La Difficile Arte Del Disco-Tributo! A Blues Tribute To Creedence Clearwater Revival

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A Blues Tribute To Creedence Clearwater Revival – Cleopatra Records

Un tributo blues ai Creedence? Però! Poi ho letto che era della Cleopatra Records, e qui ci è scappato un bel uhm, perché la qualità dei prodotti della casa americana è molto ondivaga. Spesso il problema dei tributi (non solo questi della Cleopatra) è quello della discontinuità, della volatilità nel reparto qualità di questo tipo di prodotti: artisti molto diversi, riuniti nel nome di una passione, di un amore per l’artista a cui viene dedicato questo omaggio, e in qualche caso solo per biechi motivi di esposizione mediatica, in quanto alcuni  degli artisti coinvolti, per dirlo con una frase fatta, ma efficace, “c’entrano come i cavoli a merenda”. In questo caso, come il titolo lascia intendere, il pericolo dovrebbe essere molto circoscritto: “un tributo Blues”! Poi tra i nomi leggi, Blitzen Trapper, Mynabirds, Spirit Family Reunion, Dead Man Winter, Leroux, ohibò, forse mi son perso qualcosa, non sapevo costoro facessero blues. Ma nello stesso tempo, prima di ascoltarlo, mi sono pervenute voci molto confortanti che iniziavano a parlare del miglior tributo ai Creedence mai uscito. A questo punto non rimane che ascoltarlo!

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E devo dire che se non è il migliore mai uscito sicuramente rientra nel novero di quelli riusciti. In siffatte operazioni è quasi inevitabile che qualche brano mediocre o meno riuscito ci scappi, ma qui la percentuale è bassa, in compenso ce ne sono alcuni che valgono il prezzo di ammissione da soli. A partire da una versione ferocissima, e stupenda, di Fortunate Son, posta in apertura, che vede Mike Zito, voce solista, perfetta per l’occasione e Samantha Fish, voce di supporto, entrambi ottimi chitarristi, unire le forze con la vorticosa chitarra slide di Sonny Landreth (in questo caso ovviamente il solista è lui, ubi maior minor cessat) in forma strepitosa. Ma anche chi deraglia dallo spirito del blues, e anche da quello dei Creedence, come la formazione a guida femminile dei Mynabirds, se lo fa con il gusto e l’inventiva utilizzati per una versione psichedelica, sognante e rarefatta, ma anche molto bella di Bad Moon Rising, come quella che ascoltiamo in questo CD, si può “tollerare”. Intollerabile, viceversa, per chi scrive, la versione poco riuscita di Proud Mary fatta dai Blitzen Trapper, gruppo che non mi dispiace in assoluto, ma qui pare assolutamente fuori contesto, in una versione “molto alternativa”, ma anche brutta, tra le peggiori mai ascoltate, il brano reso irriconoscibile, va bene reinterpretare, ma qui si tenta il delitto di lesa maestà, per uno dei brani più belli della band di Fogerty, forse ho esagerato, magari a qualcuno piacerà, ma parliamo dei cavoli a merenda di cui sopra.

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Oltre a tutto, in questo tributo, a differenza di altri casi, si sono scelti (quasi) tutti i brani più celebri della band. E quindi ecco scorrere una Down On The Corner che rispetta lo spirito roots ante litteram che aveva su Willy And The Poor Boys, nella versione quasi acustica degli Spirit Family Reunion, banjo, fisarmonica, una batteria minimale e una voce rauca adatta alla bisogna, per una versione spartana ma godibile, a Kalamazoo potrebbe piacere. Anche Have You Ever Seen The Rain, nella versione dei Dead Man Winter, mantiene questo spirito acustico e delicato, per una canzone che rimane stupenda. I Leroux portano lo spirito della loro città, New Orleans, ad un gruppo e ad una band che le paludi e il bayou dei dintorni lo hanno bazzicato, non male la versione, tra southern, cajun e Little Feat, di Looking Out My Back Door. Who’ll Stop The Rain diventa un vibrante blues nella rilettura gagliarda che ne fa Duke Robillard, anche in ottima forma vocale. Molto canonica pure la rilettura di Up Around The Bend della South Memphis String Band, ossia Alvin Youngblood Hart, Jimbo Mathus (alla batteria) e Luther Dickinson, come fossero tre amici che si ritrovano in garage per fare un po’ di casino!

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Will Wilde, di cui ignoravo l’esistenza prima di questo tributo, è un’armonicista inglese che riporta lo spirito blues nel disco e potrebbe rientrare in quella new wave di artisti britannici, come gli Strypes, che ci riportano agli albori del blues inglese, veramente gagliarda la rilettura di Susie Q, il brano a firma Dale Hawkins https://www.youtube.com/watch?v=hM9TIhvKEC4 La chitarra di Smokin’ Joe Kubek e la voce di Bnois King ci riportano nel sud degli States per una buona versione di Run Through The Jungle, minacciosa il giusto e niente male anche la Green River di Kirk Fletcher, che rialza la quota blues del tributo. Che raggiunge l’altro picco di qualità con una bellissima Born On The Bayou dei fratelli Schnebelen, Danielle, Kris e Nick, ossia i Trampled Under Foot, che ancora una volta confermano tutto quello di bene che si dice di questo gruppo, grande voce e grande musica. Quindi, in conclusione, molte più luci che ombre, forse non troppo blues, ma tanto rispetto ed amore per la musica dei Creedence!  

Bruno Conti

Prossimo Disco Dal Vivo Per Eric Johnson – Europe Live

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Eric Johnson – Europe Live – Mascot/Provogue/Edel CD/2LP 24-06 UK/EU 01/07 ITA

Come dicevo, recensendo il precedente Up Close Another Look http://discoclub.myblog.it/2013/02/13/provaci-ancora-eric-una-anteprima-eric-johnson-up-close-anot/ , Eric Johnson non è un artista particolarmente prolifico, tra dischi in studio, dal vivo e il progetto G3 fatichiamo ad arrivare a dieci. Quindi questo nuovo Europe Live giungerà come una gradita sorpresa per i fans del chitarrista texano. Registrato nel corso del tour europeo del 2013, la maggior parte del materiale proviene dalla serata al Melkweg di Amsterdam, con alcuni brani tratti da due date in Germania, ed è l’occasione per fare il punto della situazione sulla sua carriera, ma soprattutto per ascoltare uno dei massimi virtuosi della chitarra elettrica attualmente in circolazione: il genere di Johnson non è di facile definizione, sicuramente c’è una forte componente rock, ma anche notevoli accenti prog, blues, fusion, jazz e qualche piccola spolverata di country, folk e qualsiasi altra musica vi venga in mente, con l’enfasi posta proprio sul virtuosismo allo strumento, in quanto la musica prevede poche parti cantate e quindi si basa molto sul lavoro alla chitarra di Eric, che in questa occasione (come quasi sempre) si esibisce in trio, con gli ottimi (benché non molto noti Chris Maresh al basso e Wayne Salzmann alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=4M6amrKDt1w .

