Una Nuova “Tosta” Country Girl. Jaime Wyatt – Felony Blues

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Jaime Wyatt – Felony Blues – Forty Below EP/CD

E’ da un po’ di tempo che l’EP è tornato, anche se sotto forma di CD, un supporto diffuso, soprattutto tra i giovani cantanti e le band che vogliono farsi notare ma non hanno, per diverse ragioni, la possibilità di pubblicare un full length, oppure desiderano semplicemente battere il ferro finché è caldo tra una pubblicazione e l’altra. Ho ancora nelle orecchie lo splendido mini CD Workin’s Too Hard di Rayna Gellert che mi ritrovo tra le mani un altro EP al femminile, da parte di una musicista stavolta esordiente, Jaime Wyatt, proveniente da Los Angeles. Le similitudini fra le due ragazze si fermano però al tipo di supporto pubblicato, dato che la Gellert è una folksinger che esegue i suoi brani, perlopiù acustici, accompagnata da tre strumentisti in croce, mentre la Wyatt è una country girl dall’aspetto gentile ma dal piglio deciso, che suona in mezzo ad un tripudio di chitarre elettriche, violini, pedal steel e banjo. Felony Blues è il suo biglietto da visita, un dischetto composto da appena sette canzoni che rivela un’artista grintosa e capace di intrattenere senza strafare, ma proponendo un country-rock elettrico di grande immediatezza e dal suono diretto, con musicisti di buona levatura (tra cui il bassista di Shooter Jennings, Ted Russell Kamp, cantante lui stesso, ed un ospite speciale che vedremo tra poco) ed una produzione asciutta ed essenziale ad opera di Drew Allsbrook, un giovane produttore di L.A.

La stampa locale ha definito Jaime una diretta discendente dell’Outlaw Country, e ciò non è distante dal vero, ma io vedo tracce anche di country californiano, come nella turgida Wishing Well posta in apertura del CD, un country-rock solare, elettrico e spedito, dalla melodia che prende all’istante, e con la voce della Wyatt che trasuda feeling e personalità; Your Loving Saves Me si mantiene sullo stesso livello qualitativo, ha il tipico sound della West Coast e vede la partecipazione alle armonie vocali di Sam Outlaw, uno dei migliori countrymen del momento: il ritornello vibrante e le belle chitarre fanno il resto. La languida From Outer Space è una delicata ballata pianistica, punteggiata da una bella steel sullo sfondo, uno slow serio e non compromesso con le sonorità di Nashville (ed il motivo centrale è ancora una volta azzeccato), la frizzante Wasco sta giusto a metà tra country classico ed outlaw music, con una leggera preponderanza per il secondo genere, in quanto sembra di stare di fronte ad una versione femminile di Waylon Jennings (chi ha detto Jessi Colter?), mentre Giving Back The Best Of Me è un lento acustico ed interiore, che dimostra che Jaime è a suo agio anche in atmosfere più intime. L’EP (trenta minuti giusti, ci sono comunque album che durano meno) si chiude con la grintosa Stone Hotel, altro country robusto e non avvezzo a sdolcinature, e con la toccante Misery And Gin, suadente ballata (con una splendida steel) che ci lascia con la voglia di ascoltarne ancora.

Jaime Wyatt è un nome da segnarsi, e sono curioso di sentirla alle prese con un vero album, spero a breve.

Marco Verdi

Non Tradiscono Mai. Gov’t Mule – Revolution Come…Revolution Go

gov't mule revolution come...revolution go

Gov’t Mule – Revolution Come…Revolution Go – 2 CD Fantasy/Universal 09-06-2017

Tornano i Gov’t Mule con un nuovo album, Revolution Come…Revolution Go, concepito nei giorni dell’elezione di Trump negli USA (e quindi come nel caso di quello di Roger Waters, influenzato a livello di testi dagli avvenimenti allora in corso), ma musicalmente sempre legato al classico rock del quartetto americano, uno stile dove confluiscono anche elementi blues, soul, funky, jazz e anche country, oltre alle improvvisazioni tipiche delle jam band: quindi, come si ricorda nel titolo del Post, per certi versi non tradiscono mai i loro estimatori. Dopo lo scioglimento degli Allman Brothers (reso ancor più definitivo dalla recente scomparsa di Gregg Allman http://discoclub.myblog.it/2017/05/28/lultima-corsa-del-viaggiatore-di-mezzanotte-ma-la-strada-continua-per-sempre-ci-ha-lasciato-anche-gregg-allman-aveva-69-anni/ ) Warren Haynes si è dedicato alla sua carriera solista, pubblicando tre album, uno in studio, un Live e quello insieme ai Railroad Earth http://discoclub.myblog.it/2015/07/29/il-disco-dellestate-dellautunno-dellinvernowarren-haynes-featuring-railroad-earth-ashes-and-dust/ , non tralasciando comunque una intensa attività di pubblicazione di materiale d’archivio della sua band principale, più o meno in concomitanza con il 20° Anniversario dalla nascita del gruppo http://discoclub.myblog.it/2016/08/05/dagli-archivi-inesauribili-dei-govt-mule-ecco-le-tel-star-sessions/ . L’ultimo album Shout!, uscito nel 2013 per la Blue Note, era stato un album particolare, in quanto a fianco del disco principale era accluso un secondo CD con tutte le canzoni (ri)cantate da una nutrita serie di ospiti. Per Revolution Come…Revolution Go, il loro decimo album di studio, si ritorna alla formula abituale (anche se, come da benemerita abitudine, sarà pubblicata pure una versione Deluxe con ben 6 tracce extra, altri tre brani nuovi, una versione alternata e due Live In Studio dei pezzi contenuti nel primo CD).

Per l’occasione il numero degli ospiti è contenuto al minimo: Jimmie Vaughan è la seconda chitarra solista nella bluesata e texana Burning Point, Don Was, se vogliamo considerarlo tale, co-produce due brani del CD, alternandosi con Gordie Johnson che è il co-produttore con Haynes in altri sei. La formazione è la solita: Matt Abts alla batteria, una garanzia, Jorgen Carlsson al basso, sempre più impegnato, riuscendoci, a non fare rimpiangere Allen Woody Danny Louis alle tastiere, seconda chitarra e occasionalmente alla tromba. Il risultato, si diceva, è più che soddisfacente: a partire dalla ferocissima Stone Cold Rage, il primo “singolo” dell’album, che ci riporta al sound hard dei primi anni della formazione, a tutto wah-wah, con una carica che mi ha ricordato gli Humble Pie, Bad Company e gli amati Free, con le svisate dell’organo di Louis che si sovrappongono alle chitarre di Haynes con effetti devastanti, mentre Warren canta con la solita foga. Drawn That Way è un altro potente rock-blues cadenzato, tra la James Gang di Joe Walsh e le band citate prima, senza dimenticare il southern degli Allman e il classico rock seventies in generale, con un bel cambio di tempo, una decisa accelerazione nella seconda parte,  che prelude ad una bella jam con doppia chitarra solista; nel finale Pressure Under Fire è il secondo brano influenzato, a livello di testi, dai recenti eventi politici e sociali americani, ancora il classico rock dei Mule, un mid-tempo sospeso dalle atmosfere intense e curate dalla produzione di Don Was, con un ottimo lavoro nuovamente di Louis all’organo, alternato alla solista di Warren, mentre The Man I Want To Be è una splendida ballata in crescendo, giocata anche sui toni e i pedali della solista di Haynes, ma pure con un fervore quasi gospel e qualche retrogusto che ricorda il Jimi Hendrix più “melodico”, comunque la si veda una delle migliori canzoni del nuovo album, con un assolo fantastico di chitarra.

