Chiamarla “Ristampa” Mi Sembra Un Tantino Riduttivo! Tom Petty – Wildflowers & All The Rest

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Tom Petty – Wildflowers & All The Rest – Warner 2CD – 3LP – 4CD Deluxe – 7LP – 5CD Super Deluxe – 9LP

Sia prima che dopo la sua improvvisa e dolorosa scomparsa avvenuta il 2 ottobre 2017, quando si è trattato di dedicare un cofanetto alla musica di Tom Petty è sempre stato fatto un lavoro eccellente, a partire dal box set antologico Playback del 1995 (tre CD di greatest hits, uno di rarità e b-sides e due di inediti), passando per la spettacolare Live Anthology del 2009, cinque CD dal vivo completamente unreleased, per finire con il bellissimo An American Treasure del 2018, box quadruplo che, vicino a qualche pezzo già conosciuto, presentava diverse canzoni mai sentite prima, oppure altre note ma in versioni alternate https://discoclub.myblog.it/2018/10/14/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-2-un-box-strepitoso-che-dona-gioia-e-tristezza-nello-stesso-tempo-tom-petty-an-american-treasure/ . Da qualche anno si parlava della possibile ristampa di Wildflowers, album del 1994 del biondo rocker della Florida giustamente considerato uno dei suoi più belli (è nella mia Top 3 dopo Full Moon Fever e Damn The Torpedos), ristampa che inizialmente sembrava dover ricalcare la sequenza pensata in origine, con diversi brani scartati che nelle intenzioni di Tom avrebbero dovuto formare un album doppio.

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Quest’anno si è finalmente deciso di rendere pubblico il tutto con l’uscita di Wildflowers & All The Rest, ma oltre alla versione con due dischetti (o tre LP) si è scelto di fare le cose in grande ed allargare il progetto ad un box quadruplo (o con sette vinili) e, se volete spendere parecchio di più, solo sul sito di Tom è disponibile una splendida edizione Super Deluxe quintupla, o con nove LP, che è quella di cui vado a parlare tra poco (in realtà c’è anche una edizione “Ultra Deluxe” che costa 500 dollari ma non offre nulla di aggiuntivo dal punto di vista sonoro, ma solo una confezione più elegante ed una serie di gadgets abbastanza inutili). La confezione del box quintuplo è splendida, con all’interno la riproduzione dei testi originali con la calligrafia di Tom, un certificato di autenticità numerato e soprattutto un bellissimo libro con copertina dura che vede all’interno parecchie foto inedite, un saggio del “solito” David Fricke, i testi di tutte le canzoni (anche quelle inedite), tutte le indicazioni su chi ha suonato cosa e, dulcis in fundo, un esauriente commento track-by-track con le testimonianze dei protagonisti, tra cui il produttore Rick Rubin, gli storici tecnici del suono di Tom Ryan Ulyate e Jim Scott ed alcuni dei musicisti coinvolti).

Wildflowers già al momento della sua uscita aveva colpito per la sua bellezza e per la profondità delle canzoni scritte da Tom, sia musicalmente che dal punto di vista dei testi, un album da vero e maturo songwriter rock che infatti era stato pubblicato come disco solista (il secondo dopo Full Moon Fever), dal momento che molte delle canzoni avevano uno stile che non veniva ritenuto adatto al sound prettamente rock degli Heartbreakers. Comunque i componenti del gruppo storico di Petty erano presenti al completo in session, soprattutto Mike Campbell e Benmont Tench che anche qui costituivano la spina dorsale del suono, mentre Howie Epstein non suonava il basso ma si limitava alle armonie vocali ed il batterista Steve Ferrone non era ancora entrato ufficialmente nella band ma lo avrebbe fatto subito dopo; tra gli altri musicisti presenti meritano una citazione il noto percussionista Lenny Castro, lo steel guitarist Marty Rifkin, Jim Horn al sax in un brano, il famoso arrangiatore Michael Kamen, responsabile delle orchestrazioni in una manciata di pezzi, e soprattutto Ringo Starr alla batteria ed il Beach Boy Carl Wilson alla voce in una canzone ciascuno.

Ma veniamo ad una disamina dettagliata del cofanetto, il cui ascolto si è rivelato un magnifico scrigno pieno di sorprese (ma non avevo dubbi in proposito). Il primo CD è il Wildflowers originale, un disco ancora oggi bellissimo ed attuale, pieno di deliziosi esempi di cantautorato maturo ed intimo come la splendida title track, il country-rock crepuscolare di Time To Move On, il puro folk-blues Don’t Fade On Me, una voce e due chitarre acustiche, la limpida e folkeggiante To Find A Friend e la ballata pianistica Wake Up Time. Ma la presenza degli Heartbreakers fa sì che il vecchio suono non sia certo messo in soffitta: così abbiamo il potente rock’n’roll di You Wreck Me, la bluesata ed elettrica Honey Bee, la creedenciana e “swampy” Cabin Down Below ed il notevole rock-blues quasi psichedelico House In The Woods, pieno di accordi discendenti; non mancano neppure i tipici pezzi midtempo del nostro, come la popolare You Don’t Know How It Feels, pare ispirata a The Joker della Steve Miller Band, la straordinaria It’s Good To Be King, che dal vivo diventerà uno dei momenti salienti dello show, e la younghiana Hard On Me. Infine troviamo dell’ottimo folk-rock d’autore come la cristallina Only A Broken Heart, con il suo feeling alla George Harrison, la sixties-oriented A Higher Place e l’elegante Crawling Back To You.

Come ho accennato poc’anzi, il secondo dischetto presenta dieci brani esclusi dalla tracklist del 1994 (a parte Girl On LSD che era uscita come lato B di un singolo, e che qui ritroviamo nel quinto CD), quattro dei quali finiranno in versione diversa sulla colonna sonora di She’s The One nel 1996. Il bello è che non stiamo parlando di dieci pezzi di livello inferiore, ma di canzoni che avrebbero potuto benissimo uscire e fare la loro ottima figura, in alcuni casi elevando addirittura il livello già alto di Wildflowers. Something Could Happen è una suggestiva ballata elettroacustica leggermente tinta di pop, con una melodia di prima qualità ed un gran lavoro di Tench, un pezzo inciso nel 1993 ancora con Stan Lynch in formazione e che sarebbe potuto diventare un classico. Ancora più incomprensibile l’esclusione di Leave Viginia Alone, stupendo uptempo folk-rock dal mood coinvolgente ed un motivo irresistibile, una delle migliori canzoni scritte da Tom negli ultimi 25 anni: poteva essere uno dei pezzi centrali di Wildflowers (e verrà invece registrata da Rod Stewart nel 1995 e pubblicata su A Spanner In The Works).

Climb That Hill Blues vede il solo Petty alla voce e chitarra acustica, un brano bluesato come da titolo che ritroveremo tra poco in una versione diversa e full band, ma questa take “unplugged” è davvero affascinante; Confusion Wheel è una limpida ballata dal passo lento e con un bel crescendo, influenzata in parte dalle folk songs tradizionali britanniche ed in parte dai Byrds “acustici”, mentre per California vale quasi lo stesso discorso fatto per Leave Virginia Alone, in quanto ci troviamo di fronte ad una deliziosa e solare canzone pop-rock dal motivo accattivante, che fortunatamente è stata poi reincisa per She’s The One (ma qui è migliore). Harry Green vede ancora Petty da solo, ma se Climb That Hill era un blues, qui siamo dalle parti del più puro e cristallino folk di stampo tradizionale, a differenza di Hope You Never che è un incalzante ed intrigante rock song chitarristica dal passo cadenzato, con un organo molto sixties ed un suono potente: altro pezzo che poteva tranquillamente finire su Wildflowers.

