In effetti ero stato piuttosto ottimista, ad una lettura più approfondita anche le scelte di quest’anno, a mio parere, e per usare un francesismo, fanno abbastanza “cagare”, comunque ecco altre due classifiche sui Best Of 2016: un sito e la rivista inglese Q. Partiamo con https://americansongwriter.com/, un sito con cui spesso, non sempre, mi trovo d’accordo, e dove comunque di solito trattano di “buona musica” e pubblicano notizie interessanti, tipo questa https://americansongwriter.com/2016/12/bob-dylan-writes-speech-for-nobel-prize-ceremony/. Ecco la loro classifica:
Angel Olsen – MY WOMAN
Michael Kiwanuka – Love & Hate
Margo Price – Midwest Farmer’s Daughter
Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide to Earth
case/lang/veirs – case/lang/veirs
David Bowie – Blackstar
Drive-By Truckers – American Band
Leonard Cohen – You Want It Darker
A Tribe Called Quest – We got it from Here… Thank You 4 Your service
Dori Freeman – Dori Freeman
Q Magazine Albums The Year
1. David Bowie – Blackstar
2. Leonard Cohen – You Want It Darker
3. PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project
4. A Tribe Called Quest – We Got It From Here….Thank You 4 Your Service
5. Nick Cave And The Bad Seeds – Skeleton Tree
6. Radiohead – A Moon Shaped Pool
7. Cass McCombs – Mangy Love
8. Angel Olsen – My Woman 9. The 1975 – I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful…
Ed eccoci come di consueto alla panoramica sulle classifiche di fine anno espresse da riviste cartacee, mensili e quotidiani, più alcuni siti scelti tra quelli che reputo, secondo un giudizio insindacabile (scherzo!) i più interessanti, ma anche qualcuna di cui non condivido praticamente nulla, prossimamente. Quest’anno mi sembra, seguendo i gusti del Blog, che la qualità delle scelte sia migliorata, ovvero meno rap, hip-hop, musica elettronica ed altre delizie del genere, ma poi rimangono alcuni irriducibili che indicano solo quei tipi di album “irricevibili”, secondo chi scrive (meno degli anni scorsi, ripeto). Partiamo con le scelte di Mojo e Uncut, nel caso in cui ne abbiamo parlato sul blog, trovate anche il link del Post relativo al disco in questione, e a seguire anche i link di alcuni video degli album in classifica.
Devo dire che avevo una certa aspettativa per il nuovo album solista di Doyle Bramhall II, in base a quello che avevo letto, ma poi, fedele praticante del vecchio motto di Guido Angeli “provare per credere”, preferisco sempre verificare di persona. Insomma, fra poco capiamo meglio. Il nostro amico, nel corso degli anni si è indubbiamente costruito una solida reputazione: texano di Austin, figlio di Doyle Bramhall (a lungo amico e collaboratore di Stevie Ray Vaughan), cresciuto a pane, blues, soul e R&B, ma anche il rock di Hendrix e SRV, poi fondatore con Charlie Sexton degli Arc Angels, una band che non ha reso come prometteva il potenziale, una carriera solista con alcuni buoni album, di cui l’ultimo Welcome, uscito nel 2001. Da allora è iniziata una lunga collaborazione con Eric Clapton, che lo considera uno dei migliori chitarristi su piazza, ma anche con Derek Trucks e Susan Tedeschi, con Sheryl Crow, di cui è stato produttore dell’ottimo 100 Miles From Memphis, e ancora una copiosa serie di collaborazioni che non citiamo, ma è lunga come le Pagine Gialle (se esistono ancora). Torniamo quindi a Rich Man: le premesse per un buon album, leggendo quanto appena scritto, ci sarebbero tutte e il sottoscritto si è dedicato con impegno all’ascolto di questo nuovo album. Verdetto? Promosso, con piccole riserve, vediamo perché.
