche vocale), suona da Dio ed è accompagnato da un combo fenomenale, che passa con estrema disinvoltura dal folk al country al bluegrass alla old time music (i brani sono tutte covers di traditionals o di canzoni con più di cinquant’anni sulle spalle): John Kahn al basso, David Kemper alla batteria, Kenny Kosek al violino, David Nelson alla seconda chitarra ed il formidabile Sandy Rothman al mandolino, dobro e banjo. Tra l’altro i due CD acustici (dieci brani l’uno) hanno soltanto tre brani che si ripetono: lo splendido folk tune I’m Troubled, puro e limpido, la trascinante Blue Yodel # 9 (il classico di Jimmie Rodgers), con Garcia stellare, e la spettacolare Ragged But Right (George Jones) che chiude entrambi i concerti. In mezzo, nel primo dischetto spiccano senz’altro l’iniziale Deep Elem Blues, nella quale Jerry, Rothman e Kosek ingaggiano uno spettacoloso duello a tre a suon di assoli, l’incalzante folk-blues Spike Driver Blues (reso noto dal grande Mississippi John Hurt), dove suonano tutti in maniera stratosferica, la fantastica Short Life Of Trouble (del violinista G.B. Grayson), proposta dalla band come un canto degli Appalachi, davvero splendida (e l’uso del mandolino da parte di Rothman è da applausi), il travolgente bluegrass di Ralph Stanley If I Lose, nel quale la band riempie l’aria di suoni come se sul palco fossero in venti. Oh, Baby It Ain’t No Lie l’hanno fatta anche i Dead, mentre Drifting Too Far From The Shore è una delle grandi canzoni country del tempo che fu (scritta da Charles Moody ed incisa da mille, da Hank Williams ad Emmylou Harris), suonata ancora in maniera perfetta e con le voci all’unisono che regalano più di un brivido.

Il secondo CD si apre con I’ve Been All Around This World, mountain music at its best, seguita dalla fluida The Ballad Of Casey Jones, da non confondere con il classico dei Dead dal titolo quasi analogo; per non citarle tutte (anche se lo meriterebbero) segnalo ancora lo scintillante bluegrass Rosa Lee McFall, la classica I Ain’t Never (proprio il brano scritto da Mel Tillis con Webb Pierce), con il pubblico in visibilio, e la toccante It’s A Long Long Way To The Top Of The World, con Garcia lucido ed espressivo al canto.

Il terzo CD, come già detto, contiene la parte elettrica del concerto serale (Kahn e Kemper restano sul palco, raggiunti da Melvin Seals all’organo e dalle voci di Gloria Jones e Jaclyn Labranch) ed è forse il disco con meno sorprese, ma soltanto perché il Garcia elettrico in questi anni è stato ampiamente documentato. Il contenuto è comunque tra l’ottimo e l’eccellente e, se si escludono alcuni (pochi per fortuna) evitabili intermezzi di Seals al synth, tutto funziona a meraviglia, con Jerry, assoluto protagonista, che suona con la liquidità che lo ha reso celebre. Su otto brani, ben tre sono di Dylan (la toccante Forever Young, la migliore delle tre, Knockin’ On Heaven’s Door ed una fluida Tangled Up In Blue), due pezzi di Garcia (la raramente proposta Gomorrah e la più nota Run For The Roses), per concludere con una gustosa Evangeline (Los Lobos), la bellissima How Sweet It Is (Marvin Gaye, scritta dal trio Holland-Dozier-Holland), che apre il set in maniera trascinante, la solare Stop That Train (Peter Tosh) e la conclusiva My Sisters And Brothers, un errebi corale originariamente inciso dai Sensational Nightingales.

In una parola, se vi piace Jerry Garcia (ma non è indispensabile): imperdibile.

Marco Verdi

Più Sparviero Che Passerotto! Sister Sparrow And The Dirty Birds – The Weather Below

sister sparrow the weather below

Sister Sparrow & The Dirty Birds – The Weather Below – Party Fowl/Thirty Tigers

Nuovo disco per i Sister Sparrow & The Dirty Birds della famiglia Kincheloe, che con questo CD arrivano a quota tre (più un EP): rispetto al precedente Pound Of Dirt  http://discoclub.myblog.it/2012/04/13/un-altra-sorella-del-soul-e-non-solo-sister-sparrow-the-dirt/ hanno perso per strada un cugino. Bram, che sedeva dietro la batteria, e anche un componente della sezione fiati, quindi ora sono “solo” in otto. Ci sono state altre variazioni nella formazione della band, ma il nucleo originale rimane, con Fratello Jackson Kincheloe all’armonica e Sorella Arleigh, voce carismatica, protagonista assoluta e autrice di tutti i brani, nonché il chitarrista Sasha Brown e due dei fiatisti, Phil Rodriguez alla tromba e Ryan Snow al trombone; i nuovi arrivi sono il sassofonista Brian D. Graham, il bassista Josh Myers e il batterista Dan Boyden. Verrebbe da dire, come usa, che questo disco, The Weather Below, è quello della definitiva consacrazione, ma per chi scrive, erano ottimi già i precedenti: la formula è la solita, del sano soul e R&B, misto a blues, funky e qualche contaminazione rock anni ‘60, rispetto a gente come gli Alabama Shakes, i Banditos, il gruppo di Dana Fuchs o quello di Beth Hart, o anche Nicole Danielle, ex Trampled Under Foot,  che si affacciano più o meno sullo stesso filone, c’è la sezione fiati in più (ma nei dischi della Hart in coppia con Bonamassa ci sono pure). Se poi vogliamo approfondire il paragone vocale, sempre secondo il sottoscritto, la Hart (e anche Dana Fuchs) hanno una voce più potente e versatile rispetto alla brava Arleigh, ma anche la nostra amica più che un “passerotto” spaventato sembra a tratti uno sparviero abbastanza incazzato (rispetto ai due significati del termine Sparrow) https://www.youtube.com/watch?v=doOr9vt4GGc  e anche gli altri “rapaci” della band ci danno dentro di gusto nei dieci brani di questo CD.