Somewhere Under Heaven è una rock ballad classica, molto anni 70, con un retrogusto psichedelico e Campbell che suona tutti gli strumenti, brano che precede la versione elettrica di Climb That Hill, solida rock song contraddistinta da un riff insistente ed un drumming martellante; chiusura con Hung Up And Overdue, ballata eterea dal gusto pop simile a certe cose del “periodo Jeff Lynne” di Tom, ancora con il pianoforte protagonista e la presenza simultanea di Ringo e Carl Wilson. Molto interessante il terzo CD, che si occupa degli “home recordings” precedenti alle sessions dell’album, registrati da Tom nel suo studio casalingo: non ci troviamo però davanti ai soliti demo per voce e chitarra acustica (e qualche volta armonica), ma a vere e proprie canzoni quasi complete, con sovraincisioni di chitarra elettrica, basso, piano, organo e percussioni. Ci sono anche tre inediti assoluti: There Goes Angela (Dream Away), una soave e delicata ballata impreziosita da una squisita melodia, A Feeling Of Peace, che se sviluppata maggiormente avrebbe potuto diventare una rock ballad di spessore (e parte delle liriche verranno utilizzate su It’s Good To Be King), e There’s A Break In The Rain, uno slow lento ed intenso che rispunterà con qualche modifica su The Last DJ con il titolo Have Love, Will Travel.

Le altre canzoni, alcune delle quali con qualche differenza testuale e strumentale, sono già bellissime così, in particolare You Don’t Know How It Feels, California, Leave Virginia Alone, Crawling Back To You, A Higher Place, To Find A Friend, Only A Broken Heart e Wildflowers. Quindi non la solita collezione di demo, magari un po’ noiosa, ma un disco che sta in piedi con le sue gambe. Il quarto dischetto è una delle ragioni per cui questo box era da me tanto atteso, dato che presenta 11 dei 15 brani di Wildflowers (più tre “aggiunte”) in versioni inedite dal vivo registrate da Tom ed i suoi Spezzacuori tra il 1995 ed il 2017, un CD strepitoso dal momento che stiamo parlando di una delle migliori rock’n’roll band di sempre, in grado di fornire la rilettura definitiva di qualsiasi brano suonato live (e se, per fare un esempio, nel 2003 con Live At The Olympic i nostri erano riusciti a trasformare un album deludente come The Last DJ in un disco da quattro stelle vi lascio immaginare cosa potessero fare con un lavoro del calibro di Wildflowers).

Tanto per cominciare abbiamo una monumentale It’s Good To Be King che da sola vale il CD, undici minuti di rock sublime con una prestazione monstre da parte di Campbell ed un crescendo irresistibile a cui partecipa attivamente anche Tench. Poi vanno segnalate una strepitosa You Don’t Know How It Feels, con Petty che arringa la folla da consumato showman, un trio di rock’n’roll songs formato da Honey Bee, Cabin Down Below e You Wreck Me, che dal vivo sono letteralmente esplosive, una limpida e countreggiante To Find A Friend acustica eseguita allo School Bridge Benefit di Neil Young nel 2000, la sempre bella Crawling Back To You, registrata a fine luglio 2017 (e quindi una delle ultime testimonianze dal vivo di Tom), puro vintage Heartbreakers, una versione molto più rock e diretta di House In The Woods ed una decisamente intima di Time To Move On, per chiudere con la sempre magnifica Wildflowers, qui in versione full band comprensiva di sezione ritmica.

Dicevo dei tre pezzi non appartenenti al disco originale, che iniziano con una deliziosa rilettura stripped-down di Walls (singolo portante di She’s The One), la vigorosa jam chitarristica Drivin’ Down To Georgia, brano che i nostri suonavano dal vivo già dal 1992 (ma questa è del 2010) e che abbiamo già sentito in un’altra versione su The Live Anthology, per chiudere con una rara Girl On LSD, un pezzo folle e divertente, musicalmente molto Johnny Cash, con Tom che mentre la canta fa fatica a rimanere serio. E veniamo al quinto dischetto, quello esclusivo dell’edizione Super Deluxe: sottointitolato Finding Wildflowers, presenta sedici versioni alternate prese dalle sessions dell’album, alcune simili ai brani ufficiali ed altre abbastanza diverse. Non tutto è inedito, ma piuttosto raro sì: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (molto Jeff Lynne) uscite su B-sides, e poi la Girl On LSD originale, sempre spassosa e dall’arrangiamento più rockabilly di quella live.

Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo) e, tra le altre, segnalerei una A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country, ancora con Ringo ai tamburi. Anche qui c’è spazio per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto che mette la parola fine ad un cofanetto che definire splendido è poco, e che si batterà certamente per il titolo di ristampa dell’anno.

Tom Petty ci manca maledettamente, ogni anno di più.

Marco Verdi

Un Buon Produttore, Una Buona Band, Forse Non Tutto E’ Perfetto, Ma Molto Meglio Di Quanto Mi Aspettassi. Santana – Africa Speaks

santana africa speaks

Santana – Africa Speaks – Concord/Universal

Dopo l’ottima parentesi della reunion della Santana Band, che registrò i primi tre epocali album tra il 1969 e il 1971 https://discoclub.myblog.it/2016/04/10/supplemento-della-domenica-anticipazione-unoperazione-marketing-anche-finalmente-gran-bel-disco-santana-santana-iv/ , il nostro amico Carlos torna alla carica con un nuovo album Africa Speaks, che vuole appunto esplorare i suoni e i ritmi del continente africano, miscelandoli con il classico latin rock del musicista messicano (anche se ormai californiano da decenni), a cui si aggiunge il solito pizzico abbondante di jazz e molti altri elementi buttati nel calderone. Prima di proseguire specifico subito onestamente che abitualmente non sono un particolare amante di questo tipo di sonorità (non quelle di Santana, ma la musica afro in generale) però credo di essere in grado di fornire un resoconto obiettivo dei contenuti di questo disco. Intanto alcuni fatti salienti: per produrre l’album è stato chiamato Rick Rubin, che neppure lui in precedenza aveva mai affrontato questo tipo di musica, ma non si è tirato indietro, aderendo anche alla richiesta specifica di Carlos di avere nel disco due vocalist femminili diciamo particolari.

La prima e più importante, perché a cantare nella quasi totalità delle canzoni è (Concha) Buika, cantante spagnola (di origini equatoguineane) candidata un paio di volte ai Grammy nella categoria Latina, e con una lunga carriera alle spalle, e l’altra Laura Mvula, ottima cantante inglese, le cui origini risalgono però anche per lei alle isole del Centro America. Rubin le ha contattate, hanno risposto positivamente entrambe e sono state imbarcate nel progetto, durante il quale, secondo le parole di Santana, in un periodo di dieci giorni negli Shangri La Studios di Malibu di proprietà di Rubin, sono state registrate 49 canzoni. 11 delle quali sono state utilizzate per l’album. Santana presenta Buika come un incrocio tra Nina Simone, Etta James, Tina Turner e Aretha: ora non voglio dire che il buon Carlos si sia bevuto il melone, ma mi sembra un tantino esagerato, anche se è legittimo che lo dica, probabilmente sbaglio io. Comunque nel disco suonano, tra gli altri, nei ruoli principali, anche la moglie Cindy Blackman alla batteria, l’ottimo bassista Benny Rietveld, l’organista e pianista David K. Mathews, nel ruolo che fu di Gregg Rolie, e il percussionista Karl Perazzo, quindi musicalmente ci siamo, il suono spesso è bello tosto e vibrante, sulle parti vocali di Buika, che ha scritto anche i testi dell’album su richiesta di Carlos, ho delle riserve (ovviamente personali), ma per dare subito un giudizio generale sul disco, direi che nell’insieme “l’esperimento” mi sembra più che riuscito, meno “pasticciato” che nelle recente produzioni, Santana IV escluso.

