Un Fulmine A Ciel Sereno! The White Buffalo – Shadows, Greys & Evil Ways

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The White BuffaloShadows, Greys & Evil Ways – Unison Music CD

Dopo aver ricevuto critiche più che lusinghiere lo scorso anno per l’ottimo Once Upon A Time In The West, i White Buffalo, ovvero la creatura di Jake Smith (con Matt Lynott e Tommy Andrews), ritornano a distanza di appena un anno con un lavoro ancora più ambizioso.

Shadows, Greys & Evil Ways è un disco molto bello, che a poche settimane dalla sua uscita ha già attirato l’attenzione delle testate più prestigiose (Entertainment Weekly ed il Wall Street Journal ne hanno parlato in maniera entusiastica), ed è l’album che dovrebbe consacrare definitivamente Smith come uno dei maggiori talenti degli ultimi anni.

Shadows, Greys & Evil Ways è un concept album, nel quale, in poco meno di quaranta intensissimi minuti, Jake e soci raccontano la storia di Joey White, un uomo comune, un personaggio come tanti che, tornato dalla guerra, cerca di riprendere la vita normale e di riallacciare i rapporti con l’amata Jolene, ma si rende presto conto che il mondo è cambiato e che ricominciare la vita di prima è tutt’altro che semplice. Una storia come tante, che però fornisce a Smith il pretesto per consegnarci un disco di grande spessore, dove la sua bravura come scrittore si unisce alla sua sensibilità musicale: un perfetto esempio di puro cantautorato in stile Americana, con elementi country, rock, folk e blues fusi insieme alla perfezione, il tutto suonato alla grande (fra i sessionmen troviamo anche Rick Shea ed il leggendario batterista Jim Keltner) e cantato benissimo dalla voce profonda di Jake. In alcuni momenti, nei brani meno rock, sembra quasi di aver a che fare con canzoni scritte da Guy Clark o Kris Kristofferson, e state certi che non sto esagerando. Tra l’altro Jake sembra proprio un texano doc: peccato che sia nato in Oregon e viva in California.

Si inizia alla grande con Shall We Go On, una ballata pianistica molto bella, passo lento, melodia profonda ed evocativa, con un toccante violino in sottofondo. Un avvio da manuale. The Getaway ha più o meno lo stesso arrangiamento, ma il tempo è quasi da valzer texano e l’atmosfera procura più di un brivido, grazie anche alla carismatica presenza vocale del leader.

When I’m Gone, più mossa ed elettrica, ha un testo molto diretto ed un suono solido e potente, mentre Joey White, nervosa e scattante, ha elementi blues e punti di contatto con il suono di Ray Wylie Hubbard: notevole la parte centrale, decisamente roccata. La breve 30 Days Back è molto triste e toccante, e prelude a The Whistler, che è uno degli highlights del CD: ballata western classica, lenta, intensa, con un crescendo assolutamente degno di nota. E’ in brani come questo che Smith dimostra di essere cresciuto a dismisura dai giorni dell’esordio di Hogtied Revisited.

Bella anche Set My Body Free, sempre di stampo western ed una melodia tra le meglio riuscite del lavoro; Redemption # 2, acustica e vibrante, è cantata con un trasporto quasi drammatico. La fluida This Year è un perfetto esempio di songwriting maturo, un altro dei brani di punta del disco; Fire Don’t Know sembra quasi uno slow alla Johnny Cash, mentre Joe And Jolene è diretta e sostenuta nel ritmo.

L’album giunge al termine con Don’t You Want It, orecchiabile ed ancora in odore di Texas, il breve strumentale per violino e contrabbasso # 13 e Pray To You Now, un’altra ballad di grande spessore, degna conclusione di un disco sorprendente.

Ascoltatelo, ne vale la pena.

Marco Verdi

*NDB Così, casualmente, a titolo informativo: questo è il Post n. 1500 del Blog. Per il momento si resiste, continuate a leggere e, se possibile, spargete la voce. Siamo un Blog di “Carbonari”, tra i 15 e i 20.000 contatti al mese, mentre l’utimo video di Miley Cyrus ha avuto più di 83 milioni di visualizzazioni in 4 giorni. Sarà più brava, ma…

Come diceva Gianni Minà, quando faceva una citazione ma non si ricordava di chi era, “come avrebbe detto qualcuno”: Rock On And Keep On Rolling!

Bruno Conti

A Proposito Di Nuovi Dylan, Thom Chacon!

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Thom Chacon – Thom Chacon Pie Records

Di recente su questo blog, in seguito ad un post dedicato a Dan Bern, si è aperto un piccolo dibattito riguardo ai cosiddetti “Nuovi Dylan”, un termine appioppato dalla critica musicale dai primi anni settanta ad ogni musicista che lasciava intravedere la benché minima influenza da parte del bardo di Duluth. Ebbene, Thom Chacon, cantautore originario del Colorado, potrebbe essere solo l’ultimo in ordine di tempo ad essere iscritto di diritto al club dei Nuovi Dylan, ma temo che questa catalogazione semplicistica non gli farebbe giustizia. Certo, non appena Thom apre bocca è impossibile non pensare al grande Bob, tanto il suo timbro è simile a quello dell’autore di Like A Rolling Stone (periodo giovanile, non certo il rantolo waitsiano di oggi), ma volendo andare più in profondità, lo stile si dimostra più variegato.

Molti brani hanno sicuramente una base folk, e quindi riconducibili direttamente a Dylan, ma in molti casi ho notato anche qualche elemento di John Prine e dello Springsteen più cantautorale (due autori comunque definiti anch’essi nuovi Dylan all’epoca) e perfino di Kris Kristofferson e, se vogliamo, Townes Van Zandt (che invece non sono mai appartenuti al club). Musica cantautorale quindi, ma con un quid di personalità che fa di questo Thom Chacon un lavoro pienamente riuscito e soddisfacente (Thom ha altri due dischi all’attivo, Live At Folsom Prison – dove ho già sentito questo titolo? – e Featherweight Fighter, entrambi però abbastanza introvabili), tra i migliori dischi di cantautorato giovane da me ascoltati ultimamente. Certo, a volte la somiglianza vocale con Dylan può essere un limite, in quanto può far pensare ad uno stile derivativo anche quando il suono è più personale, ma in definitiva a noi interessa ascoltare buona musica e quindi non starei troppo a spaccare il capello in quattro.

Un altro punto di contatto con Dylan è dato dal fatto che Thom utilizza la sezione ritmica che accompagna Bob on stage da anni, e cioè Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria (mentre gli altri musicisti, a me sconosciuti, rispondono ai nomi di Arlan Schierbaum, William Wittman e Peter Stuart Kohman, oltre al produttore Perry Margouleff), colorando con gusto e misura una serie di (ottime) ballate di base folk.

*NDB. Ogni tanto mi intrometto, in qualità di Blogger titolare. Arlan Schierbaum è il tastierista (ma suona anche la fisarmonica) nella band di Bonamassa, pure nell’ultimo live acustico, oltre ad essere presente negli ultimi dischi di Beth Hart e John Hiatt e Janiva Magness, quindi uno bravo, fine dell’intervento!

 

Il disco, 12 canzoni, dura all’incirca 35 minuti, e questo a mio giudizio è un altro punto a suo favore (i dischi troppo lunghi talvolta mi stancano).

Apre Innocent Man: passo cadenzato, armonica, voce dylaniana al 100% (periodo ‘63/’64), ma comunque una bella canzone. Ancora meglio American Dream, atmosfera quasi western, con uno stile che si divide tra Dylan e Prine: la strumentazione e parca (come in tutto il CD) ma di grande impatto emotivo. Juarez, Mexico, voce a parte, ha tutte le caratteristiche di una ballata texana di Kristofferson: la melodia, l’andamento dolente, l’arrangiamento scarno (voce, chitarra, basso e fisa) ed il modo di porgere il brano sono tipiche del barbuto cantautore di Brownsville. Non pensate però ad un disco derivativo e basta: le canzoni sono di prima qualità, e quelle sono farina del sacco di Chacon.

