Joe Bonamassa – L’Erede Di Eric Clapton O “Solo” Un Grande Chitarrista? Parte I

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Gli Esordi 1991-1996

Quando nel 1991 il nostro amico, alla ricerca di un contratto, viene “gentilmente” rifiutato da varie etichette discografiche, ha solo 15 anni, ma una forte passione per la musica, allora decide di provare con un gruppo e astutamente chiama con lui alcuni “figli di”: c’è Waylon Krieger, il cui babbo Robby militava nei Doors, Berry Oakley Jr. negli Allman Brothers, alla batteria Erin Davis, il figlio di Miles, l’unico senza pedigree personale è “Smokin’ Joe” Bonamassa (giuro!), figlio di Len, che non era famoso, ma aveva un negozio di chitarre, e quindi il destino di Joseph Leonard era già segnato.

joe-bonamassa-age-16-jams-with-robben-fordNato a New Hatford, un sobborgo di Utica, nello stato di New York, nel 1977, Joe fin dalla più tenera età era stato cresciuto a pane e musica, il padre gli faceva sentire i dischi di Eric Clapton e Jeff Beck, che qualche influenza devono pur averla lasciata, come trainer alla chitarra a 11 anni gli fu affiancato Danny Gatton, a 12 apriva per i concerti di B.B. King, quindi stesso palco ma non insieme presumo, ma non c’ero.

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Nel 1994 i Bloodline pubblicano il primo omonimo album per la Emi/Capitol ***, me lo sono andato a (ri)sentire per scrivere questo articolo e devo ammettere che non era poi un brutto disco, Berry Oakley, che aveva sostituito il primo cantante, oltre a suonare il basso, aveva una bella voce e Joe, con l’aiuto di Krieger junior, alla chitarra già si sapeva fare, andatevi a sentire (se trovate il CD nell’usato) il rimarchevole lavoro al wah-wah in Dixie Peach, o il lavoro delle due soliste all’unisono nello strumentale sudista The Storm, alla produzione doveva esserci Phil Ramone, poi fu chiamato Joe Hardy (Tommy Keene, Georgia Satellites, Green On Red), loro amavano il blues(rock) ma l’etichetta gli chiedeva hard rock, comunque il lungo lentone Since You’re Gone ha qualche elemento alla Lynyrd Skynyrd, che li usarono come band di supporto nel 1995 https://www.youtube.com/watch?v=TuW_6YApSGg .

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La Carriera Solista, Prima Parte 2000-2009

Nel 2000 la Okeh, una succursale della Epic/Columbia gli propone un contratto, grazie alla reputazione che si era fatto nell’ambiente, e lo stesso anno arriva il primo album

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A New Day Yesterday – 2000 Okeh/Epic ***1/2

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A New Day Now 20th Anniversary – 2020 JR Adventures/Mascot Provogue ***1/2

Mettiamo insieme le due edizioni del primo disco di Joe Bonamassa, che secondo me più o meno si equivalgono come valore: quella del 2000, registrata ai Pyramid Recording Studios di New York, si avvale della produzione di Tom Dowd, uno dei grandissimi che ha “creato” alcuni dei più bei dischi della storia del rock, tra i quali parecchi proprio di Eric Clapton, del quale Bonamassa per molti è una sorta di erede (se mai si vorrà ritirare, per ora Slowhand annuncia ma poi per fortuna ci ripensa): anche se per altri, pochi ma tignosi, Joe è solo un “casinaro”, benché il sottoscritto appartiene assolutamente, come la maggioranza degli ascoltatori del buon rock, del blues e di tutti i generi che suona il nostro amico, ai suoi estimatori. Chiarito questo concetto continuiamo, anzi iniziamo ad esaminare la sua copiosa discografia. Tornando a A New Day Yesterday, tra i fattori negativi c’è la presenza di una band che lo accompagna non proprio di prima fascia, onesti musicisti, ma Creamo Liss al basso e Tony Cintron alla batteria, per quanto bravi, alzi la mano chi a parte questo disco li hai mai sentiti nominare (Cintron, ho controllato, suona comunque in parecchi dischi di fusion e jazz); tra i lati positivi la presenza come ospiti di Rick Derringer a chitarra e voce in Nuthin’ I Wouldn’t Do (For a Woman Like You), un ottimo brano di Al Kooper, in If Heartaches Were Nickels uno splendida canzone di Warren Haynes, ci sono Gregg Allman a voce e organo e Leslie West alla seconda chitarra  https://www.youtube.com/watch?v=yRem6f0bmIE (che misteriosamente scompaiono nella versione del ventennale di A New Day Now), in un brano, ma è marginale, c’è anche il babbo di Joe, Len alla chitarra.