Poi vediamo i contenuti più nello specifico: l’iniziale Africa Speaks si apre su un florilegio di percussioni, una breve introduzione parlata di Santana, che inizia a lavorare subito con la sua chitarra, mentre la voce “declamatoria” e carica di Buika fa una breve apparizione insieme agli altri vocalist dell’album, ma è la solista la principale protagonista, nella improvvisazione che ci permette di gustare la chitarra feroce e scintillante, punteggiata dagli interventi vocali e dal lavoro del piano di Mathews, una buona partenza. Batonga, fin dal titolo, ricorda le incursioni latine del gruppo, una delle classiche jam veloci e brillanti tipicamente alla Santana, dove l’asse si sposta sulla musica africana, anche se è cantata tra spagnolo e inglese, ma l’interplay tra la chitarra con wah-wah, l’organo e il basso rotondo di Rietveld è eccellente; Oye Este Mi Canto, ancora fondata su un dancing bass molto funky, prevede un corposo cantato di Buika, sostenuta dagli altri vocalist della band, poi il buon Carletto parte al solito per la tangente con un’altra scarica chitarristica ad alto potenziale, che diventa raffinata, sinuosa e sognante nel finale. Yo Me Lo Merezco vira verso timbriche decisamente più rock, un pezzo solido e tirato, con un bel riff, un ottimo cantato di Buika (ebbene sì), per un crescendo che ci porta a circa tre minuti di formidabile tour de force della solista in modalità wah-wah, chitarra poi protagonista assoluta anche nella lunghissima Blues Skies, un pezzo jazz-rock, dove nella prima parte si apprezzano anche le raffinate evoluzioni vocali della brava Laura Mvula, ma soprattutto le volute di chitarra e tastiere in un brano veramente eccellente nella sua mistica complessità.

Si torna al funky per la ritmatissima Paraisos Quemados, con Santana e Rietveld a scambiarsi riff goduriosi che non avrebbero sfigurato su Caravanserai, anche se il cantato mi sembra sempre un  tantino troppo “drammatico”, notevole anche Breaking Down The Door, un pezzo dove appaiono anche la fisarmonica, i fiati e le tastiere di Salvador Santana, altro esempio del classico tex-mex-latin-rock del passato, con la chitarra di Carlos in grande spolvero. Altre fucilate wah-wah nel groove battente della mossa  ed accattivante Los Invisbles, un clima più danzereccio nella leggera e piacevole Luna Hechicera, con le percussioni in grande evidenza a contenere la solista esuberante, scansioni ritmiche poi ribadite anche nella nuovamente latineggiante Bembele, ma hey stiamo parlando dei Santana. Con un ritorno alle solite contaminazioni con il rock nella conclusiva vibrante Candombe Cumbele dove Carlos conferma il suo piacere di suonare la chitarra con libidine e ferocia, anche a quasi 72 anni, come è da sempre la sua caratteristica principale, Cindy Blackman e soci percuotono i loro tamburi in approvazione. Alla fine, dopo un ascolto attento e ponderato, devo dire meglio di quanto mi aspettassi, un album “importante”, forse è anche per l’effetto Rubin che pesca il meglio senza farsi troppo notare.

Bruno Conti

Che Vi Piaccia O No, Stiamo Parlando Di Uno Dei Grandi! Neil Diamond – Hot August Night III

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Neil Diamond – Hot August Night III – Capitol/Universal 2CD – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Lo scorso anno a Neil Diamond è stato diagnosticato il morbo di Parkinson, cosa che ha costretto il cantautore di Brooklyn ad interrompere la tournée celebrativa del suo cinquantesimo anno di attività. Fa impressione sapere che difficilmente riusciremo a vedere ancora Diamond su un palco, in quanto stiamo parlando di uno degli artisti più di successo dell’ultimo mezzo secolo, titolare di una carriera luminosa che però ha sempre avuto parecchi detrattori, che non gli hanno mai fatto passare lisci certi atteggiamenti da superstar, spettacoli a volte eccessivi e magniloquenti e canzoni il più delle volte arrangiate con mano non proprio leggera, sia in studio che dal vivo. Ma non si può negare che il nostro nel corso della sua vita abbia scritto una serie impressionante di grandi canzoni, sia per conto terzi in gioventù (quando era uno degli autori più promettenti del mitico Brill Building), sia per sé stesso: soprattutto a cavallo tra i sessanta ed i settanta, era impossibile leggere una hit parade senza imbattersi in una o più canzoni (o album) di Neil. E comunque anche di bei dischi ne ha fatti più d’uno, mi vengono in mente Stones e Beautiful Noise (prodotto da Robbie Robertson) nei seventies e, più di recente, gli ottimi 12 Songs e Home Before Dark, con Rick Rubin in consolle, ed il comunque più che valido Melody Road.

Dal vivo poi Diamond è sempre stato nel suo ambiente naturale: performer eccellente, dotato da sempre di una grande voce e di una presenza carismatica, Neil è (o dovremmo cominciare a dire era) un vero animale da palcoscenico, e questo lo ritroviamo nei suoi album dal vivo, il cui più famoso è di certo Hot August Night, registrato nel 1972 al Greek Theater di Los Angeles. Ora la Capitol pubblica questo doppio (esiste anche con supporto video aggiunto, DVD o BluRay) intitolato Hot August Night III, che celebra il concerto che Neil ha tenuto nel 2012, quindi a distanza di 40 anni dal primo, sempre al Greek Theater (esiste quindi anche un Hot August Night II, risalente al 1987, e pure uno del 2009 registrato a New York). Il concerto è come sempre un’autocelebrazione della musica del nostro, di fronte ad un pubblico caldissimo: uno spettacolo che, kitsch e ridondante o meno che sia, presenta diversi momenti notevoli e con una super band di 14 elementi che poi è più o meno la stessa da 35 anni (in cui spiccano il tastierista Alan Lindgren, i chitarristi Doug Rhone e Hadley Hockensmith, i cori delle sorelle Julia e Maxine Waters, e soprattutto il batterista Ron Tutt uno che ha suonato con mezzo mondo, da Elvis Presley a Gram Parsons, passando per Jerry Garcia). Diamond, poi, è in forma smagliante, e canta ancora come trent’anni fa (anzi, penso che la voce col tempo abbia acquistato ancora più profondità), ed è davvero brutto sapere che non potrà più esibirsi.

La tracklist, oltre ai brani che tutti si aspettano, presenta anche qualche chicca o hit “secondaria”, come la bellissima Beautiful Noise, che dal vivo risulta travolgente, la saltellante Forever In Blue Jeans (un successo minore del 1979), un omaggio a Joni Mitchell con l’unica cover del disco (Chelsea Morninghttps://www.youtube.com/watch?v=aKC_KMhV2_o , l’intensa e toccante Glory Road e l’errebi elettrico in puro sixties style di Thank The Lord For The Night Time. Ci sono anche due pezzi dagli album con Rubin, una Pretty Amazing Grace full band e pure meglio dell’originale (sul disco era acustica) e We, arrangiata in stile dixieland. I classici ovviamente si sprecano, e tra questi ci sono alcune delle più belle canzoni del secolo scorso, come Shilo, una solare Red, Red Wine arrangiata reggae (come l’avevano fatta gli UB40), la meravigliosa Girl, You’ll Be A Woman Soon, Cherry, Cherry, una gioiosa Kentucky Woman, Solitary Man (uno dei più grandi brani di sempre), Cracklin’ Rosie, la coinvolgente Sweet Caroline, vero “crowd-pleaser” della serata, o la matura I Am…I Said; non manca anche un pezzo dal periodo Brill Building, la notissima I’m A Believer (portata al successo dai Monkees), proposta sia in veste di folk ballad sia in versione rock’n’roll. Nei bis, la patriottica (ed un tantino tronfia) America, lo scatenato pop-errebi Brother Love Travelling Salvation Show ed il finale romantico di I’ve Been This Way Before. E gli perdono qualche momento stucchevole come le sdolcinate September Morn, You Don’t Bring Me Flowers (originariamente un duetto con Barbra Streisand), Hello Again o Love On The Rocks, nella quale però canta alla grandissima.