La splendida A Life Beyond Here ha un arrangiamento più rock ed un mood irresistibile, un brano scintillante che ha il difetto di durare troppo poco; la folkeggiante Chasing The Pain è tanto semplice quanto intensa, chitarra, voce, una spolveratina d’organo e tanto feeling; Alcohol è più elettrica e con un bel crescendo, ma tutto sommato un gradino sotto alle precedenti. Ain’t Gonna Take Us Alive è un brano più solare, un country-rock Dylan-meets-Prine, vibrante e dal refrain vincente; Big River (non è quella di Cash), è un folk-rock attendista ma cadenzato, con l’aiuto vocale di Bess Chacon (moglie? sorella?). Amy è molto bella, intensa, matura, mentre con No More Trouble torniamo in territori cari a Mr. Zimmerman; la deliziosa folk song Bus Drivin’ Blues porta alla conclusiva Grant County Side, un brano voce-chitarra-armonica scarna ma molto intensa, con uno script degno del Boss.

Bel dischetto: Thom Chacon non è solo uno dei tanti Nuovi Dylan, ma ha abbastanza talento e personalità per far parlare bene di sé anche in futuro.

Marco Verdi

Piccoli “Outlaws” Crescono! Richie Allbright – Kickin’ Down The Doors

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Richie Allbright – Kickin’ Down The Doors – Richie Allbright CD

Richie Allbright (da non confondere con il quasi omonimo Richie Albright, una elle di meno nel cognome, ex batterista di Waylon Jennings) è un ragazzone di Mathis, una piccola cittadina del South Texas, cresciuto a pane e Outlaws. Infatti (e qui il punto in comune con il suo quasi omonimo drummer) la sua musica risente molto dell’influenza del grande Waylon, ma anche di gente come Willie Nelson, Billy Joe Shaver e Merle Haggard (che texano non è, né il suo nome è mai stato direttamente associato al movimento Outlaw Country, ma in realtà avrebbe potuto benissimo esserlo, anche se forse un brano come Okie From Muskogee Waylon non lo avrebbe mai scritto).

Esordiente nel 2008 con If I’d Known Then, e titolare di un’attività live molto vivace tra Texas e stati limitrofi, ora Richie si rifà sotto con Kickin’ Down The Doors, un ottimo disco di puro country texano, che si ispira chiaramente ai suoi modelli. Certo, le sue canzoni possono sembrare derivative, in alcuni momenti pare di ascoltare qualche outtake dei vari Billy Joe, Willie e Waylon, ma quello di Allbright è chiaramente un atto d’amore verso una musica che purtroppo oggi fanno in pochi (mi viene in mente la Jackson Taylor Band). D’altronde Waylon ci ha lasciato da anni, Shaver sembra aver appeso la chitarra al chiodo, e Willie, l’unico ancora super attivo, ultimamente si è spostato verso un country più classico: ben vengano quindi dischi come questo, dove si respira ancora fresca l’aria di un periodo musicalmente irripetibile. Per questo album, Richie è entrato in studio con pochi amici (tra cui Jarrod Birmingham, a sua volta musicista in proprio, e Billy Joe High), ed ha messo a punto dieci brani che, se siete appassionati del genere, non mancheranno di allietare le vostre serate. Chitarre elettriche, ritmo sempre alto, voce perfetta (uno Shaver meno nasale), grinta e feeling a piene mani, oltre ad una sicura abilità nel songwriting.

Apre la title track, un perfetto rockin’ country, giusto a metà tra Shaver e Waylon, voce in palla e melodia fluida. La frizzante I Can’t Break The Habit ricalca gli stessi canoni, con ottimi interventi di pianoforte e chitarra ed un feeling particolare che solo un texano può avere. Where The Rainbow Hits The Ground è una delle migliori del CD: una splendida ballata dal classico suono outlaw, con echi di Kristofferson (un altro fuorilegge doc) nella melodia, un brano che non mi stupirei se entrasse a far parte del repertorio dello stesso Kristofferson o di Willie (più quest’ultimo, in quanto Kris non ama molto mettere canzoni di altri nei suoi dischi).

Con You Can’t Take Away My Music siamo ancora dalle parti di Waylon, ed il ritornello è semplicemente irresistibile: grande musica, non importa se derivativa. La pacata Down Her Memory Lane offer un momento di quiete, mentre con I’m Gonna Say I’m Sorry Now, chitarristica e ritmata, Richie si ributta nei territori a lui più cari; la pianistica e lenta I Don’t Need A Thing At All dimostra che anche i fuorilegge hanno un cuore: qui avrei visto bene un duetto con una voce femminile, ma non si può avere tutto. Boland And Birmingham, omaggio all’amico Jarrod ed a Jason Boland (un altro che sta dalla parte giusta) è Texas country al 100%, Gravedigger ha un marcato sapore western, mentre I Was Born This Way chiude l’album così come si era aperto, cioè con un saltellante brano alla Billy Joe Shaver.

Davvero una bella sorpresa questo Kickin’ Down The Doors: file under Outlaw Country.

Marco Verdi

Per La Serie: Il Nuovo Che Avanza! Kris Kristofferson – Feeling Mortal

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Kris Kristofferson – Feeling Mortal – KK/Proper CD

Il titolo di questo post è volutamente ironico, avrei potuto usarlo anche per le fatiche recenti di Bob Dylan, Ian Hunter, Paul Simon o Neil Young, tanto per citare artisti di cui mi sono occupato ultimamente: si sa che ormai (purtroppo, nel senso che il futuro non è certo il loro) per sentire della buona musica bisogna (quasi) sempre rivolgersi a gente che ha già passato i sessanta, se non addirittura i settanta. A dire il vero, il titolo che avevo pensato all’inizio era “Ancora Un Bel Disco…Ma C’è Da Toccarsi!”, dove con toccarsi intendevo proprio fare gli scongiuri, visto il titolo dell’album, la copertina e confezione interna un po’ tetri, uniti al fatto che i brani di Kris Kristofferson non vengono usati di solito per rallegrare le feste.

Feeling Mortal è il diciassettesimo album di studio per il grande cantautore/attore texano (esclusi quelli con l’ex moglie Rita Coolidge), un disco che prosegue con la positiva tendenza di rinascita artistica già manifestata con gli ultimi This Old Road e Closer To The Bone. C’è da dire che Kristofferson appartiene a quella ristretta cerchia di cantanti (termine che mi è sempre sembrato un po’ riduttivo) che non ha mai veramente sbagliato un disco, anche in momenti nei quali la sua popolarità era ai minimi termini (cioè gli anni ottanta e parte dei novanta, nei quali si manteneva recitando in diversi film, non sempre di qualità eccelsa), conservando sempre una certa integrità artistica, con sporadiche concessioni al mainstream, come il duetto con Barbra Streisand in Watch Closely Now per la colonna sonora di A Star Is Born.

Feeling Mortal è un album breve (poco più di mezz’ora), ma decisamente intenso: presenta dieci canzoni nel più tipico stile di Kris, con la sua grande voce in primo piano e pochi, dosati strumenti in sottofondo, il tutto nobilitato dalla produzione asciutta ed essenziale di Don Was (per la terza volta di fila) e dalla presenza di sessionman di lusso come Mark Goldenberg, Greg Leisz ed il grande pianista Matt Rollings, già nelle band di Lyle Lovett e Mark Knopfler ed ottimo produttore a sua volta (chiedere a Mary Chapin Carpenter).

