Alvin Lee: 1944-2013. “Il Chitarrista Più Veloce Del Mondo”!

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Quando la sera del 17 agosto 1969, poco dopo le 20, nella terza serata del Festival di Woodstock, Alvin Lee sale sul palco per la sua esibizione con i Ten Years After, non immagina due cose: che sarà una “serata di merda” e che, in seguito, cambierà completamente il corso della sua carriera. A causa della fortissima umidità della serata gli strumenti, ed in particolare la chitarra del leader, avranno una miriade di problemi, andando di continuo fuori accordatura, costringendoli a frequenti pause durante il loro set, come se non bastasse anche la troupe che riprendeva l’evento, per i medesimi problemi, riuscirà a riprendere solo il brano finale dell’esibizione, il bis, I’m Going Home. Ma in quella serata era comunque presente all’incirca mezzo milione di persone e quando l’anno successivo appare il film, la scena in cui lo schermo si divide prima in due e poi in tre parti ed appare un biondo chitarrista inglese con una Gibson rossa fiammante che attacca a velocità supersonica il riff di I’m Going Home, fa sì che nell’immaginario collettivo dell’epoca nasca la leggenda del “chitarrista più veloce del mondo”. Probabilmente, anzi sicuramente, non era vero, ma a quei tempi chitarristi più tecnici come John Mclaughlin, Larry Coryell, Ollie Halsall e molti altri, che basavano la loro “velocità” sulla costruzione di scale musicali mutuate dal jazz e non sui riff del rock and roll, erano noti solo a pochi aficionados e quindi anche sulla scia del triplo album che uscì l’anno successivo molte “leggende” del rock nacquero in quella occasione. Lo spastico dondolio di Joe Cocker, l’incazzoso Pete Townsend che distrugge la sua chitarra durante l’esibizione degli Who (già “provato” a Monterey un paio di anni prima), il vaffanculo collettivo di Country Joe McDonald, l’assolo di batteria di Michael Shrieve durante l’esibizione dei Santana, la trance quasi mistica di Richie Havens mentre canta Freedom, il bombardamento al napalm della chitarra di Jimi Hendrix durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, si dividono con l’inno al rock and roll e al blues dei Ten Years After di Alvin Lee il titolo di momenti indimenticabili del film e del disco, anche se ovviamente c’era tantissima altra buona musica, meno legata ad un particolare effetto audiovisivo!

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Lee nasceva Graham Alvin Barnes il 19 Dicembre 1944, durante le ultime propaggini della IIa Guerra Mondiale, a Nottingham, per noi italiani, la patria dello sceriffo di Robin Hood. Già nel corso della sua giovinezza, con l’amico Leo Lyons, sviluppa un amore per il jazz e il blues (che rimarrà una costante nella sua carriera, soprattutto nella parte iniziale) ma è l’incontro con il R&R a dargli la spinta a diventare un musicista. Il suo primo gruppo sono i Jaybirds, che passano dallo Star Club di Amburgo un paio di anni dopo i Beatles, nel 1962. Ma è quando approdano a Londra, verso la metà anni ’60, che persa prima la s e poi mutato il nome in Blues Yard, finalmente, nel 1966, arrivano alla ragione sociale definitiva di Ten Years After (esattamente dieci anni dopo “l’avvento” di Elvis Presley, da cui il nome) e ai concerti al Marquee che li porteranno a firmare un contratto con la Decca/Deram e alla pubblicazione dei primi dischi.

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I primi tre dischi, l’omonimo Ten Years After ***, il live Undead ***1/2 e Stonedhenge ***1/2, tutti ristampati in CD con varie bonus, sono quelli che li aiutano a costruirsi una certa fama nel periodo del British Blues Revival di quegli anni, in embrione ci sono moltissimi dei brani che costituiranno il corpo delle loro esibizioni dal vivo dell’epoca e successive, compresa quella di Woodstock. Usciti nel 1967, 1968 e 1969 ci presentano un gruppo, e soprattutto, il loro leader, Alvin Lee, ancora impegnati in uno stile asciutto e influenzato sia dal blues quanto dal jazz, dallo swing e dalle big bands alla Woody Herman, altro grande amore musicale di Alvin. Nel primo album ci sono già le prime versioni di I Can’t Keep From Cryng, Sometimes, la canzone di Al Kooper, scritta per i Blues Project, che costituirà poi il canovaccio per il lunghissimo brano dal vivo, eseguito anche a Woodstock, dove i TYA citavano praticamente tutta la storia del rock, del blues e dei grandi chitarristi passati e presenti, con un medley di dimensione spesso pantagrueliche. C’è anche Help Me, lo slow blues di Sonny Boy Williamson, che è tuttora uno dei cavalli di battaglia in concerto di Van Morrison.

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In Undead si trova la prima versione di I’m Going Home, dal vivo al Klooks Kleeks di Londra nel maggio del 1968, è una ancora una versione “breve”, poco più di 6 minuti, più jazzata e legata a boogie, blues e swing, ma il brano di Al Kooper citato poc’anzi è già nel suo formato monstre da oltre 17 minuti (nelle bonus del CD, all’epoca non lo si conosceva ancora) con la Extension On One Chord che era la lunga parte centrale dedicata all’improvvisazione. Il gruppo esegue Woodchoppers’s Ball di Woody Herman e Summertime, ma anche Rock Your Mama, Spoonful e Standing At The Crossroads che già segnalano la prossima svolta verso il rock-(blues). L’anno successivo esce Stonedhenge che già dal titolo ci parla di questo incrocio tra cerchi magici e strane cose “fumate”: è un disco particolare, quasi psichedelico, leggermente sperimentale ed improvvisato, ma contiene un paio di classici Hear Me Calling e Speed Kills, oltre alla lunga Boogie On (oltre 14 minuti), sempre tra le bonus, che riportano anche la versione del singolo, abbreviata, di I’m Going Home.