Il disco nell’insieme è buono, ma in alcuni brani c’è una tendenza sonora verso derive che si avvicinano pericolosamente ai brani più commerciali di Prince e Lenny Kravitz (cioè quasi tutti), mentre altrove, spesso e volentieri, ci si rivolge al funky-rock-soul, quello dei primi anni ’70, di recente rivisitato, per esempio, nell’ottimo Love And Hate di Michael Kiwanukahttp://discoclub.myblog.it/2016/08/04/michael-kiwanuka-love-hate-supera-brillantemente-la-prova-del-difficile-secondo-album/ : ed ecco quindi che nell’iniziale Mama Can’t Help You (Believe It) il brano sia stato scritto da Bramhall proprio per svilupparsi intorno ad un groove di batteria creato da James Gadson, quello che suonava in alcuni dischi di Bill Withers, Temptations, Charles Wright & the Watts 103rd Street Rhythm Band, tutti luminari del funky e del soul di quel periodo, e il risultato è assai gradevole, con il suono avvolgente delle chitarre, delle tastiere, degli archi accennati e delle voci di supporto che ruota attorno alla bella voce di Doyle, che poi rilascia un assolo di chitarra lancinante e incisivo, bella partenza. Non male anche la successiva November, un brano dedicato allo scomparso padre di Doyle, con cui condivideva, come ricordato, una passione per questo R&B meticciato con il rock, qui il suono è perfino troppo lussureggiante, con strati sovrapposti di fiati e archi che circondano questa bella ballata d’amore per il padre perduto https://www.youtube.com/watch?v=LungqZ0bJ-0 . The Veil ricorda molto proprio il sound del disco di Kiwanuka ricordato poc’anzi, un funky soul targato 70’s con piccoli tocchi di wah-wah e organo a tratteggiare un soul orchestrale influenzato da Withers, Gaye e altri praticanti dello stile, avvolgente e sospeso, qualche inserto di falsetto e il solito bel assolo di Bramhall che è un eccellente solista. Profumi d’oriente per My People, un’altra delle passioni di Doyle, con la parte iniziale dove un sarangi, la chitarra a 12 corde, l’harmonium e percussioni varie rimandano alle atmosfere di certi brani di George Harrison, ma poi il brano si sviluppa in un rock-blues mid-tempo di buona fattura, con i consueti ficcanti inserti della solista del nostro.
Per mantenere i contatti con la musica indiana nel successivo brano Bramhall chiama la figlia di Ravi Shankar, Norah Jones, che però appare nel brano, New Faith, in qualità di raffinata chanteuse tra pop e jazz, per un brano elettroacustico, intimo e raccolto, dove la voce della Jones viaggia all’unisono con quella del titolare, per una piacevole ballata in leggero crescendo, assai godibile. Fin qui tutto bene, Keep You Dreamin’ parte con tocchi hendrixiani, ma poi vira verso quelle derive Prince/Kravitz non del tutto impeccabili e il solo di wah-wah non basta a redimerla, e anche Hands Up, collegata nel testo ai disordini razziali dello scorso anno, al di là del favoloso lavoro della solista di Bramhall, qui in grande spolvero nella parte centrale, è forse un tantino pasticciata, ma magari sbaglio io. Rich man, di nuovo con un ricco arrangiamento degli archi, è un altro esempio dell’orchestral soul che prevale in gran parte dl disco, poi ribadito nella successiva Harmony, che sembra una ballata (bella) di quelle di Prince.Cries Of Ages ha un bel testo, buon lavoro di chitarra, ma la trovo un po’ confusa e pomposa, mentre sui ritmi orientali di Saharan Crossing, con continui oh-oh-oh vocali, stenderei un velo pietoso. Molto bello il finale rock, prima con una lunga The Samanas, dai suoni futuribili e selvaggi, che rendono omaggio alla terza facciata sperimentale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, poi citato direttamente con una bella versione di Hear My Train a Comin’, inutile dire che in entrambi i brani Doyle Bramhall II si sbizzarrisce alla grande alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=puuVXZeFHy8 . Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo album.
Michael Kiwanuka – Love & Hate – Polydor/Universal
Gli inglesi, anzi, i critici musicali inglesi, hanno inventato questa leggenda del “difficult second album”: addirittura un DJ della BBC, Chris Moyles, ha inciso un CD parodistico con questo titolo (perché comunque il british humor poi prende il sopravvento). Perché, a ben vedere, il punto da cui prende forma questa credenza non è sbagliato. Si dice che un artista o un gruppo ha avuto tutta la vita per preparare il primo album, mentre il secondo deve essere realizzato in pochi mesi: ma si tratta probabilmente una convinzione legata ai tempi d’oro della musica pop e rock, quando venivano realizzati dischi con cadenza annuale o addirittura più di uno all’uno, e non era comunque la regola assoluta. Un sistema per superare questa impasse potrebbe essere proprio quello utilizzato da Michael Kiwanuka, che per realizzare il seguito dell’eccellente Home Again, uscito nel 2012, ci ha messo ben quattro anni, prendendosi tutto il tempo che gli serviva. Certo, il rischio è che, in questi tempi frenetici e moderni, uno nel frattempo si sia dimenticato di te e della tua musica. Ma a giudicare dal successo che ha avuto questo Love & Hate, al primo posto delle classifiche in Gran Bretagna e nelle Top 10 di quasi tutti i paesi europei, almeno a livello commerciale la prova è stata brillantemente superata, e anche il giudizio critico delle varie riviste e siti specializzati è stato quasi unanime a livelli molto elevati, oltre la media delle quattro stellette o dell’8 in pagella.