L’album ci catapulta nella versione moderna dell’era dei Muscle Shoals e degli Hi Studios, della Motown e del blues-rock acido e meticciato con il soul di Janis Joplin, con un ottimo produttore e ingegnere del suono come Ryan Hadlock (Lumineers, Johnny Flynn, e anche titolare dei famosi Bear Creek Studios di Seattle) che in un paio di brani smussa leggermente i toni della band per cercare un maggiore appeal commerciale, ma siamo entro i limiti di guardia. Per il resto si parte sparatissimi con Borderline, firmata collettivamente dalla band, dove la voce rauca e vissuta di Arleigh Kincheloe è subito in evidenza, tra bordate di trombe, tromboni e sax, svisate ferocissime di chitarra, l’armonica di Jackson che alza la quota blues, in un sound che ingloba anche elementi dei primi Blues Traveler, della J.Geils Band e delle colleghe citate prima https://www.youtube.com/watch?v=4799mC8LIJ8 . Sugar è classico R&B seventies oriented, come quello che poteva uscire dai Royal Studio di Memphis, adattato ai giorni nostri: gente come Alicia Keys o Mary J Blige, che hanno delle bellissime voci, potrebbero applicarsi con profitto a brani come questo, basso super funky, fiati come piovesse, una chitarrina maliziosa, un ritornello orecchiabile, si chiama anche pop volendo, ma di quello buono! Prison Cells ha sempre questa patina non fastidiosa di modernità, una sorta di pop soul alla Motown che a tratti rallenta verso un deep soul più rigoroso, mentre Mama Knows è un buon esempio di soul music classica, quella per cantanti dalla pelle bianca ma con l’animo nero, anche Susan Tedeschi e Bonnie Raitt fanno parte di questa schiatta.

Fiati, armonica, chitarra e sezione ritmica perfettamente integrati con la voce perfetta della Kincheloe, che assume timbriche quasi caraibiche per una ritmata Disappear, salvo tornare al blues sanguigno e crudo di Don’t Be Jealous, dove l’armonica di Jackson Kincheloe e la chitarra di Brown, contendono ad una infervoratissima Arleigh il centro della scena https://www.youtube.com/watch?v=YIVvHMHQYV8 . Più leggera e pop di nuovo in Every Road, piacevole ma meno ricca di sostanza, forse alla ricerca di un effetto Winehouse. We Need A Love sarebbe stato un bel singolo nell’epoca d’oro della Motown, con le sue improvvise aperture melodiche su un ritmo per il resto incalzante e in Cold Blooded finalmente, su un giro di basso minaccioso, la Kincheloe può duellare con la chitarra di Sasha Brown, per il resto meno impegnata rispetto al disco precedente, un brano dal taglio decisamente più rock e tirato, che si avvicina al sound dei concerti della band. Finale blues, sulle note dell’armonica di Fratello Jackson si innesta di nuovo la chitarra di Brown, in modalità slide e la brava Arleigh può dare di nuovo sfogo alle sue indubbie qualità vocali nella conclusiva Catch Me If You Can, con grande accelerazione full band nella coda del brano.

Bruno Conti

Ancora Irlandesi. Che Serate, Con Amici Vecchi E Nuovi! Paul Brady – The Vicar St. Sessions Vol. 1 (With Mark Knopfler, Van Morrison, Sinead O’Connor, Bonnie Raitt, Mary Black, Maura O’Connell, Moya Brennan, Ecc.)

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Paul Brady – The Vicar St. Sessions Vol. 1 – Proper Records  

Ci sono i misteri di “Fatima”, e anche i misteri delle industrie discografiche. Quattordici anni fa il cantante irlandese Paul Brady (mi ero già occupato di lui in occasione dell’ultimo Dancer In The Fire, una doppia antologia http://discoclub.myblog.it/2012/05/28/uno-degli-ultimi-bardi-irlandesi-p/), ha suonato per 23 serate consecutive al leggendario Vicar Steet Bar % Club di Dublino ( dove lo scorso anno ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto di Christy Moore), con la presenza di numerosi ospiti e amici che ogni sera si alternavano sul palco a cantare con Paul brani del loro repertorio. Ora, una prima selezione di queste canzoni registrate in quel “tour de force” musicale prendono forma, e vengono raggruppate, in questo The Vicar St. Sessions Vol.1 (con la promessa di ulteriori volumi a seguire), dove Brady, anche alla chitarra, sale sul palco del magico locale dublinese accompagnato dalla sua meravigliosa band, composta dal polistrumentista Steve Fletcher alle tastiere, percussioni, basso e voce, Jennifer Maidman alle chitarre acustiche e elettriche, Liam Genockey alla batteria e la brava Leslie Dowdall alla percussioni e armonie vocali, per un “set” virtuale composto da tredici brani (di cui 9 sono “covers”) che danno vita ad un concerto coinvolgente.

Come consuetudine Paul inizia i suoi concerti con I Want You To Want Me (la trovate in Spirits Colliding (95), eseguita, come al solito, al livello di gente come Richard Thompson e John Martyn, per poi far salire sul palco Mark Knopfler per Baloney Again (pescata da Sailing To Philadelphia) con la suo inconfondibile voce e tocco di chitarra, andando poi a ripescare un vecchio brano come The Soul Commotion da Primitive Dance (87) e una sempre commovente Believe In Me tratta da Oh What A World (00), qui riproposta in stile à la Van Morrison, per poi lasciare il palco al duo Gavin Friday e Maurice Seltzer che trasformano la sua bellissima Nobody Knows in un brano crepuscolare che viaggia dalle parti di Lou Reed o Nick Cave, la splendida voce a “cappella” di Sinead O’Connor in In This Heart, e un Van Morrison accolto calorosamente dal pubblico, che canta in duetto con Paul la sua celeberrima Irish Heartbeat (dall’album con i Chieftains), dove il buon Van mi sembra meno svogliato di alcune altre occasioni https://www.youtube.com/watch?v=kbfjVwKxkB4 , anzi, in gran forma!

Si riparte con la classe cristallina di Bonnie Raitt che omaggia Paul con un duetto in Not The Only One (da un album straordinario come Full Moon (86), dove si trovano altre “perle” come Helpless Heart e Steel Claw (portata al successo da Tina Turner), passando poi a Curtis Stigers che presenta la sua Don’t Goi Far (scritta con la brava Beth Nielsen Chapman), il pop melodico (senza fare troppi danni) di Ronan Keating in The Long Goodbye (sempre da Oh What A World), il toccante racconto di un’altra grande artista irlandese Eleanor McEvoy Last Seen October 9th (in memoria di una ragazza scomparsa), il ritorno della Raitt sempre in coppia con Brady nella bluesy The World Is What You Make (da The Paul Brady Songbook (02), andando poi a chiudere il concerto con una stratosferica versione di Forever Young di Dylan, cantata da Paul con un trio di meravigliose voci femminili irlandesi come Mary Black, Maura O’Connell e Moya Brennan dei Clannad (tanto per fare un paragone noi abbiamo avuto e possiamo proporre il Trio Lescano!). Giù il sipario. Per Il momento!