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Tra i plus della versione 2020 c’è l’ottimo lavoro di masterizzazione e mixaggio di Kevin Shirley che ha attualizzato il sound (per quanto la versione di Dowd suonava ottimamente) e inserito le nuove parti vocali di Bonamassa che le ha volute reinciderle con la sua voce attuale, più matura, calda e sicura, rispetto al giovane Joe del 2000, non disprezzabile comunque già all’epoca. Tra le bonus della nuova edizione ci sono tre brani del 1997, scritti con Steven Van Zandt e prodotti dallo stesso, francamente non memorabili, tra cui una irriconoscibile I Want You di Dylan, veramente bruttarella. Molto bello in entrambe le versioni il trittico di canzoni iniziali, Cradle Rock di Rory Gallagher https://www.youtube.com/watch?v=hVyhZ6rEbkI , Walk In My Shadow dei Free e A New Day Yesterday dei Jethro Tull https://www.youtube.com/watch?v=h1TAQa-IP8I , oltre alla cover conclusiva di Don’t Burn Down That Bridge di Albert King, che indicano che la stoffa del fuoriclasse è già presente.

Nel 2001 nel corso del tour americano di 60 date viene registrato il suo primo album dal vivo

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A New Day Yesterday Live – 2002 Premier Artists ***1/2 nel 2004 anche DVD con tre tracce aggiunte. La formazione che accompagna Bonamassa è il classico power trio, con Eric Czar al basso e Kenny Kramme alla batteria. La data è il dicembre 2001 a Fort Wayne, Indiana: il repertorio verte soprattutto su materiale tratto dal disco di studio, prima di Cradle Rock c’è una breve jam dove Joe va di slide, mentre la band sembra rocciosa anziché no, come testimoniano versione gagliarde dei pezzi di Gallagher, Free, un medley strumentale strepitoso di Steppin’ Out, lato Clapton e Rice Pudding di Jeff Beck https://www.youtube.com/watch?v=KntOQU-Sqkg , mentre c’è una lunga I Know Where I Belong, uno dei brani migliori scritti da Bonamassa per il disco di studio, anche A New Day Yesterday dei Jethro Tull è preceduta da un lungo assolo del nostro al wah-wah, a dimostrazione che il musicista newyorchese era già un axeman fantastico e dal vivo un grande perfomer, come confermano potenti versioni di Walk In My Shadow https://www.youtube.com/watch?v=dv6vmWF8ZRE  e dell’intenso slow blues If Heartaches Were Nickels. Negli extra del DVD, che sarebbe il formato da avere, ci sono una improvvisazione per chitarra che precede Are You Experienced di Jimi Hendrix e Had To Cry Today dei Blind Faith di Clapton, che poi darà il titolo al 4° album di studio del 2004  https://www.youtube.com/watch?v=xjQvapPsfa8. Già allora Bonamassa comincia a sviluppare la sua bulimia discografica, con almeno un disco di studio all’anno, oltre a Live a go-go e progetti collaterali con altre band nel futuro.

Visto che la produzione è immane (circa una cinquantina di dischi e DVD in venti anni) per evitare di trasformare l’articolo in un romanzo cercherò di concentrare i contenuti, ma dubito di farcela. Sempre nel 2002 esce

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So It’s Like That – 2002 Medalist **1/2 prodotto da Cliff Magness, noto per il suo lavoro con Avril Lavigne (?!?): un disco di transizione, dove Bonamassa scrive tutti i brani insieme ad altri, il lavoro della chitarra è spesso fantastico come nella iniziale My Mistake, ma molte delle canzoni virano verso un hard rock di maniera, per quanto Czar e Kramme siano una buona sezione ritmica, Joe all’epoca non era ancora un grande autore, e non si vive di soli assoli, per quanto nello shuffle blues della title track e nella lunga e tirata Mountain Time ci dia dentro alla grande. Ma già l’anno dopo realizza un disco quasi completamente dedicato alle 12 battute, sin dal titolo, uno dei suoi migliori in assoluto