Traveling Tune, con l’uso della steel guitar e un’aura rustica e country è quella che più si avvicina a Ashes And Dust, il disco con i Railroad Earth, una ballata southern che ricorda anche certe cose di Dickey Betts con gli Allman, molto bella la melodia; viceversa Thorns Of Life è uno dei brani più lunghi dell’album e più improvvisati, inizio dark e quasi jazzato, con la ritmica che lavora di fino per preparare l’arrivo della voce di Haynes, molto misurato nella parte iniziale, poi entra la solista di Warren e il tempo inizia ad accelerare, si placa brevemente di nuovo e poi si ricarica per il finale di grande intensità sonora, tra picchi e momenti di quiete. Dreams And Songs, l’altro brano co-prodotto con Don Was, è una ulteriore eccellente ballata di stampo sudista, con un bel lavoro di piano elettrico e la lirica chitarra in modalità slide a sottolineare la dolce melodia della canzone che mi ha quasi ricordato il Dylan di Pat Garrett, e pure Sarah Surrender è un ottimo esempio dell’Haynes autore, non solo il chitarrista, ma anche l’amante della classica soul musicstranamente per l’unico brano non registrato nelle sessions dell’album tenute a Austin, Texas, ma in una appendice a New York nel gennaio del 2017: atmosfera ondeggiante, armonie vocali femminili, congas e organo a punteggiare l’impronta nera della canzone, scelta come secondo singolo del CD, persino qualche tocco santaneggiante nel lavoro della solista. Revolution Come…Revolution Go è l’altro brano che supera gli otto minuti, nuovamente tipico dello stile dei Gov’t Mule, partenza rock swingata su un deciso groove di basso, poi un improvviso cambio di tempo e si passa ad un blues shuffle cadenzato, sempre con la solista in grande evidenza, ulteriore cambio per una breve improvvisazione jazzata guidata dall’interscambio organo/chitarra nella parte centrale e poi nel finale si ritorna al tema iniziale.

Rimangono gli ultimi tre brani, Burning Point, quello con il duetto con Jimmie Vaughan, un brano dall’impronta blues, ma stranamente dall’anima rock, per il fratello più “tradizionale” rispetto alle 12 battute della famiglia, Warren Haynes è impegnato ad un wah-wah nuovamente quasi hendrixiano, ma anche Jimmie risponde da par suo con il suo tipico sound texano, mentre il ritmo ha pure un feeling funky, quasi à la New Orleans, grazie anche all’organo di Louis, come doveva essere nella intenzione originale espressa dall’autore nella presentazione del disco. Che si conclude con Easy Times, altra bella blues ballad dall’aria riflessiva, cantata con trasporto da Haynes, supportato nuovamente dalle voci femminili già impiegate in precedenza, prima di rilasciare un ennesimo assolo dei suoi nel finale. Anzi, per la precisione, l’ultimo brano è anche l’unica cover del disco, una rielaborazione del classico blues di Blind Willie Johnson Dark Was The Night, Cold Was The Ground, a cui Warren ha aggiunto un nuovo testo per renderlo più vicino ai tempi che stiamo vivendo, trasformandolo in una sorta di gospel-rock epico e futuribile, dove i florilegi del piano cercano di mitigare l’urgenza della chitarra e del cantato che portano l’album al suo climax: “soliti” Gov’t Mule, quindi ottimo album.

Nel secondo CD (che non ho ancora sentito, esce questo venerdì 9 giugno), come detto, altri 6 brani:

Bonus CD:
1. What Fresh Hell
2. Click-Track
3. Outside Myself
4. Revolution Come, Revolution Go (Alternate Version)
5. The Man I Want To Be (Live In Studio Version)
6. Dark Was The Night, Cold Was The Ground (Live In Studio Version) 

Bruno Conti

Non Solo Un Oscuro Songwriter Di Nashville. Steve Moakler – Steel Town

steve moakler

Steve Moakler – Steel Town – Creative Nation CD

Steve Moakler, giovane songwriter originario di Pittsburgh, in Pennsylvania (deve ancora compiere trenta anni), ma da tempo residente a Nashville, è già ben conosciuto nell’ambiente, nonostante i suoi tre album pubblicati tra il 2009 ed il 2014,  in pratica autodistribuiti, non se li sia filati praticamente nessuno. Infatti Steve ha in attività una carriera remunerativa come autore per conto terzi, e non mezze calzette, ma artisti del calibro di Dierks Bentley, Eric Church e Jake Owen, un lavoro che gli ha permesso di sbarcare il lunario più che dignitosamente fino ad oggi. Ma Steve, che è in possesso di una buona voce, ha deciso di tentare in maniera seria anche la carriera in proprio firmando per la Creative Nation, una label di Nashville di proprietà di Luke Laird, altro songwriter per conto terzi dal pedigree imponente (Carrie Underwood, Lady Antebellum, Toby Keith, Tim McGraw e Blake Shelton, tutti nomi abbastanza lontani dai nostri gusti ma che garantiscono cospicui introiti) e produttore, tra gli altri, di Kacey Musgraves. Laird è anche alla consolle di Steel Town, che a questo punto può benissimo essere considerato il vero e proprio debutto per Moakler; e Steve decide di non percorrere la strada della musica da classifica, bensì decide di dare ai suoi brani un suono country-rock vero e ruspante, tra ballate ampie ed ariose e canzoni dal ritmo più sostenuto, una sorta di blue collar rock con marcati elementi country, con testi personali ispirati dalla sua città natale, Pittsburgh (che una volta era infatti la maggior produttrice di acciaio al mondo, ma la crisi economica mondiale ha colpito duro anche lì), ed una serie di musicisti preparati ma senza i grandi nomi che magari ti fanno vendere di più, ma dal punto di vista artistico aggiungono poco o niente.

Undici canzoni, a partire dalla title track, una ballata elettroacustica profonda e potente al tempo stesso, un heartland country-rock dal suono limpido e con un motivo ispirato e scorrevole. Suitcase è strutturata allo stesso modo della precedente, inizio lento, con la voce circondata da pochi strumenti, poi arriva il refrain, si inseriscono le chitarre elettriche e la canzone prende corpo, mentre Jealous Girl ha il ritmo sostenuto da subito ed un motivo diretto e piacevole, che rimanda a cieli tersi ed orizzonti a perdita d’occhio; Summer Without Her è più meditata, con una slide in sottofondo che le conferisce un sapore più rock, ma la saltellante e solare Love Drunk riporta il sereno nel CD, con un leggero retrogusto pop anni sessanta. Hearts Don’t Break That Way è ancora una ballata classica, di nuovo su territori country-rock, in puro stile californiano, Wheels offre un delicato intermezzo acustico, con percussioni appena accennate, chitarre arpeggiate con discrezione ed un motivo semplice e spontaneo, mentre Siddle’s Saloon è un rockin’ country quasi alla maniera texana, tra le più immediate del lavoro, con chitarre e violino in evidenza. L’album termina con la ruspante School, la rockeggiante Just Long Enough, ancora con un refrain di qualità, e con Gold, altra ballata elettrica sinuosa e discorsiva, un po’ il marchio di fabbrica del nostro.

Se Steve Moakler continuerà a guadagnare scrivendo canzoni su commissione per me va benissimo: l’importante è che continui anche a pubblicare dischi come Steel Town.

Marco Verdi

Ancora Folk “Letterario” Per Il Nuovo Album. Eric Andersen – Mingle With The Universe

eric andersen mingle with the universe

Eric Andersen – Mingle With The Universe: The Worlds Of Lord Byron – Meyer Records

Come mi aveva preannunciato il buon Michele Gazich, a circa due anni di distanza dall’ottimo omaggio ad Albert Camus Shadow And Light Of Albert Camus http://discoclub.myblog.it/2015/06/05/elegia-musica-premio-nobel-eric-andersen-shadow-and-light-of-albert-camus/ , ritorna Eric Andersen con un altro lavoro, questa volta nato da uno spettacolo teatrale con canzoni basate sulle poesie di Lord Byron, musicate dallo stesso Eric (a parte due brani che sono completamente suoi), a testimonianza che il “nuovo letterato” Andersen continua ad evolversi e reinventarsi. E così il cantautore americano, ma cittadino del mondo: da anni vive in Norvegia con la famiglia, e registra e produce in Germania, ha deciso di ripetere l’esperienza del precedente disco in studio, riportando in sala d’incisione a Colonia oltre alle armonie vocali della moglie Inge, il magico violino di Gazich, turnisti di area come Giorgio Curcetti alle chitarre elettriche, all’oud e al basso, Cheryl Prashker alla batteria, djembe e percussioni, Paul Zoontjens al pianoforte Steinway, senza dimenticare la sua voce inconfondibile a servizio di chitarra e armonica, il tutto sotto la produzione di Werner Meyer.