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Tra i suoi prossimi progetti ci sono collaborazioni con il collega Mike Stern e nuovi dischi in studio, sia elettrici che acustici, mentre in tempi recenti è stato possibile ascoltarlo nei dischi di Sonny Landreth, Christopher Cross, Oz Noy, e sempre Mike Stern, mentre il side-project degli Alien Love Child (dove appariva il bassista Maresh) al momento sembra silente. Proprio da quel disco proviene Zenland, uno dei brani più rock di questo Live, preceduto da una breve Intro, che è una delle due tracce inedite di questo album. Austin, è il brano dedicato da Mike Bloomfield alla città texana, uno di quelli cantati dallo stesso Eric, anche se la versione di studio su Up Close, mi pareva più grintosa, non si può negare il fascino di questo brano, dove il blues assume quell’allure molto raffinata che lo avvicina a gente come Robben Ford, Steve Morse ed altri musicisti “prestati”  alle dodici battute, anche se nel caso di Robben è vero amore https://www.youtube.com/watch?v=KPH8YitsJwQ .

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Forty Mile Town è una ballata romantica e dagli spunti melodici, cantata sempre da Johnson, in modo più che dignitoso, ma non memorabile, nobilitata da un lirico assolo. Una delle cover principali del disco è una versione vorticosa di Mr. P.C, un brano di John Coltrane, quasi dieci minuti di scale velocissime ed improvvisate che escono dalla chitarra di Johnson, con ampio spazio per gli assolo del basso di Maresh e della batteria di Salzmann, come nei live che si rispettano, siamo più dalle parti del jazz-rock e della fusion, ma il tutto viene eseguito con grande finezza. Manhattan era su Venus Isle, il disco del 1996, un altro strumentale naturalmente molto intricato nei suoi arrangiamenti, con la chitarra sempre fluida ed inventiva del titolare a deliziare la platea dei presenti e noi futuri ascoltatori del CD. Zap, che era su Tones, il suo disco migliore, a momenti vinse il Grammy nel 1987 come miglior brano strumentale, ed è una bella cavalcata a tempo di rock, con continui cambi di tempo e tonalità della struttura del brano e Chris Maresh che fa numeri alla Pastorius con il suo basso elettrico fretless.

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A Song For Life vede Eric Johnson passare all’acustica, un brano tra impressioni classiche e new age, che si trovava sul primissimo Seven Worlds. Fatdaddy viceversa viene dall’ultimo Up Close ed è uno dei brani più tirati dell’intero concerto, quasi a sfociare in un hard rock virtuosistico degno dei migliori Rush o dei più funambolici Dixie Dregs dell’amico Steve Morse. Last House On The Block è il brano più lungo del CD, una lunga suite di oltre dodici minuti, tratta dal disco degli Alien Love Child, divisa in varie parti, anche cantate, e tra le migliori cose del concerto nei suoi continui cambi di tempo ed atmosfere sonore, che si avvicinano, a momenti, al miglior rock progressive degli anni ’70. La breve Interlude ci introduce al brano più famoso di Johnson, Cliffs Of Dover, che il Grammy lo ha vinto (video vintage https://www.youtube.com/watch?v=smwQafhNU6E, altra cavalcata nel migliore rock progressivo, mentre Evinrude Fever, è l’altro brano inedito presentato in anteprima in questo tour europeo e che è l’occasione per una bella jam di stampo rock con tutta la band che viaggia a mille sui binari del rock più travolgente, con intermezzi blues e R&R inconsueti nel resto del concerto. Finale con Where The Sun Meets The Sky ribattezzata per l’occasione Sun Reprise, un brano affascinante, molto complesso nel suo dipanarsi, con effetti quasi cinematografici e che chiude degnamente questo Live destinato agli amanti di un certo rock, ricco di virtuosismi ma non privo di sostanza e qualità.

Bruno Conti

*NDB In questi giorni mi sono accorto che, a mia insaputa (come all’ex ministro Scajola), è stato aperto un canale su YouTube dedicato al Blog https://www.youtube.com/channel/UC_HDvJLsHP-MY0cQQjjb_Aw, probabilmente generato dai moltissimi video che inserisco in ogni Post oppure dalla nuova piattaforma WordPress utlizzata da MyBlog, non saprei dirvi, comunque c’è e potete entrare a leggere i post anche da lì.   

Vere Leggende Del Blues! John Mayall – A Special Life

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John Mayall – A Special Life – Forty Below Records/Ird

John Mayall è una delle ultime vere Leggende del Blues ancora in vita, non di quelle autoproclamate o fittizie che spuntano come funghi da ogni angolo, glorie locali, di quartiere, regionali, persino di condominio, il termine leggenda si usa a sproposito, ormai, per carneadi vari. Per il vecchio campione del British Blues le 80 primavere sono passate da qualche tempo  , ma non sembra avere intenzione di rallentare la sua attività: l’ultimo “grande” disco probabilmente dista nel tempo varie decadi, ma un suo album si fa sempre preferire rispetto alla miriade di pubblicazioni di genere che escono ogni mese. Mayall non è un grandissimo, forse in nessuna delle sfaccettature della sua arte, buon cantante, con quel suo particolare stile vocale, leggermente “strangolato”, rilassato e classico, discreto chitarrista, onesto tastierista, all’organo, piano e piano elettrico, forse eccelle solo come armonicista, ma non è sicuramente uno dei massimi virtuosi viventi.

Il suo vero “mestiere” è quello del band leader, lo scopritore di talenti, anche se i tempi di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor sono un lontano ricordo (pure se Eric e Mick erano tornati per i festeggiamenti del 70° di John, culminati nell’ottimo CD/DVD 70th Birthday Concert), le ultime ottime edizioni dei Bluesbreakers risalgono al periodo in cui le soliste erano affidate a Coco Montoya e Walter Trout, quasi una vita fa, e l’ultimo chitarrista di talento cristallino passato nella formazione è stato Buddy Whittington. Ma come si diceva, forse anche per una questione di prestigio, un suo album ha sempre quel fascino particolare dato dal nome, comunque sinonimo di qualità. Dischi memorabili non ne ricordo da tempo: gli ultimi di studio, In The Palace Of The King e Tough, soprattutto quest’ultimo, erano degli onesti prodotti, magari anche migliori di alcune uscite a cavallo tra la fine anni ’70 e i primi anni ’80, prima di ripristinare la ragione sociale Bluesbreakers, che avevano “sporcato” il suo CV.

Di Live, spesso interessanti, ne escono ancora spesso (alcuni anche solo tramite il suo sito, Private Stash) e questo A Special Life, senza fare gridare al miracolo, dopo ripetuti ascolti, mi sembra un buon prodotto. Il primo pubblicato per una nuova etichetta, la Forty Below Records, si avvale di alcuni buoni musicisti scovati da Mayall sul territorio statunitense, la sezione ritmica di Chicago, Greg Rzab al basso e Jay Davenport alla batteria, il bravo chitarrista texano Rocky Athas, in cui qualcuno ha rilevato attitudini claptoniane, che, sotto la produzione di Eric Corne, hanno realizzato nel mese di novembre dello scorso anno (proprio nel periodo in cui John compiva 80 anni), in quel di North Hollywood, California, dove il nostro vive, beato lui, dai tempi di Blues From Laurel Canyon, questo piacevole album.