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Blues DeLuxe – 2003 Medalist Records **** Anche ottimo il produttore Bob Held, pure lui con un passato “metallurgico” qui però dimenticato, il repertorio è impeccabile, Jon Paris di winteriana memoria viene aggiunto all’armonica e Benny Harrison all’organo: You Upset Me di B.B,.King, con un approccio non dissimile da quello di Gary Moore, il boogie Burning Hell di John Lee Hooker dove sembra di ascoltare gli ZZ Top, i Canned Heat o Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=zDoJPKR7Xz4 , una formidabile versione appunto del super lento Blues DeLuxe di Jeff Beck, con un assolo soffertissimo https://www.youtube.com/watch?v=7hQPDQidI2c , e ancora la funky Man Of Many Words di Buddy Guy, l’acustica Woke Up Dreamng scritta dallo stesso Joe, che firma anche l’ottima blues ballad I Don’t Live Anywhere, degna dei Bluesbreakers di Mayall, prima di andare di bottleneck in una fremente Wild About You Baby di Elmore James, e lavorare di fino in Long Distance Blues di T-Bone Walker, prima di scatenare la potenza della band in Pack It Up di Freddie King e nello strumentale Left Overs di Albert Collins, e il rigore blues di Walking Blues di Robert Johnson. Insomma Bonamassa mette a frutto gli anni di ascolto sui dischi del babbo, mentre l’anno dopo esce il primo disco per la Provogue con il ritorno al rock-blues, ma variegato e raffinato di

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Had To Cry Today – 2004 Mascot Provogue ***1/2 Bob Held è di nuovo il produttore, i musicisti (che ho rivalutato, ascoltando i dischi, dopo anni che non li sentivo) sono gli stessi del precedente CD: un misto di cover e brani originali di Bonamassa, che migliora come autore, con delle punte di eccellenza in Never Make Your Move To Soon dal repertorio di B.B. King, bonamassizzata (se si può dire) per l’occasione, una vorticosa Travelin’ South di Albert Collins a tutta slide, l’intenso lento Reconsider Baby di Lowell Fulson, fatto anche da Clapton e Gregg Allman, molto buona anche l’elettrocustica Around The Bend, dai retrogusti country, firmata dal nostro amico, che poi rende omaggio prima a Danny Gatton nella twangy Revenge Of The 10 Gallon Hat, alla faccia di chi dice che non abbia una grande tecnica, e anche all’amato Eric nella cover di Had To Cry Today, il bellissimo pezzo di Steve Winwood per i Blind Faith , dove gli assoli di Bonamassa rivaleggiano con quelli di Manolenta https://www.youtube.com/watch?v=XPYpPwGm5GY , eccellente anche lo strumentale acustico Faux Martini con influenze flamenco. A questo punto il nostro rovina un po’ la media delle uscite perché nel 2005 non esce nulla, ma l’anno dopo ecco arrivare

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You And Me – 2006 Mascot Provogue – ***1/2 il primo album con il produttore Kevin Shirley, che d’ora in avanti sarà alla guida di tutti i suoi dischi. Solita formula, rock con venature blues o viceversa, ma nuova band, Carmine Rojas al basso, che rimarrà con Joe fino a metà della successiva decade, Jason Bonham alla batteria, solo in questo album (ma poi presenza costante nei Black Country Communion), forse scelto anche perché nel disco c’è una cover di Tea For One dei Led Zeppelin, dove per la prima volta Shirley inizia ad usare gli archi in un disco di Bonamassa, che rilascia un assolo da sballo, grande versione comunque https://www.youtube.com/watch?v=mkpIsv7XHLE , cantata splendidamente da Doug Henthorn, che poi apparirà spesso come vocalist aggiunto negli anni a venire, Rick Melick è alle tastiere. Molto buone anche l’iniziale High Water Everywhere una cover di Charley Patton, molto rock 70’s, Bridge To Better Days tra Free, Bad Company e Foghat con Pat Thrall alla seconda chitarra, Asking Around For You una blues ballad con archi, So Many Roads di Otis Rush, ma la faceva anche Peter Green con John Mayall e Gary Moore. E che dire di una inconsueta e swingata I Don’t Believe di Bobby Bland, o del tradizionale con slide acustica Tamp Em Up Solid che faceva pure Ry Cooder, alla faccia di nuovo di chi dice che Bonamassa non sia eclettico e capace di suonare tutti gli stili, come dimostrano l’epica Django o il blues puro di Your Funeral My Trial di Sonny Boy Williamson tramutato in un rock violento, con il giovanissimovirtuoso dell’armonica L.D. Miller, all’epoca 12 anni, non si sa poi che fine abbia fatto, ma forse non era disponibile John Popper. L’anno successivo in estate esce il settimo album di studio