Niente di nuovo, musica cantautorale/texana pura ed incontaminata, zero fronzoli e tanta intensità, chi ama il genere troverà di che allietarsi.

*(NDM: una curiosità: l’ordine dei brani riportato sul retro di copertina e sul foglietto interno non corrispondono, il giusto è quello esterno, ma controllare prima di pubblicare no?)

Il CD si apre con la title track, una ballata tipica, passo lento, voce profonda e melodia in primo piano: un ottimo inizio, un brano che ci rimanda direttamente alle migliori canzoni del nostro. Mama Stewart è ancora più lenta, Kris quasi sillaba le parole, ma il pathos che ci mette non è secondo a nessuno, e poi la voce, seppur invecchiata, è ancora vibrante. Bread For The Body è più tonica, una sorta di valzer elettrico venato di country, un brano nel quale si evidenziano le radici texane di Kris; You Don’t Tell Me What To Do, che vede Kris soffiare nell’armonica, è di nuovo lenta, con un passo quasi da marcia funebre (tanto per stare in allegria), anche se il mandolino e la voce vissuta dell’autore danno un po’ di luce.

La gradevole Stairway To The Bottom è un honky-tonk texano, un tipo di brani che se compri un disco di Kris ti danno di serie, mentre Just Suppose è una splendida country song cantata dal nostro con il cuore in mano, una bellissima melodia ed un arrangiamento scintillante, con Rollings superlativo al piano. Castaway è una canzone di stampo folk che racconta di un naufragio del protagonista (e ti pareva), un brano breve ma di grande intensità, My Heart Was The Last One To Know è una cowboy song lenta e meditata, la saltellante The One You Chose porta alla conclusiva Ramblin’ Jack, una delle migliori del disco, con un Kris più pimpante e la band al completo che non perde un colpo. Si sentirà anche mortale, ma Kris Kristofferson dimostra a 76 anni di essere più vivo che mai.

Marco Verdi

Novità Di Novembre Parte I. Queen, Paul Kelly, Kris Kristofferson, Joshua James, Unthanks, Renaissance, Mickey Newbury

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Solito giro sulle novità in uscita questa settimana, e non solo. Prima di tutto, il solito rinvio: il cofanetto della Repertoire dedicato alla Graham Bond Organization Wade In the Water, viene ulteriormente posticipato al 17 dicembre, la formula dubitativa è d’obbligo, perché si tratta del 4° rinvio. Sono confermati Music From Another Dimension degli Aerosmith, annunciato sul Blog da qualche mese, con immancabile versione Deluxe CD+DVD, la ristampa di Thick As A Brick dei Jethro Tull per il 40° anniversario, rimasterizzata da Steven Wilson, in vari formati, Charlie Is My Darling, il DVD o Blu-Ray dei Rolling Stones sul tour in Irlanda del 1965, ma non la versione Super Deluxe in cofanetto, che uscirà la settimana dopo (almeno in Italia). E ancora, la ripubblicazione del disco natalizio di James Taylor At Christmas, le ristampe Deluxe doppie di Long Live Rock’n’Roll e On Stage dei Rainbow, anche se di questi non mi sembra di averne parlato sul Blog. Tutto il resto lo trovate scorrendo a ritroso i Post, occasione per sfogliare le pagine precedenti, dove spero troverete molte cose interessanti per gli appassionati. Dimenticato qialcosa? Non mi sembra, almeno di quelli di cui si parla nel Blog, delle altre uscite del 6 novembre parliamo ora.

Vi pareva possibile che anche per il Natale di quest’anno non uscisse qualcosa dei Queen? Certo che no, le case discografiche devono pur sopravvivere, povere stelle! E allora vai con Hungarian Rhapsody, che sarebbe il vecchio Live In Budapest che (ri)esce in vari fomati rimasterizzati. DVD o Blu-Ray, che non erano mai stati pubblicati (ai tempi era uscito in videocassetta), con negli extra un videodocumentario, A Magic Year, che narra la storia dal Live Aid del 1985 al concerto di Budapest del 1986, 25 minuti in tutto. Però ci sono anche le versioni “complete”, 2 CD + DVD o 2 CD + Blu-ray, a un prezzo ragionevole. E, miracolo, nessuna versione costosissima Super Deluxe (anche perché ce ne sono in uscita a miliardate di chiunque)!

 

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Un terzetto di ottimi cantautori.

Paul Kelly (non il vecchio soul man), a parere di chi scrive (e non solo), è uno dei migliori cantautori australiani, con una copiosissima discografia alle spalle (e tra i preferiti dell’amico Tino, che si prenoterà per la recensione). Il nuovo disco, già pubblicato in Australia a metà ottobre, si chiama Spring And Fall ed è il suo 19° album in studio. Per testimoniare la prolificità della sua produzione, prima di questo, nel 2010, Kelly aveva pubblicato un cofanetto di 8 CD intitolato The A-Z Recordings con una valanga di materiale dal vivo inedito, registrato tra il 2004 e il 2010, 106 brani che venivano eseguiti in ordine alfabetico (SSQC Sono Strani Questi Cantautori!). Il nuovo disco contiene 11 brani, non è molto lungo, sui 35 minuti, e tra i partecipanti ci sono le sorelle Linda e Vika Bull che spesso graziano con la loro presenza anche i dischi di Joe Camilleri e dei grandi Black Sorrows.

La copertina è un po’ lugubre, in linea con il titolo del disco e con il periodo dell’anno, ma Feeling Mortal è il primo disco di canzoni nuove di Kris Kristofferson, dopo Closer To the Bone del 2009. Esce per la KK Records, è stato prodotto da Don Was, già in cabina di regia nei precedenti dischi e vede la partecipazione, tra gli altri, di Greg Leisz e Mark Goldenberg alle chitarre, Matt Rollings alle tastiere e Sarah Watkins al violino e armonie vocali. Ascoltato velocemente, sembra molto buono, come al solito, nel suo stile scarno e laconico, con tante belle canzoni che i suoi colleghi potranno reintepretare in futuro.

Joshua James con questo From The Top Of Willamette Mountain è già al suo quinto album (ma terzo ufficiale). Si tratta di uno dei migliori cantautori dellle ultime generazioni, viene da Lincoln, Nebraska ed è stato paragonato a Joe Purdy, Ray LaMontagne, ma anche Dylan e Neil Young, insomma è uno bravo. Il disco è prodotto da Richard Swift, già con Mynabirds e Damien Jurado ed esce per la Intelligent Noise.

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Un paio di voci femminili, “antiche” e moderne.

Prima un disco di materiale inedito d’epoca dei Renaissance Past Orbits Of Dust 1969/1970, raccoglie materiale inedito registrato dalla prima formazione, quella con Jane Relf, Keith Relf, Jim McCarthy, Louis Cennamo e John Hawken che registrò i primi due dischi della formazione, l’omonimo e Illusion per lasciare poi spazio alla seconda versione, quella con la grande Annie Haslam, John Tout e Michael Dunford. Esce per una fantomatica Troubadour Records e la qualità delle registrazioni è molto variabile, buona quella dei primi 3 brani, tipo bootleg il resto, a parte l’ultimo brano che è un inedito di studio. Però il valore storico è indubbio è il gruppo, dal vivo, era molto valido, con lunghissimi brani e molta improvvisazione. Questi i titoli:

1. Kings & Queens (Helsinki 30.5.69) 10’38”
2. Bullet (Helsinki 30.5.69) 14’47”
3. Innocence (New York 20.2.70)10’13”
4. Wanderer (Cincinnati 25.2.70)4’11”
5. Face of Yesterday (London 26.3.70)6’03”
6. No name raga (San Francisco 6.3.70)14’23”
7. Island (Montreux 30.4.70)5’45”
8. Kings & Queens (Stockholm 14.9.69)10’45”
9. Statues (Re-Mastered. Olympic Studios May 4th 1970, initially unreleased song)2’31”

Terzo capitolo della serie Diversions delle Unthanks (uso il pronome femminile, ma nel gruppo ci sono uomini e donne), con le sorelle Rachel & Becky ancora una volta ad incantare gli amanti del buon folk britannico, con un album Songs From The Shipyards, registrato come gli altri due dal vivo e il cui argomento, in questo caso, è la costruzione delle navi. Ovviamente c’è Shipbuilding di Costello, ma resa celebre da Robert Wyatt che non era stata inserita nel disco dedicato a quest’ultimo e Antony & The Johnsons. Di nicchia, di culto, per carbonari, come preferite, ma voci incredibili e tutto molto bello.