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A_Space_in_Time.jpg220px-Rock_&_Roll_Music_to_the_World.jpgPositive_Vibrations.jpg

 La successiva fase è quella che potremmo definire dei Chrysalis Years 1969-1972, Think About The Years è il titolo di una bella antologia tripla uscita in CD nel 2010, con inediti e rarities, che copre questo periodo, che si può definire il migliore per i dischi di studio, anche se all’epoca i dischi uscirono ancora per la Deram e il solo A Space in Time, negli USA uscì per la Columbia. Occorre precisare che nessuno dei dischi dei Ten Years After si può definire memorabile, ci sono tre o quattro brani molto buoni e il resto meno, ma se ne dovessimo scegliere due o tre, i migliori vengono da questo periodo. Ssssh.***1/2uscito ancora nel 1969,  nello stesso mese di Woodstock,  in poco più di 37 minuti presenta la svolta rock-blues chitarristica che avrebbe fatto la fortuna del gruppo: Good Morning Little Schoolgirl, eseguita anche al Festival, era una feroce rivisitazione di un classico, sempre dal repertorio di Sonny Boy Williamson, Bad Scene, Two Time Mama e I Woke Up This Morning sono tra le migliori del loro repertorio e Stoned Woman è un altro inno allo “sballo”, figlia del periodo.

ten years after 1972

 

Anche il successivo Cricklewood Green***1/2 è tra i migliori in assoluto della discografia e contiene Love Like A Woman, il veicolo per uno dei migliori assolo della carriera di Alvin Lee, oltre ad una serie di brani solidi e vibranti, mentre Watt*** è un mezzo passo falso, uscito come il precedente nel 1970, perché in quegli anni se ne pubblicavano almeno due per anno, risentito oggi è comunque meglio di come lo ricordavo, My Baby Left Me, She Lies In The Morning e un altro R&R primo amore, Sweet Little Sixteen dal vivo, fanno la loro porca figura. A Space In Time***1/2 del 1971,  è l’album della svolta pop-rock, alla ricerca del mercato americano, I’d Love To Change The World è un ottimo singolo elettroacustico, che sarà il loro maggior successo, e anche gli altri brani introducono questo suono delle chitarre acustiche, probabilmente influenzato dal sound dei Led Zeppelin di quell’anno, che mescolava il rock a momenti più intimisti.

 

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Da qui in avanti, peraltro solo per due album, Rock And Roll Music To The World del ’72 e Positive Vibrations del 1974, inizia la china discendente prima dello scioglimento nello stesso anno, inframmezzata da sempre eccellenti esibizioni live (anche al Palalido di Milano, mi pare nella primavera del ’71, io c’ero e lo ricordo, apriva la Mick Abrahams Band, ma qualche pirla mi aveva ciulato il posto numerato sul parterre per cui è una memoria agrodolce). In ogni caso il doppio Recorded Live ***1/2, uscito nel 1973 e Recorded Live At Fillmore East 1970****, pubblicato postumo nel 2001 su CD, sono assolutamente da avere, come l’ottimo disco solo country-rock-blues-gospel On The Road To Freedom***1/2 in coppia con Mylon LeFevre, pubblicato nel 1973 e bissato nel 2012 con Still On The Road to Freedom, l’ultimo disco bello della sua discografia, dopo una lunga serie di album, anche piacevoli, compresa qualche reunion, guidati soprattutto dal mestiere.

 

Ed ora, il 6 marzo del 2013 ci ha raggiunto la notizia della sua morte, per le complicazioni dopo una operazione di routine (si dice così) che solo da poco si è scoperto essere avvenuta in Spagna. Possiamo solo dirgli grazie di tutto e Rest In Peace.

Bruno Conti

Ancora Tu…Ma Non Dovevamo Vederci Più? David Bowie – The Next Day

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David Bowie – The Next Day – RCA Deluxe Edition CD

La citazione battistiana (o mogoliana, visto che stiamo parlando del testo), gentilmente suggeritami da Bruno, calza proprio come la pancetta nell’amatriciana parlando di The Next Day, il disco dell’inatteso ed improvviso ritorno sulle scene di David Bowie, a dieci anni di distanza da Reality, dieci anni di nulla assoluto, durante i quali le speculazioni sullo stato di salute del Duca Bianco (o Ziggy Stardust, o quello che volete voi) si erano sprecate.

Invece, dai video promozionali apparsi già da qualche tempo, Bowie appare in ottima forma fisica, con un look come sempre giovanile (ma la chirurgia estetica avrà di certo dato il suo contributo), e The Next Day è già stato salutato dalla critica internazionale come l’evento dell’anno. Personalmente non sono mai stato un fan sfegatato di Bowie, non l’ho mai considerato indispensabile dal punto di vista musicale (da quello della gestione della propria immagine invece lo reputo uno dei maestri assoluti): autore di diversi ottimi dischi, alcuni anche più che ottimi (Ziggy Stardust, Heroes e quello che considero il suo capolavoro, cioè Hunky Dory), ma senza di lui la storia della musica sarebbe stata la stessa.

Comunque un personaggio importante, e non posso che salutare con piacere il suo ritorno (personalmente mi è anche sempre stato simpatico), per il quale ha scelto di farsi produrre ancora da Tony Visconti, cioè l’uomo a cui è più legato dal punto di vista artistico (oltre alla celebre trilogia berlinese Heroes/Low/Lodger, Visconti è stato l’artefice anche di dischi importanti come Young Americans, Scary Monsters, oltre alle due ultime fatiche del White Duke, Heathen e Reality, nonché dei primi album). Anche i musicisti impiegati sono un misto tra nuovo e vecchio: Zachary Alford e Sterling Campbell sono i batteristi che si alternano, al basso due “classici”, Gail Ann Dorsey, anche alle armonie vocali con Janice Pendarvis e Tony Levin, chitarre David Torn e Earl Slick, oltre a Tony Visconti, Gerry Leonard e lo stesso Bowie che suonano un po’ di tutto,  sono i principali utilizzati, aggiungiamo Steve Elson ai fiati, clarinetto e sax.  

Se Bowie ha fisicamente bevuto l’elisir di giovinezza (come il personaggio interpretato in Miriam Si Sveglia A Mezzanotte, film che ricordo più che altro per una memorabile scena di sesso tra Catherine Deneuve e Susan Sarandon…ma qui siamo su un blog musicale), bisogna però notare un certo pessimismo nei testi dei quattordici brani del disco (diciassette nella immancabile deluxe edition): canzoni che parlano di vecchiaia, di paura della morte che si avvicina e di altre cupezze simili. Indicativa in tal senso la copertina del CD, cioè la stessa di Heroes con un quadrato bianco a coprire il volto di David, quasi come a voler significare che il passato non torna (ed anche il titolo dell’album va in questa direzione). Musicalmente, per fortuna, il CD non è una nenia funebre, ma ci presenta invece il Bowie più classico, quello per intenderci degli ultimi tre album (Hours, il mio preferito nel terzetto, ed i già citati Heathen e Reality): la presenza di Visconti in tal senso è una garanzia, il suono è “Bowie” che più classico non si può, ma il Duca è in ottima forma e quindi The Next Day si può tranquillamente definire come un ritorno pienamente riuscito (grazie a Dio ha evitato le porcherie moderniste di Outside ed Earthling, ma anche l’hard un po’ sgangherato dei Tin Machine).