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Sloe Gin – 2007 Mascot Provogue ***1/2 il primo disco ad entrare nelle classifiche americane, ben al 184° posto, per quanto in alcuni paesi europei la fama di Bonamassa cominci a diffondersi. Quasi in equilibrio brani originali e cover, 6 a 5, e un altro nuovo ingresso nella formazione con l’arrivo di Anton Fig alla batteria, da allora sempre presente sullo sgabello in tutti gli album, una garanzia con la sua classe mista a forza esplosiva, a seconda di quello che serve. Ball Peen Hammer, un intenso brano in bilico tra acustico ed elettrico di Chris Whitley apre l’album, con il solito uso degli archi di Shirley, a seguire One Of These Days uno dei classici rock-blues originali dei Ten Years After, con Joe alla slide  , Seagull, una morbida ballata dei Bad Company di Paul Rodgers, Sloe Gin è una robusta cover orchestrale di un pezzo di Tim Curry, il vecchio protagonista del Rocky Horror Picture Show, non manca il blues-rock di Another Kind Of Love, un brano non molto conosciuto di John Mayall, Bonamassa poi si confronta con il blues lento e tirato di Black Night, un brano di Charles Brown e a sorpresa con una intricata cover di Jelly Roll, un pezzo acustico di John Martyn, e infine uno strumentale orientaleggiante come India. Un altro bel disco, che viene bissato sul finire dell’anno dal secondo album live

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Shepherds Bush Empire – 2007 Mascot Provogue **** Solo 5 brani, ma non è un mini CD, spiccano i 15 minuti clamorosi di Just Got Paid, il famoso pezzo degli ZZ Top, da sempre uno dei cavalli di battaglia dei suoi show, quando usa la famosa Gibson a freccia e parte per la stratosfera del rock, in un medley che include anche una fantastica Dazed And Confused dei Led Zeppelin, eccellenti anche le cover di Walk In My Shadow e Blues DeLuxe https://www.youtube.com/watch?v=x-EhuaZN-XE . Dal vivo non delude mai, tanto che a breve distanza esce un altro CD dal vivo, il doppio

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Live From Nowhere In Particular – 2008 Mascot Provogue ***1/2 registrato durante il tour di Sloe Gin, dal quale vengono estratti cinque brani, ma anche gli altri dischi sono ben rappresentati: ottime Bridge To Better Days, So Many Roads, il medley esotico di India/Mountain Time e quello di Just Got Paid questa volta accoppiata con Django, l’intermezzo acustico con If Heartaches Were Nickels e Woke Up Dreaming, oltre alla conclusiva A New Day Yesterday con lunga citazione finale di Starship Troopers degli Yes https://www.youtube.com/watch?v=ptMM2DKDH5Y . L’anno successivo esce

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The Ballad Of Joe Henry – 2009 Mascot Provogue ****, uno dei suoi migliori dischi di studio, che ottiene un buon successo di vendite in giro per il mondo, soprattutto in Inghilterra e Olanda dove entra nella Top 30. La title track adattata da un brano di Mississippi John Hurt, vive su un equilibrio sonoro tra sfuriate zeppeliniane e inserti orchestrali ricercati, Stop è una bella ballata della cantante pop britannica Sam Brown, Last Call è un furioso rock-blues scritto dallo stesso Joe, che ben si adatta all’uso della doppia batteria (Bogie Bowles) e della chitarra ritmica di Blondie Chaplin. Nell’album per la prima volta a tratti cominciano ad apparire i fiati e lo spettro musicale si allarga, come nella cover di Jockey Full Of Bourbon di Tom Waits, o in quella di Funkier Than A Mosquito’s Tweeter, un brano scoppiettante con uso di fiati di Ike And Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=cqV9XkgIsZM , oppure nel duro swamp-rock di As The Crow Flies di Tony Joe White https://www.youtube.com/watch?v=tZvHPaIoR4Y . Sulla scia del successo Bonamassa arriva anche a registrare un doppio CD e DVD dal vivo