Pur non avendo mai raggiunto le vette della popolarità di altri artisti, Irlanda esclusa (nonostante 16 album al suo attivo e diverse collaborazioni), le sue canzoni godono di grande prestigio, e sono state cantate da una vasta gamma di artisti nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui ricordo Mark Knopfler, Eric Clapton, Joe Cocker, Carole King, Bonnie Raitt, Tina Turner, Mary Black, Maura O’Connell, Trisha Yearwood e molti altri che hanno incluso sue composizioni nel proprio repertorio. Ci sono grande speranze che queste Vicar Street Sessions ottengano il riconoscimento che meritano (certificato dai 17.000 biglietti venduti ai tempi per tutte le serate della serie), e facciano scoprire finalmente, a chi non lo conosce, uno degli artisti più apprezzati e di successo della Emerald Island, un autore dal talento eccezionale che nelle sue esibizioni dal vivo (sia da solo come con la band al completo), trasmette allo spettatore la sensazione di partecipare ad una serata affascinante!

Tino Montanari

Speriamo Che Prima Del Prossimo Disco Passino Altri 33 Anni! Bill Wyman – Back To Basics

bill wyman back to basics

Bill Wyman – Back To Basics – Proper CD

Prima di iniziare, una precisazione: se contiamo l’album Stuff gli anni sarebbero “solo” 23, ma siccome quel disco è uscito soltanto in Giappone ed Argentina, normalmente ci si riferisce all’omonimo Bill Wyman del 1982 come ultimo disco solista del bassista nato William George Perks 79 anni fa. Ma andiamo con ordine: è opinione comune, e sensata, che i Rolling Stones senza Bill Wyman (che li lasciò nel 1993 ufficialmente per logorio fisico e mentale) siano sempre i Rolling Stones, mentre Bill Wyman senza gli Stones è un bassista in pensione senza una ben precisa direzione artistica. Wyman, aldilà della sua capacità con lo strumento che nessuno ha mai messo in discussione, non è mai stato un songwriter prolifico: appena due brani scritti durante il suo regno con le Pietre Rotolanti (In Another Land, da lui anche cantata ed uscita perfino come singolo, e la rara Downtown Suzie – era sulla compilation Metamorphosis – cantata però da Mick Jagger) ed il resto distribuito nei tre album solisti usciti tra il 1974 ed il 1982 (Monkey Grip, Stone Alone ed il già citato Bill Wyman), nessuno dei quali conteneva canzoni meritorie di essere tramandate alle generazioni future.

(NDM: a metà anni ottanta ci sarebbero anche i due dischi che Bill ha inciso con Willie And The Poor Boys, ma quando sei in una band con Jimmy Page, Paul Rodgers e Charlie Watts o fai il disco del secolo o è meglio che lasci perdere…)

Ciò che si ricorda più facilmente di Wyman in campo musicale negli anni recenti (dato che in altri campi è sempre stato molto “attivo”, dalla relazione scandalosa con la starlette minorenne Mandy Smith, all’apertura di ristoranti, fino alla vendita di metal detectors) è sicuramente la sua mini-carriera con i Bill Wyman’s Rhythm Kings, un combo variabile che ha visto al suo interno fior di musicisti (qualche nome: Albert Lee, Gary U.S. Bonds, Georgie Fame, Gary Brooker, Eddie Floyd, Andy Fairweather-Low) e che negli anni dal 1997 al 2004 ha pubblicato cinque album, più due live postumi: dischi nei quali, pur non mancando i momenti piacevoli, la miccia non si è mai accesa del tutto, dimostrando che quando manca l’anima non bastano bravura e mestiere (altrimenti i Toto sarebbero la più grande rock band del mondo…).

Ora quindi che fa il buon Bill? Un disco come solista! Devo però avvertirvi di lasciar perdere pugni al cielo e fregatine alle mani, perché se lo fate vuol dire che non sapete, o non vi ricordate, come se la cava il nostro come cantante (dato che comunque con i Rhythm Kings si avvicinava raramente al microfono). Ve lo dico io: malissimo! Un cantante cosa deve avere per essere considerato tale? Voce, intonazione, feeling, capacità interpretativa: a volte basta anche una sola di queste cose per cavarsela, ma nel caso di Wyman io non riesco a trovarne mezza. Il suo “cantare” è infatti una via di mezzo tra un sussurro ed un rantolo, quasi sempre sulla stessa tonalità, zero feeling ed ancora meno intonazione, un approccio che sarebbe in grado di penalizzare qualsiasi canzone. E se mi dite che anche J.J. Cale non aveva voce, e pure Lou Reed parlava invece di cantare, vuol dire che non avete mai sentito Bill all’opera… E non date la colpa all’età avanzata, non ha mai avuto voce, punto. L’età al massimo ha peggiorato le cose.

Ma questo non è l’unico problema di Back To Basics, in quanto, oltre al Bill Wyman cantante abbiamo anche il Bill Wyman compositore, che non è molto meglio, e quindi l’ascolto dei dodici brani (fortunatamente non esistono versioni deluxe) si rivela un compito al limite del proibitivo; peccato, in quanto la band che accompagna Bill è formata da ottimi sessionmen, che rispondono ai nomi di Robbie McIntosh (chitarre, ex Pretenders e Paul McCartney touring band), Terry Taylor (chitarre, già nei Rhythm Kings), Guy Fletcher (tastiere, collaboratore storico di Mark Knopfler) e Graham Broad (batteria, Van Morrison, Roger Waters), ed il disco, grazie al produttore Andy Wright, avrebbe anche un bel suono.

L’inizio del CD non è nemmeno da buttare: What & How & If & When & Why (più che un titolo, una lezione di grammatica) ha un bel tiro, basso e batteria “a pompa” ed un ottimo riff chitarristico, ed il “parlar rantolando” di Bill a tempo con il ritmo sembra quasi avere un senso. Già con I Lost My Ring, un errebi-funky suonato comunque bene, il disco comincia a mostrare la corda, con il sussurro di Bill paragonabile a quelli dei maniaci omicidi dei film, mentre servirebbe semplicemente un cantante: meno male che nel ritornello ci sono le voci femminili a cercare di rimettere la melodia in carreggiata. Love, Love, Love, voce a parte, è un pop quasi beatlesiano (da un ex Stone…) abbastanza risaputo, e con un testo da seconda elementare; Stuff è un rifacimento della title track dell’album “giapponese”, e sinceramente mi chiedo cosa ci trovi Bill di tanto interessante da doverla incidere di nuovo. Running Back To You non sarebbe male se fosse uno strumentale, ma purtroppo è cantata anche questa, She’s Wonderful vorrebbe essere una soul ballad con accenni swamp, ma solo nelle intenzioni, e comunque Bill come apre bocca ammoscia tutto.

Seventeen è brutta e basta, anche se a cantare ci fosse Freddie Mercury, I’ll Pull You Through ha lo stesso attacco strumentale di almeno altre quattro canzoni all’interno del CD, e questo lascia capire il valore di Wyman anche come songwriter. Credo di aver scritto anche troppo, se vi dico che i restanti quattro pezzi non alzano il valore del disco (anzi) mi dovete credere sulla parola.

Bill Wyman è tornato: alzi la mano chi ne sentiva la mancanza.