La title track, che apre l’album, è un vivace pop rock, leggermente dylaniano (His Bobness è sempre stato uno dei suoi punti di riferimento), chitarre “alla Robert Fripp” ed una buona dose di energia. E poi risentire la sua voce è comunque un piacere. Dirty Boys è un funk-rock un po’ algido (Bowie non è mai stato particolarmente caloroso), cadenzato e godibile, simile a certe cose dell’album Black Tie White Noise; The Stars (Are Out Tonight), che è il singolo in programmazione attualmente, è un’ottima pop song in perfetto Bowie style, ritmata e caratterizzata dalla carismatica presenza vocale dell’autore, mentre Love Is Lost è un po’ sintetizzata ma ha dalla sua un beat molto interessante.

Where Are We Now? è stato il primo brano proposto dall’album, un lento molto d’atmosfera, notturno, languido (e un po’ palloso, diciamolo); molto meglio Valentine’s Day, un rockettino con un bel riff di chitarra e cori al posto giusto, Bowie al suo meglio, sembra una outtake degli anni settanta. La frenetica If You Can See Me ha diverse soluzioni strumentali interessanti ma melodicamente latita un pochino, mentre I’d Rather Be High vede il nostro più dentro alla canzone, molto buona peraltro, un brano che rimanda direttamente alle atmosfere berlinesi (ma un po’ tutto il disco è zeppo di autocitazioni, e penso che dopo dieci anni i fans non volessero altro). Boss Of Me è un gradevole pezzo dal retrogusto errebi, con David che canta con convinzione, uno dei miei preferiti finora; Dancing Out In Space è la trecentoventesima canzone di Bowie che parla dello spazio, e non è affatto male, anche se avrei gradito un po’ più di calore in più (ma è come chiedere a Lady Gaga di vestirsi con sobrietà). How Does The Grass Grow? ha un po’ troppo synth per i miei gusti, ed il brano in sé è una bizzarria, anche se non sgradevole; (You Will) Set The World On Fire è finalmente un brano rock in tutto e per tutto, e manco a dirlo è uno dei più riusciti del lavoro (lo proporrei come prossimo singolo).

La parte “normale” del disco si chiude con la splendida ballata You Feel So Lonely You Could Die, fluida, emozionante, vibrante, cantata in maniera appassionata, in poche parole Bowie at his best (inutile dire che è la migliore dell’album, almeno per me, degna di entrare in qualsiasi greatest hits futuro), e con la cupa (e un po’ tetra) Heat. La versione deluxe del CD prevede altri tre brani: la breve e vivace So She, con la sua atmosfera deliziosamente anni sessanta, la ancor più breve Plan, uno strumentale guidato da una chitarra leggermente distorta, un pezzo senza molto costrutto, e la roccata I’ll Take You There, un brano che non avrebbe sfigurato (come d’altronde So She) nella versione standard del dischetto. E c’è anche Obstacle, esclusiva alla versione download di iTunes.

Un ritorno molto positivo in definitiva: dieci anni di assenza non sono pochi, un po’ di ruggine era comprensibile, ma Bowie, nonostante due-tre canzoni forse di troppo, ci regala uno dei suoi lavori più positivi dagli anni ottanta in poi.

E poi la classe non arrugginisce mai.

Marco Verdi

Una Piccola Macchina Del Tempo Blues! Al Miller – …In Between Times

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Al Miller Chicago Blues Band – …In Between Time – Delmark

Inserendo questo dischetto nel lettore CD è come entrare in una macchina del tempo, piccola ma efficiente, che ti porta, con fermate intermedie, più o meno verso la metà degli anni ’60, direi programmata su Chicago. Il Blues elettrico, o urbano se preferite, è in uno dei suoi momenti di grazia, B.B. King, Muddy Waters, Magic Sam e molti altri che non citiamo per brevità, iniziano ad avere i primi discepoli anche tra i musicisti bianchi. E Al Miller è già lì, fa parte della scena locale, con gente come Paul Butterfield e la sua band, dove milita un certo Mike Bloomfield, che diventerà amico di Miller, impegnato a spargere il verbo blues con Chicago Slim e Johnny Young. Nel 1966, proprio sull’onda del successo della Butterfield Blues Band, il gruppo di Al Miller, tali Wurds, sono la prima band bianca ad essere messa sotto contratto per la Chess: inutile dire, perché queste storie di solito vanno così, che l’unico 45 giri pubblicato è un insuccesso clamoroso. Provano anche la strada del garage rock con un altro singolo intitolato Why?, ma poi capita l’aria che tira, il nostro amico prende la sua armonica e decide di trasferirsi nella Bay Area, in quel di San Francisco, dove ritrova Bloomfield e i due suonano anche insieme tra il ’69 e il ’70. Ma pure la “Summer Of Love”, per quanto prolungata, sta finendo e Miller se ne torna a Chicago, non per la musica, che rimarrà un hobby, quanto per un buon lavoro e una famiglia che sono le sue priorità, anche se occasionalmente registra come componente della Bionic Blues Band (?).

Poi, all’inizio degli anni ’90, finito il periodo sabbatico, ritorna in pista per registrare quello che è a tutti gli effetti il suo primo disco, l’età per esordire da bluesman è quella giusta, l’etichetta pure, la Delmark, i musicisti anche, tra gli altri, Willie Kent, Dave Specter, Tad Robinson, Steve Freund,  il disco si chiama Wild Cards, e al di fuori della cerchia carbonara dei bluesofili, critica ed appassionati che apprezzano,  non se lo fila nessuno. A questo punto subentrano pure problemi di salute e per parecchi anni Al Miller non entra più in studio di registrazione, ma, a fine anni ’90, inizio anni ’00, con un fido manipolo di amici, tra i quali Dave Specter di nuovo, oltre a John Primer, Billy Flynn, Ken Saydak ed altri meno noti, viene registrato un nuovo album, che però, guarda caso, è questo …In Between Time, che a tredici anni dalla data originale, vede (di nuovo?) la luce. A questo punto fermiamo la macchina del tempo e ascoltiamo, anche se il suono è proprio quello degli anni appena descritti, Chicago, metà anni ’60, prima che “inventassero” il blues-rock e Jimi Hendrix, con un suono tecnicamente meno rudimentale ma una attitudine da neo-revivalisti che condivide con i compagni di avventura, non per nulla il disco è attribuito alla Al Miller Chicago Blues Band.