In futuro ci saranno probabilmente molti altri live d’archivio per Neil Diamond, ma anche se non fosse così direi che questo terzo (o quarto, considerando quello a New York) volume della saga Hot August Night è il modo migliore per dare l’addio alle scene.

Marco Verdi

Tanto Siamo Ancora In Tempo…E Poi Il Disco Merita! Neil Diamond – Acoustic Christmas

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Neil Diamond – Acoustic Christmas – Capitol CD

Se esistesse una scuola di songwriting e se io fossi uno studente, molto probabilmente vorrei che il mio insegnante fosse Neil Diamond. Cantautore puro, della vecchia scuola (ha frequentato anche il mitico Brill Building di Broadway), a 75 anni il musicista di Brooklyn, oltre ad essere ancora in possesso di una grande voce, è più attivo che mai, e con risultati qualitativi perfino migliori di quando vendeva dischi a vagonate. Autore di una serie lunghissima di classici che oggi hanno la stessa valenza degli standard del grande songbook americano (Solitary Man, I’m A Believer, Sweet Caroline, Cherry Cherry, Shilo, Kentucky Woman, Cracklin’ Rosie, September Morn, solo per citare le più note), Diamond ha spesso diviso la critica per il fatto che i suoi album hanno di sovente seguito sentieri commerciali fatti di sonorità gonfie e sovraorchestrate, rovinando in molti casi canzoni splendide che con arrangiamenti più leggeri avrebbero magari venduto meno ma sarebbero state maggiormente valorizzate: anche i suoi show hanno spesso seguito questo trend, con rappresentazioni più adatte a spettacoli di Las Vegas che ad un concerto rock. Inutile dire che i risultati migliori (artisticamente parlando) Neil li ha ottenuti quando ha affidato la produzione e gli arrangiamenti in mani più sobrie, per esempio con l’album del 1976 Beautiful Noise, con Robbie Robertson in consolle (collaborazione che gli ha tra l’altro garantito l’invito allo storico concerto d’addio a The Band The Last Waltz), ma soprattutto in anni recenti con Rick Rubin, del quale Diamond aveva apprezzato lo straordinario lavoro fatto con Johnny Cash, ed il cui suono ha voluto replicare con i bellissimi 12 Songs e Home Before Dark, dimostrando che, quando ci sono le canzoni, non serve sommergerle di strumenti per valorizzarle, anzi (e le vendite eccellenti dei due album lo hanno confermato). Il suono meno gonfio evidentemente è rimasto nella testa di Neil, dato che anche i due dischi seguenti, Dreams e Melody Road, pur non essendo spogli come i due con Rubin, hanno mantenuto un approccio simile, ed anche questo nuovissimo Acoustic Christmas fin dal titolo prosegue sulla stessa strada.

Non è il primo disco a carattere natalizio di Diamond, ma quasi sicuramente è il migliore, in quanto è davvero un lavoro splendido, suonato ed arrangiato con grandissima classe e misura, prodotto benissimo da “prezzemolo” Don Was e Jacknife Lee (U2, R.E.M.), che già avevano curato Melody Road: Neil affronta da par suo dieci classici stagionali, scrivendo anche due pezzi nuovi, cantando con la sua splendida voce, calda e carismatica (e che sembra migliorare con gli anni), accompagnato da musicisti dal prezioso lignaggio (tra cui i ben noti Richard Bennett e Tim Pierce alle chitarre, Matt Rollings al pianoforte e Joey Waronker alla batteria, oltre alle backing vocals di gruppi di gran nome come i Blind Boys Of Alabama e Julia, Maxine, Oren e Luther Waters, meglio conosciuti come Waters Family): l’aggettivo “acoustic” del titolo non vuol dire però che il suono sia spoglio, anzi ci sono anche fiati, archi e corni, ma arrangiati con grande gusto e dosati con misura, in modo da mettere al centro la formidabile voce del nostro, che dopo una carriera cinquantennale ha ancora la forza di emozionare. Basti sentire l’opening track O Holy Night: pochi accordi di chitarra acustica, qualche nota di piano, e la voce superba di Neil, davvero da brividi e per nulla scalfita dall’età (poi entra anche la sezione ritmica, ma sempre con grande discrezione). Sentite poi Do You Hear What I Hear, la profondità della voce, l’intensità dell’interpretazione (se non vi viene qualche brivido io al posto vostro mi preoccuperei), oppure il modo con cui sillaba le parole dell’arcinota Silent Night, quasi non vi accorgerete di averla già sentita un miliardo di volte in altre versioni.

I brani, come ho già detto, sono quasi tutti tradizionali, ma c’è spazio anche per due novità: la pianistica, e splendida, Christmas Prayers, una ballata dalla melodia toccante, arrangiata in maniera perfetta, che avrebbe tutte le caratteristiche per diventare un altro standard stagionale, e la più scanzonata # 1 Record For Christmas. Altri brani degni di nota sono una essenziale Hark The Herald Angels Sing, eseguita con classe sopraffina e con Neil che valorizza al meglio il bellissimo motivo, una We Three Kings Of Orient Are ricca di pathos (e che voce), una strepitosa (ma strepitosa davvero) Go Tell It On The Mountain, pura e cristallina e con il magnifico coro gospel dei Blind Boys Of Alabama, che partecipano anche alla mossa Children Go Where I Send Thee, che dona ritmo al disco (e sembra che Diamond abbia cantato gospel per tutta la vita), o la formidabile Christmas In Killarney, un saltellante pezzo dal chiaro sapore irish, suonato e cantato come al solito magistralmente. Chiude il CD un vivace medley tra Almost Day, una godibile e limpida filastrocca, Make A Happy Song, anche questa frutto della penna di Neil, e l’arcinota We Wish You A Merry Christmas, perfetta per chiudere un grande disco, che va oltre lo spirito del Natale.

Marco Verdi

Avett Brothers – True Sadness: Il Disco Del Mese Di Giugno?

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Avett Brothers – True Sadness – American Recordings/Universal

Ovviamente tra le uscite “importanti” del 24 giugno c’era anche il nuovo album degli Avett Brothers, e la risposta alla domanda del titolo è sì (anche se se la batte con il nuovo dei Mudcrutch di Tom Petty, tra gli album di studio, per quanto uscito il 20 maggio, e con Joan Baez Neil Young, tra le proposte dal vivo recenti, di cui leggerete nei prossimi giorni, o con la ristampa magnifica in cofanetto di It’s Too Late di Van Morrison): comunque questo True Sadness dei fratelli Avett è un gran bel disco, pure se forse non possiamo gridare al capolavoro. D’altronde il gruppo della Carolina del Nord non ha mai sbagliato un disco: che si sia trattato dell’eccellente disco dal vivo di fine anno scorso http://discoclub.myblog.it/2016/01/18/dal-vivo-sempre-bravi-avett-brothers-live-vol-4/, o di Magpie And The Dandelion del 2013, The Carpenter del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/, o I And Love And You del 2009, tutti i tre prodotti da Rick Rubin, il quartetto americano – oltre a Seth Scott Avett, che si dividono strumenti a corda, elettrici ed acustici e tastiere, nel nucleo storico della band ci sono anche Bob Crawford, il bassista (che pare avere superato i suoi problemi di salute) e Joe Kwon al violoncello (con l’aggiunta di Paul DeFiglia, anche lui al basso, e tastiere, e di Mike Marsh alla batteria), più Tania Elizabeth, al violino e alle eccellenti armonie vocali e Jason Lader Dana Nielsen, a strumenti assortiti – conferma la sua vena melodica, con i consueti rimandi al pop classico dei Beatles, ma anche al miglior country-rock, elementi robusti di bluegrass e folk, ma pure tanto rock ed energia, cosa che li differenzia da altre formazioni più vicine alla roots music o al cosiddetto stile Americana, che forse erano più presenti nei primi album e poi si sono coagulate in Emotionalism, l’ultimo disco pubblicato per la loro etichetta, la Ramseur, e che insieme al primo prodotto da Rubin e a Magpie…,  a parere di chi scrive, sono le loro migliori prove.