Marco Verdi

bill wyman solo box

P.S: quasi in contemporanea la Edsel mette in commercio un box di 4CD con tutti i precedenti lavori di Bill (Stuff compreso), con tanto di bonus tracks per ogni disco, che ha al suo interno anche un DVD: così in due colpi soli vi potete fare la sua discografia completa.

Ideona, vero?

Un Vero Cowboy Canadese! Ian Tyson – Carnero Vaquero

ian tyson carnero vaquero

Ian Tyson – Carnero Vaquero – Stony Plain

Ian Tyson, ormai da oltre trenta anni ha deciso di dedicarsi al repertorio delle cosiddette “Cowboy Songs”, tanto da diventarne uno degli interpreti ed autori più amati e rispettati, addirittura due sue canzoni, Navajo Rug e Summer Wages, entrambe tratte dall’album Cowboyography, sono state inserite nella lista delle 100 canzoni Western più importanti di tutti i tempi. Non male per un cantautore che è nato e vissuto in Canada, e che nella sua vita precedente di folk singer ha scritto una delle canzoni più belle degli anni ’60, quella Four Strong Winds, del duo Ian & Sylvia https://www.youtube.com/watch?v=wjfTDPhMdTk , che è considerata una sorta di inno non ufficiale della canzone canadese, eseguita da decine di interpreti, dal Neil Young di Comes A Time, con Nicolette Larson, passando per Dylan, Judy Collins, Joan Baez, Johnny Cash, Waylon Jennings, John Denver, non ultimi i Blue Rodeo, che ne hanno fatto una bellissima versione su The Gift, il disco tributo a Tyson, uscito nel 2007, e che se non avete, vi consiglio di recuperare. Ma quella era un’altra storia https://www.youtube.com/watch?v=W4gQr38Azfo .

the gift tribute to ian tyson

Come si diceva, Ian Tyson si è inserito in questo filone western e nel sottogenere Cowboy Songs, ben frequentato anche da altri autori, Tom Russell, che firma pure un brano di questo Carnero Vaquero, che viene dalla California, ma è un texano d’adozione, o un texano vero come Michael Martin Murphey, per non parlare di Chris Ledoux, un altro che ha costruito una carriera intorno a questo stile e che di mestiere faceva anche il cowboy ai rodeo, o frequentatori più occasionali come il grande Johnny Cash, lo stesso John Denver, o ancora specialisti come Don Edwards e Marty Robbins,  e ci fermiamo qui, se no diventa la lista della spesa. Tyson, ormai veleggia per gli 82 anni e nonostante, abbia avuto problemi alle corde vocali, non ha diradato le sue uscite discografiche, anzi, negli ultimi dieci anni ha pubblicato sei album, compreso questo. La voce risente dell’età e degli acciacchi del tempo, ma è ancora piuttosto buona e la penna regala buone canzoni agli appassionati del genere.

E poi, anche se Ian Tyson è presentato come “The Legendary Singing Cowboy”, le sue canzoni, almeno musicalmente, non sono rigidamente inserite in un sound western puro, raccontano storie, miti e leggende del West, ma il suono è più vario di quello che si potrebbe pensare: accompagnato da Thom Moon, Gord Maxwell e Lee Warden alla chitarra, il repertorio del nuovo album si apre con una ballata atmosferica come Doney Gal, un vecchio traditional, dove delle tastiere suggestive introducono il tema del brano, prima dell’ingresso dei musicisti appena citati https://www.youtube.com/watch?v=kZdqVBgaMvM , per un tipico suono western che viene ribadito in una Colorado Horses, scritta da Will Dudley, che sembra provenire dal repertorio di Joe Ely, Tom Russell, ma anche del miglior Johnny Cash, una western song incalzante e dal ritmo quasi a tempo di valzer, inconfondibile. Will James è un brano più discorsivo, sempre una storia tipica che viaggia sulle ali di una ritmica discreta ma ben presente, belle armonie vocali e fraseggi di chitarra, sia elettrica che acustica, semplici ma ben eseguiti, qualche tocco ben piazzato di pianoforte, affidato alle sapienti mani di Catherine Marx, che è la tastierista dell’album, oltre ad occuparsi della fisarmonica, altro ingrediente immancabile nel genere, in un brano mosso come Jughound Ronnie, una delle due canzoni scritte da Ian Tyson in coppia con Kris Demeanor, giovane artista canadese.

Darcy Farrow, uno dei brani non firmati dal nostro, viene dal passato, una canzone scritta da un giovane Steve Gillette, che fu uno dei primi successi di Ian & Sylvia (ma forse la ricordate anche nelle versioni di John Denver e Nanci Griffith), con la voce di Tyson che mostra lo scorrere del tempo, malinconica e leggermente spezzata, con le tastiere che comunque aggiungono un pizzico di modernità a questa evocativa folk song. Molto bella anche The Flood, l’altra canzone scritta con Demeanor, una ballata avvolgente che stilisticamente forse c’entra poco con le western songs, ma si ascolta con piacere, grazie alla classe innata di Tyson. Shawnie, il brano più lungo del disco, dopo un inizio in sordina si trasforma in un pezzo elettrico, quasi alla Mark Knopfler, ritmo incalzante, una bella chitarra elettrica a caratterizzarne il sound https://www.youtube.com/watch?v=UuJ9ef-mXzw , e pure la lenta e sognante Chantell, forse sembra più un brano del Willie Nelson melodico che una cowboy song; molto piacevole ed epica anche Wolves No Longer Sing, la canzone scritta con Tom Russell (come in passato fu per Navajo Rug), con florilegi del piano della Marx ad impreziosirla. Chiude Cottonwood Canyon dove il violino di Scott Duncan, altro giovane musicista canadese, è il valore aggiunto di una canzone, che suona proprio come una perfetta country song vecchia maniera https://www.youtube.com/watch?v=8PXe7XkBy6g . L’età avanza ma la classe non demorde.

Bruno Conti     

La Classe Non E’ Acqua! James Taylor – Before This World

james taylor before this world cd standard james taylor before this world

James Taylor – Before This World – Concord/Universal CD – Deluxe CD + DVD – Super Deluxe 2CD + DVD + Book

Pur non essendo mai stato un suo grandissimo fan (mi mancano anzi diversi suoi album) a me James Taylor è sempre stato simpatico. Sarà per il suo stile garbato, sarà per la sua espressione costantemente rilassata, ma l’ho sempre visto come il classico vecchio amico che, in caso di bisogno, per te c’è in ogni momento, ha sempre una birra in fresco da offrirti e non ti fa mai mancare una parola di conforto per farti sentire meglio nei momenti difficili. Magari non sarà mai l’amico con cui uscire a fare bisboccia, divertirsi un mondo ma anche rischiare di finire la serata al commissariato (per quello ci sono i Rolling Stones), ma un punto fermo della tua vita a cui rivolgerti quando hai bisogno di sicurezze. Nei paesi anglosassoni uno come Taylor è definito acquired taste, gusto acquisito, cioè appartenente a quella schiera di artisti che nella loro carriera non hanno mai cambiato di una virgola il proprio suono, difficilmente fanno il disco sotto la media e comunque sai esattamente cosa aspettarti da loro, ma se sono ispirati potrebbero anche regalare la classica zampata d’autore: un altro valido esempio potrebbe essere Van Morrison, il cui standard è però sempre stato molto più alto.