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Live from the Royal Albert Hall2009 2CD/2DVD **** il quarto della decade e uno dei migliori in assoluto della sua carriera, grazie alla location fantastica, al repertorio, alla presenza di un paio di ospiti, uno in particolare, di cui tra un attimo. Magari non ve ne frega niente, ma in quel periodo ho assistito anch’io ad un suo concerto a Milano e sono rimasto molto soddisfatto di quanto visto e sentito. Ormai la doppia batteria è un fatto acquisito, come la presenza dei fiati: vi consiglierei la versione in DVD, perché la parte visiva, specie per uno show alla RAH ha una sua importanza. Quasi due ore e mezza di spettacolo, 19 brani dove esplora tutto il proprio repertorio, con un suono “maestoso”: Django e The Ballad Of Joe Henry illustrano il suo lato più progressive e 70’s rock, So It’s Like That quello blues, con l’intermezzo rock citazionista di Last Kiss, poi c’è la lunga sequenza sulle 12 battute, So Many Roads, Stop!, prima di chiamare sul palco il suo idolo e mentore Eric “Slowhand” Clapton per un duetto/duello nella splendida Further On Up The Road, presenza che realizza un sogno, con i fiati che punteggiano il suono spesso durante il concerto https://www.youtube.com/watch?v=iz41Ea4Kfvk . Intermezzo acustico con la lunga Woke Up Dreaming e la scandita High Water Everywhere con doppia batteria. Di nuovo rock con Sloe Gin e Lonesome Road Blues, poi nella seconda parte di nuovo blues, prima con Paul Jones che sale sul palco con la sua armonica per Your Funeral My Trial, seguita da una strepitosa Blues DeLuxe fiatistica dove Bonamassa distilla il meglio dalla sua chitarra. E gran finale con il trittico finale, Just Got Paid degli ZZ Top con la sua Flying V, brano ricco di citazioni degli Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=0ThfM81Y0ng , la sontuosa e suggestiva Mountain Time https://www.youtube.com/watch?v=xiMqvPYPvQ0  e la deliziosa blues ballad Asking Around For You che conclude un concerto strepitoso.

Fine della prima parte.

Bruno Conti

Un Piacevole “Scherzetto” Da Parte Dello Zio Bob: Il 26 Febbraio Esce Il Triplo “ Bob Dylan 1970”.

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Bob Dylan – 1970 – Sony 3CD 26/02/2021

A partire dal 2012, con cadenza annuale, la Sony ha immesso a sorpresa una serie di album multipli, inizialmente in LP e poi in CD, che riguardavano tutto ciò di inedito a livello di sessions che Bob Dylan aveva inciso 50 anni prima, allo scopo di proteggere il copyright (che in Europa scade appunto dopo mezzo secolo) e di evitare il proliferare di bootleg che altrimenti sarebbero stati perfettamente legali. Il problema che queste pubblicazioni non sono state pensate per una commercializzazione su larga scala, e quindi vengono immesse senza alcun battage pubblicitario, sempre verso fine anno ed in pochissimi negozi inglesi, francesi e se non sbaglio anche olandesi, diventando in breve degli ambitissimi oggetti da collezione e raggiungendo cifre da capogiro su Ebay. Ciò è avvenuto appunto nel 2012, 2013 e 2014 (rispettivamente per gli anni 1962, 1963 e 1964), mentre per il bienno 1965-66 ci hanno pensato la versione limitata “Big Blue” del dodicesimo episodio delle Bootleg Series dylaniane The Cutting Edge ed il “cubo” con le registrazioni complete del tour del 1966. Stessa cosa per i Basement Tapes, riepilogati nel Bootleg Series Vol. 11, mentre le poche sessions inedite di John Wesley Harding sono finite lo scorso anno in Travelin’ Thru insieme a quelle di Nashville Skyline (con e senza Johnny Cash) ed in parte Self Portrait.