La formula è quella tipica dei dischi di Mayall, alcuni brani originali, uno anche affidato ai componenti della sua band, Like A Fool, che porta la firma di Rzab, qualche classico, magari minore, come That’s Allright, che porta la firma di James Lane, vero nome di Jimmy Rogers, guidata dall’armonica sempre pimpante di John, Big Town Playboy di Eddie Taylor, col piano e ancora la mouth harp in bella evidenza e Just Got To Know di Jimmy McCracklin, un bel blues lento dove si apprezza la solista di Athas, mentre CJ Chenier è la seconda voce a fianco di Mayall. Proprio C.J. Chenier, il figlio di Clifton, porta un soffio di freschezza nel brano di apertura, una inconsueta cover di un pezzo del babbo, Why Did You Go Last Night, che proprio per la presenza della fisarmonica di Chenier aggiunge un inatteso tocco cajun al sapore della canzone, peraltro eseguita molto bene.

Speak Of The Devil non si può certo definire un classico, ma il brano di Sonny Landreth ha una urgenza rock nelle pieghe del suo DNA e la voce di Mayall è sempre forte e vibrante, uguale a sempre, senza cedimenti, e la band, da Athas in giù ci dà dentro alla grande, sembrano quasi gli ZZ Top. World Gone Crazy è uno di quei brani di stampo ecologico che periodicamente riaffiorano nell’opera dell’artista britannico e l’arrangiamento ha una varietà e una freschezza sorprendente. Flood in’ In California è un brano poco conosciuto, ma mirabile, di Albert King, uno dei preferiti di Mayall da sempre, un bel sound contemporaneo, con organo e tastiere ben miscelate nella produzione precisa di Corne e la chitarra libera di creare sonorità inconsuete per la produzione mayalliana.

A Special Life e Just A Memory sono due capitoli della sua autobiografia in musica, la prima malinconica e pensosa, la seconda una ballata blues pianistica di classe sopraffina, tra le migliori composte dal nostro nelle ultime decadi e che conclude in gloria un disco che ce lo ripropone (quasi) ai vertici della sua produzione. Direi promosso e se ne ha voglia e la salute lo assiste, gradiremmo altri dischi così, che, al di là del nome, sono molto meglio di gran parte della produzione blues in circolazione!   

Bruno Conti

Il Meglio Di Uno Dei Migliori! John Hiatt – Here To Stay: The Best Of 2000-2012

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John Hiatt – Here To Stay – Best of 2000 -2012 New West Records

Penso che esistano almeno una decina di raccolte dedicate a John Hiatt, non le ho contate esattamente, forse anche di più, oltre a parecchi dischi dal vivo e tributi vari. E ogni casa discografica ha dedicato un suo Best of al periodo in cui Hiatt incideva per loro: la Epic nella preistoria, poi la MCA-Geffen, il lungo periodo con la A&M e infine la Capitol. E’ uscita anche qualche antologia multi-label e delle raccolte con inediti e rarità. Mancherebbe qualcosa relativo al periodo Vanguard, ma visto che i due album sono stati ristampati dalla New West, appaiono in questo Here To Stay, il titolo del disco non solo un incitazione a rimanere, ma anche quello dell’unica canzone inedita inserita nella raccolta, una canzone che vede la partecipazione di Joe Bonamassa alla solista, sia in considerazione del fatto che il buon Joe non resiste ad un invito, sia perché da qualche anno condividono lo stesso produttore, ovvero Kevin Shirley.

Sia di produttori che di chitarristi Hiatt ne ha avuti di ottimi in questi anni 2000 (e anche prima), oltre a Shirley, Jay Joyce, Don Smith e Jim Dickinson tra i primi e Sonny Landreth, Luther Dickinson e Doug Lancio, nel reparto chitarre, oltre all’ottimo David Immergluck, presente nel disco che apre questa carrellata sui “migliori” brani che compongono la raccolta, Crossing Muddy Waters. Il disco, giustamente, si chiama Best of e non Greatest Hits, perché Hiatt nel corso degli anni di successi, purtroppo, ne ha avuti veramente pochi, pensate che il disco con il miglior piazzamento in classica è proprio l’ultimo, Mystic Pinball, arrivato “ben” al 39° posto della classifica di Billboard. Se ci leggete della amara ironia non vi sbagliate, per fortuna che la critica e i colleghi lo hanno sempre considerato, giustamente, uno dei migliori cantautori che abbia graziato la faccia di questo pianeta negli ultimi 40 anni. Genere: rock, folk, country, blues, roots, Americana? Scegliete voi, un po’ di tutti questi e molto altro, forse buona musica può andare? Per chi ama John Hiatt, forse, questa antologia è superflua (il pensiero di comprarsi un CD per un brano è duro, potevano fare uno sforzo, magari un bel doppio con un live in omaggio), ma per chi non ha nulla o vive di raccolte, potrebbe essere l’occasione di ampliare il proprio panorama sonoro, se ci state pensando non è una cattiva idea, musica così buona ne fanno poca in giro. Tra l’altro il nostro amico, in Italia, è conosciuto, dal grande pubblico, per una canzone, Have A Little Faith, che era contenuta nello spot di una nota marca di budini, oltre tutto sotto forma di cover, che non rendeva neppure un decimo della bellezza di quella straordinaria canzone.

Tornando a bomba, ossia a questa antologia, direi che i compilatori sono stati molto democratici, due brani per ognuno degli otto album che coprono il periodo 2000-2012, prolifico come sempre per Hiatt e ricco di belle canzoni, come ricorda il giornalista americano Bud Scoppa (ma che scrive per la rivista inglese Uncut), nelle interessanti note del corposo libretto che accompagna il CD: si parte con il suono acustico, volutamente scarno di Crossing Muddy Waters, rappresentato dalla raffinata e dolce title-track oltre che dalla grintosa e tirata Lift Up Every Stone, dove il mandolino e la chitarra di Immergluck, uniti al basso di Davey Faragher, disegnano traiettorie blues, mai disdegnate da John Hiatt, anche nel passato. Per il successivo The Tiki Bar Is Open il boss riuniva i grandissimi Goners, con Kenneth Blevins alla batteria e Dave Ranson, al basso, nonché il ritorno del mago della chitarra slide, Sonny Landreth, tutti eccellenti nella ballata My Old Friend, dove Hiatt sfodera anche una armonica d’annata, oltre all’utilizzo delle tastiere, affidate al produttore Jay Joyce e allo stesso Hiatt, Everybody Went Low è uno dei tanti capolavori scritti nel corso di una carriera prodigiosa con un Landreth devastante.