Siamo quindi di fronte ad un capolavoro assoluto? Non esageriamo, però l’album è molto bello, va sentito con attenzione e ripetutamente, come ho fatto io, per cui arrivo un po’ in ritardo rispetto alla data di uscita, ma meglio così che fare come diverse riviste e siti che lo avevano giù recensito dal mese di maggio, quando sembrava che la data di pubblicazione dovesse essere in quei giorni (e molti, purtroppo, non trovandolo in giro, se ne saranno dimenticati), mentre in effetti l’album è uscito solo da un paio di settimane scarse. Rispetto al precedente, che verteva soprattutto su una serie di ballate morbide e melliflue, influenzate tanto dal soul quanto dal “nuovo” folk britannico (non per nulla era nato dall’incontro con il giro dell’etichetta Communion, quella a cui facevano capo i Mumford And Sons), in questo nuovo album vengono a galla o sono più evidenti anche le altre influenze di Kiwanuka: Otis Redding, Jimi Hendrix, Bill Withers, Bob Dylan, la Band, Joni Mitchell, Richie Havens, lui cita anche i Wham, ma per fortuna non li sento nella sua musica, sarebbero da aggiungere anche Marvin Gaye e perfino i Pink Floyd, e, nel primo album, quello splendido stilista della musica nera jazz-folk-soul che fu Terry Callier.Prendete il lunghissimo, e splendido, brano di apertura, Cold Little Heart, in cui la prima metà dei dieci minuti abbondanti in cui si snoda la canzone, sono dedicati ad una improvvisazione strumentale che si colloca a cavallo tra il soul sinfonico e maestoso di gente come Gaye o Withers, ma anche le splendide atmosfere del primo Isaac Hayes, miscelate con i Pink Floyd del periodo Dark Side/Wish You Were, con le sinuose spire del pezzo che si appoggiano sulla chitarra solista in modalità slide dello stesso Kiwanuka che ricorda il Gilmour dell’epoca, ma anche sui crescendi orchestrali degli archi, delle percussioni e delle tastiere, oltre gli interventi vocali delle voci di supporto, creati dai produttori Danger Mouse e Inflo (?!?), oltre allo storico collaboratore Paul Butler; una sorta di jam tra leggera psichedelia, soul orchestrale e rock sognante e visionario, di grande impatto sonoro ed emozionale. Poi verso i cinque minuti entra la voce del cantante londinese (di origini ugandesi), roca e vissuta il giusto, degna erede dei cantanti citati poc’anzi, per creare questa sorta di soul per gli anni 2000, che però, per fortuna, non è il “nu soul”, pasticciato e rappato, di alcune controparti dall’altra parte dell’Oceano,ma è più spirituale e raffinato, pur mantenendo la giusta dosa di carnalità, tipica del genere.