Il nobile progetto si sviluppa con una prima poesia musicata,  There’ll Be None Of Beauty’s Daughters dalla malinconia infinita, con il sostegno del controcanto della moglie, a cui fanno seguito una Song To Augusta dal suono moderno, dove entra in gioco il violino di Michele, come nell’introduzione di una maestosa ballata come She Walks In Beauty, solo voce, pianoforte, violino e poco altro, mentre la intrigante Hail To The Curled Darling è il primo brano di Eric dedicato alla vita di Lord Byron. Con la dolcezza di Farewell To A Lady, sembra di tornare ai tempi gloriosi del Greenwich Village, per poi passare al folk rurale di una Child Harold’s Farewell, con armonica e percussioni in evidenza; si omaggia nuovamente il poeta con una personale e lunga Albion, dove si risente la melodiosa voce di Inge, mentre la brevissima Fifty Times e la seguente Darkness sono basate su un recitativo che quasi rimanda al compianto John Trudell. Dopo tanto splendore, si riparte con gli arpeggi chitarristici di un brano strumentale Taqsim, a cui fa seguito la title track Mingle With The Universe, una moderna “romanza” folk dove il lavoro al violino di Gazich e la voce di Eric, danno un impronta epica al brano.

Come nella seguente dolcissima ballata Maid Of Athens, che chiude la versione in vinile dell’album, ma nel CD ci sono due ulteriori tracce: ancora una ulteriore folk song sulle note del violino nella  ambiziosa When We Two Parted per poi chiudere con la danzante So We’ll Go No More A-Roving, un disco affascinante, profondo e coinvolgente. Questo “arzillo” settantaquattrenne è ormai sulle scene da più di cinquanta anni (il suo primo album, Today Is The Highway risale al 1965), e con questo ultimo lavoro se non ho sbagliato i conti con il “pallottoliere” è arrivato a 34 album: Andersen ha consumato scarpe e musica suonando, tra i tanti, con Joni Mitchell, Judy Collins, Leonard Cohen, Rick Danko,  ha composto pezzi per Dylan, Cash, Linda Ronstadt e i grandissimi Grateful Dead, e, influenzato da scrittori della “beat generation” come Jack Kerouac e Allen Ginsberg, o dai poeti classici francesi tra cui Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud, invece di andare a pesca di salmoni norvegesi, nella seconda parte della vita si è creato l’hobby di adattare in musica le opere di altre icone letterarie del passato, con il risultato, per chi scrive, di una cavalcata letteraria-musicale comunque senza tempo, per orecchie colte e raffinate.

NDT: A dimostrazione che i proverbi sono veritieri, Eric Andersen sta già lavorando al terzo capitolo del progetto, dedicato al premio Nobel Heinrich Bòll (il figlio prediletto di Colonia), e il disco dovrebbe uscire a Settembre di quest’anno. Attendo fiducioso, sono già impaziente.!

Tino Montanari

E’ Questo Il Roger Waters Che Veramente Vogliamo? Si Direbbe Di Sì! Roger Waters – Is This The Life We Really Want?

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Roger Waters – Is This The Life We Really Want? – Columbia/Sony

*NDB Questa è la recensione dell’album che potete leggere anche sul numero di Giugno del Buscadero, dove tra l’altro, per un refuso, è apparsa pure priva della mia firma: visto che però era stata fatta, come è riportato all’interno della stessa, solo dopo un unico veloce ascolto blindato, circa due mesi prima dell’uscita, pensavo di aggiungere ulteriori considerazioni sul disco, ma, ripensandoci e rileggendolo, quello riportato qui sotto mi pare congruo e quindi rimango fedele alla mia prima stesura, solo con qualche piccolo aggiustamento, buona lettura.

25 anni dall’ultimo album di studio non sono proprio bruscolini. Praticamente è lo stesso lasso di tempo di tutta la sua precedente carriera discografica, iniziata con i Pink Floyd nel lontano 1967. E’ vero che in tutti questi anni, dall’uscita di Amused To Death, Roger Waters non è rimasto esattamente con le mani in mano: però, se devo essere sincero, l’opera lirica in francese Ça Ira non era proprio il massimo della vita, e comunque in quel caso era solo l’autore delle musiche. Per il resto sono usciti un Live nel 2000, In The Flesh, relativo al tour dell’epoca, e un Roger Waters: The Wall nel 2015, sempre dal vivo, in vari formati, e basato sul lungo tour tenuto dal 2010 al 2013. In mezzo c’era stata l’antologia Flickering Flame (con degli “inediti”) nel 2002, la reunion ottima  e una tantum con gli altri Floyd per il Live Aid, le partecipazioni al Coachella Festival e al Live Earth nel 2008 e prima il Dark Side Of the Moon Live Tour. A memoria, e alla rinfusa, ricordo anche una nuova versione di We Shall Overcome di Pete Seeger, un’altra rimpatriata con Gilmour e Mason nel 2011 all’O2 Arena, il Concert for Sandy Relief del 2012, la partecipazione al Tributo per Levon Helm, con i My Morning Jacket, replicata al Newport Folk Festival nel 2015, e con quella al Desert Trip (una costola del Coachella) dove lo scorso ottobre ha sbeffeggiato l’amato Trump, non ancora eletto, sulle note di Pigs, e con tanto di maiale volante. E penso possa bastare. Era solo per rimarcare che non è mai stato fermo in questi anni.

Quindi quando, all’inizio di aprile, mi è stato detto se volevo partecipare ad uno di quegli ascolti “blindati”, dove devi firmare con il sangue il tuo impegno a non divulgare nulla di quanto ascoltato (scherzo, ma non troppo), mi sono detto, perché no? E’ ovvio che un solo ascolto, per quanto con una qualità sonora eccellente, in uno studio di registrazione, con la presenza del manager che ti incombe alle spalle, non è l’ideale per “capire” un album, ma la prima impressione è stata molto buona. E lo dice uno che non ama molto il Roger Waters della carriera solista (ebbene sì lo ammetto, ero andato con una predisposizione d’animo abbastanza negativa, benché, spero, professionale), ma sono stato smentito, perché poi l’album mi è sembrato decisamente buono. Non sarà forse un capolavoro assoluto, ma mi sembra un disco organico, prodotto in modo ottimale da Nigel Godrich (quello dei Radiohead) che ha svolto un eccellente lavoro di tessitura del suono, già nella fase di pre-impostazione del disco, dove l’incazzoso Roger (è il suo carattere) ha dovuto questa volta delegare l’intera produzione nelle mani del produttore inglese, e anche le scelte di Joey Waronker alla batteria, e soprattutto Jonathan Wilson, alle chitarre e tastiere (una sorta di spirito affine ai Pink Floyd), sono parse azzeccate, già sulla carta, prima ancora di ascoltare il disco.

Per il sound e l’assieme del disco si era parlato pure di affinità con Animals e The Wall, ma a parere del sottoscritto (e credo non solo mio) mi sembra che si ritorni addirittura verso un approccio alla Dark Side Of The Moon o Wish You Were Here, con alcune citazioni di vecchi titoli di brani all’interno dei testi delle nuove canzoni, e pure nella costruzione della sequenza sonora ci sono analogie: l’apertura per esempio di When We Were Young, che è un classico collage alla Dark Side, con effetti sonori, passi, rumori, voci campionate, penso anche di The Donald, sveglie che ticchettano, ricorda qualcosa? Ma avendole scritte lui queste partiture, ovviamente può autocitarsi. Poi l’album scorre con belle sonorità: molte tastiere, ma usate in modo proficuo e non eccessivamente “moderno” o elettronico (alla Pink Floyd quindi), oltre a Wilson, alle tastiere Roger Manning dei Jellyfish e Lee Pardini dei Dawes (quindi quella California che oltre al West Coast sound ha sempre guardato con amore ai Pink Floyd), nonché Gus Seyffert, bassista, chitarrista, tastierista aggiunto e anche lui produttore (gli Spain di recente, ma come musicista appare in moltissimi dischi), e infine le due Lucius, Jessica Wolfe e Holly Laessig, alle armonie vocali, già con lui a Newport e al Desert Trip, e che fanno di nuovo, quando impiegate, un effetto molto Dark Side Of The Moon. Una canzone come Déjà Vu, che all’inizio doveva chiamarsi If I Had Been God (per fortuna Waters Dio non lo è davvero, sarebbe molto vendicativo, ma comunque nel testo del brano è rimasto) avrebbe fatto un figurone anche su Wish You Were, una ballata che parte con una chitarra acustica e poi si sviluppa in modo avvolgente e classico, con un bel crescendo e gli strumenti che entrano mano a mano, piano, tastiere, gli archi, la batteria, con Waters che canta veramente bene: al di là del testo “importante” il brano è veramente bello, anche gli inserti (sound collages) di Godrich sono molto pertinenti, come pure il corredo vocale delle Lucius è affascinante.