Questo True Sadness, peraltro ottimo, mi sembra un gradino inferiore, ma, ripeto. è un parere personale e magari con ulteriori ascolti potrebbe crescere, siamo comunque a un livello qualitativo nettamente al disopra di quanto ci propone l’attuale scena musicale. Il disco si apre sulle note di Ain’t No Man, una sorta di Rock and Roll minimale misto a gospel, solo un giro di basso elettrico reiterato, un battito di mani corale e le voci dei fratelli Avett e del resto della gang che intonano questo pezzo semplice semplice, ma assai coinvolgente. Già il secondo brano, Mama I Don’t Believe, alza il livello qualitativo, una splendida ballata con agganci a Dylan o Young, per l’uso dell’armonica, e al country-rock anni ’70 per l’uso avvolgente delle chitarre, acustiche ed elettriche, il piano e poi quelle armonie vocali splendide (particolare che li accomuna ad altre band come Blue Rodeo Jayhawks), mentre l’aggiunta degli archi e il nitido break chitarristico rimandano anche ai Beatles, lato McCartney, veramente bello. No Hard Feelings è un brano più folk, intimo e gentile, giocato su delle chitarre acustiche e banjo appena accennate e discrete, come pure la sezione ritmica, con gli strumenti ad arco e l’organo che aggiungono spessore ad un brano che cresce lentamente e ti prende con la sua malinconia. Smithsonian, fin dal titolo, vuole essere un omaggio alle radici della musica americana e ai suoi simboli, ma lo fa con un suono comunque contemporaneo, dove il banjo e il violino sono perfettamente inseriti nel tessuto sonoro e apportano il loro tocco classico, mentre la sezione ritmica scandisce il tempo, senza esagerare, lasciando spazio alle magnifiche voci dei due fratelli, altro brano notevole https://www.youtube.com/watch?v=mlveMZVSHEQ .

You Are Mine parte anche questa con un banjo pizzicato, ma poi entra subito un moog d’altri tempi, la batteria, le chitarre elettriche, gli archi, e infine il piano, e si sviluppa una pop song raffinata e complessa, con continui cambi di tempo, dove probabilmente c’è lo zampino di Rubin, regista del brillante equilibrio tra radici e modernità da sempre presente nel sound del gruppo. Satan Pulls The Strings, che era già presente sul Live Vol.4, è un altro riuscito incrocio tra un moderno rock “indiavolato” e gli inserti di violino e banjo che rappresentano il lato country, brano minore ma comunque piacevole. Decisamente superiore la title-track, True Sadness è sulla falsariga delle loro cose migliori, la canzone ha tutto: ritmo, energia, splendide armonie vocali, una bella melodia, un arrangiamento di notevole complessità, e la voce in primo piano è un ulteriore esempio di come fare del perfetto rock and roll per i nostri tempi (con il tocco di classe del violino inserito in chiusura di brano) https://www.youtube.com/watch?v=s3PaIw7pFuI . I Wish I Was, sempre con un banjo evocativo, suonato da Scott, che la apre e si affianca alla voce limpida e partecipe di Seth, mentre il contrabbasso tiene il tempo sullo sfondo, è una sorta di folk song in crescendo, con gli strumenti che entrano lentamente, le acustiche, un organo, il cello appena accennato e addirittura con un assolo di banjo, caso rarissimo nella musica degli anni 2000 https://www.youtube.com/watch?v=uKkW_pjDQSA .

Ancora atmosfere raccolte per Fisher Road To Hollywood, un’altra folk song che quasi si inserisce nel filone dei brani narrativi dei migliori Simon And Garfunkel https://www.youtube.com/watch?v=gNRz2IXXCn0 , con Seth e il fratello Scott che la cantano all’unisono, mentre il cello di Kwon si innesta in modo discreto ma significavo nella tenue bellezza della canzone. In un disco degli Avett Brothers non può mancare il rock, o meglio lo spirito del rock, sotto la forma energica e travolgente di una arrembante Victims Of Life, tra chitarre spagnoleggianti arpeggiate, percussioni e il solito contrabbasso che marca il tempo, ci riporta al suono folk (rock) dei primi dischi, ma anche a quello dei primi Mumford And Sons. Divorce Separation Blues, per parafrasare il titolo dell’album è una canzone di “vera tristezza”, almeno nel titolo e nel testo, perché poi il brano, tra yodel appena accennati, uno spirito folk anni ’30 che si rifà ai fondamentali della canzone popolare americana e uno spirito nuovamente malinconico ma ironico, ha comunque una sua “modernità nella tradizione”, che è il tratto distintivo dei migliori brani del gruppo. Un florilegio magniloquente di archi apre la conclusiva May It Last, altra ballata, in questo caso più epica, che si regge sull’alternarsi delle due voci soliste che poi si ritrovano nella parte centrale e ci regalano ancora una volta le loro splendide armonie vocali, mentre tastiere, strumenti a corda e percussioni allargano lo spettro sonoro di questa canzone che vive ancora una volta nell’alternarsi tra pieni orchestrali e momenti più intimi, anche se forse gli manca quel quid che caratterizza i grandi pezzi. In conclusione un lavoro solido, onesto, con parecchie belle canzoni, suonato benissimo, cantato anche meglio e con la produzione di Rubin che valorizza l’insieme, probabilmente non un capolavoro ma un bel disco sicuramente!

Bruno Conti

Dal Vivo Sempre Bravissimi! Avett Brothers – Live Vol. 4

avett brothers live volume 4

Avett Brothers – Live Vol. 4 –  CD+DVD American Recordings/UMG

Gli Avett Brothers sono quasi dei clienti fissi del Blog, http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/ e http://discoclub.myblog.it/2010/11/04/temp-38e44dc3108786660152b6bd09f62fa0/, ma anche dei concerti dal vivo, visto che questo Live Vol.4, come recita il titolo, è già il quarto capitolo della serie dedicata alle esibizioni in concerto, dal primo Live At The Double Inn del 2002, quando erano degli illustri sconosciuti. Per questa nuova puntata delle loro avventure concertistiche hanno deciso di abbinare nella confezione sia il CD come il DVD, mentre per esempio nel 3° volume i due formati erano usciti divisi. e, purtroppo, come al solito, il doppio non è edito né in Europa, né tanto meno in Italia. Oltre a tutto essendo stato pubblicato il 18 dicembre, nelle immediate vicinanze del Natale non ha fatto neppure in tempo ad entrare in molte classifiche dei migliori dischi dell’anno, magari almeno per i Live.

Il concerto è stato registrato il 31 dicembre del 2014 alla PNC Arena, a Raleigh, Carolina del Nord, quindi nella tana del lupo, a casa loro, dove la band è popolarissima, e i ventimila presenti praticamente pendevano dalle loro labbra. Non che ne abbiamo bisogno, visto che dal vivo (ma pure in studio) sono bravissimi, una delle migliori band del nuovo rock a stelle e strisce, sempre in bilico tra country, Americana, Bluegrass e, dal vivo, anche moltissimo rock: i due fratelli Scott Seth Avett hanno delle bellissime voci e anche il resto dei componenti del gruppo contribuiscono a questo suono fresco, frizzante e di eccellente qualità. Se proprio un appunto si può fare al CD è quello che essendo un tipico concerto “festivo”, la gag del vecchio “Father Time” che si aggira per le strade e sul palco e della sua compagna Mother Nature, viene tirata un po’ per le lunghe e anche le versioni del traditional Auld Lang Syne, preceduta dal countdown di fine anno e del vecchio brano di Roy Rogers, Happy Trails, non mi sembrano particolarmente memorabili. Per il resto pollice alzato.