Il brano seguente, il primo singolo, uscito questa primavera, è l’incalzante e intrisa anche di commenti sociali sul mondo di oggi (ma anche di ieri), Black Man In A White World, che gira intorno al battito delle mani e al classico e ripetuto call & response vocale tipico del gospel, per poi inserire il soul raffinato e brillante del miglior Marvin Gaye, per uno dei rari brani mossi in un album che predilige la forma ballata, spesso maestosa, ma a tratti forse ripetitiva (e qui giovano gli ascolti ripetuti evocati prima per “digerire” meglio i contenuti del disco): Falling è di nuovo una elegante ballata, dove la solista di Kiwanuka sottolinea la complessa strumentazione utilizzata per circondare la voce evocativa del nostro. Place I Belong ha quei tocchi di funky-rock alla Curtis Mayfield (non lo avevamo citato?), tra inserti di wah-wah appena accennato e quelle atmosfere primi anni ’70, vagamente blaxploitation, sempre mid-tempo ma più mosso e ricchissimo nell’uso di una strumentazione quasi “lussuriosa”. La title-track è un’altra piccola perla di soul sinfonico, oltre sette minuti intrisi di una leggera vena psichedelica, sempre con voci, archi e percussioni in evidenza, ma anche chitarre acustiche e piano, con la voce di Kiwanuka che galleggia sul sofisticato accompagnamento strumentale, fino all’ingresso della solita lancinante e quasi acida solista del nostro che vivacizza la parte conclusiva del brano. One More Night ha qualche retrogusto caraibico, ma anche sprazzi soul genuini, grazie all’uso di un organo vintage, una ritmica più evidente e l’assenza degli archi, anche se forse è uno dei brani più “normali” https://www.youtube.com/watch?v=8fpSbCekzxU , mentre I’ll Never Love è di nuovo una ballata, più malinconica e tersa, con una bella intensità e una grande interpretazione vocale di Michael, con il Moog, il Clavinet e il piano di Paul Butler a sottolineare le similitudini con il primo album, più intimo e raccolto. Molto bella pure Rule The Worldhttps://www.youtube.com/watch?v=VTPCbmXX4Qw , giocata nella prima parte solo sul suono di una chitarra elettrica arpeggiata e sugli archi, fino all’ingresso del coro femminile e della sezione ritmica, per un brano che parte folk e diventa raffinato soul d’autore e non manca nel finale l’intervento della solista di Kiwanuka: canzone co-firmata, come altre sei presenti nell’album da Brian Burton, a.k.a. Modest Mouse.
Mancano gli ultimi due brani, Father’s Child giocata a tratti sul leggero falsetto del cantante, ma che nei suoi sette minuti riprende i temi sonori del Marvin Gaye dei primi anni ’70, arricchiti dai soliti pieni orchestrali, da raffinati particolari delle chitarre elettriche e del piano, da echi e voci di supporto che fanno da sfondo alla voce, in questa sorta di soul del nuovo millennio, che tanto ricorda però quello appena passato. Conclude il tutto, vedi titolo, The Final Frame, un bellissimo blues lento elettrico https://www.youtube.com/watch?v=u0YN1V1aKJI , intriso comunque però di “malinconie” soul, una ballata dove la chitarra di Kiwanuka ripercorre per certi versi, e fatte le dovute proporzioni, la strada di certi brani del grande B.B. King, anche se l’approccio e più morbido e mellifluo, più vicino a talune hard ballads di Gary Moore e senza dimenticare la lezione di Hendrix, cionondimeno si apprezza per la sua semplicità e la sua eleganza e chiude degnamente un disco che sulla distanza si conferma un passo in avanti rispetto al precedente Home Again. Ora lo aspettiamo alla difficile terza prova, perché, come diceva qualcuno, gli esami non finiscono mai!
Per iniziare, come doveroso, essendo il giorno di Natale, il brano di John Lennon, quello originale, non una delle tante terribili copie e cover che stanno impazzando sulla televisione e nella pubblicità. Poi, come promesso (o minacciato) “The Best Of The Rest”, ovvero tutti (beh non proprio tutti, tanti) i dischi interessanti di questo 2012, secondo il parere di chi scrive ovviamente. Sono in ordine cronologico di uscita (più o meno) da Gennaio a oggi e corredati, di tanto in tanto, dai video di alcune delle più belle canzoni di questo anno che si avvicina alla conclusione. Mancano all’appello le migliori ristampe, cofanetti e dischi dal vivo a cui dedicherò un Post apposito. E probabilmente ci sarà spazio ancora per i risultati di alcune riviste musicali e per altri addetti ai lavori (se avranno voglia). Naturalmente queste “classifiche” sono anche una ulteriore occasione per ricordare e consigliare della buona musica, spero! Partiamo con la prima parte, ebbene sì vi terro compagnia anche a Santo Stefano, a dimostrazione che di dischi belli, nonostante quello che dicono i pessimisti, ne sono usciti veramente molti, e ne ho dovuti “scartare” molti se no la lista si faceva chilometrica (ogni volta che ne saltavo uno, una stilettata, questo no! AaaaH!)…però potete sempre andare a rileggerveli sul Blog, i Post sono tutti lì…
Ani DiFranco – Which Side Are You On
Il primo disco bello del 2012.
Little Willies – For The Good Times
Craig Finn – Clear Heart Full Eyes
A questo punto dell’anno è uscito Old Ideas di Leonard Cohen, ma quello è entrato di diritto nei Top 3!