Before This World è il diciassettesimo album di studio di James, ed il primo di materiale originale a ben dodici anni di distanza da October Road (nel mezzo c’è stato un ottimo disco di covers + un EP), e giunge quasi a sorpresa, in quanto si pensava che Taylor si fosse praticamente ritirato, apparendo soltanto per qualche sporadica tournée. Invece, dopo un attento ascolto, devo dire che Before This World è meglio di October Road (che pure non era male), e si colloca senza fatica tra i lavori più riusciti del nostro: James si dimostra in forma, per nulla arrugginito, la voce sempre uguale, e la sua capacità di scrivere canzoni semplici ma non banali (il suo marchio di fabbrica) è rimasta intatta.

Oltre a James, che si accompagna come al solito alla chitarra, troviamo un piccolo gruppo di musicisti con la “m” maiuscola, che rispondono ai nomi di Michael Landau alle chitarre, Jimmy Johnson al basso, Steve Gadd alla batteria, Larry Goldings alle tastiere ed Andrea Zonn al violino, gente che ha suonato con chiunque e che è in grado di fornire un tappeto perfetto e di classe alle composizioni di James, con la ciliegina sulla torta della produzione di Dave O’Donnell (uno che ha lavorato con Ray Charles, Herbie Hancock ed Eric Clapton), che dona al disco un suono scintillante. Il pubblico americano ha apprezzato questo ritorno, mandandolo direttamente al primo posto della classifica di Billboard, prima volta che James ottiene un risultato simile, non male dopo più di 45 anni di onorata carriera.

Il CD si apre con Today Today Today, una ballata gentile e leggermente country sia nella melodia che nell’arrangiamento (il violino è protagonista), con la voce limpida ed ancora giovane del nostro a predisporre subito al meglio l’ascoltatore. La lenta e pianistica You And I Again (che si può leggere anche come James che torna a rivolgersi al suo pubblico) è un’altra canzone tipica, delicata, raffinata e molto piacevole, con accompagnamento perfetto ed un’atmosfera anni settanta; molto bella Angels Of Fenway, una sorta di tributo ai Boston Red Sox per i quali evidentemente James fa il tifo, un pezzo cadenzato e con un motivo decisamente orecchiabile.Stretch Of The Highway ha un delizioso sapore errebi, ed il ritornello solare richiama i brani più melodici di Jimmy Buffett (o forse è il contrario, dato che il buon Jimmy ha sempre indicato Taylor come una delle sue maggiori influenze) https://www.youtube.com/watch?v=5xyZhyyRZd0 , Montana è un’altra delicata ballad come solo James sa scrivere, pochi accordi, pochi strumenti, ma grande classe, un brano che rimanda a decenni fa, quando la California era il centro mondiale di un certo cantautorato (lo so che Taylor è nativo della East Coast, ma il suo stile si adattava benissimo al giro di songwriters che bazzicavano dalle parti di Los Angeles). La vivace Watchin’ Over Me è ancora spruzzata di country, con un bell’interplay vocale tra il nostro ed i suoi backing singers; Snowtime è una delle più riuscite, una ballata dal sapore tra il latino ed il caraibico, che avvicina ancora James a Buffett, specialmente nel refrain.

L’intensa e profonda Before This World vede la partecipazione di Sting come seconda voce, ed il brano si fonde in medley con la squisita Jolly Springtime, quasi dal gusto irish, mentre la solida Far Afghanistan, dall’incedere drammatico, è una delle rare escursioni di James nei temi di attualità https://www.youtube.com/watch?v=upw-ox3wkW0 . Chiude l’album una versione del classico traditional Wild Mountain Thyme (conosciuta anche come Will You Go, Lassie, Go), che Taylor rivolta come un guanto per adattarla al suo stile pacato, facendola diventare quasi una sua canzone.

Bentornato, vecchio amico.

Marco Verdi

P.S: l’album esce sia in versione “normale”, sia con accluso un DVD con il making of, sia con la classica edizione Super Deluxe (e super costosa) che aggiunge al tutto un secondo CD con cinque pezzi extra ed un librone da collezione.

P.S. del P.S: per confondere ancora un po’ le idee, la catena americana Target ha in esclusiva una versione del CD con tre brani aggiunti, che però non fanno parte dei cinque della Super Deluxe Edition. Allegria …

In Belgio Non Solo Ciclisti, Anche Bluesmen Bravi! Guy Verlinde – Better Days Ahead

guy verlinde better days

Guy Verlinde – Better Days Ahead – Dixiefrog/Ird

Lo ammetto, ero già pronto a della facile ironia: mancava solo il bluesman belga per completare la mia “collezione” di rappresentanti delle 12 battute in giro per il mondo (di recente arricchita con austriaci e svedesi). Chi è questo Guy Verlinde? Un ciclista forse … al limite se fosse stato Van Der Linden avrebbe potuto essere l’organista degli Ekseption, ma quelli erano olandesi. E invece questo signore, con lo pseudonimo Lightnin’ Guy, ha già fatto parecchi album, gli ultimi due per la Dixiefrog, che peraltro nello spazio sul proprio sito ufficiale riesce anche a ciccarne il nome, scrivendolo senza n, Lightin’ Guy! Il nostro amico non è più un giovanotto, veleggia verso i 40 anni,  ha già pubblicato sei album negli ultimi anni, vincendo tutti i premi disponibili: come miglior musicista blues belga (giustamente direte voi, sì ma la concorrenza?), piazzandosi anche al 4° posto agli European Blues Awards del 2012 e vincendo il premio come miglior Live Blues Act nel 2014. Nell’Europa del Nord dove è sempre in tour come un disperato è in effetti una sorta di celebrità, oltre al Belgio, all’Olanda (dove è stato registrato questo nuovo Better Days Ahead), anche Germania e Francia, ma pure Austria, Lussemburgo e Slovacchia vengono visitati dal buon Guy.