Scorrono 17 brani pieni di passione, per quasi 75 minuti di musica: ci sono ben tre cover del suo vecchio mentore Johnny Young, Tighten Up On It, My Baby Walked Out e lo strumentale I Got It , con l’armonica di Miller che divide la scena con la chitarra di Flynn e il piano di Saydak, c’è l’iniziale Rockin’ All Day che, nonostante il titolo, è quello con il suono più “arcaico”.  Una tosta I Need So You Bad scritta da B.B. King in quei gloriosi tempi, con la voce e la chitarra di John Primer in primo piano, con Specter e Miller che lo spalleggiano ai rispettivi strumenti. Tra i brani originali di Al Miller spicca l’ottima title-track con Miller per l’occasione alla chitarra e la slide di Billy Flynn che gli conferisce un’aura alla Muddy Waters. Flynn, ottimo anche nel suo brano strumentale Billy’s Boogie e in A Better Day dove fa una timida apparizione anche un wah-wah slide. John Primer canta in Dead Presidents di Willie Dixon e in 1839 Blues dal repertorio di Elmore James ed è la chitarra solista nell’omaggio, di nome e di fatto, Lawhorn Special, ad uno dei chitarristi storici della band di Waters, Sammy Lawhorn. Per il resto dell’album, Al Miller canta e soffia di gusto nella sua armonica quello che si è soliti definire il “blues originale”, come dice anche Scott Dirks nelle note del CD. Sarà poi vero? Ai posteri, e alla nostra macchina del tempo parcheggiata, l’ardua sentenza, per il momento archiviamo alla voce “piacevolmente demodé”!

Bruno Conti

Novità Di Marzo Parte II. John Grant, Bon Jovi, Devendra Banhart, Sound City (Dave Grohl), Shooter Jennings

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Questa settimana , uscite del 12 marzo, a parte David Bowie ed Eric Clapton (che avranno la loro recensione singola al più presto) non ci sono molti titoli interessanti in uscita.

Partiamo con il nuovo John Grant Pale Green Green Ghosts, pubblicato dalla Bella Union anche in versione doppia con 6 remix (uhm) nel secondo dischetto. Il precedente Queen Of Denmark del 2010 mi era piaciuto parecchio bread molto seventies, ma decisamente bello. Questo nuovo non mi piace molto, sonorità elettroniche che spesso sfociano nel ballabile anni ’80 e quattro brani stile ballata, molto piacevoli. Se si potesse avere un EP con GMF, It Doesn’t Matter To This, I Hate This Town e Glacier, che sono vicine ai miei gusti ne sarei felice, ma visto che non si può penso che per questo giro, passerò.

Nuovo album anche per Devendra Banhart, Mala, il primo per la Nonesuch Records. Co-prodotto come al solito con l’amico Noah Georgeson (che si sembra sempre un’anagramma di George Harrison, ma quello pseudonimo era Hari Georgeson). C’è un brano dedicato a Hildegard Von Bingen, la prima donna nel canto gregoriano, un pezzo in spagnolo Mi Negrita e in generale non mi sembra un album straordinario, ma non sono mai stato un fan particolarmente sfegatato. Potete ascoltarlo qui, per il momento first-listen-devendra-banhart-mala

Come non sono mai stato un fan di Bon Jovi, comunque martedì esce il nuovo album What About Now, come di consueto Mercury/Universal e, naturalmente non poteva mancare la consueta versione Deluxe, singola, ma con 4 brani in più.

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CD della colonna sonora, DVD o Blu-ray per Sound City, il documentario curato da Dave Grohl sulla chiusura dei mitici (anche se è un “postaccio”) studi Sound City Recordings, Hollywood, una delle ultime mecche del suono analogico. Per l’occasione ha invitato alcuni amici e colleghi per registrare delle sessions all’interno degli studi. Il tutto esce per la Sony con il seguente contenuto:

Track List:

  • Heaven and All – Dave Grohl, Peter Hayes, and Robert Levon Been
  • Time Slowing Down – Brad Wilk, Chris Goss, Dave Grohl, and Tim Commerford
  • You Can’t Fix This – Dave Grohl, Rami Jaffee, Stevie Nicks, and Taylor Hawkins
  • The Man That Never Was – Dave Grohl, Nate Mendel, Pat Smear, Rick Springfield, and Taylor Hawkins
  • Your Wife Is Calling – Alain Johannes, Dave Grohl, Lee Ving, Pat Smear, and Taylor Hawkins
  • From Can to Can’t – Corey Taylor, Dave Grohl, Rick Nielsen, and Scott Reeder
  • Centipede – Alain Johannes, Chris Goss, Dave Grohl, and Joshua Homme
  • A Trick With No Sleeve – Alain Johannes, Chris Goss, Dave Grohl, and Joshua Homme
  • Cut Me Some Slack – Paul McCartney, Dave Grohl, Krist Novoselic, and Pat Smear
  • Once Upon a Time… The End – Dave Grohl, Jessy Greene, Jim Keltner, and Rami Jaffee
  • Mantra – Dave Grohl, Joshua Homme, and Trent Reznor

E,  per finire, nuovo album di Shooter Jennings, The Other Life, etichetta Entertainment One Music, Forse il più country (vicino allo stile del babbo) e tra i più belli della sua carriera, e ne ha fatti alcuni non male. Ospiti Patty Griffin, Jim Dandy (il vecchio cantante dei Black Oak Arkansas con il suo tipico vocione) e Scott H. Biram, un altro fuori di testa da Austin, Texas. Il risultato, come detto, è molto apprezzabile.

E anche per oggi è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

Newgrass, Bluegrass o Pop Grass? In Ogni Caso Bravi! The Hillbenders – Can You Hear Me?

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The Hillbenders – Can You Hear Me? – Compass Records

Nel 1971 i New Grass Revival di Sam Bush prendevano il loro nome da un “nuovo” stile che stava acquistando popolarità in quel periodo, anzi fu proprio uno del gruppo, Ebo Walker, a coniugare il termine “newgrass”, un filone musicale a cui si facevano aderire anche bands come i Dillards, J.D. Crowe & The New South, Country Gazette, Seldom Scene e solisti come John Hartford: una sorta di bluegrass progressivo, che mescolava lo stile classico, con influenze rock e blues, pop perfino (penso a certe cose della Nitty Gritty Dirt Band dell’epoca), oltre ad una attitudine più aperta musicalmente, tipica del periodo. Con qualche intrusione di strumenti elettrici, ma appena accennati, un basso qui, una chitarra elettrica là, una sezione ritmica, ma senza esagerare, parleremmo di country-rock, ma non è questo il caso, elementare, Watson! Qualcuno poi, un giorno, mi spiegherà la differenza con il bluegrass vero e proprio, visto che secondo molti il newgrass nasce dalle improvvisazioni strumentali tra banjo, contrabbasso e gli altri strumenti, “inventate” da Earl Scruggs, che era peraltro considerato un rappresentante della vecchia scuola.