Come dissi a Mark Fenwick, il manager di Waters presente all’anteprima, se la domanda fosse stata “Is This The Roger Waters We Really Want?”, la risposta sarebbe stata era un bel sì! Rispetto agli altri dischi solisti (non Radio Kaos, che secondo me era veramente “bruttarello”, pure la copertina, e nel nuovo disco la copertina mi pare l’unica cosa non memorabile) di Waters, dove uno dei fattori principali erano gli assoli di chitarra di Eric Clapton in Pros & Cons e di Jeff Beck, in Amused To Death, Jonathan Wilson, che è comunque un eccellente chitarrista, viene utilizzato in un modo più fine, sottile, da tessitore, meno in primo piano, e anche se gli assoli, quando ci sono, sono pochi e brevi, comunque la presenza delle chitarre è sempre fondamentale nel sound; come ad esempio nel singolo Smell The Roses, un classico midtempo sincopato con un bel groove di basso, la voce parzialmente filtrata, l’intermezzo “rumoristico” quasi immancabile che lega il passato al presente e infine un breve solo sognante di Wilson,  in modalità slide, molto pinkfloydiano. Altrove ci sono anche brani più complessi e decisamente rock, come la title track, ma pure canzoni d’amore intime come The Most Beautiful Girl o la pianistica Wait For Her, ispirata dalle lezioni del Kama Sutra, con il suo seguito ideale, l’intensa Part Of Me Died  Ovviamente non mancano un paio di citazioni per Trump, dirette, quando viene definito un nincompoop (che sarebbe uno sciocco o uno stupido, dottamente dal latino “non compos mentis”), nella title track o altrove indirettamente, credo, quando viene detto che siamo guidati da leader “senza un fottuto cervello”, in Picture That!

Non si può forse sempre condividere tutto quello che pensa o scrive Waters (e lui non è comunque simpaticissimo, per usare un eufemismo), ma la  sua visione di un mondo futuro (e presente) fatto solo di ossa spezzate, Broken Bones, e poco altro, o dove i rifugiati non sono molto amati, The Last Refugee, sono inquietanti e si possono condividere sicuramente. Non essendo questo comunque un lungo trattato, ma una recensione fatta di impressioni immediate, soprattutto a livello musicale, il disco, lo ripeto, mi sembra che scorra liscio e composito nel suo divenire, con una unitarietà di fondo fornita dalla produzione di Godrich, e nei suoi circa 55 minuti si ascolta più che volentieri, soprattutto a volumi sostenuti, magari in uno studio di registrazione, ma va bene anche a casa vostra! Un bel disco insomma, che sarà seguito dall’Us And Them tour che parte a fine maggio negli Stati Uniti e arriverà l’anno prossimo in Europa e in Italia probabilmente ad Aprile del 2018.

Bruno Conti

*NDB Se il counter del Blog non ha dato i numeri, questo è il Post n° 3000!

Non Più Un Ragazzo, Però Un “Finto” Canadese Di Quelli Bravi. Watermelon Slim – Golden Boy

watermelon slim golden boy

Watermelon Slim – Golden Boy – DixieFrog/Ird

Questo nuovo album di Watermelon Slim (a.k.a. Bill Homans) avrebbe dovuto chiamarsi Eternal Youth And The Spirit Of Enterprise, mentre alla fine si è chiamato Golden Boy, in onore della statua  in cima al municipio di Winnipeg, capitale del Manitoba, e una delle più importanti e popolose città del Canada, nelle intenzioni del nostro amico anche una citazione dall’opera di Shakespeare. Bill Homans, in un bel video di presentazione dell’album che trovate su YouTube (e anche qui sotto, guardate la maglietta dedicata a Trump) si definisce un socialista, ma anche un imprenditore, un uomo d’affari, e pure pittore: infatti Golden Boy è anche il nome di un suo olio su tela del 2012, e il motivo per cui poi Watermelon Slim si è recato proprio a Winnipeg per registrare il nuovo album, con la produzione di Scott Nolan. Tra l’altro, per la serie dei corsi e ricorsi (musicali), in passato Slim aveva sempre inciso per la Northern Blues http://discoclub.myblog.it/2010/06/02/la-rivincita-del-country-watermelon-slim-ringers/ , etichetta canadese che sembra avere cessato l’attività, dopo la pubblicazione di Bull Goose Rooster.

Il nuovo album esce infatti per la francese DixieFrog, lo stile del musicista di Boston (ma vive da tempo a Clarksdale, Mississippi, una delle patrie del blues) non sembra cambiato di una virgola dopo la pausa: tanto blues per l’appunto, ma anche rock delle radici, qualche pizzico di folk e di gospel, il tutto cantato con quella voce vissuta, caratterizzata dalla tipica zeppola, testi colti e raffinati, accompagnandosi con l’immancabile national guitar dal corpo d’acciaio, suonata in modalità lap, ma anche con l’accordatura rovesciata tipica dei mancini, e pure dei suonatori di slide. Veterano della guerra del Vietnam, lavoratore nei campi agricoli, dove si è guadagnato il suo nomignolo, ma anche in fabbrica e come camionista, attivista per varie cause, tra cui i nativi americani, Homans si autodefinisce senza false modestie “il bluesman più colto del mondo”, in possesso di un Q.I. molto elevato che lo qualifica come membro della Mensa International, il club dei “geni”, il suo stile è invece volutamente basico e semplice, ma non privo di raffinatezza e classe.

Uno stile, per esempio, che fonde riff alla Stones periodo americano e R&R classico, con il blues più sanguigno, come si evince dalla splendida Pickup My Guidon, il “singolo” che apre questo Golden Boy, un pezzo dove si apprezza anche il lavoro degli ottimi musicisti che lo accompagnano (i Workers sembrano andati in pensione): Joanna Miller alla batteria, Gilles Fournier al contrabbasso, Jeremy Rusu ad un saltellante piano (ma quando serve anche al clarinetto, mandolino e fisarmonica), Jay Jason Nowicki, da Winnipeg, degli ottimi Perpetrators, alla chitarra elettrica, le voluttuose e grintose voci di Jolene Higgins (detta anche Little Miss Higgins) e di Sol James, che in questo brano fanno tanto Merry Clayton negli Stones, e ancora Don Zueff al violino e Scott Nolan, che suona tutto quello che serve, anche la batteria.

Se tutto fosse al livello di questo primo brano, con slide, piano, chitarre e voci femminili che impazzano, si potrebbe quasi gridare al miracolo. Ma anche il resto del disco, meno esplosivo, è comunque assai valido: dal blues primigenio di You’re Going To Need Somebody On Your Bond, dal repertorio di Blind Willie Johnson, solo voce e l’acustica con bottleneck di Watermelon, passando per Wbcn, una scura e raffinata ballata blues, dove Fournier si adopera al contrabbasso con l’archetto, Rusu è sempre eccellente al piano, il ritmo marziale e l’atmosfera del brano ricordano quasi una sea shanty cadenzata, con le chitarre che forniscono la coloritura del suono. Wolf Cry è una sorta di canto nativo indiano, una slide elettrica tangenziale, ululati di lupi e percussioni impazzite che si innestano su uno sgangherato e cattivo blues. Barrett’s Privateers in Canada viene considerato una sorta di inno nazionale non ufficiale (un brano di Stan Rogers, lo scomparso fratello di Garnet), un’altra sea shanty, eseguita solo per voci, in stile quasi gospel folk a cappella, e che fa molto Pogues o Dubliners. Mean Streets ritorna al blues minimale tipico di Watermelon Slim, con l’aggiunta dell’armonica di Big Dave McLean a darle ulteriore autenticità nel suo racconto della vita dei senza tetto, mentre in Northern Blues il musicista americano si accompagna solo con la National in modalità bottleneck per un altro tuffo nelle 12 battute del profondo Sud.. Scott Nolan ha scritto Cabbage Town, che era il nome della città nei pressi di Toronto dove venivano accolti gli immigranti dall’Irlanda, e si tratta di una delicata ballata quasi waitsiana, a tempo di valzer, deliziosa, à la Deportee, con Slim impegnato all’armonica. Winners Of Us All è un’altra malinconica ballata pianistica, quasi da crooner, con il clarinetto a dargli un tocco jazzato. Chiude le danze il brano più lungo del disco, Dark Genius, che ci riporta al blues-rock delle radici sempre presente nel DNA di Watermelon Slim, un pezzo sospeso tra passato e presente, di grande fascino, che racconta le vicende di JFK.