Nel frattempo, mentre scrivo queste note, sto ascoltando il CD, e devo ammettere che è piuttosto buono, non si può gridare al miracolo, ma è decisamente valido: come ricorda lui stesso nelle note del CD le sue radici non si trovano certamente nel fango della zona tra Clarksdale e il Mississippi o lungo le strade di Chicago, Illinois, ma la sua visione del blues, non essendo “Vecchia scuola” e quindi più contemporanea, tiene conto però della lezione del passato (per esempio alla musica di uno come Hound Dog Taylor ha dedicato un intero album dal vivo) e citando il famoso motto del grande B.B. King ricorda che il blues è una musica che parla “ di un uomo buono, a cui tutto va male e cerca di migliorarsi”, più o meno. Quindi contano i sentimenti e anche se lo stile sonoro che usa Verlinde è più contemporaneo, non per questo è meno valido. La voce è interessante, morbida a tratti, più grintosa in altri, da bianco comunque, lo stile chitarristico è molto completo, in grado di spaziare dalla tiratissima apertura di Better Days Ahead, dove la chitarra viaggia spedita e sicura su una ritmica di chiaro stampo rock, con i continui rilanci della solista, dal sound pulito e ricco di tecnica, anzi se tutto il disco fosse al livello di questa apertura, parlerei di piccolo gioiellino. Comunque  il resto del disco è più che buono, nelle derive più ortodosse di una Heaven Inside My Head, dove Guy sfodera la sua chitarra Resonator e Steven Troch aggiunge una armonica tosta, o nel rock-blues tirato di Wild Nights dove vengono evocate atmosfere quasi alla Rory Gallagher, o dell’amato Hound Dog Taylor via Thorogood, e comunque vicine pure al classico british blues elettrico, innervato ancora dalla ficcante armonica di Troch.

Al sound giova sicuramente la presenza di un secondo chitarrista, tale Luc Alexander, che ampia lo spettro sonoro delle canzoni, tutte firmate da Guy Verlinde.  Nei momenti più riflessivi, quasi rootsy, di Sacred Ground, dove la resonator slide del belga è circondata da acustiche, organo e dalle voci di un paio di coriste femminili, spesso presenti nelle canzoni del disco, si respira comunque un aria che non è mai troppo deferente verso il blues, ma lo arricchisce di spunti cantautorali. Into The Light, con le due chitarre a rispondersi dai canali dello stereo ha la stamina del rock classico, con l’organo che aggiunge tratti quasi heavy, prima di lasciare un breve spazio solista alla chitarra  in modalità slide, sembra quasi di sentire i Ten Years After dei bei tempi che furono. Non mancano blues più canonici, come lo shuffle di Learnin’ How To Love You, con chitarra e armonica di nuovo in primo piano, ballate mid-tempo come la piacevole Call On Me, sempre con la slide di Verlinde in bella evidenza o il folk-blues meticciato da sprazzi di elettricità della sinuosa The One. Niente per cui stracciarci le vesti, ma questo signore si ascolta con piacere. Feel Alive vira nuovamente verso cavalcate blues-rock, senza la veemenza di un Thorogood ma pervase da un buon lavoro delle onnipresenti chitarre che danno un feeling quasi sudista, Release Yourself From Fear è un altro classico esempio di buon blues con ampie dosi di rock e Don’t Tell Me That You Love Me è una inconsueta morbida ballata che conclude l’album su una nota più riflessiva. Per chi vuole conoscere la via belga al Blues!

Bruno Conti   

Due Vispi Giovanotti! Willie Nelson & Merle Haggard – Django And Jimmie

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Willie Nelson & Merle Haggard – Django And Jimmie – Sony CD

Non è la prima volta che Willie Nelson e Merle Haggard (texano di Abbott il primo, californiano di Bakersfield il secondo, 160 anni in due) fanno un disco in coppia. Il loro “esordio” insieme è datato 1983, con il famoso Pancho & Lefty, seguito quattro anni dopo dal meno riuscito Seashores Of Old Mexico (ma gli anni ottanta sono stati un periodo gramo per entrambi), mentre, in anni più recenti, i due hanno dato alle stampe il discreto Last Of The Breed in trio con Ray Price, seguito a ruota dalla sua controparte dal vivo. Ora ho tra le mani il nuovo lavoro delle due leggende viventi della musica country, intitolato Django And Jimmie (dedicato a Django Reinhardt e Jimmie Rodgers, due delle maggiori influenze rispettivamente di Nelson e Haggard) e, con tutto il rispetto per gli album che ho citato prima, qui siamo su un altro pianeta. Intanto i due sono in forma strepitosa, cosa ancora più incredibile data l’età avanzata, poi ci sono una serie di canzoni che nulla hanno da invidiare a quelle più note dei rispettivi songbook, ed il tutto è prodotto ottimamente dall’esperto Buddy Cannon, cioè uno dei migliori produttori in circolazione in ambito country https://www.youtube.com/watch?v=LFaJL5X7cu8  . Django And Jimmie è un disco di canzoni classiche, come uno ci si può aspettare dai due, ma cantato alla grande, suonato ancora meglio (tra i soliti noti abbiamo Mickey Raphael all’armonica, Dan Dugmore alla steel, Ben Haggard, figlio di Merle, alla chitarra solista, Mike Johnson a slide e dobro, persino Alison Krauss alle backing vocals), e griffato dalla produzione limpida di Cannon, che dà ai brani un suono splendido. Non mi stupisco di Nelson, che negli ultimi anni sembra vivere una seconda giovinezza, ma un Haggard così tirato a lucido non lo sentivo da anni.

La title track apre il CD, ed è una classica ballata dei nostri, suonata in punta di dita e con una melodia profonda e toccante, resa ancora più bella dalle voci vissute dei due https://www.youtube.com/watch?v=BZRrg8rorns . It’s All Going To Pot vede la gradita partecipazione di Jamey Johnson (che è anche co-autore del pezzo), ed è un vivace brano country-rock, dal ritmo alto e con un refrain decisamente trascinante (e Willie inizia a farci sentire la sua Trigger); la lenta Unfair Weather Friend sa toccare le corde giuste, e la voce di Willie, più di quella seppur bella di Merle, regala autentici brividi https://www.youtube.com/watch?v=tsjOiY1pNz8 . Missing Ol’ Johnny Cash è uno dei brani centrali del disco, un sentito omaggio all’Uomo in Nero, con tanto di boom-chicka-boom ed il talkin’ tipico di Johnny, con in più la presenza vocale di Bobby Bare, altra leggenda vivente; Live This Long è invece una ballata fluida, del tipo che i nostri hanno sfornato a centinaia nel corso della carriera, grande classe e suono superbo; Alice In Hualand è un valzerone texano scritto da Willie e Cannon, godibilissimo come d’altronde il resto del disco finora. Don’t Think Twice, It’s All Right, proprio quella di Bob Dylan, è un altro degli highlights: prendete una grande canzone, datela in mano a due fuoriclasse e ad un produttore con tutti i crismi e l’esito non potrà che essere eccellente: la versione dei due è limpida e spedita, con un sapore folk che rimanda all’originale del grande Bob; Family Bible (l’ha fatta anche Cash) è un bellissimo honky-tonk pianistico che più classico non si può e rimanda al periodo in cui Haggard (qui canta solo lui) andava costantemente al numero uno. Splendida e commovente.