Cambio di etichetta per il successivo Beneath This Gruff Exterior, dalla Vanguard alla New West, ma i musicisti rimangono i Goners, produce Don Smith, i brani scelti sono My Baby Blue e Circle Back, due robusti pezzi rock, da riscoprire. Da Master Of Disaster, altro disco gagliardo da riascoltare, con babbo Dickinson alla produzione e i figli Cody e Luther, batteria e chitarra, oltre a David Hood al basso, per una title-track, anche questa volta tra le cose migliori della sua carriera, molte volte “coverizzata”.  Same Old Man, altro signor album, con il ritorno di Blevins e l’arrivo di Patrick O’Hearn al basso, oltre a Luther che rimane alla chitarra, la figlia Lily alle armonie, una produzione “semplice” a cura dello stesso Hiatt, e due ballate di una bellezza sopraffina come Love You Again e What Love Can Do.

Nel successivo The Open Road arriva Doug Lancio, altro mostro della chitarra e si ritorna all’Hiatt rocker. Il gruppo, ironicamente, ora si chiama Ageless Beauties e inizia l’era Kevin Shirley, con due album bellissimi come Dirty Jeans & Mudslide Hymns, Damn This Town e Adios To California i brani scelti, e Mystic Pinballs, con l’ottima We’re Alright Now, classico Hiatt con Lancio grande alla slide e Blues Can’t Even Find, una delle canzoni più tristi (e più belle) del canone hiattiano. Anche Here To Stay, l’inedito, è un blues con Bonamassa alla slide che fa i numeri e non si capisce perché sia stato lasciato fuori da Dirty Jeans, ma adesso è qui, insieme alle altre 16 canzoni, a testimoniare la classe immensa di uno più bravi cantanti e autori (di culto) di sempre. Quattro stellette per le canzoni, mezza in meno per l’operazione commerciale, un inedito, si sono sforzati!

Bruno Conti    

Il Cantautore “Innamorato”! Darden Smith – Love Calling

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Darden Smith – Love Calling – Compass Records 2013

Pur non avendo mai avuto un successo commerciale enorme, Darden Smith ha trascorso la parte migliore della sua quasi trentennale carriera incidendo ogni due o tre anni un nuovo disco (questo Love Calling è il quattordicesimo), affermandosi come uno dei più coerenti cantautori texani. Nato e cresciuto in una fattoria di Brenham, Texas, Darden ha mostrato subito una buona attitudine per la musica, iniziando a scrivere canzoni fin da giovane, poi quando la famiglia si è spostata ad Houston, ha cominciato ad avere il primo vero impatto con la scena musicale di Austin, che, in quel periodo (alla fine degli anni settanta), era un via vai continuo di musicisti di ogni genere, che spaziavano dal country al rock, dal folk al blues, influenzando il giovane Smith con la musica principalmente degli Allman Brothers e Marshall Tucker Band, avendo come idolo in seguito un certo Bob Dylan. Quando comincia a diventare musicista a tempo pieno, il “nostro” suona nei locali, partecipa a vari concerti, suona con “mostri sacri” come Waylon Jennings e Willie Nelson, si fa le ossa a fare da supporto per gli Asleep At The Wheel (gruppo fra i più longevi e preparati della musica country), conosce Joe Ely e diventa grande amico di Lyle Lovett, diventando in breve tempo un nome della scena musicale texana.

Incide il suo primo album Native Soil (86) per la piccola Red Mix Record di Austin, seguito dal secondo omonimo Darden Smith (88) con musicisti di valore coinvolti tra i quali Sonny Landreth, David Halley, Nanci Griffith e Lyle Lovett. A sorpresa Darden se ne va in trasferta a Londra, e incide un disco a due con Boo Hewerdine (leader dei Bible) Evidence (89), un disco più che piacevole (non entrerà mai nella storia del rock), ma fatto con gusto, e la collaborazione inglese gli permette di acquisire quel “quid” che gli mancava per arrivare ad essere un autore nel puro senso del termine, e pubblicare al ritorno un capolavoro come Trouble No More (90), il suo lavoro più personale, intimo e riuscito (da recuperare assolutamente). Con Little Victories (94) e il seguente Deep Fantastic Blue (96), Smith si avvicina sempre di più ad un certo rock d’autore, e dopo la proposta particolare di Extra Extra (2000), una riedizione in chiave rinnovata di brani (che hanno segnato a suo giudizio la sua carriera artistica), si accasa alla Dualtone Music e sforna una triade di album a partire da Sunflower (2002), poi  Circo (2004) e Field Of Crows (2005), tutte prove convincenti, che confermano la costante vena creativa di un artista che non lascia nulla al caso. Puntualmente a distanza di due anni esce Ojo (2007) per la sua nuova etichetta Darden Music, a cui segue After All This Time (2009) una “compilation “ tratta dai suoi album precedenti, per poi arrivare a Marathon (2010), una sorta di concept album dedicato ad una cittadina del Texas, che si trova sul Rio Grande (un-secreto-ben-conservato-darden-smith-marathon.html).

Love Calling apre un nuovo capitolo nella carriera dell’artista, è il primo per la Compass Records e anche il primo registrato a Nashville, sotto la produzione di Jo Randall Stewart e Gary Paczosa, e scritto a quattro mani con importanti songwriters di Austin, Rodney Foster, Jack Ingram e i meno conosciuti (ma altrettanto bravi) Harley Allen, Gary Nicholson e Jay Clementi, e con la collaborazione di musicisti di “area” del calibro di Michael Rhodes e Byron House al basso, Pat Bergeson alle chitarre, Jon Jarvis alle tastiere, John Gardner alla batteria, Dan Dugmore alla pedal steel e alle armonie vocali Jessi Alexander e la grande Shawn Colvin ospite nella title-track.

Il madrigale parte con Angel Flight (che era apparsa anche nell’album Revival di Rodney Foster), mentre Seven Wonders è sorretta da una riuscita combinazione piano e organo, ed è seguita dalla attraente ballata Mine Till Morning con al controcanto Jessi Alexander. Better Now (scritta con Foster) è un brano vibrante, coinvolgente, dal piacevole ritornello, mentre Favorite Way (scritta con Foster e Gary Nicholson) intro strumentale con chitarra e spazzole della batteria richiama atmosfere più soffuse

Love Calling è un brano dall’aria vagamente pop, con la Colvin alle voci, Distracted mantiene un profilo prettamente acustico, mentre Reason To Live (scritta con Jack Ingram) è ricca di sfumature più complesse, con l’apporto della pedal steel di Dan Dugmore . I Smell Smoke (scritta con Jay Clementi) è un brano cantato con voce sussurrata, seguito da uno dei momenti più mossi Medicine Wheel, grazie all’azione delle chitarre e ad un piacevole refrain, per chiudere con Baltimore una ballata sontuosa, lenta e riflessiva, un po’ crepuscolare, interpretata con una voce dalla tonalità bassa, che affascina.

Le Bonus Tracks sono due brani ripresi dal vivo al SiriusXM Coffee House,  la celeberrima I Say A Little Prayer del duo Bacharach/David e la title track Love Calling in versione acustica, che vanno a chiudere superbamente un’altra prova di qualità.