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Per finire, una segnalazione sulla ristampa di tre ulteriori dischi di Mickey Newbury. Dopo il cofanetto fantastico triplo An American Trilogy, che aveva vinto il premio come migliore ristampa del 2011 nel poll della rivista Mojo, l’etichetta Mountain Retreat (gestita dalla famiglia) questa volta si occupa di tre album dell’ultima fase della carriera del grande cantautore americano, usciti a livello autogestito nel 1996, 2000 e 2003 (l’ultimo pubblicato postumo, dopo la sua morte, avvenuta nel 2002) Lulled By the Moonlight, Stories From The Silver Moon Café e Blue To This Day. Si fatica moltissimo a trovarli, costano cari, ma vale pena di cercarli, se amate quello stile che in mancanza di alternative altrettanto esplicative si è soliti definire “country got soul”, ma nella parte finale della sua carriera era diventato una sorta di country-folk cameristico, molto raffinato.

Alla prossima.

Bruno Conti

Una Bella Serata Tra Amici, Vecchi E Nuovi, In Quel Di Austin, TX. Johnny Cash – We Walk The Line

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 Johnny Cash – We Walk The Line A Celebration Of The Music Of Johnny Cash – Sony Legacy CD/DVD o Blu-Ray

Se ne parlava da mesi, ve lo avevo anticipato in modo definitivo il 27 luglio, ora è disponibile, per cui parliamone!

20 Aprile 2012, Moody Theatre, Austin, Texas, un gruppo di musicisti di diversa provenienza (tra poco li vediamo) si unisce per festeggiare l’80° Anniversario della nascita di Johnny Cash, che paraltro non è, né il 20 aprile, giorno del concerto e neppure il 7 agosto, giorno di uscita ufficale dei dischetti, bensì il 26 febbraio, ma non stiamo troppo a sottilizzare.

Sono sul palco Don Was, al basso e direttore musicale, Buddy Miller e Greg Leisz a tutti i tipi di chitarre, dall’Inghilterra via Austin Ian McLagan alle tastiere e Kenny “picchiaduro ma non solo” Aronoff alla batteria. Non male! Subito li raggiunge sul palco per dare il via alle operazioni l’attore Matthew McConaughey. All’inizio l’avevo scambiato per John Carter Cash, ma troppo bello ed atletico non poieva essere lui, comunque poco male, McConaughey si rivelerà un “host” simpatico e competente, facendosi anche una cantatina che si trova tra gli extra del DVD. Quindi dà il via al concerto e sul palco sale la prima cantante:

1) Brandi Carlile -Folsom Prison Blues

Nel corso della serata si esibiranno anche alcuni musicisti che sinceramente non so quale grado di empatia abbiano con la musica di Johnny Cash, ma sicuramente la cantante di Ravensdale, Washington, anche se tutti la accostano alla scena di Seattle (dove ha iniziato la carriera), è una che è sempre vissuta a pane e Johnny Cash, tanto che già a 8 anni cantava con la mamma Tennessee Flat Top Box e Folsom Prison Blues è sempre stato uno dei cavalli di battaglia del suo repertorio live. Con quel gruppo alle spalle è difficile fare male e Brandi (vestita come the Woman In Black) ci mette grinta e passione confermandosi una delle voci più interessanti dell’attuale panorama musicale americana. Grande versione con Buddy Miller e Greg Leisz che cominciano a macinare note con le loro chitarre, ben supportati dall’organo inossidabile di Ian McLagan.

2) Andy Grammer – I Get Rhythm

Questo belloccio californiano è uno dei primi misteri della serata, ma evidentmente, come nel caso del tributo a Dylan di inizio anno, l’industria discografica si para il culo inserendo anche qualche giovanotto di belle speranze. Certo, con tutti i miliardi di musicisti al mondo che potevano eseguire questo brano, Andy Grammer non sarebbe stata la mia prima scelta e forse neppure la millesima, ma, ripeto, con quei musicisti alle spalle è difficile fare male, e il nostro amico se la cava discretamente.

3) Amy Lee – I’m So Lonesome I Could Cry

Altra scelta misteriosa. La ex e ora nuovamente cantante degli Evanescence, così, a occhio, non si sembra una grande appassionata di Cash. E infatti quella che viene presentata come la sua canzone preferita di Cash, in effetti è un brano di Hank Williams, che però faceva parte del suo repertorio. Una struggente ballata country con weeping steel guitar viene cantata peraltro in modo più che rispettoso e degno da Amy Lee.

4) Buddy Miller – Hey Porter

Qui le cose cominciano a farsi serie. Eseguita come Ry Cooder avrebbe fatto se l’avessero invitato per suonare Get Rhythm. Byddy Miller si conferma uno dei pilastri della musica “roots” americana!

5) Shelby Lynne – Why Me Lord

Non le avranno dato il Grammy per nulla. Shelby Lynne alle prese con uno dei brani gospel-country più belli mai scritti da Kris Kristofferson, ancora una volta incanta con la sua voce calda, potente ed espressiva.

6) Pat Monahan – Help Me Make It Through The Night

Ancora un brano di Kristofferson per la voce solista dei Train, che non vedrei male in futuro alle prese con questo tipo di repertorio perché la canta veramente bene, grande voce e grande interpretazione.

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7) Shelby Lynne & Pat Monahan – It Ain’t Me Babe

Gli ultimi due cantanti ascoltati, uniscono le forze per un duetto in uno dei brani di Bob Dylan che Johnny Cash amava di più, quasi sempre eseguita in coppia con la moglie June Carter. Bellissima versione, con un arrangiamento maestoso ed avvolgente, poi in crescendo, probabilmente frutto della mente di Don Was (vedremo cosa riuscirà a fare con il nuovo Van Morrison, che sarà prodotto da lui), in ogni caso gran bella canzone.

8) Jamey Johnson & Kris Kristofferson – Sunday Morning Coming Down

Ancora un duetto e ancora una canzone di Kris Kristofferson, in coppia con una delle forze emergenti della nuova musica country di qualità, per cantare una delle canzoni che hanno fatto la leggenda di Johnny Cash. Ci voleva coraggio per cantare alla televisione americana nel 1970 “Wishing, Lord, That I Was Stoned”, ma che bella canzone ragazzi! Anche in questa versione lenta ed intensa non perde un briciolo del suo fascino, la voce di Kristofferson sempre più “spezzata”, ma mai vinta, sorretta dal baritono poderoso di Johnson, bella accoppiata.

9) Carolina Chocolate Drops – Jackson

Questi sono i giovani che ci piacciono, alle prese, nel loro inconfondibile stile, con un altro dei classici della coppia John & June. Che dire? Bravi, sempre più bravi!