Bruno Conti

Tanto Per Gradire, Un Altro Bel Tributo, Anche Da Parte Dei Nomi Meno “Sicuri”. Gentle Giants: The Songs Of Don Williams

gentle giants the songs of don williams

Various Artists – Gentle Giants: The Songs Of Don Williams – Slate Creek CD

Don Williams, cantautore texano in attività come solista dal 1971 (ma precedentemente membro dei Pozo-Seco Singers), è stato sempre considerato un personaggio di secondo piano, anche se nella sua lunga carriera i successi non sono certo mancati. Depositario di uno stile pacato e raffinato decisamente in contrasto con il suo imponente aspetto fisico (da cui il soprannome The Gentle Giant, niente a che vedere dunque con il gruppo prog britannico), Williams viene spesso dimenticato quando vengono stilate le classifiche dei grandi della country music, anche se lui c’è sempre stato, ha sempre fatto la sua musica senza rompere le scatole a nessuno, e si è ritagliato uno zoccolo duro di fans che non lo ha mai abbandonato: proprio lo scorso anno, su queste pagine virtuali, ho recensito il suo ultimo lavoro, un album dal vivo intitolato Don Williams In Ireland, nel quale il vecchio texano passava in rassegna con il suo tipico approccio tranquillo il meglio del suo repertorio http://discoclub.myblog.it/2016/06/18/bella-opportunita-chi-lo-conoscesse-don-williams-ireland-the-gentle-giant-concert/ . Ora Don viene finalmente omaggiato da una bella schiera di colleghi, in questo ottimo Gentle Giants: The Songs Of Don Williams, un tributo fatto con grande amore e rispetto e pubblicato in collaborazione con la nota associazione benefica MusiCares (proprio quella che ogni anno omaggia un big della musica con un grande concerto-tributo, quest’anno è toccato a Tom Petty), che si occupa di fornire assistenza sanitaria gratuita ai musicisti che hanno bisogno di cure e non possono pagarsele da soli (non avendo tutti il conto in banca di un Paul McCartney o di un Bruce Springsteen).

Un gran bel dischetto quindi, con interpretazioni molto rispettose degli originali, con dentro veri e propri fuoriclasse, qualche outsider e perfino due-tre nomi che di solito sono da evitare come la peste, ma che qui si dimenticano di essere delle superstars e fanno semplicemente i musicisti. Williams è anche un cantautore molto particolare, nel senso che non è che nel corso della propria carriera le sue canzoni le abbia scritte proprio tutte lui, anzi di quelle più note forse neppure una, ragione per la quale degli undici brani scelti per questo tributo nessuno porta la firma di Don. Il disco è prodotto, tranne in qualche caso, da Gary Fundis, ed oltre agli artisti coinvolti troviamo in session davvero tanti nomi molto noti, come Colin Linden (songwriter canadese e membro dei Blackie & The Rodeo Kings), Glenn Worf, Mickey Raphael, Fred Eltringham, Bryan Sutton, Sam Bush, Jerry Douglas, Dan Dugmore e Lee Roy Parnell, altro ottimo chitarrista e musicista per suo conto. Si parte molto bene con la famosa Tulsa Time, brano scritto da Danny Flowers e noto maggiormente nella versione di Eric Clapton: qui troviamo riunite per l’occasione le Pistol Annies (Miranda Lambert, Ashley Monroe ed Angaleena Presley) in una splendida rilettura country-rock piena di ritmo, grinta e passione ed un mood coinvolgente e molto texano, un inizio scintillante. La brava Brandy Clark ci regala una I Believe In You molto ben fatta, una ballata suonata in modo classico e dal motivo decisamente melodico, una versione di classe; quando ho letto che nel disco c’erano anche i solitamente pessimi Lady Antebellum ho pensato “ma che ca…spiterina c’entrano?”, ma il trio country-pop fortunatamente si contiene e rilascia una We’ve Got A Good Fire Goin’ di buon livello, cantata bene e suonata con gli strumenti giusti, con un leggero accompagnamento d’archi che non guasta, mentre Dierks Bentley, che quando vuole è bravo, convince con un bel arrangiamento elettroacustico della vivace honky-tonk song Some Broken Hearts Never Mend (e poi la voce c’è).

A proposito di grandi voci, ecco l’ottimo Chris Stapleton, in compagnia della moglie Morgane, alle prese con la celebre Amanda (brano di Bob McDill e portato al successo anche da Waylon Jennings), in una intensissima rilettura dal vivo, con pochi strumenti ma tanto pathos, e voce di Chris davvero strepitosa. Sempre parlando di ugole d’oro, ecco Alison Krauss con una dolce e toccante Till The Rivers All Run Dry, bellissimo slow pianistico che avrebbe ben figurato anche nell’ultimo album della bionda cantante e violinista; splendida Love Is On A Roll, squisita country ballad scritta nel 1983 da John Prine e Roger Cook appositamente per Williams, che qui viene riproposta in duetto proprio dai due autori: Prine mostra di essere in grande forma, facendomi sperare in un suo nuovo disco di brani originali al più presto. La coppia formata da Jason Isbell ed Amanda Shires (anche nella vita) ci delizia con una cristallina If I Needed You, prodotta da Dave Cobb (e ci mancava…); Trisha Yearwood, un’altra che non sempre è garanzia di qualità, ci dona invece una Maggie’s Dream molto misurata e di buona intensità (e la voce non si discute), mentre il bravissimo Keb’ Mo’ dimentica per un momento di essere un bluesman e con la saltellante e solare Lord I Hope This Day Is Good ci regala una delle migliori performance del disco, in puro country style. Quando ho letto che l’album era chiuso da Garth Brooks,  il re indiscusso del country commerciale (e marito della Yearwood), ho avuto paura, ma fortunatamente Garth non è uno stupido e sa quando è il momento di fare musica seriamente, e la sua Good Ole Boys Like Me, pianistica e vibrante, è di ottimo livello.

Un plauso agli artisti coinvolti ed alla MusiCares per questo sentito omaggio all’arte di Don Williams, un disco che mi sento di consigliare senza remore, anche perché il ricavato verrà speso per una buona causa.

Marco Verdi

Fortunatamente Non Si Sono Persi Per Strada! Anteprima Fleet Foxes – Crack-Up

fleet foxes crack-up

Fleet Foxes – Crack-Up – Nonesuch/Warner CD

A ben sei anni dal loro secondo album Helplessness Blues, uno dei dischi più sorprendenti e creativi del 2011, si rifanno vivi i Fleet Foxes, band di Seattle guidata da Robin Pecknold, carismatico musicista dalla personalità debordante, con un lavoro nuovo di zecca, intitolato Crack-Up (esce il 16 Giugno, questa recensione è in anteprima assoluta). Helplessness Blues aveva positivamente stupito per il suo contenuto, una serie di brani di ispirazione folk, ma con copiose dosi di rock, progressive ed un tocco di psichedelia, caratterizzati da complesse armonie vocali che rimandavano allo stile classico di Crosby, Stills & Nash: Pecknold è un leader vulcanico, una sorta di hippy fuori tempo (un po’ come Alex Ebert degli Edward Sharpe & The Magnetic Zeros o, se ve lo ricordate, Michael Glabicki dei Rusted Root), ed i suoi compagni di viaggio, tutti validi polistrumentisti (Skyler Skjelset, Carey Wescott, Morgan Henderson e Christian Wargo) sono il gruppo perfetto per la sua musica sognante, eterea, di chiara derivazione californiana, ma la California dei primi anni settanta, quando si credeva ancora che con la musica si potesse cambiare il mondo ed il Laurel Canyon era il centro nevralgico e cool di quei tempi. Dopo sei anni di silenzio assoluto temevo però una delusione, oppure un cambio netto di direzione verso sonorità più commerciali, un po’ la fine che hanno fatto di recente gruppi come Mumford & Sons, Arcade Fire, Needtobreathe e Low Anthem: fortunatamente Crack-Up continua il discorso intrapreso con il disco precedente, con le medesime atmosfere, lo stesso tipo di canzoni molto creative e personali caratterizzate da un gusto spiccato per la melodia e con ripetuti cambi di ritmo anche all’interno dello stesso brano, e lo stesso suono evocativo di un’epoca irripetibile della storia della nostra musica.