Questa ci porta agli Hillbenders, un quintetto classico: banjo, dobro, mandolino, chitarra acustica e contrabbasso, nato a Springfield, Missouri nel 2008 e vincitore l’anno successivo del premio come miglior band bluegrass al famoso Festival Telluride in Colorado. Nel 2010 pubblicano il primo album Down To My Last Dollar, uscito a livello indipendente e recentemente ristampato proprio dalla Compass, che, tra le tante belle canzoni, contiene una deliziosa cover di un brano, forse minore, di Guy Clark, Ain’t No Trouble To Me, oltre a dodici brani scritti dai componenti la formazione. I due cugini, Jim e Gary Rea, rispettivamente a chitarra e contrabbasso, Chad Graves al dobro, Mark Cassidy al banjo e Nolan Lawrence al mandolino, che oltre a cantare più o meno tutti, tre come solisti, con gli altri che contribuiscono alle armonie a tre, quattro e anche cinque voci, veramente notevoli. Non saprei dirvi che genere facciano: newgrass, bluegrass o anche pop grass, però posso dirvi che sono veramente bravi.

L’iniziale Train Whistle o il “singolo” Radio hanno un appeal quasi radiofonico (magari di settore, se vogliamo) ma con gli strumenti che viaggiano alla grande e armonie vocali che ogni tanto esplodono piacevolmente. Ottimi i due strumentali, Clutch, che parte lenta ma diventa immediatamente un brano bluegrass tradizionale con tutti gli strumentisti che impiegano i trucchi del mestiere a velocità supersonica e la più lenta e melodica Gettysburg, dall’andamento maestoso, ma che non può trattenersi  nella parte finale di prendere quel train sonoro veloce e frenetico, tipico di questa musica. Oppure prendete le due covers, Past The Point Of Rescue, conosciuta in America come successo, negli anni ’90, di Hal Ketchum, ma chi scrive la ricorda come uno dei brani migliori presenti in No Frontiers, disco tra i migliori in assoluto di Mary Black, canzone scritta da Mick Hanly, il cantante irlandese che entrò nei Moving Hearts in sostituzione di Christy Moore, in questo album prende la forma di una bluegrass song affascinante, per diventare nella parte centrale una border song da fiesta mexicana, cantata con piglio operatico in spagnolo, a tempo di mexican grass.

L’altra cover Talking In Your Sleep, è un vecchio brano dei Romantics, che dimostra ancora questo approccio newgrass della musica, suono tradizionale, con acustica, banjo, dobro e mandolino che si alternano velocemente alla guida e cantato di stampo rock, ma impreziosito dalle consuete armonie vocali spaziali. La conclusiva Game Over, con il suo call and response tra i vari vocalist della band ha un sapore tra country e blues, grintoso e tirato al punto giusto. Tra i brani migliori anche la potente Concrete Ribbon con il consueto giusto equilibrio tra abilità strumentale degli strumentisti e armonie vocali sofisticate e complesse. Se volete il vostro country, ok, bluegrass, moderno ma allo stesso tempo tradizionale, ma, soprattutto, se volete un prodotto che forse non entrerà negli annali della musica, ma ha sicuramente una qualità nettamente superiore alla media del genere, non cercate troppo lontano, questo Can You Hear Me? potrebbe fare per voi!

Bruno Conti  

Sempre A Proposito Di Southern Rock, Vecchio e “Nuovo”! Molly Hatchet & Atlanta Rhythm Section Dal Vivo.

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Molly Hatchet – Live At Rockpalast 1996 – MIG Made In Germany CD o DVD

Atlanta Rhythm Section – Are You Ready? – BGO

Due formazioni classiche di southern rock alle prese con degli album “storici” o d’archivio. Si tratta di CD o DVD dal vivo, registrati in epoche differenti, ma entrambi interessanti,  procediamo per gradi comunque.

Nei Molly Hatchet, quando partecipano al famoso Rockpalast estivo alla roccia di Loreley, nel giugno del 1996, non c’è più nessun componente della formazione originale: il grande Danny Joe Brown, il”cantante” per antonomasia della formazione, entrava ed usciva dal gruppo per problemi di salute (morto nel 2005), ma in quel periodo non era presente, Dave Hlubek, il chitarrista e membro fondatore, se ne era andato nel 1987 e sarebbe rientrato in formazione nel 2005, Duane Roland, l’altro chitarrista originale, non c’era del più dal 1990 ed è morto nel 2006, il terzo ed ultimo chitarrista Steve Holland mancava dal 1984, praticamente un disastro? E invece no, a giudicare da quello che si può sentire (o vedere nel DVD, ma noi siamo “poveri” e “tradizionalisti”, quindi la recensione riguarda il CD) la formazione è ancora gagliarda, in buona salute, almeno per questo concerto pomeridiano di metà anni ’90, nel quale il pubblico tedesco e quello televisivo in Europa ebbe l’occasione di assistere anche ai concerti di Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers che si dividevano il palco in quell’occasione e probabilmente, per spirito di emulazione, tutti diedero il meglio. Formazione con due chitarre e tastiere, oltre al nuovo cantante Phil McCormack, arrivato di fresco e che devo dire non fa rimpiangere troppo Danny Joe Brown (appena un poco), ci sono i chitarristi Bobby Ingram e Bryan Bassett, e un paio di voci femminili da Memphis, Tennesse, Leslie Hawkins e Therisa McCoy, per rafforzare le analogie con i Lynyrd, di cui sono sempre stati considerati gli eredi, impressione rafforzata anche dal fatto che Ronnie Van Zant, in un certo senso il loro padre putativo, avrebbe dovuto essere il produttore del primo album della band, poi, in seguito alla scomparsa di Van Zant nell’incidente aereo del 1977, affidata a Tom Werman, un produttore più abituato a lavorare con formazioni più hard come Mother’s Finest, Cheap Trick, Ted Nugent e degenerato in seguito nel metal di Poison, Motley Crue, Stryper.

L’altra grande affinità elettiva tra Hatchet e Skynyrd era il fatto che entrambe le formazioni provenivano da Jacksonville, Florida e come dichiararono ai tempi, la dissoluzione dei Lynyrd Skynyrd, l’appannamento degli Allman, per usare un eufemismo e la fase calante della Marshall Tucker, favorirono sicuramente l’ascesa dei Molly Hatchet, che pur essendo decisamente più hard e boogie, con la loro tripla chitarra solista, un cantante poderoso e una sezione ritmica rocciosa, realizzarono due signori album, come l’esordio omonimo e Flirtin’ With Disaster, dove le chitarre ruggivano e si intrecciavano, spesso all’unisono, spronate dal classico fischio che dava il via a selve di assolo vibranti e tecnicamente validi, fino al live Double Trouble del 1985, dove pur se in fase calante, non ce n’era per nessuno. In questo Live At Rockpalast gli ingredienti ci sono tutti: i brani classici, Bounty Hunter, Gator Country, Whiskey Man, Flirtin’ With Disaster, qualche cover ben piazzata, It’s All Over Now e una versione monstre, molto tirata, di oltre dodici minuti, ben posizionata, verso la fine del concerto, di Dreams di Gregg Allman, il nuovo cantante, con la voce roca e “sporca” di whisky al punto giusto, le chitarre cattive, pronte a scattare all’unisono al primo segno di fischio, le accelerazioni improvvise, il buon lavoro del tastierista John Galvin, hard quanto si vuole ma la qualità non manca mai in questo concerto.