10) Rhett Miller – Wreck Of The Old 97

E il leader degli Old 97’s cosa potevano invitarlo a cantare? Giovanile d’aspetto, ma i 40 li ha passati, Rhett Miller (non è parente di Buddy), da solo o con il suo gruppo è uno dei migliori musicisti della nuova scena alternative country americana e lo conferma anche in questa serata con una versione sparatissima di questo brano da cui ha preso il nome il suo gruppo.

11) Ronnie Dunn – Ring Of Fire

Questo brano l’avrei fatto cantare da qualcun altro, ma devo ammettere che l’ex metà di Brooks & Dunn realizza una versione di buon spessore, con le immancabili trombe mariachi affidate a una coppia di “ragazze messicane”. L’omaggio della Nashville più tradizionale alla musica di uno dei “fuorilegge” di quella scena.

12) Shooter Jennings & Amy Nelson – Cocaine Blues

I due figli d’arte ci regalano una bella versione, gagliarda e grintosa, di uno dei brani che erano sul leggendario At Folsom Prison. Shooter Jennings è sempre bravo, la figlia di Willie Nelson non la conoscevo, ma buon sangue non mente. E poi, ripeto, con quella house band chiunque farebbe un figurone.

13) Lucinda Williams – Hurt

Il brano di Trent Reznor dei Nine Inch Nail è stato uno degli ultimi capolavori del Johnny Cash interprete, nella sua serie degli American Recordings, la voce dolente e sofferta di Lucinda Williams, manco a dirlo, è perfetta per questo brano. Uno degli highlights del concerto.

14) Iron & Wine – Long Black Veil

Altra ottima scelta nell’ambito dell’alternative country (e non solo) è quella di Sam Bean, ovvero Iron & Wine. In una parola, stupenda!

15) Kris Kristofferson – Big River

Torna il grande Kris per rendere il favore. Johnny Cash oltre a cantare alla grande le canzoni degli altri ne scriveva molte belle anche lui. Questo ne è un limpido esempio, proprio una di quelle del classico boom chicka boom, e con la band in grande spolvero, bella anche la interpretazione di Kristofferson!

16) Sheryl Crow – Cry Cry Cry

Lei è come il prezzemolino, c’è sempre, però è brava e questo brano le calza proprio a pennello, gli anni passano ma quando vuole (e può) la classe non manca, ottimo ed abbondante.

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17) Willie Nelson & Sheryl Crow – If I Were A Carpenter

Sheryl Crow rimane e arriva uno dei più grandi amici di Cash, per una versione di un altro dei suoi grandi classici in duetto con la moglie June. Scritta da Tim Hardin, era stata pubblicata come singolo dalla Columbia nel 1969 (nel libretto del doppio, che è formato CD, quindi piccolo e non ingombrante, trovate anche tutte le altre informazioni sulle versioni originali, data ed eventuale album dove appariva). Mickey Raphael si aggiunge all’armonica e la coppia, con la super band alle loro spalle, realizza una versione da sogno di questa stupenda canzone. Non sempre e comunque amo quello che Willie Nelson produce ma quando la ispirazione lo coglie è sempre un grande.

18) Willie Nelson, Kris Kristofferson, Shooter Jennings, Jamey Johnson – Highwayman

Degli originali ne sono rimasti solo due, ma Shooter sostituisce il babbo Waylon Jennings con grande piglio e il vocione di Jamey Johnson sostituisce Johnny Cash con bravura per un brano che ci avvicina alla conclusione del concerto con un altro degli highlights della serata.

19) Full Ensemble – I Walk The Line

Tutto il cucuzzaro sul palco per il gran finale con una versione country-folk di un superclassico che vede tutti i musicisti alternarsi sul palco.

E qui finisce il concerto nella versione CD per restare negli 80 minuti canonici di durata (anche qualcosa meno). Ma negli extra del DVD oltre alla esibizione di Matthew McConaughey che recita e canta The man comes around, c’è anche una eccellente I Still Miss Someone di un ancora ispirato Willie Nelson, registrata durante le prove. Una serie di brevi interviste con tutti i partecipanti inframmezzate da qualche breve filmato preso dai suoi special televisivi, che proseguono nel segmento definito Walking The Line: The Making Of A Celebration. Un piccolo appunto: ma niente Rosanne e John Carter Cash? E pure Carlene Carter?

Per parafrasare il famoso “poeta televisivo” Paolo Bonolis, visto che a parte il promo iniziale YouTube non ci viene in soccorso, Ove possibile, s’ha da avere!

Bruno Conti

80° Anniversario Della Nascita Di Johnny Cash. We Walk The Line: A Celebration Of The Music Of Johnny Cash DVD/CD – Blu-ray

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We Walk The Line – A Celebration Of The Music Of Johnny Cash – Sony Legacy – CD/DVD o Blu-ray 07-08-2012

Quest’anno oltre al centenario di Woody Guthrie si festeggia anche l’80° Anniversario della nascita di Johnny Cash, avvenuta il 26 febbraio del 1932. Per questo motivo il 20 aprile al Moody Theater di Austin, Texas si è riunito un nutrito gruppetto di musicisti per festeggiare l’evento con un concerto sotto la direzione musicale di Don Was. Queste sono tutte le informazioni che vi servono e anche di più:

DVD/Blu-ray
Folsom Prison Blues – performed by Brandi Carlile
Get Rhythm – performed by Andy Grammer
I’m So Lonesome I Could Cry – performed by Amy Lee
Hey Porter – performed by Buddy Miller
Why Me Lord – performed by Shelby Lynne
Help Me Make It Through the Night – performed by Pat Monahan
It Ain’t Me Babe – performed by Shelby Lynne and Pat Monahan
Sunday Morning Coming Down – performed by Jamey Johnson and Kris Kristofferson
Jackson – performed by Carolina Chocolate Drops
Wreck Of The Old 97 – performed by Rhett Miller
Ring Of Fire – performed by Ronnie Dunn
Cocaine Blues – performed by Shooter Jennings
Hurt – performed by Lucinda Williams
The Long Black Veil – performed by Iron & Wine
Big River – performed by Kris Kristofferson
Cry, Cry, Cry – performed by Sheryl Crow
If I Were A Carpenter – performed by Willie Nelson and Sheryl Crow
Highwayman – performed by Willie Nelson, Kris Kristofferson, Shooter Jennings and Jamey Johnson
I Walk The Line – performed by Full Ensemble

Bonus Features

I Still Miss Someone – rehearsal performance by Willie Nelson
The Man Comes Around – performed by Matthew McConaughey

Johnny Cash, His Life and Music – Artist interviews, Johnny Cash archival footage, more

Walking The Line: The Making of a Celebration – behind-the-scenes of the historic Johnny Cash 80th Birthday Concert Celebration

Il CD ha gli stessi brani ma in una diversa sequenza, l’uscita come riportato sopra è prevista per il 7 agosto, dovrebbe costare intorno ai 20 euro, euro più euro meno. Stranamente è prevista l’uscita in contemporanea anche per il mercato italiano, in questo caldo agosto, che discograficamente parlando è sempre un mese importante per le uscite sia in Inghilterra che, soprattutto, negli Stati Uniti.

Se ve lo volete sentire e ascoltare tutto ve lo comprate, dal video di presentazione sembra fantastico, buon divertimento!

Bruno Conti

Soddisfacente! Brandi Carlile – Bear Creek

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Brandi Carlile – Bear Creek – Columbia Records

Ci sono degli artisti che si ascoltano, ed eventualmente si acquistano, a prescindere! Perché sono bravi e quindi sai già che sui loro dischi troverai buona musica e Brandi Carlile fa parte di questa categoria. Bella voce, facilità di scrivere canzoni, un genere che abbraccia il meglio di quello che la musica di qualità ha prodotto nell’era dei cosiddetti singer-songwriters, poi, volendo, uno può discutere la sua discografia disco per disco e financo canzone per canzone, ma prima si vanno a vedere e sentire i contenuti poi eventualmente li si discute e alla fine non si rimane mai completamente delusi o perché no, a seconda dei casi, soddisfatti in quanto “un comunque sì” lo meritano solo quelli di talento e in questo caso ce n’è in abbondanza!