Darden Smith, mi convinco sempre ad ogni nuovo disco, è il meno texano dei cantautori di questo stato, perché è un artista sublime, un’anima sensibile (in questo lavoro, sinceramente innamorato) e sempre attiva, ogni volta che deve realizzare un disco riesce facilmente a trovare la giusta alchimia, come accade puntualmente in questo Love Calling. Se vi capita tra le mani, non gettatelo via.

Tino Montanari

Girovagando Per Il Sud Degli States. Mike Zito – Gone To Texas

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Mike Zito & The Wheel – Gone To Texas – Ruf Records 

Forse non entrerà nelle liste assolute dei top di fine anno ma questo nuovo album di Mike Zito è assolutamente tra i migliori nel suo genere. Già ma che genere è? Intanto, come diranno altri, perché lo dice lui stesso nelle note di copertina, è un disco autobiografico. Canzoni che raccontano come il Texas, in un certo senso, gli ha salvato la vita. Ha trovato la compagna della sua vita, ma anche la salvezza dalla dipendenza da droghe che aveva caratterizzato una lunga fase della sua esistenza. Prendere un Greyhound e andare da St. Louis, la sua città, al Texas, per un americano non è una cosa difficile, ma Zito racconta nelle sue canzoni questa storia come una sorta di redenzione.

Naturalmente nel suo percorso musicale ci sono anche altri quattro album (tra cui un live), usciti dal 2008 ad oggi, tutti validi, oltre alla carriera parallela con i Royal Southern Brotherhood, di cui è uno dei soci fondatori (con Cyril Neville e Devon Allman, insieme ai quali firma un brano a testa per questo Gone To Texas), quindi il southern rock è sicuramente uno dei generi presenti in questo album, per rispondere alla domanda precedente.

Non manca una forte dose di blues (e la Ruf Records è una etichetta che “capisce” il genere a fondo). Il disco è registrato ai Dockside Studios di Maurice, in Louisiana, e quindi il gumbo sonoro della Crescent City è un altro degli elementi del sound, come evidenzia in modo stupendo la slide di Sonny Landreth, presente in una canzone come Rainbow Bridge, che potremmo definire “swamp Blues”, ma ricorda moltissimo anche le pagine migliori del songbook dei Little Feat o di John Hiatt, con la voce di Susan Cowsill (una dei componenti dei Wheel) a dare ulteriore spessore al suono del gruppo, con una presenza alla Bonnie Raitt o alla Susan Tedeschi, per citare un’altra band con cui hanno affinità elettive.

Gruppo che ha una sezione ritmica solidissima e piena di fantasia, nelle persone di Rob Lee alla batteria e Scot Sutherland al basso, a cui aggiungiamo un Jimmy Carpenter che si disimpegna a sax e percussioni e aumenta la quota soulful della formazione. Quindi ricapitolando abbiamo un suono “sudista”, nell’accezione più ampia del termine, dove confluiscono rock, soul, blues, R&B, tante chitarre (e Mike Zito è un signor chitarrista), belle voci, lo stesso Mike, Susan Cowsill, Carpenter, anche Delbert McClinton, che appare a duettare con il leader in una sontuosa The Road Never Ends. Ma tutto il disco è ricco di belle canzoni, a partire dalla emozionante title-track, Gone To Texas, che ricorda quelle ballate southern mid-tempo che ai tempi facevano Allman Brothers o Marshall Tucker, percorsa dalle chitarre di Zito, dal sax di Carpenter e guidata dalla voce di Mike, che è anche un signor cantante, devo rivalutare il suo ruolo nei Brotherhood.

I Never Knew A Hurricane è un’altra ballata deep soul (scritta con Cyril Neville) con l’organo di Lewis Stephens che è un ulteriore elemento portante nel sound del gruppo e mette in evidenza il duettare tra Zito e la Cowsill, oltre al sax di Carpenter che si integra perfettamente al suono d’insieme. Suono che ricorda molto anche la qualità di Hiatt e McClinton oltre ai sudisti e agli altri citati. Ma il sound si può incattivire di brutto, come in Don’t Think Cause You’re Pretty, dove il nostro amico, voce distorta e slide tagliente dimostra (o conferma) di essere anche un bluesman a tutto tondo. E lo ribadisce nell’acustica Death Row, un folk blues dalla grande atmosfera, solo voce, National steel con bottleneck, un tamburello e tanto feeling. In questa alternanza di stili c’è spazio anche per il funky sanguigno di una carnale Don’t Break A Leg, con accenti di James Brown e Sly Stone o per la ballata pianistica Take It Easy, firmata da Delbert McClinton e interpretata alla grande da Mike, un blue eyed soul con il bollino di qualità. La già citata The Road Never Ends, attribuita a Devon Allman e Mike Zito, vede la partecipazione di McClinton, anche all’armonica ed è un bluesone con slide a a cavallo tra Allmans e un Bob Seger d’annata.

Subtraction Blues il genere lo dichiara fin dal titolo, ma è di nuovo quello meticciato dei Little Feat o dei musicisti di New Orleans, con chitarra, piano e sax a dividersi i compiti con ottimi risultati. Per Hell On Me Zito estrae dal cilindro anche un vigoroso wah-wah che si fa largo tra sax, organo e lo voci di Mike e Susan, per dimostrare, se ce n’era bisogno, che questo signore è anche un solista coi fiocchi. Voices In Dallas è uno dei brani che raccontano la sua odissea passata con le droghe, sempre con ritmi bluesati e ancora con un’ottima slide e organo in bella evidenza, oltre al sax baritono di Carpenter. Sempre slide anche per la trascinante Wings Of Freedom altro brano rock che mi ha ricordato nuovamente il miglior Bob Seger e conclusione acustica con la cover acustica del blues di William Johnson Let Your Light Shine On Me. Un disco di sostanza, caldamente consigliato a chi ama la buona musica!   

Bruno Conti     

Provaci Ancora Eric, Una Anteprima? Eric Johnson – Up Close Another Look

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Eric Johnson – Up Close Another Look – Mascot/Provogue/Edel 02-04-2013

Eric Johnson è un fantastico chitarrista texano che, nella sua carriera che dura ormai da una trentina di anni (almeno a livello discografico), ha realizzato solo una manciata di album di studio, sei per la precisione, compreso questo Up Close, oltre ad un disco, Seven Worlds, registrato nel 1978 ma pubblicato solo 20 anni dopo, uno dal vivo della serie Live From Austin, Texas nel 2005 (ma registrato nell’88), oltre alla sua partecipazione come un terzo della “società” in una delle varie incarnazioni dei G3, insieme ai Joe Satriani e Stevie Vai. E per lui, come per molti altri, il migliore rimane ancora il primo ufficiale, Tones, uscito nel lontano 1986 per la Reprise, eccellente disco prevalentemente strumentale che ebbe un grosso successo sia di critica che di pubblico in quell’anno, disco che si inseriva in quel filone tra prog, rock, southern e blues dove operavano gruppi come i Dixie Dregs di Steve Morse, tanto per fare un nome, o il materiale meno bluesy di Robben Ford, virtuosi della chitarra elettrica per intenderci, e anticipatore del successo che avrebbero ottenuto i suoi futuri pard Joe Satriani e Steve Vai (già in pista ma noto soprattutto per le collaborazioni con Frank Zappa).