Altro concerto, storico, è quello ripreso in questa edizione rimasterizzata del celeberrimo Are You Ready?, vecchio doppio vinile dal vivo (anche se molte parti venivano presentate come live in studio, più rifinite,  ma in quegli anni, 1978/79, usava anche così) ora riproposto dalla BGO (che ha già ripubblicato praticamente tutta la discografia), per gli Atlanta Rhythm Section, altra grande formazione del southern rock storico, ma non solo: gli ARS nascevano, nel 1970,  dalle ceneri dei Candymen prima, la band di Roy Orbison,  e dei Classics IV dopo, quelli di Spooky, Traces e Stormy, entrambe le formazioni costruite intorno alle capacità dell’autore e produttore Buddy Buie. Barry Bailey e J.R Cobb erano i due formidabili chitarristi, che con l’ottimo tastierista Dean Daughtry e il batterista Robert Nix diedero vita al nucleo originale della formazione. Che nel secondo album raggiunse la sua completezza con l’ingresso del cantante di Macon, Ronnie Hammond, che Ronnie Van Zant considerava il miglior cantante del genere southern (tra Ronnie ci si intende).

Proprio a Hammond, “Mr. Georgia Rhythm”, con uno stile vocale che poteva ricordare Paul Rodgers, scomparso nel 2011, è dedicata questa ristampa: un album che ripercorre la loro carriera, e ne esalta i pregi, che erano quelli di riunire in un solo gruppo le varie anime del southern rock, il boogie rock tosto e chitarristico di Lynyrd Skynyrd, Outlaws o Blackfoot (senza la componente country), sostituita da costruzioni rock più raffinate alla Little Feat o perfino Steely Dan e dalle improvvisazioni più blues e jazz di Allman Brothers e Marshall Tucker, unite inoltre alla capacità, ereditata dalle precedenti formazioni, di saper scrivere e suonare brani con un maggiore appeal  pop, più commerciali ma mai scontati, canzoni come Imaginary Lover, Doraville, Champagne Jam, So Into You che si affiancavano alle cavalcate chitarristiche di Cobb e Bailey in brani come Angel (What In The World’s Come Over Us) o la lunga parte lasciata alla improvvisazione della solista in So Into You che nella parte finale del disco sfocia nel R&R puro di Long Tall Sally, ma già prima in Another Man’s Woman c’è una lunghissima parte strumentale dedicata a tutta la band, assolo di basso compreso e il tributo ai Lynyrd Skynyrd nella vigorosa Large Time, dove il suono si fa duro, quasi hard rock, a smentire la fama di band un po’ troppo leccata, che spesso sembrava risultare nei dischi di studio, dove però il rock era sempre presente, anche se non così tirato come in questo notevole live, uno dei dischi dal vivo classici del decennio 70’s, finalmente disponibile in una edizione CD degna della sua fama.

Bruno Conti       

Quasi Più Springsteen Di Bruce! Joe D’Urso & Stone Caravan – Sway

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Joe D’Urso & Stone Caravan – Sway – Schoolhouse Records – 2013

Joe D’Urso un rocker (dal pelo duro), è in pista da quasi venticinque anni (arriva da Rockland County a nord di New York) e, accompagnato dai suoi fidati Stone Caravan, con Sway, arriva al tredicesimoalbum di una più che dignitosa carriera. Joe è un “clone” di Bruce Springsteen, come Dan Bern lo è di Bob Dylan, e come Bern scrive canzoni di buona fattura, la sua musica e le sue liriche parlano della grande terra americana, di figure perdenti che inseguono un sogno e delle illusioni che ne derivano. Per quelli che lo seguono dagli inizi (come chi scrive), è inutile ricordare i suoi album, ma mi permetto di menzionare, l’ottimo esordio con Mirrors, Shoestrings & Credit Card (1996), cui faranno seguito Glow (1998) e Rock & Roll (2000), un paio di dischi dal vivo, l’ormai introvabile Audience Of One (acustico) e il doppio elettrico One More Song Live (2009) e le due ultime produzioni Cause (2006) e Down Here By The River (2010).

Due brevi note sul personaggio: Joe D’Urso (il cognome tradisce le sue radici), ha una storia più che interessante alle spalle, in quanto per anni ha lavorato come “procacciatore” di molte star che passavano nel New Jersey e le influenze degli U2 prima e di Springsteen e Leonard Cohen poi, lo hanno spinto verso una carriera completamente diversa da quella che lui (e la sua famiglia) avevano pianificato. E così dopo aver imbracciato la chitarra e suonato in polverose small towns di provincia  (una sana e robusta gavetta), il nostro Joe, con i suoi Stone Caravan, raggiunge una solida notorietà, ma essendo un ragazzo semplice, preferisce continuare ad incidere per piccole etichette, in modo così da percorrere un cammino scelto unicamente da lui. In seguito si crea una sua label, e questo gli permette di togliersi molte soddisfazioni, avendo creato in vari paesi (Italia inclusa), una fitta rete informativa che gli consente di essere vicino ad un pubblico che lo stima.

Nelle dodici canzoni di questo Sway, nove portano la sua firma, mentre le tre “cover” escono dalla penna di “personcine” come Steve Van Zandt, Willie Nile e del compianto Terence Martin (che ammetto di non conoscere) e con il sostegno abituale di Sam LaMonica alla batteria, Steve Pavia alla tromba, Lou DeMartino al basso, Tony Pellagrosi alle tastiere (chissà da dove provengono le loro famiglie?), Greg Lykins alle chitarre, Neil Berg al piano, la brava vocalist Rita Harvey  e il nostro Joe alla chitarra acustica, ci trascinano con la loro musica ad una festa ad Asbury Park. La festa infatti inizia con Come Down With Me (Asbury Park), dove una robusta sezione fiati è dirompente nella sua linea melodica, mentre la cadenzata Brand New Start ci regala una canzone fresca e godibile.Si riparte con il rock and roll di Hanging Out in Tucson dall’intro vigorosissimo e roccato, con un ottimo pianoforte (oserei dire alla Roy Bittan) che accompagna tutto lo sviluppo del brano, cui fa seguito uno dei punti più alti del disco, la dolcissima Sway una ballata malinconica e spezzacuori,  cantata in duetto con la Harvey.