Dopo l’inizio in sordina (ma buono, per i tipi di All Music Guide addiritttura il  suo migliore) dell’esordio omonimo Brandi Carlile del 2005, la nostra amica ha fatto il botto, a livello di critica e di successo, con il secondo album The Story, prodotto da T-Bone Burnett, che viene considerato all’unanimità il suo “capolavoro”. Poi da quel punto i pareri si dividono: la sua casa discografica ci crede e le affianca un altro pezzo da 90 come Rick Rubin (per la verità meno efficace del suo predessore), per produrre il successivo Give Up The Ghost che spacca la critica musicale. Chi lo considera una (parziale) delusione, chi lo osanna forse perfino troppo, ma il disco, sicuramente più discontinuo del precedente, ha in ogni caso alcune belle canzoni e la conferma come una della cantautrici migliori delle ultime generazioni, forse quella in grado di incarnare meglio lo spirito dei grandi del passato, eclettica e non etichettabile in un genere specifico. Anche il successivo Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony è stato soggetto di pareri diversi (e comunque un disco con un’orchestra sinfonica che è arrivato fino al 14° posto delle classifiche americane non deve essere proprio malvagio): chi lo ha definito “pomposo” e magniloquente, troppo ridondante nei suoi arrangiamenti orchestrali ed altri, compreso il sottoscritto, a cui è piaciuto sia per i contenuti che come una sorta di riassunto riveduto e corretto della prima parte della sua carriera from-seattle-with-love-brandi-carlile-live-at-benaroya-hall.html, che non comprende solo i tre album citati, ma nella prima parte degli anni 2000 ha prodotto una serie di EP, dal vivo e in studio, ricchi di cover e sorprese.

Anche per questo nuovo album Brandi Carlile si è ispirata, almeno per la scelta dell titolo, a uno dei suo idoli assoluti, Elton John, che quando registrò ai Chateau d’Hèrouville Studios chiamò quel disco Honky Chateau (é quello con Rocket man); Brandi si è detta, visto che è una delle poche scelte che la casa discografica mi lascia fare, scegliere il titolo, perché non chiamarlo Bear Creek, dal nome dello studio di registrazione vicino a Seattle dove è stato realizzato l’album, suona anche bene! Quindi, in compagnia della nuova produttrice (e ingegnere del suono) Trina Shoemaker (vincitrice anche di Grammy con Sheryl Crow)  e di 13 nuove canzoni, molte rodate da una lunga frequentazione dei palchi americani (nel resto del mondo purtroppo la si vede poco), dalla permanenza in quegli studi questo è il risultato che ne è scaturito.

E’ un capolavoro? Probabilmente no, a parte per i fans e le fans più accanite! Forse neppure un grandissimo disco (lo diranno il tempo e ascolti più approfonditi) ma, di primo acchito, sicuramente, nel piattume generale (illuminato più spesso di quello che si pensa da improvvisi lampi di classe, intesa come buona musica, parlo in generale) fa la sua più che onesta figura. Brandi Carlile è accompagnata come sempre dai fidati gemelli Phil & Tim Hanseroth che scrivono con e senza di lei la quasi totalità dei brani, la batterista Allison Miller (con l’aggiunta di Matt Chamberlain in alcuni brani) e il cellista Josh Neumann a cui si aggiungono per l’occasione Dave Palmer alle tastiere e Jeb Bows della band di Gregory Alan Isakov al violino e mandolino.  

I tredici brani spaziano dal country-folk speziato ed intenso dell’iniziale Hard Way Home che doveva essere il primo singolo, seguita da Raise hell, un brano che la Carlile esegue da molto tempo in concerto e quindi mi era già capitato di ascoltarlo in varie esibizioni su YouTube ma la versione in studio ha quel qualcosa in più fornito dal contrasto tra il mandolino, la struttura elettrica del brano, il battito di mani e quella coloritura quasi country-gospel fornita dalla bella voce di Brandi, definita dalla rivista Paste “The Best Voice in Indie Rock”, ma io direi del rock in generale perché restringere le categorie. Save Part Of Yourself ha ancora questo spirito gospel fornito dai cori e dal ritmo marciante delle percussioni con il mandolino sempre in evidenza e qualche spruzzata di archi qui e là.

That Wasn’t Me è il primo singolo tratto dall’album: si tratta dell’unica ballata pianistica scritta dalla sola Carlile e prende lo spunto da quelle classiche di Elton John del periodo di Tumbleweed Connection ed è inteso come un complimento perché il brano ha la maestosa serenità malinconica del grande cantautore inglese all’apice della sua carriera. Anche Keep Your Heart Young già un must delle esibizioni live qui acquista quell’aria country e paesana mutuata forse dalle frequentazioni con Kris Kristofferson che appare nel video di That Wasn’t Me. 100 è un pezzo classico del suo repertorio, un brano rock dal ritmo incalzante (con echi alla U2) percorso anche dal suono del cello (e qualche violino) e dalle tastiere che coloriscono un suono più moderno e meno roots rispetto al resto dell’album. A Promise To keep con un bel fingerpicking acustico che mi ha ricordato il Paul McCartney acustico è una ballata malinconica dove piano e violoncello sono ancora in primo piano e si dividono gli spazi con la sua bella voce. I’ll still be there è un altro brano tipico del suo repertorio, con aperture melodiche caratterizzate dal falsetto in alcuni momenti e con un bel assolo di fratello Tim.

What Did I Ever Come Here For è l’altra ballata pianistica del disco (ho mentito prima) ma scritta in questo caso non da Brandi ma dall’altro gemello Phil: si sente una ulteriore voce femminile di supporto che non so se è quella doppiata della stessa Carlile (il multitracking grande invenzione) o di qualche ospite (le sue amiche Indigo Girls?) mentre il cello si ritaglia uno spazio solista nella intensa parte centrale prima del gran finale. Piano e cello rimangono anche per la dolce e orecchiabile Heart’s content forse un brano minore ma sempre piacevole, adatta ad eventuali usi per futuri spot o in serie televisive che spesso nel passato hanno utilizzato la musica della cantante americana. Rise Again è uno dei brani dalla struttura più rock, ancorché con la presenza del mandolino, già ascoltato spesso nelle esibizioni live, ricorda qualcosa degli U2 meno pomposi per il riff ricorrente e pressante della chitarra elettrica. In The Morrow ci riporta alle sonorità più rootsy dei primi brani di questo CD anche se con quel timbro antemico e corale che hanno molti brani di Brandi con il mandolino nuovamente in evidenza nella coda strumentale. Il finale è affidato a Just Kids una sorta di ghost-track esplicita, nel senso che non è una traccia nascosta ma appare dopo qualche decina di secondi di silenzio e poi si esplicita in una lunga introduzione strumentale “spettrale” tra tastiere e archi che introducono la voce “trattata” e ricca di eco e riverbero per questo omaggio alla nostalgia dei “vecchi tempi” (a 31 anni!) giovanili con un omaggio al melodramma sonoro di cantanti come Roy Orbison o Patsy Cline, qui modernizzati ma che sono nel DNA di Brandi Carlile.

Come direbbe Nero Wolfe (il ritorno televisivo mi ha stimolato vecchie ri-letture di Rex Stout): “Soddisfacente, Brandi!”.