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Nel 2019 però è ricominciata la prassi di far uscire senza preavviso la Copyright Collection (e dallo scorso anno pochissime copie sono state messe in vendita anche sul sito inglese Badlands) con tutte le sessions del 1969 che non erano finite su Travelin’ Thru e su Another Self Portrait, un dischetto interessante ma forse non indispensabile dal momento che il meglio era già stato pubblicato. Quest’anno è successo ancora, ma a differenza del 1969 le sessions del 1970 erano ancora per certi versi inesplorate, in quanto vertevano più che altro sull’album New Morning che era stato appena sfiorato dai Bootleg Series passati (anche se non manca ancora qualcosa da Self Portrait), ma soprattutto c’erano le nove canzoni incise il primo maggio insieme a George Harrison, una sessione più volte mitizzata e piratata. Inutile dire che sul sito della Badlands il triplo CD (72 canzoni), messo in commercio di punto in bianco lo scorso 30 novembre, è andato esaurito praticamente in due minuti, ma dato l’alto interesse musicale oltre che collezionistico della pubblicazione (che vede Dylan reincidere anche brani del suo periodo folk ed affrontare gustose ed inattese cover) in questa occasione le quotazioni su Ebay hanno toccato livelli di assoluta follia, partendo da basi d’asta di circa 500 euro fino ad arrivare a chiusure che si aggiravano sui duemila euro. La cosa deve aver attirato non poco l’attenzione della Sony (e forse dello stesso Dylan), in quanto con una mossa senza precedenti pochi giorni fa è stata annunciata l’uscita per il prossimo 26 febbraio di 1970, una versione della Copyright Collection disponibile su larga scala e con una nuova copertina, un evento abbastanza unico e per certi versi insperato dal momento che non farà parte delle Bootleg Series ma rimarrà un episodio a sé stante (ed il tempo ci dirà se sarà il primo di una nuova serie).

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E’ ovvio che il pensiero, non senza una punta di perfida soddisfazione, è andato verso quelli che hanno investito un capitale per accaparrarsi la versione “limitata” qui sopra, ed ora la vedono alla portata di tutti per la modica cifra di circa 30 euro, ma più ancora avrei voluto vedere la faccia di quelli che avevano ancora in essere una scommessa su Ebay e magari alla scadenza sono riusciti a vincerla essendo così costretti a strapagare una cosa che fra due mesi avrebbero potuto avere con il costo di una cena in pizzeria per due persone. E per aggiungere un’ulteriore beffa, 1970 conterrà due canzoni in più della versione del copyright! Ma entriamo nel dettaglio della pubblicazione. Come ho scritto poc’anzi, il grosso di queste sedute riguarda l’album New Morning che uscirà verso la fine del ‘70, ma alcune cose faranno in tempo a finire (non in queste versioni) su Self Portrait ed altre ancora come Lily Of The West, Spanish Is The Loving Tongue, l’hit di Elvis Presley Can’t Help Falling In Love e Sarah Jane verranno inserite sull’album “rinnegato” Dylan (ma qui abbiamo comunque takes alternate). Nei vari momenti suonano con Bob diversi musicisti di nome: nelle sessions di marzo troviamo David Bromberg alla chitarra e Al Kooper all’organo, che torneranno a giugno con una nuova sezione ritmica formata da Charlie Daniels al basso e Russ Kunkel alla batteria (con Ron Cornelius come chitarrista aggiunto).

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E poi c’è la già citata seduta del primo maggio, con Harrison alla solista https://www.youtube.com/watch?v=EKEGgIfIrUE&feature=emb_logo  e dietro le spalle Daniels e Kunkel (oltre al produttore Bob Johnston al piano): dopo un breve rehersal di Time Passes Slowly, Bob e George si divertono a suonare cose per il puro piacere di farlo, dato che era chiaro che il nuovo album non avrebbe avuto al suo interno nuove riletture full band di classici dylaniani della prima ora come Mama, You’ve Been On My Mind, It Ain’t Me, Babe, One Too Many Mornings e Gates Of Eden, né l’uno-due di brani di Carl Perkins (di cui George era grande fan) Matchbox e Your True Love, l’evergreen degli Everly Brothers All You Have To Do Is Dream o addirittura un divertente medley di due hit delle “girl groups” Shirelles e Crystals I Met Him On A Sunday/Da Doo Ron Ron. Ma oltre a Harrison c’è molto di più, e forse la parte meno interessante sono proprio le takes alternate dei brani di New Morning (con l’eccezione di If Not For You, della quale c’erano versioni migliori di quella poi finita sul disco originale), in quanto Bob si lancia in godibili riletture di canzoni che non ti aspetti da lui come Yesterday dei Beatles (sempre il primo maggio ma senza George), I Forgot To Remember To Forget di Elvis, Cupid di Sam Cooke, Universal Soldier di Buffy Sainte-Marie, Jamaica Farewell di Harry Belafonte ed Alligator Man di Jimmy C. Newman, quest’ultima in due gustose versioni, una rock’n’roll ed una country.