L’apertura, sulle immagini del pubblico che entra nell’arena, è affidata a una lunga intro batteria e violino, suonato dalla bravissima Tania Elizabeth, con il resto dei componenti che salgono sul palco a mano a mano, sulle note di una inedita, e indiavolata, dato il nome del brano, Satan Pulls The Strings, che illustra il loro lato più bluegrass/country, tra banjo, chitarre acustiche, un secondo violino, il cello di Jim Kwon, il contrabbasso e la batteria di Mike Marsh. tutti vestiti in nero da bravi cowboys. Laundry Room è un bellissima ballata elettro-acustica e malinconica che era sull’album prodotto da Rick Rubin, quell’  I And Love And You che li ha fatti diventare popolarissimi negli States e piuttosto conosciuti nel resto del mondo, senza concessioni alla musica pop e con quelle armonie vocali e crescendo strumentali che sono il loro marchio di fabbrica. Another Is Waiting, altra canzone bellissima era su Magpie And The Dandelion, l’ultimo album del 2013, anche questo recensito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2013/11/01/sono-sempr-5747492/Shame era su Emotionalism, il quinto ultimo, l’ultimo primo della fama globale, ma quando erano giù una band formata e dalle eccellenti aperture folk, confermate in questa calda versione (il brano era anche nel precedente Live Vol.3).

Poi inizia la parte più elettrica del concerto: Kick Drum Heart è un formidabile pezzo rock, quasi springsteeniano, ideale per gasare il pubblico, sempre da I And Love And You, con fioriture di piano, organo e violino, oltre all’elettrica di Seth che si produce in un veemente assolo nella parte finale del brano, mentre anche l’altra canzone nuova, Rejects In the Attic, conferma la sempre eccellente vena compositiva dei fratelli, ben coadiuvati da Bob Crawford, il bassista storico e co-autore della gran parte dei brani della band, in questo caso una delle loro tipiche ballate melodiche ed avvolgenti, tipico brano “invernale” che ben si inserisce anche metaforicamente nel periodo più freddo dell’anno. Ancora dal loro album di maggior successo, dopo un altro intermezzo di Father Time, ecco la dolcissima ed acustica, solo due chitarre, Ten Thousand Words, dove la sorella Bonnie si aggiunge alle formidabili armonie vocali della famiglia Avett. Talk On Insolence, di nuovo a tutto bluegrass, viene dal loro non dimenticato passato di grande band country-folk, di nuovo in in un florilegio di banjo, acustiche, violini e continui cambi di tempo che esaltano il pubblico presente che viene trascinato in un gorgo di divertimento.

Di Auld Lang Syne che arriva dopo il conto alla rovescia di fine anno e l’ennesima apparizione di Father Time, con la sua clessidra, si è detto, molto più travolgente una fantastica versione di The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy, di cui Phil Lynott il suo autore, sarebbe stato orgoglioso: cantata da Valient Thorr, il leader dell’omonima band locale, e con i fratelli alle twin leads conferma il suo status di grande pezzo di R&R. Poi c’è ancora tempo per due brani tratti da I And Love And You, la travolgente Slight Figure Of Speech, con vari finti finali e la title-track di quel disco che è una ballata tra le più belle mai firmate dagli Avett Brothers. Chiude il tutto Happy Trails. Luca Carboni una volta disse che Dustin Hoffman non sbagliava un film, ma poi ha iniziato a “ciccarli” a ripetizione, i nostri amici, per il momento, viceversa, non sbagliano un disco!

Bruno Conti

P.s Filmati ufficiali del concerto in rete non se ne trovano per cui ho inserito materiale da altri concerti, passati e recenti.

Buone Notizie (Future). Tom Petty – Wildflowers: All The Rest

All’inizio di giugno, Tom Petty e la sua casa discografica hanno annunciato (senza precisare la data) la prossima uscita di Wildflowers: All The Rest, un CD che conterrà tutto materiale inedito registrato tra il 1992 e il 1994, anno di pubblicazione del primo album solista di Petty, co-prodotto da Rick Rubin, e che nelle intenzioni dei suoi ideatori doveva essere un doppio. La prima canzone a vedere la luce (e se il buongiorno si vede dal mattino…) è questa Somehere Under Heaven, un brano firmato da Mike Campbell e Tom Petty che appare nei titoli di coda del recentissimo film Entourage (https://www.youtube.com/watch?v=uVW94FmeZ7c così a occhio non sembra un capolavoro, il film, magari sbaglio) e si trova in rete per il download a pagamento, il pezzo musicale ovviamente.

Forse tra i brani contenuti nel CD ci sarà anche questa Girl On LSD, prevista sempre nel disco originale, ma rimossa dalla Warner e pubblicata solo come lato B di You Don’t Know How It Feels https://www.youtube.com/watch?v=9TlBTPITo1I, (il cd singolo viaggia a oltre 100 dollari tra le rarità), mentre alcuni altri pezzi registrati per quell’album disco sono stati poi pubblicati nella colonna sonora di She’s The One e Leave Virginia Alone, sempre scritta e registrata durante le sessioni per Wildflowers è poi apparsa su A Spanner In The Works, il disco del 1995 di Rod Stewart https://www.youtube.com/watch?v=xhPWbSWRCU0. Considerando che Wildflowers è un signor disco, come testimoniamo questi altri brani

e

attendiamo con impazienza ulteriori sviluppi, di cui vi terrò informati.

Bruno Conti

Un Caldo Abbraccio Di Dolce Malinconia! Damien Rice – My Favourite Faded Fantasy

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Damien Rice – My Favourite Faded Fantasy – Atlantic Records

Diciamo subito che Damien Rice non è un cantautore molto prolifico: questo nuovo lavoro, My Favourite Faded Fantasy, è il terzo disco in 12 anni, e contiene solo 8 brani, anche se ad un primo ascolto pare un piccolo gioiello, e conferma quindi il suo talento. L’attesa per questo album del cantautore irlandese era tanta, dopo il folgorante esordio di 0 del lontano 2002 (un disco che vendette due milioni di copie nel mondo), e da subito il nome del “dublinese”, abbastanza discreto come personaggio, si trovò catapultato nell’universo del “music business”, e la cosa, anche se appagava il suo commercialista, non lo riempiva, pare, di gioia. Deciso così a prendersi un periodo sabbatico e di staccare la spina, per comprendere se poteva stare lontano dalle luci del palcoscenico. Damien Rice si accorse presto che in fondo poteva fare a meno di quel mondo, e quando in molti erano già pronti a darlo per finito (nel cimitero degli artisti scomparsi), il “nostro” ritorna sulla scena del delitto incidendo il secondo album 9 nel 2006, un piccolo capolavoro (dove si sprecarono i paragoni con Leonard Cohen e Nick Cave), e dopo un altro ancora più lungo periodo di latitanza (l’esilio volontario in Islanda e la rottura personale e musicale con la brava Lisa Hannigan) vola a Los Angeles dal “santone” Rick Rubin (l’uomo che ha allungato la carriera del grande Johnny Cash) e gli affida la produzione del nuovo disco, e tornato in sala d’incisione con l’apporto della attuale band, composta da Shane Fitzsimons al basso, Brendan Buckley alla batteria, Joe Shearer alla chitarra e la brava musicista irlandese Vyvienne Long al violoncello e pianoforte, ha dato vita a questo notevole My Favourite Faded Fantasy https://www.youtube.com/watch?v=wJinIIFExT4 .