Bruno Conti

E’ Solo Country! Little Willies – For The Good Times

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The Little Willies – For The Good Times – EMI Parlophone/Capitol

Di solito si usa dire “non solo country” ma nel caso del nuovo disco dei Little Willies For The Good Times si deve proprio usare il termine con fierezza, come era già stato peraltro per il precedente omonimo album del 2006.

Come nel caso del primo anche l’opera seconda del gruppo ha avuto una lunga gestazione. Il lavoro di “preparazione” è iniziato già tre anni fa (e infatti già da un po’ di anni le suonavano dal vivo), nelle pieghe della carriera solista e delle altre collaborazioni di Norah Jones, ma si tratta di un lavoro di gruppo, la newyorkese di nascita ma cresciuta in Texas con il country nelle orecchie, è una delle pedine del gruppo, importante, come pianista e principale vocalist ma divide la leadership con Richard Julian, l’altro ottimo cantante del gruppo e con l’asso delle chitarre Jim Campilongo di cui ho recensito Orange, l’album del 2010, per il Buscadero. Il quarto componente è Lee Alexander, bassista ed ex fidanzato della Jones con cui è rimasto un ottimo rapporto di lavoro e dietro la batteria siede Dan Rieser. Il primo album aveva avuto un moderato successo di vendita arrivando al 10° posto delle classifiche country ed al 48° di quelle generali, ma buoni riscontri di critica.

Direi che anche questo For The Good Times potrebbe ripeterne le gesta. E’ il primo disco “importante” dell’anno e potrebbe godere dell’effetto sorpresa nelle vendite. La struttura è più o meno quella del predecessore: sono 12 brani, meno di quaranta minuti di musica, tutte cover meno il brano strumentale di Campilongo Tommy Rockwood ed è ovviamente destinato agli estimatori del country. Lento, veloce, swingato, ballate, romantico o tagliente, sempre di country parliamo, quindi uomo avvisato…

Si apre con le armonizzazioni del duo Jones e Julian nel brano I Worship You scritto da Ralph Stanley poi si passa per il country swing delle parti cantate alternativamente dai due vocalist con Campilongo che si dà da fare alle chitarre e Richard Julian che in questo brano ha una voce che mi ricorda moltissimo quella del Lyle Lovett dei primi anni. Remember Me è un valzerone country scritto da Scott Wiseman e cantato con la sua tipica allure dalla Jones che duetta, il pianoforte in evidenza con la baritone guitar di Campilongo mentre Julian si occupa delle armonie vocali.

Diesel Smoke, Dangerous Curves accelera decisamente i tempi sulle note di una lap steel con Richard Julian che guida il gruppo e la brava Norah che “vampeggia” da par suo, un bravo divertente e ben eseguito dai Little Willies nella loro interezza di gruppo. Lovesick Blues è uno dei cavalli di battaglia di Hank Williams che però non l’aveva scritta, in ogni caso rimane uno degli standard della musica country e una delle canzoni più famose sul “mal d’amore” ed è cantata all’unisono dai due vocalist con rispetto ed amore per l’argomento trattato, una piccola delizia come sempre. Dello strumentale Tommy Rockwood si è detto ed è l’occasione per ascoltare Jim Campilongo, uno dei virtuosi della chitarra “country”, novello James Burton o Albert Lee, anche la Jones si “diverte” al piano.

Fist City di Loretta Lynn stranamente (o no?) è uno dei brani più rockeggianti dell’album, si fa per dire, e la nostra amica Norah la canta proprio bene. Non poteva mancare l’omaggio all’amico e “maestro” Willie Nelson e Richard Julian, con la sua vocalità pigra e sorniona, nuovamente alla Lovett, rende piena giustizia ad un brano come il melanconico Permanently Lonely, una delle chicche del disco, la Jones armonizza da par suo per rendere il favore.

Fowl Heat In the Prowl, dice la Jones in un’intervista, le è stata consigliata dalla mamma (il papà come quasi tutti sanno è Ravi Shankar) ed era nella colonna sonora di In The Heat Of the Night (per noi italiani “La Calda Notte Dell’Ispettore Tibbs); scritta da Quincy Jones non è forse propriamente country ma è un bello slow d’atmosfera cantato a due voci. Un altro dei brani migliori del CD è Wide Open Road una tipica canzone boom chika boom di Johnny Cash cantata da Lyl…, scusate, da Richard Julian (mi scappa, la tonalità e la voce sono molti simili, è inteso come un complimento e poi a fine febbraio esce il nuovo disco di Lyle Lovett, Release Me) mentre la Jones armonizza e Campilongo si diverte alla chitarra.

Una bellissima ballatona, che dà il titolo all’album, è For The Good Times, scritta da Kris Kristoffersson e cantata con grande pathos da Norah Jones che si identifica moltissimo nel brano, altra chicca! If You’ve Got The Money I’ve Got The Time è un frizzante country-swing scritto da Lefty Frizzell e cantato con particolare verve dai due “Willies”, Lee Alexander slappa il basso di gusto e tutto il gruppo si diverte. Conclusione con un altro dei classici della country music, una delle canzoni più belle del repertorio di Dolly Parton e ripresa negli anni da moltissimi artisti, anche i White Stripes ne hanno fatto una cover, questa, cantata con grande intensità dalla Jones è una delle migliori.

Il disco non è male, anzi direi buono, ma è ovviamente country, molto country, inteso nel senso più nobile del genere. Non dite che non vi avevo avvertito. Esce il 10 gennaio negli States ed Europa e il 31 in Italia (boh, misteri?).

Bruno Conti

Uno Dei Più Bei Tributi Di Sempre – This One’s For Him A Tribute To Guy Clark

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This One’s For Him – A Tribute To Guy Clark” – Icehouse Music 2CD

Di solito non includo i tributi nelle mie classifiche di fine anno, in quanto molto spesso, per quanto riuscito sia il disco in questione, c’è sempre qualche versione palesemente inferiore al brano originale, o qualche artista che c’entra come i cavoli a merenda con il cantante o gruppo oggetto del tributo.

Negli anni ne sono usciti tantissimi, anche più di uno dedicato allo stesso artista, alcuni poco riusciti, altri molto belli, altri imperdibili (cito a memoria Deadicated, in omaggio ai Grateful Dead, Not Fade Away dedicato a Buddy Holly – altro che i due usciti quest’anno! – Beat The Retreat con le canzoni di Richard Thompson, oltre al live tratto dal famoso concerto per Bob Dylan svoltosi a New York nel 1992), e non c’è dubbio che questo This One’s For Him, che ha per oggetto le canzoni del grande Guy Clark rientri nella categoria imperdibili.

Se leggete questo Blog saprete certo chi è Clark: texano, uno dei maggiori songwriters d’America (in Texas è considerato al pari di Townes Van Zandt, ed un gradino più su anche di una leggenda vivente come Willie Nelson), è uno che non ha mai sbagliato un colpo. Schivo, riservato, quasi ombroso, è una vera fonte di ispirazione continua per i nostri cantautori preferiti, e non solo texani; in quasi quarant’anni di carriera ha pubblicato solo una quindicina di album, ma tutti di assoluto livello (Old No. 1, il suo esordio del 1975, è uno dei massimi capolavori del cantautorato mondiale, ma tra i suo dischi più validi citerei anche The South Coast Of Texas, Better Days, Boats To Build, Dublin Blues, Workbench Songs e lo stupendo live di pochi mesi fa, Songs & Stories,ma consiglio caldamente anche tutti gli altri che non ho nominato).