It’s Only Money è tra country e rockabilly, gran ritmo e le due voci che si alternano alla perfezione (e la band li segue come un treno) https://www.youtube.com/watch?v=uFT1ZLGU6Lc ; ancora honky-tonk deluxe con Swinging Doors, una vera goduria per le orecchie, cantano e suonano tutti da Dio, mentre l’intensa Where Dreams Come To Die è un tipico slow di Willie (quindi bello). Chiudono l’album la languida Somewhere Between, ancora con una prestazione vocale di Nelson da pelle d’oca, la vivace Driving The Herd, con il solito gran lavoro all’armonica da parte di Raphael, e The Only Man Wilder Than Me, che sembra una outtake del mitico Waylon & Willie, solo con Haggard al posto di Jennings. Uno dei migliori country records del 2015: in giro ci saranno anche tante nuove leve di ottimo livello, ma quando i “vecchietti” si mettono in moto danno ancora dei punti a tutti.

Marco Verdi

Questa E’ La Nashville Che Piace A Noi! Dylan, Cash And The Nashville Cats: A New Music City

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Artisti vari – Dylan, Cash And The Nashville Cats: A New Music City – Sony Legacy 2CD

Nella sua lunga carriera Bob Dylan è stato un innovatore ed un precursore in varie fasi e per motivi diversi (la svolta elettrica di Newport del 1965 è senz’altro la più famosa), ma uno degli episodi passati forse più sottotraccia è stato quando, su suggerimento del produttore Bob Johnston, si recò a Nashville nel 1966 per incidere il capolavoro Blonde On Blonde con l’ausilio di sessionmen locali. Fino a quel momento infatti Nashville era stata un mondo a parte, un luogo dove veniva registrata quasi tutta la musica country prodotta in America, e l’incontro con Dylan segnò una svolta importante, in quanto da quel momento i due mondi, quello del country e quello del rock, incominciarono a fondersi insieme, e sempre più artisti cominciarono a recarsi nella città del Tennessee a registrare i loro dischi. Dall’altro lato, anche uno come Johnny Cash, cioè un countryman atipico (che cantava del vecchio West, del duro lavoro e degli Indiani d’America, ed aveva un sound tutto suo) usava da anni Nashville per i suoi scopi: fu quindi inevitabile che le due icone della musica americana (che si stimavano profondamente a vicenda) si incontrassero, con Cash che scrisse le note di Nashville Skyline di Dylan, duettando anche nel rifacimento di Girl From The North Country, e Bob che ricambiò il favore intervenendo nel famoso show televisivo di Johnny, una delle sue rarissime apparizioni televisive. Quest’anno, per celebrare questo incontro (ed in generale l’incontro tra country e rock), la Country Music Hall Of Fame ha aperto al suo interno una esibizione temporanea intitolata Dylan, Cash And The Nashville Cats: A New Music City, di cui il doppio CD che mi accingo a commentare è l’ideale colonna sonora.

dylan cash nashville cats back

I Nashville Cats citati nel titolo non sono altro che quel gruppo di splendidi musicisti di stanza a Nashville che erano la costante nei vari lavori registrati nella Music City, gente che troviamo su decine e decine di album dell’epoca e che erano in grado di suonare qualunque tipo di musica (anche se il country era il loro pane quotidiano); solo per fare alcuni nomi, stiamo parlando di Charlie McCoy, Pete Drake, Lester Flatt, Earl Scruggs, Ben Keith, David Briggs, Charlie Daniels, Kenny Buttrey, Norbert Putnam, Hargus “Pig” Robbins, Mac Gayden e molti altri. Il doppio album in questione mette in fila una bella serie di brani, alcuni famosissimi, altri meno noti, altri ancora piuttosto oscuri (con un solo inedito, ma di grande interesse) incisi tra la metà degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, con il comune denominatore di avere proprio i Nashville Cats come fiore all’occhiello al loro interno. Un’opera di grande valore, sia musicale che didattico, che, anche se va sul sicuro puntando in gran parte su brani conosciuti, si ascolta con immenso piacere.

Nel primo CD c’è parecchio Dylan, sia come interprete (Absolutely Sweet Marie e I’ll Be Your Baby Tonight) che come autore (It Ain’t Me Babe di Cash, Down In The Flood di Flatt & Scruggs, una versione molto roots di un classico minore di Bob, You Ain’t Goin’ Nowhere dal seminale Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds ed un’intensa This Wheel’s On Fire ad opera di Ian & Sylvia); le chicche sono Harpoon Man, un vivace e ritmatissimo shuffle di Charlie McCoy & The Escorts, con Charlie strepitoso all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=pKofxEx_b_8  (pare che Dylan, sentito questo pezzo, abbia invitato McCoy a suonare su Desolation Row…la chitarra!), la splendida Gentle On My Mind nella versione del suo autore, John Hartford (brano poi portato al successo da Glen Campbell), un uno-due di gruppi pop (The Monkees ed i Beau Brummels) in due pezzi decisamente country (Some Of Shelly’s Blues e Turn Around rispettivamente), Blowing Down That Dusty Road tratta dal bellissimo Thinking Of Woody Guthrie di Country Joe McDonald https://www.youtube.com/watch?v=5K42fjZuZrw . In più, brani notissimi quali Hickory Wind ancora dei Byrds, Bird On A Wire di Leonard Cohen, The Boxer di Simon & Garfunkel (con il Nashville Cat Fred Carter Jr. alle chitarre e dobro) e la divertente If You Don’t Like Hank Williams di Kris Kristofferson (qui in versione demo).

Il secondo dischetto (che inizia con il duetto Dylan-Cash di Girl From The North Country, non poteva mancare) si distingue per la presenza dell’unico inedito: una versione alternata di If Not For You di Dylan dominata da piano, steel e violino, molto più lenta di quella finita poi su New Morning e secondo me migliore https://www.youtube.com/watch?v=UZPUJ2MK3CM  (anche se la mia preferita è quella pubblicata sul primo volume delle Bootleg Series, con George Harrison alla chitarra). Per il resto, qui sono concentrate la maggior parte delle canzoni note, da Joan Baez con la sua versione di The Night They Drove Old Dixie Down di The Band, Steve Goodman con la sua signature song City Of New Orleans, Neil Young con Heart Of Gold (scelta un po’ scontata, speravo che Neil concedesse una sbirciatina agli archivi, ma quando mai…), Crazy Mama di J.J. Cale, Seven Bridges Road di Steve Young (una hit qualche anno dopo per gli Eagles) e la Nitty Gritty Dirt Band con l’inno Will The Circle Be Unbroken tratto dall’omonimo primo volume. Poi abbiamo i Beatles in versione solista (tranne Lennon): George con la bella Behind That Locked Door (la splendida steel è di Pete Drake), Ringo con la godibile Beaucoups Of Blues e Paul (insieme ai Wings) con la vivace, e molto country, Sally G. A completamento abbiamo la bellissima Driftin’ Way Of Life del grande Jerry Jeff Walker, la non molto nota Going To The Country della Steve Miller Band (con McCoy scatenato all’armonica), la deliziosa Silver Wings (di Merle Haggard), tratta da un album di Earl Scruggs ma cantata da Linda Ronstadt, il vivace honky-tonk di A Six Pack To Go ad opera di Hank Wilson, che altri non è che Leon Russell sotto mentite spoglie https://www.youtube.com/watch?v=1gZ_qPr1aCg . Finale travolgente con la classica Matchbox, suonata da Derek & The Dominos con Cash e Carl Perkins (il suo autore), e tratta dallo show dell’Uomo in Nero (un altro mezzo inedito, almeno su CD, in quanto viene dalla versione in DVD del meglio del Johnny Cash Show) https://www.youtube.com/watch?v=XZQX9Xtgkps .