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Detto di un paio di strumentali senza titolo, più un riscaldamento che brani veri e propri, e della ripresa di altre canzoni passate del songbook dylaniano (Just Like Tom Thumb’s Blues, Rainy Day Women # 12 & 35, I Don’t Believe You, I Threw It All Away, Tomorrow Is A Long Time e perfino Song To Woody), una buona parte del triplo è occupata dalle versioni da parte di Bob di pezzi della tradizione ed altri che lo sono diventati, con menzioni particolari per Come All You Fair And Tender Ladies, Little Moses, Long Black Veil, ed il gospel Bring Me Little Water, Sylvie. Il triplo si chiude con tre canzoni prese da una session abbastanza misteriosa del 12 agosto con Buzzy Feiten alla chitarra e tutti gli altri musicisti sconosciuti, che comprende due ulteriori If Not For You e la non imperdibile Day Of The Locusts. Devo dire che la Sony e Bob Dylan hanno fatto bene a decidere di rendere queste sessioni disponibili al grande pubblico: 1970 è un triplo album perfetto per accompagnare Travelin’ Thru del 2019, e mette la parola fine alle prolifiche sedute del biennio 1969-70.

Ecco la lista completa delle canzoni, dei musicisti e degli autori dei brani presenti nel triplo CD.

[CD1]

March 3, 1970

I Can’t Help but Wonder Where I’m Bound
Universal Soldier – Take 1
Spanish Is the Loving Tongue – Take 1
Went to See the Gypsy – Take 2
Went to See the Gypsy – Take 3
Woogie Boogie

March 4, 1970
Went to See the Gypsy – Take 4
Thirsty Boots – Take 1

March 5, 1970
Little Moses – Take 1
Alberta – Take 2
Come All You Fair and Tender Ladies – Take 1
Things About Comin’ My Way – Takes 2 & 3
Went to See the Gypsy – Take 6
Untitled 1970 Instrumental #1
Come a Little Bit Closer – Take 2
Alberta – Take 5

Bob Dylan – vocals, guitar, piano
David Bromberg – guitar, dobro, bass
Al Kooper – organ, piano
Emanuel Green – violin
Stu Woods – bass
Alvin Rogers – drums
Hilda Harris, Albertine Robinson, Maeretha Stewart – background vocals

May 1, 1970
Sign on the Window – Take 2
Sign on the Window – Takes 3-5
If Not for You – Take 1
Time Passes Slowly – Rehearsal
If Not for You – Take 2
If Not for You – Take 3
Song to Woody – Take 1
Mama, You Been on My Mind – Take 1
Yesterday – Take 1

[CD2]

Just Like Tom Thumb’s Blues – Take 1
Medley: I Met Him on a Sunday (Ronde-Ronde)/Da Doo Ron Ron – Take 1
One Too Many Mornings – Take 1
Ghost Riders in the Sky – Take 1
Cupid – Take 1
All I Have to Do Is Dream – Take 1
Gates of Eden – Take 1
I Threw It All Away – Take 1
I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met) – Take 1
Matchbox – Take 1
Your True Love – Take 1
Telephone Wire – Take 1
Fishing Blues – Take 1
Honey, Just Allow Me One More Chance – Take 1
Rainy Day Women #12 & 35 – Take 1
It Ain’t Me Babe
If Not for You
Sign on the Window – Take 1
Sign on the Window – Take 2
Sign on the Window – Take 3

Bob Dylan – vocals, guitar, piano, harmonica
George Harrison – guitar, vocals (Disc 1, Tracks 20 & 24 and Disc 2, Tracks 2-3, 6-7, 10-11, & 16)
Bob Johnston – piano (Disc 1, Tracks 24-25 and Disc 2, Tracks 1-3)
Charlie Daniels – bass
Russ Kunkel – drums

June 1, 1970
Alligator Man
Alligator Man [rock version]
Alligator Man [country version]
Sarah Jane 1
Sign on the Window
Sarah Jane 2