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La title-track My Favourite Faded Fantasy inizia con il tipico cantato in falsetto di Damien https://www.youtube.com/watch?v=Rh1C8qpODZs , poi entrano a poco a poco chitarre, tamburi, violino, un violoncello e un pianoforte con un crescendo importante, a seguire troviamo It Takes A Lot To Know A Man, quasi dieci minuti di musica che partono con vibrafono e tromboni, e terminano in una danza morbosa con pianoforte e archi https://www.youtube.com/watch?v=CkdjaxYSMZ4 . Pochi accordi di chitarra sono sufficienti a Rice per sussurrare una sorta di  romanza,The Greatest Bastard https://www.youtube.com/watch?v=hoIFYXOC9tU , per poi passare alla struggente e meravigliosa I Don’t Want To Change You  https://www.youtube.com/watch?v=FnzHOsiaJns (una canzone perfetta da ascoltare davanti ad un bel caminetto, in quello che sarà forse un freddo inverno), e alle note in crescendo di una malinconica Colour Me In, nonché al canto quasi declamato di una The Box, che nel finale orchestrale divampa in tutta la sua bellezza. Si chiude con gli otto minuti di una ballata commovente come Trusty And True, e con i vocalizzi ancora in falsetto di una straziante Long Long Way, una maestosa melodia dal finale sinfonico https://www.youtube.com/watch?v=K5yRKJ-gU48 .

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Damien Rice è un personaggio abbastanza atipico nel panorama musicale internazionale, la sua è una musica di un altro tempo, i suoi riferimenti sono facilmente individuabili nei Buckley (soprattutto il padre), e per certi aspetti nelle sonorità di David Gray, ma anche nella malinconia “classica” di Nick Drake, tutti elementi che puntualmente si ripropongono in questo My Favourite Faded Fantasy, distribuiti in otto brani per circa cinquanta minuti di musica e di parole (dove si sente dannatamente la mano di Rick Rubin), che chiudono in un certo senso il cerchio con i lavori precedenti, in attesa del prossimo, probabile, ennesimo piccolo capolavoro. Poco importa se Rice pubblica album a distanza di otto anni uno dall’altro, se sono così belli e intensi come questo lavoro, per i veri appassionati della buona musica e (per chi scrive), si può prendere tutto il tempo che gli compete. Consigliato!

Tino Montanari

Sono Sempre Una Garanzia! Avett Brothers – Magpie And The Dandelion

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Avett Brothers – Magpie And The Dandelion – American Recordings CD

Di questi tempi è di norma far passare almeno due-tre anni, quando non ancora di più, tra un disco e l’altro, l’usanza di fare uscire un lavoro nuovo ogni anno (ed a volte anche due) si è interrotta più o meno con l’avvento degli anni ottanta: perciò sono rimasto molto sorpreso quando ho visto tra le uscite del mese di Ottobre un nuovo album degli Avett Brothers, dato che il loro precedente CD, l’eccellente The Carpenter, è appunto uscito nel 2012.

Quando ho letto che Magpie And The Dandelion, questo il non facilissimo titolo del disco, era frutto delle stesse sessions di The Carpenter ho storto un po’ il naso e mi sono detto : “Vuoi vedere che, tanto per sfruttare il successo del loro ultimo disco (arrivato fino al n. 4 di Billboard), hanno pubblicato gli scarti di quel CD facendolo passare come una novità?”. Già il primo ascolto ha però fugato ogni dubbio: Magpie And The Dandelion non suona affatto come una raccolta di outtakes, ma anzi è in grado di stare a fianco di The Carpenter al medesimo livello.

La band dei fratelli Seth e Scott Avett (coadiuvati come sempre da Bob Crawford, Joe Kwon, Mike Marsh e Paul DeFiglia) ormai non sbaglia un colpo: io la considero personalmente come tra i migliori gruppi in giro in America attualmente, al pari di Old Crow Medicine Show, Mumford & Sons (anche se sono inglesi), Decemberists, Low Anthem, Fleet Foxes e chi più ne ha più ne metta; il loro stile si può collocare giusto a metà tra i primi due gruppi che ho citato, hanno la grinta e lo spirito old-time-country-bluegrass dei primi e la freschezza pop dei secondi, e Magpie And The Dandelion (prodotto ancora una volta da Rick Rubin) si colloca comodamente tra i migliori dischi della seconda parte dell’anno in corso.

L’album esce in due versioni (e te pareva), una normale con undici canzoni ed una deluxe con quattro brani in più (e con un diverso disegno delle gazze in copertina): per la verità ci sarebbe anche una terza versione con due ulteriori pezzi, ma è in vendita solo presso la catena americana Target. Un altro episodio quindi riuscito, pubblicato anche per sfruttare l’onda lunga del successo della tournée americana del sestetto, ma soprattutto un signor disco che non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori.

Open-Ended Life apre splendidamente l’album: una scintillante ballata elettrica guidata da chitarra, piano, banjo ed armonica, con una melodia di grande bellezza e purezza. Poi a metà il brano si velocizza e diventa addirittura irresistibile: grande inizio. Morning Song è più intima ed acustica, il piano di DeFiglia sparge qua e là note di gran classe ed il motivo ha un impatto emotivo molto alto: un brano fluido, evocativo, senza una sbavatura.

Never Been Alive ha un arrangiamento molto cosmic country, quasi come se Gram Parsons fosse ancora tra noi e partecipasse al disco come special guest; Another Is Waiting è il primo singolo, la strumentazione è sempre classica e tradizionale, anche se la melodia tradisce le influenze pop del gruppo. Un brano potente e quasi perfetto nel suo mix di antico e moderno.

Bring Your Love To Me è meno diretta e più interiore, ma la capacità dei due fratelli Avett nel songwriting viene forse evidenziata maggiormente in questi brani più riflessivi; Good To You ha un bellissimo accompagnamento a base di piano e cello (ma nel finale entra anche la sezione ritmica), ed il motivo rivela che anche i Beatles fanno parte del bagaglio di influenze dei ragazzi; Part From Me ha un mood tra il folk ed il cantautorale, e qui ci vedo qualcosa del Paul Simon dei primi dischi da solista, con l’aggiunta di una leggera atmosfera country.

Skin And Bones ripropone ancora quella miscela unica tra pop e bluegrass per la quale il gruppo è famoso, ed il refrain è uno dei più coinvolgenti di tutto il disco; Souls Like The Wheels, registrata dal vivo, è una deliziosa ballata acustica, una voce ed una chitarra nel silenzio e tanto feeling. Bella anche Vanity, ancora pop-rock di gran lusso, qui con la componente traditional quasi assente: un’altra grande melodia che potrebbe facilmente diventare un altro instant classic per il gruppo. Per contro, The Clearness Is Gone è un country-rock che non disdegna riferimenti a certa musica country-rock degli anni settanta, quando la California era, musicalmente parlando, al centro del mondo.

Qui termina la versione “normale” del disco, mentre l’edizione deluxe (e quella Target) offrono quattro (sei) dei migliori brani dell’album in versione demo, un’aggiunta interessante che mostra come il gruppo avesse le idee chiare fin dal principio (in parole povere, non sono molto diverse da quelle definitive, ma Morning Song e Vanity mi piacciono quasi di più così).

Un altro gran bel disco per i fratelli Avett: il rischio è che, pubblicando un CD all’anno di questo livello, ci abituino troppo bene.