Arriva il momento di It’s Been A Long Time (brano scritto da Van Zandt per Southside Johnny per lo splendido album Better Days), e questa versione rivisitata da D’Urso , viene resa al meglio grazie anche al suono poderoso della band, che si ripete alla grande nella trascinante All My Friends, ritmata, energia e feeling in puro Springsteen-style. La cover di I’ll Take All The Blame del cantautore Terence Martin (un doveroso omaggio ad un’artista poco conosciuto e sfortunato), è una ballata di grande spessore, ben sostenuta da una melodia forte e da un gioco di chitarre di primaria importanza, niente a che di vedere con l’impetuosa One Guitar di Willie Nile (pescata dall’album The Innocent Ones), puro rock che si ascolta tutto di un fiato. Con Love Her Blues si vira verso un blues d’annata, con il piano di Neil Berg  in evidenza, mentre la seguente Summertime Dreaming è un tirato honky-tonky , un brano che mi ricorda il primo Bob Seger (quello per intenderci di Ramblin’ Gamblin’ Man) dove la bravura dei musicisti alcune volte sovrastava il “leader”. Si chiude con Freedom, una canzone trascinante che lascia il segno per la cadenza ritmica, gli assolo delle chitarre slide e il cantato liberatorio di Joe, mentre la conclusiva NYC Taxi Ride  è uno brano strumentale suonato alla Willie DeVille, perfetto per l’entrata in scena dei suoi meravigliosi concerti live.

Joe D’Urso rimane un clone del Boss, su questo non ci piove, ma questo Sway, proprio come certi dischi di Bruce è fatto di ballate lente, focosi rock’n’roll, in un’alternanza piuttosto rigorosa e la voce di Joe modulata sulle tonalità calde del rocker del New Jersey, avvalora ancor di più le note similitudini dei due. Bel ritorno di un musicista che fa del blue-collar rock nell’oscurità, da anni, ma è “musica sana”, che meriterebbe una maggiore attenzione per la serietà e la costanza con cui continua il suo percorso.

NDT: Una nota di colore, più lo vedo e più fisicamente mi ricorda il mio amico Ed Abbiati dei Lowlands. Separati alla nascita?

Tino Montanari

“Sway” Track Listing:
1. Come Down Tonight (Asbury Park) – D’Urso
2. Brand New Start – D’Urso
3. Hanging Out in Tucson – D’Urso/Berg
4. Sway – D’Urso
5. It’s Been A Long Time – Van Zandt
6. All My Friends – D’Urso/Sica/Albanese
7. I’ll Take All The Blame – Martin/Hicks
8. One Guitar – Nile/Lee
9. Love Her Blues – D’Urso/Berg
10. Summertime Dreaming – D’Urso/Albanese
11. Freedom – D’Urso/Berg
12. NYC Taxi Ride (Instrumental) – Berg/D’Urso

Alvin Lee 19/12/1944 – 06/03/2013. Se Ne E’ Andata Una Delle Leggende di Woodstock!

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Quella scena del film quando lo schermo si divide prima in due e poi in tre, e uno, cento, mille Alvin Lee invadono la scena, è entrata nella leggenda e nella iconografia del rock, si può dire che l’air guitar nasce in quell’occasione, uno dei grandi guitar heroes della storia, forse, anzi sicuramente, non il più bravo, ma una delle scene indimenticabili…

Scomparso oggi per le conseguenze impreviste di quella che viene definita una operazione di routine, ci lascia a 68 anni, orfani per sempre della sua rossa e fiammeggiante chitarra Gibson che illuminò una notte di Woodstock e l’immaginario collettivo di tutti coloro che videro quel film!

Nei prossimi giorni, mi riprometto di scrivere qualcosa per ricordarlo, a mente più fredda e consapevole.

Per il momento, grazie per averci fatto sognare in quel momento meraviglioso (ripetuto in piccolo, prima e dopo, una infinità di volte).

Rest In Peace!

Bruno Conti

“Senza Fine”, Unico Limite La Durata Del CD! Endless Boogie – Long Island

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Endless Boogie – Long Island – No Quarter Records

Il boogie è senza fine, ma il CD si ferma a 79 minuti e 41 secondi, quasi ai limiti di durata e anche della resistenza dell’ascoltatore, 8 brani tra i 7 e i 14 minuti, ma nel precedente ce ne era uno che viaggiava ben oltre i 20, e questi sono i dischi di studio, dal vivo si vocifera di versioni di Sister Ray che superano le tre ore e questo spiega perché incidano per una etichetta che si chiama No Quarter, non penso sia per rendere omaggio ai Led Zeppelin ma perché non ti concedono requie, addirittura in questo Long Island hanno aggiunto un terzo chitarrista Matt Sweeney, alla frontline del leader Paul Major, chitarra numero uno e vocalist (inteso in questo caso come colui che ogni tanto emette delle parole, presumo a caso) e Jesper Eklow, chitarrista numero due.

Il risultato è un boogie-rock-blues assolutamente free-form dove le chitarre e la sezione ritmica prendono un groove ipnotico e proseguono fino a che se lo ricordano, poi qualcuno accelera o rallenta, una delle due chitarre disegna delle linee soliste poi riprese e rilanciate dall’altra, in rari casi, come nella breve (6:42) Taking Out The Trash, il brano ha un qualcosa che assomiglia alla forma canzone, un testo, un embrione di ritornello. Il nome del gruppo farebbe pensare ad un omaggio a John Lee Hooker, ma non so se il vecchio Hook avrebbe poi apprezzato, forse i vecchi Canned Heat (peraltro citati come influenza dallo stesso Major) di Parthenogesis e Refried Boogie, rispettivamente 20 e 40 minuti, perché nulla si inventa e nulla si getta, o i Creedence di Keep On Chooglin’, ma anche i Velvet Underground più sperimentali, sempre ricordati da Major e autori di quella Sister Ray prima menzionata. Qualcuno ha anche scomodato i Groundhogs di Tony McPhee che facevano dischi che si chiamavano Blues Obituary e Thank Christ For The Bomb, che andavano al 9° posto della classifica inglese ed erano una sorta di rituale blues pagano. Altri citano gli Stones di Exile On Main Street, e la stampa inglese, Mojo e NME, è andata fuori di melone per loro.

Perché, se andiamo a vedere, con tutte queste citazioni, a cui potremmo aggiungere la psichedelia violenta dei Blue Cheer, il motorik, lo stoner rock, e, aggiunge il sottoscritto, lo space rock dei primi Hawkwind di Lemmy e Dave Brock, questi cinque signori, non più in tenera età (Major dovrebbe essere sulla sessantina), suonano anche bene, tutto sembra un guazzabuglio, quasi inestricabile (come il “mostro” gigante nella copertina di Long Island, che potrebbe anche essere una collina ricoperta di alberi di qualche mitologia fantasy nordica), ma ogni tanto il gruppo trova dei momenti “raffinati” come in The Artemus Ward che si candida per essere un fratello “fuori di testa” dei Doors di The End o Celebration Of The Lizard, con Major che declama reiterati versi di oscure e malate poesie (o forse la lista della spesa o l’elenco del telefono, per quello che può contare, è l’atmosfera che creano), mentre stranamente riescono a tenere lo stesso tempo per una decina di minuti, 9 e 18 per la precisione, esattamente gli stessi dei due brani successivi, manco fossero stati cronometrati. Imprecations, che già dal titolo evoca, e qui le chitarre innestano anche il wah-wah e cercano di sfinirti nella loro voluta ripetitività.