Se proprio vogliamo, rispetto a Helplessness Blues qui manca l’effetto sorpresa, i brani sono strutturati allo stesso modo, quasi Crack-Up fosse il secondo volume del medesimo progetto, anche se nel disco di sei anni fa mi sembra che le sonorità fossero più solari, mentre qui il mood è più intimo, riflessivo, quasi cupo in certi momenti: ma la cosa importante è che il livello delle composizioni e del suono sia sempre alto, e che i nostri non abbiano perso la via maestra. Quando poc’anzi ho detto che Crack-Up continua il discorso del disco precedente, intendevo proprio alla lettera, in quanto le prime note del brano iniziale, I Am All That I Need/Arroyo Seco/Thumbprint Scar, sono le stesse con le quali si chiudeva Grown Ocean, l’ultimo pezzo di Helplessness Blues (i ragazzi un po’ bizzarri lo sono…): il pezzo comincia in maniera straniante, con Pecknold che canta come se si fosse appena svegliato (o si fosse appena fatto una canna, più probabile…), poi entra una chitarra strimpellata con grande forza, il ritmo cresce e le voci intonano un motivo molto CSN (più dalle parti di David Crosby), ma con elementi quasi psichedelici, un brano un tantino ostico ed un po’ ripetitivo nonostante i cambi di ritmo e melodia, ma di certo non banale. Cassius parte ancora piano, ma qui le tipiche armonie della band entrano subito ed il brano si trasforma in una folk song bucolica, ma senza rinunciare alle atmosfere oniriche che collocano il pezzo proprio nel bel mezzo della California post-Summer of Love: bello il finale strumentale che confluisce nella gradevole Naiads, Cassidies, una ballata senza stranezze di sorta, nobilitata dalle solite ottime voci ed un mood evocativo e rilassato, uno stile quasi cinematografico; Kept Woman inizia come un lento alla Crosby, dagli accordi pianistici, al timbro di voce alla melodia, un brano affascinante e di grande intensità, un pezzo che potrebbe benissimo essere una outtake del mitico If I Could Only Remember My Name.

Molto bella la lunga, quasi nove minuti, Third Of May/Odaigahara, un folk-rock energico anche se con strumentazione acustica al 90%, un motivo godibile e lineare dove non mancano i soliti cambi di ritmo e melodia che sono un po’ il trademark del gruppo. Con If You Need To, Keep Time On Me siamo invece dalle parti di Neil Young, una ballad acustica e con un bell’uso del piano, con una certa malinconia di fondo ma anche feeling a profusione; Mearcstapa (titoli normali pochi) ricicla un po’ le stesse sonorità, con qualche rimando ai Pink Floyd bucolici di dischi come More e Obscured By Clouds: il disco si conferma in generale più cupo ed un po’ meno immediato del suo predecessore, ma non per questo meno interessante. La pianistica On Another Ocean è ancora sospesa e sognante (ma a metà diventa una rock song pura, ed anche bella), Fool’s Errand è folk-prog al 100%, ritmo alto, tappeto strumentale suggestivo e voci perfette, I Should See Memphis è interiore ed un pochino più involuta delle precedenti; il CD si chiude con la title track, anch’essa lunga, fluida, leggermente psichedelica ed impreziosita da un corno in sottofondo. Crack-Up è quindi un buon disco, che si lega a doppio filo con il lavoro che lo ha preceduto, anche se dopo sei anni forse le aspettative erano più alte (ma, come ho già detto, c’era anche il rischio-ciofeca): diciamo che il prossimo album sarà forse il più difficile per i Fleet Foxes, in quanto questa formula probabilmente non potrà reggere in eterno.

Marco Verdi

It Was (Really) Fifty Years Ago Today, Ovvero, Erano Giusto 50 Anni Fa, Oggi! The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

 

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The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band – Parlophone/EMI CD – Deluxe 2CD – 2 LP – Super Deluxe 4CD/DVD/BluRay

I Beatles, forse il gruppo più popolare di tutti i tempi, sono sempre stati decisamente avari nell’aprire i loro archivi dopo la separazione avvenuta nel 1970: a parte il Live At The Hollywood Bowl uscito negli anni settanta e ristampato lo scorso anno, e soprattutto i tre volumi dell’Anthology pubblicati a metà anni novanta, ai fans è sempre stata offerta la solita, peraltro ottima, sbobba, comprese le tanto strombazzate ristampe rimasterizzate del 2009 di tutta la discografia degli Scarafaggi, che non aggiungevano neppure trenta secondi di musica inedita. Quest’anno la svolta: per il cinquantenario dell’album più famoso dei Fab Four (uscito proprio il primo Giugno del 1967, cinquant’anni precisi precisi, ma il disco è nei negozi dal 26 maggio), cioè il leggendario Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (per molti è anche il loro migliore, io preferisco il White Album ma comunque sempre di dischi da cinque stelle stiamo parlando), i superstiti Paul McCartney e Ringo Starr, insieme agli eredi degli scomparsi John Lennon e George Harrison, hanno acconsentito ad aprire il magico scrigno delle sessions di quell’album epocale, affidandone la cura a Giles Martin, figlio di George, il celebre produttore dei quattro ragazzi di Liverpool: il risultato è la solita pletora di edizioni diverse, a partire da quella singola e fondamentalmente inutile se lo possedete già (anche se le tracce sono state remixate, ma non rimasterizzate, per quello andava già benissimo il lavoro fatto nel 2009), una doppia interessante con un secondo CD di versioni alternate, e soprattutto un imperdibile cofanetto con quattro CD, un DVD, un Blu*Ray (con lo stesso contenuto del DVD) ed uno splendido libro.

Data l’importanza sia musicale che culturale del disco, questo sarà il primo post “condiviso” della storia del blog: io introdurrò brevemente il disco originale e la sua storia, mentre Bruno vi parlerà nel dettaglio del contenuto del cofanetto quadruplo. L’idea dell’album del 1967 venne a McCartney (che peraltro vuole la leggenda fosse già “morto” il 9 novembre del 1966, sostituito da Billy Shears!!), che voleva una sorta di concept basato sui ricordi adolescenziali di Liverpool dei quattro, ma ben presto il soggetto si tramutò in quello di una serie di canzoni suonate da una band fittizia dell’epoca vittoriana, appunto la Band Dei Cuori Solitari Del Sergente Pepper, legate solo apparentemente da un filo conduttore: il disco è considerato l’apice creativo dei Fab Four, in quanto contiene una serie di gioiellini pop che rasentano la perfezione, con un accenno appena sfiorato di psichedelia (ma proprio all’acqua di rose), e con la figura di George Martin sempre più fondamentale nell’economia del gruppo, da grande arrangiatore quale era, ma anche abile “traduttore” in pratica delle folli idee dei quattro, una caratteristica che era già risaltata l’anno prima nell’altrettanto geniale (e splendido) Revolver. Il disco fu anche il primo dei Beatles senza un singolo portante: nelle stesse sessions, quasi su imposizione della casa discografica, furono incise anche diverse takes sia di Strawberry Field Forever (forse il miglior brano di Lennon all’interno del gruppo) che di Penny Lane, sessions incluse tra l’altro nel cofanetto: i quattro giudicarono però i due brani un po’ fuori contesto rispetto al resto dell’album e quindi li pubblicarono a parte, con il risultato di avere forse il miglior singolo della loro carriera.