Bap Kennedy – The Sailor’s Revenge
Howlin’ Rain – The Russian Wilds
Michael Kiwanuka – Home Again
The Chieftains – Voice Of Ages
Lyle Lovett – Release Me
Cowboy Junkies – The Nomad Series Vol. 4 The Wilderness
Alabama Shakes – Boys And Girls
Sister Sparrow And The Dirty Birds – Pound Of Dirt
Counting Crows – Underwater Sunshine
Of Monsters And Men – My Head Is An Animal
Dar Williams – In The Time Of God
Anders Osborne – Black Eye Galaxy
Anche in ricordo di Franco Ratti, la sua ultima apparizione sul Buscadero.
Jeb Loy Nichols – The Jeb Loy Nichols Special
Joe Bonamassa – Driving Towards The Daylight
Tom Jones – Spirit In The Room
Spain – The Soul Of Spain
Alejandro Escovedo – Big Station
Bonnie Raitt – Slipstream
Dexys – One Day I’m Going To Soar
Chris Robinson Brotherhood – Big Moon Ritual
Brandi Carlile – Bear Creek
Mary Chapin Carpenter – Ashes And Roses
Little Feat – Rooster Rag
Alla fine ho messo un video per ogni album elencato, quindi la pagina è un po’ “pesante”, per Natale (o per la Befana) fatevi regalare un PC più potente o armatevi di pazienza intanto che carica tutta la pagina. Visto quanta buona musica, tanti dimenticati eh”! End Of Part One, a domani! Buona lettura e soprattutto, buona visione e ascolto, ma anche un Buon Natale a tutti!
*NDB. In questo periodo dell’anno vado a rompere le scatole anche a musicisti e addetti ai lavori per chiedere se hanno voglia di fare le loro liste del meglio dell’anno, questo è quanto gentilmente mi ha mandato Jimmy Ragazzon dei Mandolin’ Brothers (il mumble mumble sotto la foto l’ho aggiunto io). Sono quelle belle “classifiche” corpose che mi piacciono, anche con i commenti e senza limiti di numero di partecipanti alla festa!
My Best Of 2012
Albums:
Ian Hunter & the Rant Band: When I’m President a 73 anni è ancora più che mai un Grande del Rock…e che voce, signore e signori!
Dave Alvin: Eleven Eleven (expanded edition con dvd) che dire? Semplicemente strepitoso!
*NDB . Questo sarebbe del 2011, ma la versione expanded è uscita nel 2012 (con grande dispiacere dei portafogli di chi già lo aveva comprato l’anno prima). Ma il disco è veramente bello, per cui perdonati sia Dave che Jimmy!
Chris Robinson Brotherhood: The Magic Door una conferma del talento espresso con Black Crowes ed un sana jam band, con un tocco di psichedelia, che certo non guasta.
Ry Cooder: Election Special Un album politico e necessario, che non le manda certo a dire. Oltre ai testi, mai cosi diretti ed importanti, ci sono anche belle canzoni.
Heritage Blues Orchestra: And Still I Rise Meno male che esistono ancora gruppi come questo, che ripropongono e rinnovano la Tradizione della Musica del Diavolo.
Bob Dylan: Tempest Mi aspetto sempre il nuovo capolavoro dal Bardo Immortale. Non è questo, purtroppo, ma sempre grande musica e testi alla sua altezza.
Chris Knight: Little Victories Con alti e bassi, ma non sbaglia mai un album.
Michael Kiwanuka: Home Again Una piacevolissima sorpresa ed una splendida nuova voce.
Hans Theessink: Delta Time Nostalgico album di sonorità Cooderiane, sempre benvenute. Suonato e cantato con gran classe, da vecchi marpioni del genere. Ry finalmente è della partita.
Bonnie Raitt: Slipstream La Rossa picchia secco, come da tempo non faceva.
Lowlands & Friends : Better World Coming ” Tribute To Woody Guthrie” Una band che viene dal basso ma con tanta passione, perizia e sincerità. Di questi tempi non è poco.
*NBD Ci sarebbe un chiaro esempio di conflitto d’interessi, ma in questo non vale il detto, “chi si loda s’imbroda”. Saggezza popolare!
9 Below Zero: Live At Marquee (remastered edition con dvd) il meglio del Pub Rock-Blues britannico al fulmicotone. Una vera botta di energia.
Frank Zappa: tutta la discografia rimasterizzata by Universal e a prezzo medio, finalmente! Suoni mai sentiti e perle musicali quasi dimenticate, a riconferma del genio assoluto del Maestro.