Tra i contemporanei sono stati ricordati Oneida, gli svedesi Dungen e Wooden Shjips, ma non credo siano un movimento, si tratta semplicemente di gruppi di fuori di testa che vogliono portare alle estreme conseguenze quello che hanno sentito nelle loro collezioni di vinili vintage e nel corso degli anni hanno sviluppato pure una perizia tecnica che di tanto in tanto traspare dal magma sonoro del boogie senza fine che hanno avviato. Occult Banker, con il riff gemello delle due chitarre, e la terza che si arrampica sulle due, potrebbe essere un incrocio tra ZZ Top, sudisti vari e improvvisazione psych pura, quasi sempre sul limite di sfociare nell’hard violento del primo Ted Nugent, quello degli Amboy Dukes. Ma per dischi come questo si sparano nomi ed impressioni a casaccio, giusto per il gusto di improvvisare, come fanno loro d’altronde. Finita la trilogia dei 9:18 (o 9:17 a seconda dei lettori) non cambia peraltro nulla, parte una On Criology dove i minuti superano gli undici, con chitarre ovunque, sempre più “trippate”, chi con, chi senza wah-wah, che improvvisano nell’assoluta libertà dello studio di registrazione, rovesciando il famoso assioma del “ma dovresti sentirli dal vivo”, perché in più hai la chiarezza di suono ottenuta da ingegneri, produttori, tecnici e dagli stessi Endless Boogie. General Admission, il “singolo”, a soli 6.12, potrebbe essere una qualche traccia perduta degli Stooges,  mentre torniamo a ragionare negli oltre 14 minuti della epica The Montgomery Manuscript. Bello, ma adesso vado a riposare e mi sparo Sugar Sugar degli Archies. Come curiosità finale, AllMusic, tra gli stili musicali del gruppo, indica heavy metal, mah!?!   

Bruno Conti

Clienti Abituali! Chris Duarte Group – My Soul Alone

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Chris Duarte Group – My Soul Alone – Blues Bureau/Shrapnel

Chris Duarte procede, con solerte ed inesorabile cadenza (non c’è nessun connotato negativo, solo una constatazione), a pubblicare nuovi album, sempre per la Blues Bureau/Shrapnel di Mike Varney, che si occupa della produzione, come di consueto. Negli ultimi 6 anni ne sono usciti 7 (comprese delle uscite di materiale d’archivio): siamo lontanissimi dalle medie proibitive di Bonamassa, ma per un signore che a febbraio ha compiuto 50 anni (la stessa età della sua Stratocaster), una invidiabile media. Come detto più volte, Duarte è un texano Stevie Ray Vaughaniano e di conseguenza anche un hendrixiano, il suo rock-blues è, diciamo, energico, molto energico, ma ha un suo fedele seguito, magari anche di quelli che dicono che “Hendrix e Stevie Ray Vaughan hanno stufato” ma poi ascoltano i loro epigoni, che poi sono della stessa parrocchia di coloro i quali non ascoltano più Springsteen, “perché non è più come una volta”, salvo poi acquistare i dischi di quelli che lo imitano, spesso malamente.

Questo non è per dire che Chris Duarte sia uno scarso, tutt’altro, ma l’originalità non è più il suo forte, se mai lo è stata, ma per chi segue quella nicchia che è il power guitartrio in ambito rock-blues e non solo, rimane una certezza. My Soul Alone consta di dodici nuove composizioni, tutte firmate dal titolare, che si avvale della classifica formazione triangolare, con Steve Evans al basso e Aaron Haggerty alla batteria. Il disco mi sembra segnali un ritorno a sonorità blues, lontane dalle derive più hard di 396 con i giapponesi Bluestone, gia presenti in Blues In The Afterburner del 2011, il rock è sempre presente ma il disco è più vicino al sound classico degli inizi, quelli più influenzati da Stevie Ray Vaughan, il classico stile texano che attinge anche a ZZTop e altri gruppi della stato della stella solitaria (qui trovate i precedenti (chris+duarte)

La tecnica chitarristica non l’ha certa dimenticata, e tra i discepoli di SRV Duarte è sicuramente uno dei migliori in assoluto, con uno stile molto fluido, scorrevole, caratterizzato da un solismo molto variegato, al solito niente di nuovo, ma suonato con passione e competenza: già dallo shuffle iniziale di Show Me That You Want It, se chiudi gli occhi e non ascolti la voce, ti sembra di ascoltare un disco di Vaughan, impressione ribadita dalla più tirata Yes it’s you ma anche dalle trame più raffinate, tra jazz e psichedelia, di Take Me Now e sublimate nell’ottimo slow blues A Dollar Down And Feeling Low dove la chitarra si arrampica nell’Olimpo dei grandi con classe notevole per poi tornare allo stile tipicamente cadenzato di I Bucket It Up e alle coordinate claptoniane prima maniera, di un brano come Outta My Way dove il suono si incattivisce e Haggerty fa il Ginger Baker della situazione.

Leave My Soul Alone che dà il titolo alla raccolta è un altro slow, questa volta di chiara matrice hendrixiana (Voodoo Chile è lì, appena dietro l’angolo). Sweet Litte Girl più leggera e scanzonata, quasi R&R, avrebbe fatto la gioia dell’altro fratello della famiglia Vaughan, Jimmie. Lazy Afternoon, 11:11 di slow blues alla Ronnie Earl o alla Robillard farà la gioia di chi compra dischi come My Soul Alone anche e soprattutto per questo tipo di brani, e nel CD ce ne sono parecchi. Can’t Shut Me, chitarra e batteria in libertà, ricche di effetti è nuovamente un omaggio all’arte di Jimi mentre Blue Jean Outlaw è un altro lentone di atmosfera, quello peraltro che ti dovresti aspettare, direi per contratto, nei dischi di rock-blues, niente di più niente di meno, suonato come Dio comanda e poi reiterato nelle trame più complesse dello strumentale Carelessness dove compare anche un violino suonato da Mads Tolling che gli dona un’aura quasi jazz-rock alla Flock o alla Mahavishnu per un finale inconsueto. Un disco all’altezza della fama di Chris Duarte, tra i suoi migliori in assoluto.

Bruno Conti