Tutto in Sgt. Pepper è perfetto, dall’iconica ed imitatissima copertina ad opera di Peter Blake (e nella quale verranno trovati oscuri messaggi riguardanti la citata e presunta morte di Paul), alle variopinte giacche utilizzate dai Fab Four, ma soprattutto le tredici tracce del disco, capolavori assoluti di pop e con i tipici nonsense lirici dei quattro. Tutto è imperdibile, dall’introduzione finto-live della title track, poi ripresa nel finale, all’irresistibile singalong affidato a Ringo With A Little Help From My Friends, alla psichedelia leggera di Lucy In The Sky With Diamonds, ai bozzetti molto British e tipicamente McCartney di Fixing A Hole, Getting Better, She’s Leaving Home e Lovely Rita (ai quali partecipa anche Lennon con la bucolica e festosa Godd Morning, Good Morning), mentre ho sempre considerato lo spazio affidato a Harrison, Within You Without You, influenzata pesantemente dalla musica indiana ed a mio parere un po’ soporifera e fuori contesto, come il punto debole del disco. I brani che non ho ancora citato sono quelli che da sempre preferisco (ma non è che gli altri non mi piacciono, diciamo che questi sono da dieci e lode), cioè la squisita When I’m Sixty-Four, dal delizioso sapore vaudeville, la divertente ma geniale Being For The Benefit Of Mr. Kite!, ispirata a Lennon da un vero numero da circo di più di un secolo prima, e soprattutto la monumentale A Day In The Life, una eccezionale sinfonia pop di cinque minuti, risultato della fusione di due diverse canzoni di John e Paul, con un grande contributo di Martin ed un finale orchestrale in crescendo che ancora oggi fa venire i brividi. Dopo Sgt. Pepper i Beatles faranno altri grandi dischi (basti pensare all’Album Bianco e ad Abbey Road), ma qualcosa nel rapporto fra i quattro comincerà ad incrinarsi, complice anche la morte improvvisa del loro manager Brian Epstein che li priverà di una guida fino a quel momento indispensabile: ma questa è un’altra storia.

Ed ora, come già detto, la parola passa a Bruno.

Marco Verdi

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Il 1° Giugno del 1967 era un giovedì, come pure quest’anno, ed Inghilterra usciva Sgt. Pepper’s  nei negozi. Due o tre giorni dopo, un ragazzino che ancora oggi vedo tutte le mattine davanti allo specchio (celebrato già all’epoca, a futura memoria, nel titolo di una canzone, When I’m Sixty Four, contenuta nell’album), la domenica mattina (poiché gli altri giorni si andava a scuola si ascoltava nei giorni festivi) si sintonizza su Radio Uno della RAI, credo allora ci fosse solo quella, dove viene tramesso in anteprima, tutto completo, il suddetto Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ebbene sì, in una trasmissione condotta, mi pare da Adriano Mazzoletti, ma erano altri tempi, in cui le radio trasmettevano gli album interi: poi lunedì mi recai, perché ovviamente ero io, in un negozio per acquistarlo, mentre il mondo dei Beatles, che già frequentavo (ma anche quello degli Stones, di Dylan, di Hendrix e di  mille altri, ero un ascoltatore precoce), si allargò a dismisura per assumere contorni quasi “epocali”. Cinquanta anni dopo, anzi qualche giorno meno, visto che la nuova edizione è uscita il 26 maggio, finalmente un album del gruppo riceve il trattamento Deluxe, che ora andiamo ad esaminare nel dettaglio.

Intanto la confezione del box sestuplo è molto bella; formato tunnel (in termine tecnico discografico), vuol dire che si sfila la copertina del cofanetto, all’interno troviamo quello che a prima vista appare il vecchio LP, ma in effetti è il contenitore che riporta, allocati in apposite tasche, i quattro CD, il DVD e il Blu-ray. Poi il manifesto del disco, quello del Pablo Fanque’s Circus Royal con l’ultima serata dedicata a Mr. Kite, il cartoncino ritagliabile del Sergente Pepper e un bel librettone ricco anche di immagini rare ed inedite. Il tutto esce su etichetta Apple/Universal ma i dischi (rimixati non rimasterizzati) riportano rigorosamente l’etichetta Parlophone/EMI e nella confezione sul retro del “disco” sono riportati, come in origine, i testi (che ai tempi, nel nostro stentato inglese, ci permisero di sapere che i turnstiles, erano i “tornichetti” della metropolitana e che l’handkerchief era il “fazzoletto”). Detto che il disco, descritto sopra, ha un suono splendido: il dancing bass di Paul, la batteria di Ringo, le chitarre di George, John (e Paul), la produzione magnifica di George Martin e tutto il resto, oltre alle voci, sembrano balzare fuori dagli speakers, veniamo ai contenuti extra. Prima i due CD delle “Sgt. Pepper, Session”.

Disc 2

Strawberry Fields Forever – Take 1

Strawberry Fields Forever – Take 4

Strawberry Fields Forever – Take 7

Strawberry Fields Forever – Take 26

Strawberry Fields Forever – Stereo/Giles Martin Mix

When I’m Sixty-Four

Penny Lane – Take 6

Penny Lane – Vocal Overdubs and Speech

Penny Lane – Stereo / Giles Martin Mix 2017

A Day In The Life – Take 1

A Day In The Life – Take 2

A Day In The Life – Orchestra Overdub

A Day In The Life – Hummed Last Chord

A Day In The Life – The Last Chord

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – Take 1

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – Take 9

Good Morning Good Morning – Take 1

Good Morning Good Morning – Take 8

Si parte con ben quattro diverse takes di Strawberry Fields Forever che tracciano la storia di una delle canzoni più belle di sempre dei Beatles, e che inserita nell’album (con Penny Lane) lo avrebbe reso ancora più epocale di quanto è stato nella storia della musica moderna. La prima take arriva alla fine di novembre 1966 (pochi giorni dopo la morte di Paul, scusate se insisto), solo i quattro Beatles, basso, batteria, la voce solista di John e la sua chitarra ritmica, la chitarra slide di George e quelle armonie celestiali. La Take 4 introduce il sound del mellotron, la voce filtrata e sognante di Lennon, il grande lavoro di Ringo alla batteria e di Paul al basso, mentre la take 7 si avvicina molto a quella che sarà la versione pubblicata della canzone, con la take 26 che invece ci regala una versione completamente diversa, nettamente più veloce, con una intro assai diversa, la batteria impazzita e gli effetti sonori che si impadroniscono del tessuto sonoro della seconda parte del brano, tra fiati, chitarre e tastiere “trattate”. Tutta roba già sentita sugli innumerevoli bootlegs dedicati negli anni ai Beatles, ma mai così bene. Infine per concludere la sequenza il nuovo mix stereo di Giles Martin del 2015, una vera meraviglia sonora della prima psichedelia. A seguire la Take 2 di When I’m Sixty Four (il pezzo dedicato al sottoscritto), abbastanza diversa dall’originale, senza fiati e con un basso super funky di Paul, e con il piano che è l’altro protagonista principale del pezzo, mentre non ci sono ancora i coretti degli altri Beatles.

Poi tocca a Penny Lane, take 6 strumentale, affascinante, dove mi sembra di cogliere brillanti accenni musicali che poi verranno sviluppati in Magical Mystery Tour e più in là ancora nel tempo in Abbey Road, e che danno un’idea di come dovesse essere in quella fucina di idee che erano gli studi di Abbey Road ai tempi dei Beatles. Più per “anally retentive”, come dicono gli inglesi, la parte dedicata solo a sovraincisioni vocali e discorsi in studio, ma poi la versione Stereo Mix del 2017 è veramente superba. A questo punto parte la sequenza dedicata alla più bella canzone mai scritta dai Beatles, A Day In The Life, uno dei loro splendidi esempi di una canzone formata da più canzoni, uno strato dopo l’altro, con Lennon e McCartney che si completano a vicenda (al sottoscritto un altro brano che piace da impazzire, costruito con questo approccio, è Happinees Is A Warm Gun). Si capisce subito che il brano è un capolavoro sin dalla take 1, solo la voce con eco di John, il piano e una chitarra acustica, ma c’è già lo spazio per inserire la parte scritta da Paul, e pure la take 2 è splendida, acustica ed intima, ma con le stimmate del brano complesso che diverrà, per esempio la melodia complessa e ritmica del piano, il suono delle sveglie che i loro vicino di studio a Abbey Road sublimeranno qualche anno dopo in Dark Side Of The Moon. Gli overdub dell’orchestra, l’accordo finale vocale canticchiato, che sentito da solo sembra un mantra tibetano, e i presenti che si divertono a chiamare takes a capocchia e anche l’ultimo accordo provato svariate volte al piano, fanno parte del fascino di questo ”dietro le quinte”. La prima versione strumentale di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band la canzone, sembra quasi un pezzo a tutto riff dei Kinks, perché i gruppi dell’epoca ascoltavano quello che facevano i loro colleghi, mentre la take 9, cantata, è un gran bel pezzo rock, e si capisce perché Jimi Hendrix, quando la sentì, come tutti gli altri, al 1° giugno, decise di rifarla dal vivo, a modo suo, cioè splendido, solo tre giorni dopo al Saville Theatre, di fronte a degli sbalorditi George Harrison e Paul McCartney. Beatles rockers anche nelle due takes presenti di Good Morning Good Morning, la prima solo un frammento per inquadrare il groove della batteria, la seconda “cruda”, senza tutti gli effetti sonori e gli assolo che saranno aggiunti alla versione definitiva.