Oggi, direi finalmente, viene pubblicato questo sontuoso tributo, curato dal bravo Shawn Camp, in collaborazione con Verlon Thompson (chitarrista, è il leader della touring band di Guy, oltre che suo abituale collaboratore): due CD, trenta canzoni, con una serie incredibile, e credo irripetibile, di musicisti coinvolti, la crema del Texas (e non solo). Joe Ely, Steve Earle, Willie Nelson, Lyle Lovett, Terry Allen, Kris Kristofferson, Rodney Crowell, John Prine e molti altri (li scoprirete man mano che parlerò del disco), il tutto con una house band alle spalle (che rende il lavoro ancora più unitario) guidata da Camp e Thompson, con calibri come Lloyd Maines, Glenn Fukunaga e Glenn Worf in session, gente che suosuonerebbe bene anche con una coperta sulla testa. Non manca nessuno, forse solo Michelle Shocked (per dire una che ha sempre dichiarato il suo amore per Clark), ma non è che negli ultimi anni Michelle abbia fatto molto per far sì che qualcuno si ricordasse di lei… In breve, una goduria: purtroppo il disco non è di reperibilità facilissima (e la versione con la prima copertina credo sia già esaurita, ora circola la seconda versione con sulla cover una foto anni settanta di Guy e della moglie Susannah), ma con un po’ di tenacia lo trovate, e ne vale la pena. 

Apre Rodney Crowell con That Old Time Feeling, che inizia per voce e chitarra, poi entra di soppiatto il resto della band: un’ottima resa di una canzone molto bella, ma Crowell (quotatissimo songwriter a sua volta) non lo scopriamo certo oggi. Lyle Lovett si cimenta con Anyhow, I Love You, una slow country song con il pianoforte in evidenza (l’ottimo Matt Rollings, Lyle è l’unico ad usare membri della sua band, ed il risultato gli dà ragione): Lovett canta con la sua solita voce quasi indolente e riesce a farla sua con la consueta classe. Ho sempre reputato Shawn Colvin una brava artista che raramente è riuscita ad esprimere il suo potenziale, ma con All He Want Is You posso dire che riesce a centrare il bersaglio: atmosfera leggermente western, interpretazione intensa e sentita. Shawn Camp (ma allora Shawn è un nome da donna o da uomo?) si prende i riflettori per una splendida Homeless, una delle canzoni più toccanti di Clark, resa in maniera magistrale: una delle gemme più preziose del doppio dischetto. Reputo Ron Sexsmith abbastanza lontano dal mondo di Guy Clark, ma qui non sfigura affatto con la sua versione di Broken Hearted People (se l’è scelta bella il buon Ron…ma ha mai scritto canzoni brutte Clark?). Rosanne Cash è brava e lo sappiamo, e Better Days è perfetta per le sue corde vocali; Desperados Waiting For A Train non ha bisogno di presentazioni, è a mio parere la canzone più bella mai scritta da Clark, ed una delle più belle in assoluto degli anni settanta: vi dico solo che la fa Willie Nelson e non aggiungo altro. Pelle d’oca, e d’altronde il buon WIllie saprebbe rivitalizzare anche il songbook di Britney Spears.

Rosie Flores ci regala un’interpretazione bluesata e discretamente elettrica di Baby Took A  Limo To Memphis, piena di grinta e texana nel profondo; Kevin Welch è uno dei miei texani preferiti, lo seguo fin dal suo esordio omonimo ancora country-oriented di una ventina di anni fa e non mi ha mai tradito (ed il mio Fattore C mi ha anche portato una volta ad averlo come vicino di posto su di un volo Milano-Atlanta, e ho scoperto una persona semplice, gentile e squisita – impagabile la sua espressione facciale quando ho mostrato di conoscerlo a menadito!): Magdalene è eseguita con il suo solito feeling, e con la sua tipica voce espressiva, che migliora con l’età. Non male Suzy Bogguss con Instant Coffee Blues, grande Ray Wylie Hubbard con la divertente Homegrown Tomatoes, brano che rivela anche una vena umoristica in Clark (come se da noi DeGregori cantasse i pregi del basilico fresco coltivato sul balcone di casa).; Bravino John Townes Van Zandt II (rifà Let Him Roll), ma non è facile essere il figlio di Townes, bravissimo il grande Ramblin’ Jack Elliott, uno che emette carisma solo quando apre bocca, con il western tune The Guitar: classe pura. James McMurtry non cambia stile neanche se gli spari, e quindi anche Cold Dog Soup è trattata alla maniera di un Lou Reed made in Texas, mentre Hayes Carll si dimostra uno dei giovani più interessanti in circolazione,con un’ottima versione di Worry B Gone.

E questo è solo il primo CD: tirate il fiato che comincio con il secondo. Joe Ely è un altro che comprerei anche se facesse un disco intitolato Joe Ely sings the yellow pages shaving himself under the shower: Dublin Blues sembra una canzone sua, passo lento ed epico, solita grande voce e feeling a grappoli. Magnolia Wind è un duetto tra John Prine ed Emmylou Harris (per la serie: due grandi al prezzo di uno), un brano toccante ed intenso, reso ancora più bello dalla voce espressiva (e un po’ invecchiata) di John e da quella sempre cristallina di Emmylou. Il tris d’assi con cui si apre il secondo CD si completa con Steve Earle, che ci regala un’ottima The Last Gunfighter Ballad, scarna e spoglia ma ricca di pathos, con una melodia di fondo quasi dylaniana (se è vero che His Bobness ha influenzato tutti i cantautori venuti dopo di lui, allora vale anche un po’ per Clark). Verlon Thompson sceglie All Through Throwin’ Good Love After Bad (titoli facili mai), e così come Shawn Camp sul primo CD, piazza una delle zampate migliori (giocano in casa…): un delizioso brano country & western, che Verlon rilascia in perfetta linea con lo stile del suo autore.

Pensavo che The Dark fosse più adatta ad un’interpretazione maschile, ma Terri Hendrix mi smentisce e piazza una performance da brividi, del tutto inattesa; la splendida L.A. Freeway è una delle più note di Guy, ed a Radney Foster basta riprenderla con assoluta fedeltà per fare un figurone. Brava Patty Griffin con The Cape, bravissimo come sempre il grande Kris Kristofferson con l’intensa Hemingway’s Whiskey, un’altra song che sembra uscita più dalla penna di Kris che da quella di Clark. Gary Nicholson, Darrell Scott e Tim O’Brien ci regalano una mossa e swingata Texas Cookin’, mentre Jack Ingram si prende una delle più belle, cioè Stuff That Works, e fornisce una prova da manuale, con un’interpretazione decisamente dylaniana (sentire per credere). Randall Knife è una delle canzoni più personali e toccanti di Clark (è dedicata a suo padre), e Vince Gill non sfarfalleggia come gli capita di fare ogni tanto, ma mostra grande rispetto per la versione originale: ottima prova. Ho sempre pensato che il bravo Robert Earl Keen fosse una sorta di “figlio illegittimo” di Guy Clark, e Texas 1947 ne è la riprova: fluida, discorsiva e coinvolgente, si trasforma nella seconda parte in un bluegrass texano, polveroso ed arso dal sole. Perfino Terry Allen esce dal suo prolungato ritiro per farci sentire ancora la sua voce, e dimostra di non aver perso lo smalto: Old Friends è un’autentica perla, con la voce stagionata di Terry che dispensa emozioni a piene mani. A quando un disco nuovo, Terry?; Il doppio album si chiude con The Trishas (una discreta She Ain’t Goin’ Nowhere) e con l’ultima sorpresa, cioè il grande Jerry Jeff Walker che walkereggia con My Favorite Picture Of You, facendola sua al 100%.

So di essermi dilungato un pochino, ma penso che uno come Guy Clark si meriti qualche parola in più: se vi ho convinto…buona ricerca! Personalmente, parlandone mi è venuta voglia di riascoltarlo…

Marco Verdi