Marco Verdi

Lo Strano Caso Delle “Civili Guerre” Di Una Coppia (Di Musicisti): Civil Wars

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The Civil Wars – The Civil Wars – Sensibility Recordings/Columbia/Sony-BMG

Questo è quanto scrivevo in sede di presentazione dell’imminente uscita dell’album, qualche giorno fa…

“I Civil Wars lo scorso anno vinsero due Grammy per il loro primo album Barton Hollow, peraltro già uscito una prima volta nel 2011 e poi ripubblicato nel 2012 dalla Sony, che aveva rilevato il loro contratto, con alcune tracce aggiunte. Poi, a novembre, nel bel mezzo di una tournéè promozionale e della registrazione del secondo album, il duo annunciò che si prendeva una pausa a tempo indefinito per “inconciliabili differenze di ambizione”. Considerando che i due, Joy Williams e John Paul White erano stati anche una coppia a livello sentimentale non era difficile capire da potevano provenire queste frizioni. Poi però, nel corso del 2013, prima è uscita una colonna sonora prodotta da T-Bone Burnett con la loro partecipazione e ora questo album eponimo, “postumo”? Il disco, che è prodotto in parte da Rick Rubin (un brano) e il resto da Charlie Peacock, il loro primo produttore, è comunque bello, come si evince da altri album nati da separazioni e rotture come Rumors dei Fleetwood Mac o l’ultimo di Richard & Linda Thompson (nel primo album c’era già un brano che si chiamava Poison and Wine, una premonizione?).  Esce per la Sony, che, evidentemente, per evitare di rimanere con il cerino in mano, lo mette comunque sul mercato.”

Ma…ci sono alcune incongruenze in quanto da me detto. I due, presentati, come coppia, lo sono solo a livello musicale, in quanto John Paul White, è sposato e vive a Florence in Alabama con i suoi quattro figli, mentre Joy Williams è sposata con Nate Yetton, il manager del gruppo, insieme al quale, proprio lo scorso anno, ha avuto un figlio. Quindi le teorie erroneamente da me riportate a livello di gossip non hanno nessun fondamento sentimentale, ma dipendono da attriti di altro tipo, perché comunque esistono forti divergenze. Come ha confermato la Williams in alcune interviste fatte in occasione dell’uscita dell’album, mentre White tace. Ovviamente a livello pubblicatario tutto serve, quindi la casa discografica non smentisce. Lei, tra l’altri, pur avendo solo 30 anni, ha alle spalle una lunga carriera come cantante di quella che viene definita “Christian Music”, avendo già pubblicato tre albums tra il 2001 e il 2005 (oltre ad una serie di EP, usciti fino al 2009) che hanno venduto complessivamente oltre 250.000 copie e anche White aveva già dato alle stampe un CD nel 2008, prima di decidere di pubblicare un album dal vivo, come duo, nel 2009, intitolato Live At Eddie’s Attic e sempre lo stesso anno, un EP, Poison Wine, che sarebbe stato uno dei brani portanti dell’album Barton Hollow uscito nel 2011 per la Relativity Records e pubblicato di nuovo nel 2012 in Europa dalla Sony Music, in occasione della conquista dei due Grammy, con 6 tracce extra, due delle quali erano presenti nella versione per il download del disco. Per completare la loro operazione globale di conquista del mercato, appaiono anche con un brano nella colonna sonora del film Hunger Games, Safe and Sound, scritta e cantata con Taylor Swift (?!?) e T-Bone Burnett che produce il tutto. La canzone non è male, comunque!

Dopo avere venduto più di mezzo milione di copie (654.000 copie a oggi) del primo album e dopo la nascita del primo figlio di Joy Williams, i due sono entrati in studio, sempre con Charlie Peacock come produttore (ma hanno collaborato anche con Rick Rubin) e hanno registrato questo nuovo “eponimo” album prima di partire per un tour europeo, durante il quale, a novembre hanno annunciato che si sarebbero presi quello che gli americani chiamano un lungo “hiatus”, che dura a tutt’oggi, interrotto solo dall’uscita del CD ai primi di agosto. Si è parlato poco di musica in questo Post ma l’album nel suo insieme non differisce musicalmente moltissimo dal precedente, a parte per una maggiore ricchezza nei suoni e negli arrangiamenti che avvolgono il country-folk più intimo e basato sulle ottime armonie vocali del duo e sulla voce assai piacevole della Williams stessa (ma anche John Paul White canta spesso, da solo e in coppia). I due si scrivono le canzoni, da soli e con Charlie Peacock e Phil Madeira, nel disco ci sono anche un paio di cover mirate: una Tell Mama, scritta da Clarence Carter con Daniel e Terrell, ma resa celeberrima da Etta James (e anche Janis Joplin ne faceva una “versioncina”niente male), qui ripresa in un versione più consona allo stile baroque-dark-folk del gruppo, anche se i florilegi degli arrangiamenti di Peacock sono sempre interessanti con quelle pedal steel sognanti che fanno capolino spesso; l’altra cover è Disarm, un vecchio brano degli Smashing Pumpkins tratto da Siamese Dreams e che il gruppo aveva già registrato nel Live At Amoeba (ebbene sì, avevano registrato anche un altro CD dal vivo), cantata da John Paul White con le sostanziali armonie della Williams, in una versione acustica ed intima che è molto vicina al sound dei loro concerti, dove si esibiscono (si esibivano?) solo loro due senza altri accompagnamenti.

Il resto del disco ha degli arrangiamenti a momenti anche più complessi, con uno stile che al sottoscritto ricorda certe cose dei Fleetwood Mac dell’era Nicks-Buckingham, ad altri, per la voce melodrammatica (e gotica) della Williams, certe cose, meno rock, degli Evanescence di Amy Lee. Per esempio l’iniziale The One That Got Away, tra momenti acustici e sprazzi di elettricità, con Peacock impegnato alle tastiere e, tra gli altri, gli ottimi Dan Dugmore e Jerry Douglas a steel e dobro o la successiva I Had me A Girl, l’unico brano sopravvissuto della collaborazione con Rubin, hanno un suono più tirato, tra chitarre elettriche e batterie che danno un sound più rock’n’roll al tutto e l’alternanza delle due voci soliste è sempre affascinante ancorchè meno intima, vogliamo dire, Fleetwood Mac era Tusk? Same Old Same Old è uno di quei brani dove i testi, malinconici e pessimisti hanno creato questo alone di “disco maledetto”, anche se poi le atmosfere musicali sono comunque serene e raccolte, bellissima canzone tra l’altro. Dust To Dust con una leggera elettronica non fastidiosa ricorda certe cose dello Springsteen di Tunnel Of Love o ancora del duo Buckingham-Nick se avessero avuto un approccio più country verso la propria musica, dolcissima e deliziosa.

Eavesdrop, tra mandolini, violini dobro e dulcimer ricorda molto il suono di Barton Hollow anche se con una maggiore grinta per l’aggiunta di una sezione ritmica che dà una professionalità da major senza essere troppo fastidiosa nei suoi imporvvisi crescendo. Devil’s Backbone ha quel tocco di gotica folk-rock che regala emozioni all’ascoltatore mentre, per chi scrive, From This Valley, con il suo suono aperto, country, tipico dei “vecchi” Civil Wars, è una ballata quasi Appalachiana, dove strumenti e voci si intersecano gli uni nelle altre: se dovessero incidere ancora mi farebbe piacere sentire altri brani di questa pasta sonora, bellissimo. Detto delle cover, rimane ancora Henry nuovamente percorsa dal dualismo tra le voci e le chitarre di White, sempre interessante in una futura ottica Live, senza dimenticare la particolare Sacred Heart, una sorta di ninna nanna o preghiera (al Sacro Cuore?) cantata in francese e reminiscente dei brani più raccolti delle grandi Kate & Anna McGarrigle. Conclude D’Arline uno dei brani acustici cantati da John Paul White, con le immancabili armonie vocali della Williams, che ha ricordato nella intervista di cui sopra, che nonostante i rapporti tesi più volte ricordati. i due hanno sempre cantato insieme in studio di registrazione.

Non un capolavoro, ma tutto sommato un buon album che, forse anche grazie alle tensioni ed alle emozioni sprigionate, conferma quanto di buono si era detto di loro. Vedremo se la storia continuerà, per il momento godiamoci questo disco.

Bruno Conti

P.S. Il CD debutta al 1° posto nella classifica USA. E, non so se sia un caso, ho ricevuto nella mail un “thank you from Joy & John Paul” dal Columbia Marketing per il supporto.