Senza farla troppo lunga ma dandogli i giusti meriti, Eric Johnson, ha avvicinato quei livelli qualitativi solo con il successivo Ah Via Musicom del 1990, poi creandosi una nicchia di appassionati, un seguito di culto, che ha continuato a comprare i suoi dischi ma con minore entusiasmo anche negli anni successivi, fino ad arrivare al 2010, l’anno di questo Up Close, uscito ai tempi solo sul mercato americano per la Vortexan/EMI, ma non distribuito in Europa, e che è di gran lunga il suo disco migliore dopo Tones, ma cosa ti va a pensare quel “diavolo” di un Johnson, facciamone una versione aggiornata per il mercato europeo, quell’Another Look, come avranno notato i più attenti: come dice lo stesso Eric Johnson, si è limitato ad aggiungere alcune parti di chitarra ritmica e a remixare il tutto, e la differenza è molto sottile, praticamente non si percepiscono i nuovi interventi, ma il disco suona meglio all’ascolto e se lo dice lui chi siamo noi per negarlo? Quindi prendiamo nota senza peraltro poter fare a meno di notare che questa nuova edizione ha due brani in meno di quella del 2010, strano ma vero, si toglie invece di aggiungere, anche se per onestà si tratta di due brevi intermezzi di poco più di un minuto ciascuno.

Ma quello iniziale, un intramuscolo orientaleggiante di 1:05, Awaken, è rimasto. Fatdaddy è il primo brano strumentale dove, a velocità vorticose, la chitarra solista di Johnson interagisce con una ottima sezione ritmica con vari batteristi che si alternano, Kevin Hall, Barry Smith e Tommy Taylor e il grande Roscoe Beck al basso, con lui da inizio carriera. Brilliant Room è il primo brano cantato, con ospite come vocalist il bravo Malford Milligan, altro texano che era negli Storyville (ve li ricordate?) il gruppo di David Holt e David Grissom con la sezione ritmica dei Double Trouble, un gruppo che ha non tenuto fede alle promesse, ma aveva molte potenzialità, il brano è un veloce rock, anche commerciale, ma con una verve ed un lavoro di suoni e chitarre che molta produzione attuale non ha (dipenderà dal fatto che il co-produttore è tale Richard Mullen ma l’ingegnere è Andy Johns, della premiata famiglia?), un sound fantastico. E sentite come suonano il Blues, in una cover eccellente di Texas (tema che ritorna), il vecchio brano firmato Mike Bloomfield/Buddy Miles che si trovava sul disco degli Electric Flag, per l’occasione a duettare con Johnson troviamo un pimpantissimo Steve Miller alla voce e Jimmie Vaughan alla seconda solista, cazzarola come suonano! Gem è uno di quei brani strumentali stile Prog-rock dove il nostro Eric esplora a fondo la sua tavolozza di colori e suoni per la gioia dei fanatici della chitarra.

Tra i titoli non manca Austin, altro ottimo duetto a tempo di rock con un Johnny Lang in gran vena e la chitarra di Johnson che crea traiettorie quasi impossibili senza scadere nelle esagerazioni di altri suoi colleghi virtuosi. La lunga Soul Surprise è un altro lento con i vocalismi senza parole del titolare e atmosfere sempre molto ricercate. On The Way è un ulteriore strumentale, molto Twangy & Country in questo caso, stile di cui è maestro Albert Lee. Senza citarle tutte, ma non ci sono cadute di gusto, vorrei ricordare il tributo in apertura (una piccola citazione di Little Wing) all’Hendrix più sognante, nella ricercata A Change Has Come To Me e il duetto molto melodico con la slide di Sonny Landreth in Your Book. Una delizia per gli amanti della chitarra elettrica, come tutto il disco peraltro.

Bruno Conti

Alle Radici Della Lousiana. Zachary Richard – Le Fou

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Zachary Richard – Le Fou – Avalanche Productions 2012

Anche quest’anno (come lo scorso), per chi scrive il Natale è arrivato in anticipo. Infatti di questi tempi avevo recensito su queste pagine virtuali, in formato DVD (Some Day), lo splendido concerto di Zachary Richard, registrato nell’ambito del Festival International del Jazz di Montreal, e oggi quando il postino ha suonato alla mia porta e mi ha recapitato questo ultimo lavoro (il 20° se non ho sbagliato il conto), sono tornato bambino, quando aprivo con ansia i pacchi regalo. Nello stesso tempo quando si ama incondizionatamente un “outsider” storico come Zachary, mi chiedo sempre se mi farebbe davvero piacere vederlo svettare nelle classifiche e diventare un fenomeno di massa, o rimanere un artista di “culto” per pochi eletti. La sua musica, inizialmente, era una perfetta fusione di cajun tradizionale, zydeco, rock e blues di New Orleans, e assieme ai Beausoleil e pochi altri, ha contribuito a divulgare le tradizione della sua terra in tutto il mondo. Una quindicina d’anni fa, Richard ha abbandonato il suono cajun rock, aperto e coinvolgente, che aveva caratterizzato buona parte della sua produzione, per una scrittura più interiore e cantautorale,  sempre in sintonia con la musica della sua amata Louisiana, abbracciando la lingua francese e andando a vivere con la famiglia in Canada nel Quebec.

Con questo Le Fou, (titolo ispirato dal nome francese di un uccello coinvolto nel disastro causato dalla esplosione sulla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico nel 2010) Zachary Richard si dimostra più che mai impegnato in tematiche sociali e ambientaliste, con canzoni che parlano dei temi della resistenza alla furia della natura (Laisse le Vent Souffler), della “separazione” (La Chanson Des Migrateurs) e di storie d’identità e di natura (Original Ou Caribou), oltre a quelle che certificano l’orgoglio e la voglia di lottare per la propria terra.

L’album è prodotto da Nicolas Petrowski e dallo stesso Zachary Richard, e si avvale di ottimi musicisti locali, tra i quali Eric Sauviat alle chitarre e dobro, Nicholas Fiszman al basso, Justin Allard alla batteria, Felix LeBlanc al violino, le brave coriste Yolanda Robinson e Erica Falls e l’amico di sempre Sonny Landreth come ospite, e particolare importante (come si nota dai titoli dei brani), è tutto cantato in francese, nella lingua della nonna materna e sua attuale.