In definitiva, un disco perfetto da ascoltare, per esempio, in macchina, ma anche un’opera indispensabile per qualsiasi neofita, anche se ci si poteva sprecare di più per quanto riguarda gli inediti.

Marco Verdi

Addirittura Mille, Bravi Però! A Thousand Horses – Southernality

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A Thousand Horses – Southernality – Republic Nashville/Universal

I cavalli, solitari o numerosi, sono sempre stati presenti nell’iconografia del rock, ma gli A Thousand Horses hanno voluto esagerare e sbaragliano la concorrenza, presentandosi in mille. Giovani “cavallini” alla prima prova lunga, Southernality, nel 2010 avevano pubblicato un EP d’esordio, prodotto da Dave Cobb, ( Jason Isbell e Sturgill Simpson, ma anche Chris Stapleton, Houndmouth e Whiskey Myers, un nuovo piccolo Re Mida del sound ); sono attualmente un quartetto, anche se il batterista Chris Powell, presunto membro esterno,  appare in tutti i brani del nuovo album: li guida il cantante Michael Hobby, che compone anche gran parte del materiale, mentre le due chitarre soliste sono affidate a Zach Brown (con l’h finale) e Bill Satcher, con Graham De Loach al basso e Michael Webb, spesso aggiunto alle tastiere https://www.youtube.com/watch?v=qj3n9kwoKbY . A giudicare dalle foto sono ancora abbastanza giovani, vengono da Nashville, Tennessee e questo album fa ben sperare per il futuro: un esordio interessante, che oltre al southern, presente nel titolo, aggiunge fortissimi elementi country, ampie dosi di rock classico, con influenze degli Stones come dei Black Crowes, oltre ad Allman Brothers e Lynyrd Skynyrdlo scorso anno sono stati indicati come gli esordienti più interessanti all’Austin City Limits Festival –  questo album, secondo chi scrive, li inserisce in quella ristretta pattuglia di nuove band rock sudiste, tipo Blackberry Smoke e Whiskey Myers, che vale la pena di seguire. E per essere precisi fino in fondo, Hobby e Satcher vengono dal South Carolina, quindi dal profondo Sud.

L’iniziale First Time, forse il brano migliore del CD, sembra proprio un pezzo degli Stones del periodo americano o dei Black Crowes, con tanto di coretti femminili alla Gimme Shelter, volendo un po’ derivativo (tolgo il forse?), ma l’insieme di chitarre spianate, organo e piano a decorare il tutto, è quanto di meglio il rock classico possa offrire, e se non è “nuovo” ce ne faremo una ragione, il cuore e lo spirito sono al posto giusto, i ragazzi ci danno dentro di gusto e siamo solo al primo brano https://www.youtube.com/watch?v=3pPS6x4a-4Q . Heaven Is Close con Dave Cobb all’acustica, un violino e un banjo non accreditati ma presenti, a fianco delle chitarre di Brown e Satcher, con Hobby che canta con voce forte e sicura è un brano di chiara impronta country-rock, con tanto di citazione di Me And Bobby McGee nel testo, in questo viaggio ideale alla ricerca del Paradiso, dalle Grandi Pianure a New Orleans al fiume Mississippi, conferma che i ragazzi hanno classe e anche le canzoni per mostrarcela. Smoke è una ballatona country-rock di quelle classiche americane, ancora con grande uso di armonie vocali corali, piogge di chitarre, anche l’aggiunta della steel di Robby Turner, è significativa, tastiere avvolgenti, con Webb impegnato a Moog e Mellotron, oltre che al violino (quindi probabilmente era lui anche nel brano precedente). Travelin’ Man, con Hobby pure  all’armonica, ha un taglio decisamente più sudista, andatura incalzante, l’organo che disegna sottofondi accattivanti e le soliste taglienti di Brown e Satcher che si sfidano in continui duetti, grande pezzo rock https://www.youtube.com/watch?v=Yg5C9vH22fA .

Tennessee Whiskey non è quella del recente album solista di Chris Stapletonbella comunque, è firmata da Hobby e Satcher, ma in comune con il brano del musicista di Traveller ha una chiara impronta country, di quello rootsy e ruspante però, con la steel nuovamente tra le protagoniste assolute della canzone. Sunday Morning, porta anche la firma di Rich Robinson, ed in effetti le ballate più riflessive dei Black Crowes vengono subito alla mente, rock anni ’70 e spruzzate soul che si estrinsecano nella coralità delle armonie vocali, affiancate dal suono morbido della solita pedal steel. Rock chitarristico nuovamente protagonista nella title-track Southernality, con piano ed armonica, oltre ad uno slide malandrina, ad aumentare la quota southern delle operazioni. (This Ain’t No) Drunk Dial è una di quelle hard ballads che provengono da una lunga discendenza che parte dai Lynyrd meno ingrifati, passa per lo Steve Earle elettrico e arriva fino ai Blackberry Smoke, altro grande brano, molto cantabile; Landslide, come dicono loro stessi nel testo, potrebbe essere “southern soul”, non male come definizione, mentre Back To Me è un’altra ballata sincera, con il cuore in mano, armonie e intrecci elettroacustici che ci rimandano al miglior country https://www.youtube.com/watch?v=HLEZvj1F4T8 . Trailer Trashed, nella giusta alternanza, è un altro stilettata rock, chitarristica ed irruenta, seguita, indovinato, da un’altra ballata come Hell On My Heart, dove le chitarre vivacizzano il tono della canzone e Where I’m Going rimane in territori decisamente country, per un finale morbido e più vicino al classico country di Nashville, non troppo bieco ma neppure trasgressivo. Bravi, anche se dovrebbero temperare una tendenza verso certi momenti dove la quota zuccherosa è forse troppo accentuata, ma l’esordio è di quelli interessanti, da consigliare a chi ama il genere.

Bruno Conti