Led Zeppelin: Celebration Day suonate voi così, a quella età, dopo una vita non proprio regolare e con quel groove: fantastici!
Taj Mahal: Hidden Treasure Il blues originale di seconda generazione, fatto come si deve.
Band 2012: The Band Of Heathens roots-rock di pregevolissima fattura. Grandi canzoni, tre intriganti voci che non possono non ricordare (con gli obbligati ed ovvii distinguo) la mitica The Band notevole tecnica strumentale. Se non debordano, promettono piacevolissime sorprese.
Canzone 1: Ian Hunter “Life” linea melodica indimenticabile. Piccolo e semplice masterpiece.
Canzone 2 : Michael Kiwanuka “They Say I’m Doing Just Fine” solo nella de luxe edition. Una canzone volutamente scarna ma armonicamente toccante, che ricorda un poco il Curtis Mayfield più melodico.
Concerto:
Tom Petty, Lucca, 29 giugno 2012 Uno dei meglio concerti mai visti in Italia; ed abbiamo anche fatto una bella figura come pubblico, caldi & preparati, a tal punto da strappargli la promessa di ritornare: meglio di così..
Libri:
Ry Cooder: Los Angeles Stories Elliot Una pregevole ed inaspettata raccolta di piccoli tesori noir, scritta con passione ed amore per una città ed un tempo perduti.
Katherine Boo: Belle Per Sempre Piemme più che un romanzo-reportage su uno slum di Mumbay, è un pugno nello stomaco scritto magistralmente da una giornalista Premio Pulitzer. Da leggere assolutamente, anche per capire quanto siamo fortunati ed egoisti, in questa parte del mondo. Imperdibile.
Steve Earle: Non Uscirò Vivo Da Questo Mondo Mondadori niente di memorabile, ma l’idea di raccontare la storia del medico che fece l’ultima pera a Hank Williams e delle inquietanti apparizioni del suo fantasma, è un incipit che non può non suscitare la curiosità di ogni music lover.
Film:
Rolling Stones: Charlie Is My Darling mai visti gli Stones, Keith e Mick in particolare, così veri, rilassati e da vicino. Nel backstage, con gli amici, i fans ecc. tra una canzone, una bottiglia, una pasticca ed altro.
Fatto Storico:
Finalmente la Palestina è riconosciuta come Stato Osservatore alle Nazioni Unite: era ora!
In ricordo di: Ravi Shankar, superbo musicista e filosofo, salito alla destra di Ganesh. OM.
HAPPY XMAS!
Jimmy Ragazzon
P.S. Come al solito NDB sta per Nota Del Bruno o Blogger, mentre nel finale mi associo per il giusto ricordo di Ravi Shankar, che è morto ieri a San Diego, California, alla rispettabile età di 92 anni. Nei prossimi giorni mi ha promesso il diario del suo tour italiano con i Mandolin’ Brothers. Attendo fiducioso (e magari anche qualche recensione, come promesso)!
Michael Kiwanuka – Home Again – Polydor/Universal 13-03-2012
Michael Kiwanuka viene presentato come una sorta di novello Bill Withers, il salvatore del nuovo soul, acustico e di gran classe, il vincitore del premio BBC Sound Of 2012 per i nuovi talenti, tra i suoi fan Ray Davies, i Black Keys e gran parte della stampa anglosassone. Il suo debutto Home Again è in uscita il 13 Marzo per la Polydor/Universal con tanto di Deluxe Edition doppia con 5 extra tracks tratte dalle sessions con Ethan Johns. Si sono fatti anche i nomi di Otis Redding, Sam Cooke e Pops Staples come termini di paragone. E volete sapere una cosa? Con le dovute precauzioni, ma è tutto vero! E Terry Callier dove lo vogliamo mettere?
Un viso giovane e fresco, una voce importante e una gran classe. Due EP e una iTunes Session già pubblicati bastano per capire che questo ragazzo è uno di quelli destinati a grandi cose (si spera)!
E comunque questi video autorizzano tutte le attese che si sono create. Sentire per credere.
Poi non vi so dire se in un mondo di Lane Del Rey e One Direction venderà anche, ma si può sempre sperare. Non dimentichiamo che un disco come Seasons of My Soul di Rumer ha venduto più di mezzo milione di copie solo sul mercato inglese (a proposito che fine ha fatto il disco di cover Boys Don’t Cry che doveva uscire in questo periodo?). Pare a maggio (mi rispondo da solo).