Si apre con la bella e orgogliosa Laisse Le Vent Souffler in perfetto stile cajun e la chitarra di Sonny Landreth è subito protagonista, brano bissato da una Sweet Sweet dotata di un ritornello orecchiabile con il violino in evidenza. Al terzo brano siamo già al capolavoro del disco, con Le Fou  (la follia del genere umano nel distruggere l’ambiente naturale), splendida ballata dalla melodia intensa ed in crescendo, che ci riporta al miglior Richard, con la voce distesa e ben impostata. Da sola potrebbe già valere la spesa del disco. Clif’s Zydeco come dice il titolo, è uno zydeco della terra natia dedicato al re del genere, Clifton Chenier, con la fisarmonica di Zac e la chitarra di Sonny a dettare il ritmo, seguito da un arpeggiata La Chanson Des Migrateurs, una ballata acustica piena di suggestioni. Si cambia decisamente ritmo con Lolly Lo, brano dal ritornello accattivante, con un organo malandrino e il coro sugli scudi, mentre La Musique Des Anges  è una ballata elettrica di un certo respiro, con una melodia forte ed evocativa.

Il disco prosegue a questi livelli con La Ballade De Jean Saint Malo, giocata sulle percussioni di Elage Diouf, un giro di chitarre ritmiche ed un crescendo finale “liberatorio” delle coriste, seguito da Crevasse Crevasse un cajun-bluesche vede lo stesso Zac all’armonica, prima di scatenarsi in un brano Bee De La Manche, dove fisarmonica, violino e percussioni la fanno da padroni. C’est Si Bon (non la famosa canzone francese resa celebre anche da Armstrong, ma un brano suo). è introdotta da pochi arpeggi di chitarra e dalla voce dell’autore, poi si apre lentamente, lasciando spazio ad una dolce melodia, resa al meglio dal mandolino di Eric Sauviat e dal violino di Ray Légère, mentre la seguente Orignal Ou Caribou è un brano molto roots, in cui non mancano le influenze folk dell’artista. Il CD si chiude in bellezza con Les Ailes Des Hirondelles, una canzone struggente, con il dobro ad accompagnare la voce sofferta di Zac (una delle composizioni migliori di questo figlio legittimo della Louisiana che in altra forma già appariva su Migration).

Zachary Richard è ormai oltre i sessanta, nel 2010 è stato colpito da un ictus (che lo ha costretto a sospendere per un lungo periodo l’attività), ma questo signore ha alle spalle una carriera solida, anche se talvolta avara di soddisfazioni, non ha mai venduto molto, comunque i suoi dischi hanno segnato una parte della storia  della musica, con canzoni che hanno saputo dare sempre un’emozione, e, aggiungo, sono in piena sintonia con il mio “collega” di blog Marco Verdi, che di questi tempi  per sentire della buona musica si devono indirizzare le orecchie verso “stagionati” artisti. (Gallina vecchia fa buon brodo!)

Tino Montanari

NDT: Vi ho risparmiato alcuni cenni biografici e la discografia, che potete recuperare andando a rileggere la recensione dello scorso anno del DVD Some Day che trovate qui l-acadien-errante-zachary-richard-some-day-live-at-the-mont.html . Buona lettura.!

Chitarristi A Go-Go! Santana, Sonny Landreth, Joe Bonamassa, John Mayer, Tedeschi-Trucks Band

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Per una strana congiunzione delle lune stanno per uscire o sono usciti una serie di album di alcuni dei migliori chitarristi, “antichi e moderni”, attualmente in circolazione; di Joe Bonamassa che uscirà il prossimo 22 maggio vi ho già riferito con un Post ad hoc in anteprima: finalmente-ma-quando-dorme-joe-bonamassa-driving-towards-the.html. Anche degli altri ho intenzione di occuparmi (mi è venuto un po’ minaccioso!), ma per il momento:

Santana Shape Shifter Starfaith Records/Sony Music

E’ il miglior disco di Carlos Santana degli ultimi 20 anni, che stando allo sticker sul CD è più o meno il tempo che ci ha messo a farlo. Si tratta di un disco strumentale, niente ospiti presi a casaccio dai generi più disparati, non sarà un capolavoro ma è un piacere ascoltare di nuovo uno dei migliori chitarristi in circolazione che lascia correre le mani sulle corde del suo strumento. Ogni tanto c’è un po’ di melassa in eccesso, come in Never The Same Again scritta con Eric Bazilian o In The Light Of A New Day firmata con Narada Michael Walden, ma i “lentoni” sono uno dei suoi marchi di fabbrica dai tempi di Samba Pa Ti, Song Of The Wind o Europa, meglio questi brani che improbabili duetti con Jacoby Shaddix, Nas, Will.i.am, Sean Paul, Musiq, i P.o.d., Placido Domingo e metallari assortiti, ma potrei continuare all’infinito. Al momento sto approfondendo l’ascolto, poi vi faccio sapere. Mi sono girato e rigirato il libretto ma non c’è il nome di un musicista indicato, neanche a pagarlo: presumo che tra i musicisti ci sia la nuova moglie, Cindy Blackman, ottima batterista anche, l’unica ringraziata, forse Chester Thompson, Karl Perazzo e il figlio Salvador Santana che firmano dei brani con Carlos. Sicuramente c’è un brano, Mr.Szabo dedicato al grande chitarrista jazz di origini ungheresi Gabor Szabo, che era l’autore di Gypsy Queen il famoso brano in medley con Black Magic Woman su Abraxas e per l’occasione Santana ci regala una inconsueta performance all’acustica. Basta, basta, proseguo nell’ascolto, tanto volendo lo trovate già nei negozi, fisici e virtuali. Per essere onesti c’è un brano cantato Eres la luz, un flamencone alla Gypsy Kings, mmmhh!

Rigorosamente tutto strumentale è il nuovo album di Sonny Landreth Elemental Journey, in teoria in uscita il 29 maggio per casa Proper ma già giunto sulle nostre lande per la distribuzione IRD. Anche in questo non è una grandissima perdita la mancanza della voce perché il buon Sonny non è un cantante memorabile per usare un eufemismo ma si poteva cercare un cantante adeguato, che so un John Hiatt. Ma basta fantasticare! Nel disco ci sono tre ospiti: due colleghi chitarristi, Joe Satriani, nell’iniziale pirotecnica Gaia Tribe e il grande e misconosciuto (ma non dagli appassionati della chitarra) Eric Johnson che aggiunge la sua chitarra alla slide di Landreth nella lirica Passionola. C’è anche il percussionista Robert Greenidge con le sue steel drums nella Caraibica Forgotten Story. Il disco abbandona quasi del tutto il blues e il cajun misti al rock dello stile abituale per spostarsi verso un sound molto anni ’70 che ricorda oltre ai due citati Satriani e Johnson, gente come Steve Morse o anche qualcuno ha citato Ritchie Blackmore e Ronnie Montrose. La slide non manca mai, in cinque brani c’è anche una sezione archi e anche in questo caso,a un primo ascolto, ottimo per gli appassionati di chitarrra.

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John Mayer, Eric Clapton non manca mai di portarlo al suo Crossroads Guitar Festival, e il “giovine” (va beh, 35 anni) è un buon chitarrista come ha evidenziato soprattutto negli ottimi album Live con il suo Trio dove al basso c’era Pino Palladino e alla batteria Steve Jordan, meno nei 4 precedenti album di studio. Questo Born And Raised evidenzia uno spostamento verso sonorità più morbide e californiane, con la produzione di Don Was e la partecipazione di Crosby & Nash nella title-track, è forse il suo migliore album in assoluto. Non guasta la presenza di Chuck Leavell tastiere (orfano degli Stones) e di Jim Keltner alla batteria. Eichetta Sony, nei negozi da martedì 22 maggio.