Disc 3:

Fixing A Hole – Take 1

Fixing A Hole – Speech And Take 3

Being For The Benefit Of Mr. Kite!

Being For The Benefit Of Mr. Kite! – Take 7

Lovely Rita – Speech and Take 9

Lucy In The Sky With Diamonds – Take 1 And Speech

Lucy In The Sky With Diamonds – Speech

Getting Better – Take 1

Getting Better – Take 12

Within You Without You – Take 1

Within You Without You – George Coaching The Musicians

She’s Leaving Home – Take 1

She’s Leaving Home – Take 6

With A Little Help From My Friends – Take 1

Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band (Reprise) Speech and Take 8

Il disco tre, solo nel cofanetto, contiene altre versioni alternative e prove di studio. Si parte con la Take 1 di Fixing A Hole, che, a differenza del resto dell’album, fu registrata ai Regent Sound Studios di Londra il 9 Febbraio del 1967, perché in quella occasione gli studi di Abbey Road non erano disponibili: un pezzo di Paul McCartney, con la voce double-tracked, e la presenza di George Martin al clavicembalo, il classico walking bass di Paul, mentre in questa versione mancano i coretti degli altri Beatles, assenti anche nella Take 3, preceduta da un breve dialogo, come manca anche il tagliente solo di chitarra di Harrison, presente nella versione pubblicata. Martin passa a harmonium, glockenspiel e organo per Being For The Benefit Of Mr.Kite, il brano circense a tempo di valzer scritto da John Lennon, anche in questo caso, nella Take 1, mancano tutti gli elementi aggiuntivi, i florilegi di armoniche a bocca e la chitarra backwards di George, di nuovo assenti anche nella versione n.7. Diciamo che fino ad ora il disco 3 è quello meno interessante come materiale contenuto. Più compiuta, forse perché è già la take 9, la versione di Lovely Rita, con le chitarre acustiche e il piano in evidenza, ma non il basso di Paul, anche qui mancano tutti gli elementi “decorativi” tipici, fondamentali nelle canzoni dei quattro di Liverpool. Lucy In The Sky With Diamonds, ispirata da un disegno di Julian, il figlio di John, nella take 1, non è ancora quel piccolo gioiellino della psichedelia che sarebbe diventata, ma gli elementi sognanti e i cambi di tempo sono già presenti, mentre la Take 5, con tanto di falsa partenza e John sull’orlo di una crisi di ridarella, come spesso succedeva ai tempi felici, poi nella versione definitiva diventerà uno dei migliori contributi di John Lennon all’album.

Getting Better, fin dal titolo, è uno dei classici pezzi ottimistici di McCartney, che suona il piano elettrico, e si esibisce in uno dei suoi classici esempi di fusione tra rock e errebì “bianco”, la prima take è strumentale, mentre la numero 12 è molto simile all’originale, sempre strumentale, ma con il tampura, l’altro strumento suonato da Harrison in evidenza, e la sezione ritmica di Paul e Ringo molto indaffarata. A proposito di strumenti indiani, l’unico contributo di George Harrison all’album è Within You Without You, posta nel long playing originale all’inizio della seconda facciata, per non spezzare la soluzione quasi da concept album del resto del disco. Anche in questo caso troviamo la Take 1 solo strumentale, con George al sitar, accompagnato da musicisti indiani non accreditati, mentre a seguire troviamo Harrison che insegna ai musicisti stessi le loro parti su una traccia vocale; diciamo non indispensabile, per essere magnanini, o una mezza palla, per essere onesti. Anche She’s Leaving Home appare in due diverse versioni strumentali, ed è un peccato, perché la parte cantata con la storia di Melanie Coe, era uno degli highlight dell’album, comunque la melodia è deliziosa, Sheila Bromberg all’arpa, è la prima donna a venire impiegata in un brano dei Beatles, e l’arrangiamento degli archi è raffinatissimo. With A Liitle Help From My Friends è il contributo di Ringo Starr al LP, ma anche in questo caso non si nota, perché si tratta dell’ennesima versione strumentale, e comunque la canzone diventerà uno degli inni della musica rock nella versione fantastica che ne farà Joe Cocker l’anno successivo, tutta un’altra canzone. Il CD finisce con la take 8 di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club (Reprise), la ripresa in chiave più rock del brano di apertura con McCartney alla chitarra solista.

Il disco 4 del cofanetto contiene l’album completo in versione Mono, come dovrebbe essere ascoltato secondo i puristi (ma io lo preferisco in stereo) e come bonus alcuni differenti mono mix di Strawberry Fields Forever, Penny Lane, A Day In The Life, il primo mixaggio mono, inedito, come pure quello di Lucy In The Sky With Diamonds e She’s Leaving Home, mentre in coda di tutto troviamo la versione mono pubblicata su un Promo americano di Penny Lane. Tutte leggermente differenti dagli originali. Come ricorda il titolo del Post, in questi giorni è uscito, prima al cinema, e poi in doppio DVD, un documentario di Alan G. Parker, intitolato It Was Fifty Years Ago Today, che traccia in modo approfondito, e anche interessante, la storia dell’album, ma, perché c’è un ma, e pure grosso, non c’è neppure un secondo di musica dei Beatles nel film (e neppure nella quattro ore e mezza di extra nella versione DVD, che peraltro comprende interviste con Lennon, materiale dagli archivi di Ringo e altre chicche assortite), a causa del veto della casa discografica che non ha concesso i diritti per la musica. A questo punto viene molto utile il DVD ( e il Blu-Ray, ma perché ormai vanno sempre in coppia in queste versioni Super Deluxe, visto che il materiale è lo stesso?): si tratta di un documentario realizzato nel 1992 per la Apple, The Making Of Sgt. Pepper, circa 50 minuti molto interessanti con interviste a George Martin che è “l’host” del film, ma anche con Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr e materiale d’archivio di John Lennon. Più i video promozionali, girati nel 1967, di A Day In The Life, Strawberry Fields Forever e Penny Lane, e, dedicate agli audiofili, versioni Hi-Res 5.1 Remix e Hi-Res Stereo Remix dell’album. Ci sarà pure un motivo se Sgt. Pepper è ancora al n.°1 nella lista dei 500 album più grandi della storia della rivista Rolling Stone, e Pet Sounds dei Beach Boys, il disco che lo ha “ispirato”, è al n° 2. Ok, se prendete la lista del NME del 2013, è al n° 87 (?!?), ma quella è una lista per “super giovani”, dove vince The Queen Is The Dead degli Smiths, al 4° ci sono gli Strokes, ma per favore, e nella classifica altre “schiccherie” orride ed incomprensibili, della serie lasciateci perdere siamo inglesi! Comunque visto che anche i Beatles sono inglesi, se non al primo posto, nei primi dieci dischi di sempre questo album ci sta di sicuro. Sono sicuro che Bob Dylan, in alto a destra, e Sonny Liston, in basso a sinistra, ma anche tutti gli altri sulla copertina, avrebbero approvato. Forse Revolver, Rubber Soul, il White Album Abbey Road, scegliete il vostro preferito, sono superiori come album, ma Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band ha segnato un’era e questo cofanetto ne è il degno testimone!

Bruno Conti