Stessa etichetta per il doppio Everybody’s Talkin’ Tedeschi Trucks Band Live ma siamo a ben altri livelli. Un disco stupendo, due chitarristi e una cantante fantastica, undici elementi sul palco per un disco che ci riporta al grande rock degli anni ’70. Revelator era un buon disco di studio e ha vinto il Grammy come miglior disco Blues, ma qui siamo in “paradiso”: sono “solo” undici brani, ma ne troviamo due attorno ai 5 minuti, compresa la stupenda title-track, cover del brano della colonna sonora dell’Uomo Da Marciapede, per il resto, sei brani intorno ed oltre i 10 minuti e uno che supera i 15, ma niente paura, la noia è lontanissima. Qui sono in dirittura d’ascolto negli ascolti, quindi domani o dopo recensione completa. Anche questo esce martedì prossimo.

Bruno Conti

“L’Acadien” Errante. Zachary Richard – Some Day Live At The Montreal Jazz Festival

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Zachary Richard – Some Day – Live at The Montreal Jazz Festival – DVD

Quest’anno il Natale per il sottoscritto è arrivato in anticipo. Grazie al meritevole interessamento del titolare di questo “blog” (il mio amico Bruno), sono entrato in possesso di questo introvabile Concerto, registrato nel 2009 nell’ambito del Festival International de Jazz de Montreal, di uno degli artisti più importanti della Louisiana, che risponde al nome di Zachary Richard. Nato a Scott nel 1950, Zachary fin da giovane rimane influenzato dalla musica tradizionale del luogo, impara a suonare piano e chitarra e in seguito si accosta alla fisarmonica. Dopo l’università diventa musicista, e dal 1975 si sposta a vivere in Canada dove comincia ad incidere dischi. Bayou de Mystères del 1976 lo vede esordire brillantemente, l’anno seguente incide l’acclamato Mardi Gras (considerato da molti  critici il miglior lavoro del primo periodo), nel 1978 è la volta di Migration, disco d’oro in Canada, e Allons Danser del 1979 e il doppio Live in Montreal  (con Sonny Landreth alla chitarra solista), chiude un quinquennio decisamente positivo.

In seguito la sua creatività subisce un rallentamento in quanto Vent D’Eté del 1981 è discreto, mentre Zach Attack del 1984 registrato a Parigi non è esaltante. Dopo un doppio antologico Looking Back del 1987, inizia ad incidere per la Rounder (mitica etichetta del Massachussetts), e Zach’s bon ton e Mardi gras Mambo gli aprono finalmente le porte del mercato americano. Women in the Room del 1990 è un gran bel disco, passano due anni e Zach  si rimette in pista con Snake Bite Love, probabilmente il migliore del secondo periodo, che si chiude con l’ottimo Cap Enragè del 1996, distribuito dalla nostra I.R.D. Dopo una doppia antologia Travailler c’est Trop Dur del periodo 1976-1999 (dal titolo vagamente ambiguo), Richard  abbraccia la lingua francese “tout court” e dopo Cap Enragè, sforna una “triade” di capolavori che parte da Coeur Fidèle del 2000, cui fa seguito Lumière Dans Le Noir del 2007, per chiudere il cerchio con l’immancabile Last Kiss del 2009.

La band  che lo accompagna sul palco di Montreal vede nelle sue file musicisti poco conosciuti ma bravissimi quali David Torkanowsky al piano, Shane Theriot alle chitarre, Paul Picard alle percussioni, Yolanda Robinson ai cori, oltre al nostro Zach chitarra acustica e fisarmonica, per un suono denso di umori, ricco di invenzioni, di brani universali con accenti zydeco, cajun,. Rhythm and Blues, etc. Ogni brano delle 21 canzoni qui presentate è suonato in versioni insolite,  con nuovi arrangiamenti per meglio catturare l’atmosfera “live”, con assoli di armonica dello stesso Zachary Richard (suona anche la fisarmonica naturalmente).

L’inizio del concerto è volutamente in versione acustica con Dansé e Petit Codiac, seguita dopo una breve presentazione della formazione, da Last Kiss tratta da uno degli album più recenti, e il brano seguente non poteva che essere One Kiss per dare un senso compiuto all’argomento. No French, no More uno dei successi del primo periodo viene eseguita in modo sommesso da Zach, mentre la seguente La Ballade de Dl-8-153 con armonica d’ordinanza, è prettamente in versione “bluesy”. Il ritmo si alza con una Snake Bite Love impreziosita dal controcanto di Yolanda, come nella seguente e delicata Au Bord de Lac Bijou. Una pianistica The Ballad of C.C.Boudreaux introduce un “trittico” di brani spettacolari, con una Some Day in versione “soul” con la voce della Robinson degna della tradizione delle cantanti di “colore”, per finire con una Sweet Daniel lenta e struggente, con un buon assolo di chitarra elettrica. Si riparte con O’Jesus ( brano che ricorda il genocidio del Rwanda) in versione “rap-blues”, mentre Filè Gumbo introdotta da un  assolo di armonica è segnatamente in stile “honky-tonky”.

Arriva a sorpresa l’unica cover della serata, uno dei capolavori di Robbie Robertson, una meravigliosa Acadian Driftwood tutta giocata in duetto tra Zach e Yolanda (nel disco in studio c’era Celine Dion), mentre The Levee Broke è una ballata acustica di un certo respiro che racconta del dramma dell’uragano Katrina e dell’alluvione a New Orleans. Dancing at Double D’s e Crawfish sono brani che il songwriter della Louisiana ci ha fatto conoscere e amare, la musica “cajun” della sua terra natia. Ci si avvia alla fine con delle canzoni d’amore, come la splendida Cotè Blanche Bay, seguita dalle delicate Je Voundrais Aimer e La Promesse Cassè, per chiudere con uno dei brani più belli della suo immenso bagaglio musicale La Ballade de Jean Batailleur, una ballata di grande respiro, dalla melodia avvolgente, rifatta in modo “roots” con una notevole sofferta interpretazione vocale di Zach. Eterna.

Zachary Richard è un personaggio che mi è molto caro, un musicista che ha vissuto parecchio
anche in Canada (nella regione del Quebec), che ha acquistato nel tempo sempre più  il ruolo di paladino della tradizione culturale francofona del nord  America, che ha tentato di proporsi in due lingue, il francese e l’inglese, cercando di mettere a contatto due mondi, dalle vicende storiche profondamente diverse. Questo è un DVD “per gli amanti della musica” come dice lo stesso Richard in perfetto italiano alla fine di un brano, non è di facile reperibilità, ma se vi sbattete un po’ si può trovare, e allora passerete un Buon Natale, con i miei migliori Auguri.

Tino Montanari