[CD3]

June 2, 1970
If Not for You – Take 1
If Not for You – Take 2

June 3, 1970
Jamaica Farewell
Can’t Help Falling in Love
Long Black Veil
One More Weekend

June 4, 1970
Bring Me Little Water, Sylvie – Take 1
Three Angels
Tomorrow Is a Long Time – Take 1
Tomorrow Is a Long Time – Take 2
New Morning
Untitled 1970 Instrumental #2

June 5, 1970
Went to See the Gypsy
Sign on the Window – stereo mix
Winterlude
I Forgot to Remember to Forget 1
I Forgot to Remember to Forget 2
Lily of the West – Take 2
Father of Night – rehearsal
Lily of the West

Bob Dylan – vocals, guitar, piano, harmonica
David Bromberg – guitar, dobro, mandolin
Ron Cornelius – guitar
Al Kooper – organ
Charlie Daniels – bass, guitar
Russ Kunkel – drums
Background vocalists unknown

August 12, 1970
If Not for You – Take 1
If Not for You – Take 2
Day of the Locusts – Take 2

Bob Dylan – vocals, guitar, harmonica
Buzzy Feiten – guitar
Other musicians unknown

March 3-5 and May 1, 1970 sessions took place at Studio B, Columbia Recording Studios, New York City, New York
June 1-5 and August 12, 1970 sessions took place at Studio E, Columbia Recording Studios, New York City, New York

All songs written by Bob Dylan, except: “I Can’t Help but Wonder Where I’m Bound” by Tom Paxton; “Universal Soldier” by Buffy Sainte-Marie; “Spanish Is the Loving Tongue,” “Alberta,” “Come All You Fair and Tender Ladies,” “Things About Comin’ My Way,” “Fishing Blues,” “Honey, Just Allow Me One More Chance,” “Bring Me Little Water, Sylvie,” “Lily of the West” traditional, arranged by Bob Dylan; “Little Moses” by A.P. Carter; “Thirsty Boots” by Eric Andersen; “Come a Little Bit Closer” by Tommy Boyce, Bobby Hart, and Wes Farrell; “Yesterday” by John Lennon and Paul McCartney; “I Met Him on a Sunday (Ronde-Ronde)” by Shirley Owens, Beverly Lee, Addie Harris, and Doris Coley; “Da Doo Ron Ron” by Phil Spector, Jeff Barry, and Ellie Greenwich; “Ghost Riders in the Sky” by Stan Jones; “Cupid” by Sam Cooke; “All I Have to Do Is Dream” by Boudleaux Bryant; “Matchbox” and “Your True Love” by Carl Perkins; “Alligator Man” by Jimmy C. Newman and Floyd Chance; “Jamaica Farewell” by Irving Burgie; “Can’t Help Falling in Love” by Hugo Peretti, Luigi Creatore, and George David Weiss; “Long Black Veil” by Marijohn Wilkin and Danny Dill; and “I Forgot to Remember to Forget” by Charlie Feathers and Stan Kesler.

Produced for release by Jeff Rosen and Steve Berkowitz
Sessions originally produced by Bob Johnston

Marco Verdi

Da New York A Memphis, Tra Blues E Soul! King Solomon Hicks – Harlem

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King Solomon Hicks – Harlem – Mascot/Provogue

La Mascot/Provogue è sempre più lanciata nella ricerca di chitarristi e cantanti di talento da inserire nel proprio roster: l’ultimo, King Solomon Hicks, come orgogliosamente annuncia il titolo del suo” primo” album per l’etichetta americana, Harlem, viene proprio dal quartiere della Grande Mela, noto anche come la Upper Side di Manhattan, dove il giovane musicista di colore sotto la guida della madre ha iniziato a muovere i suoi primi passi fin da ragazzino, arrivando a pubblicare un disco già nel 2010, Embryonic, come chitarrista della Cotton Club All-Star Band, quando di anni ne aveva solo 14. Ora ne ha 24 e sulla copertina del nuovo album è ripreso con una chitarra che da lontano sembra una Gibson, ma in effetti è una Benedetto GA35, fatta a mano dall’omonimo maestro liutaio. E il disco è un misto di blues, jazz, soul, molto rock, gospel, funky, R&B, Il tutto al servizio di una voce calda e matura, e di uno stile chitarristico eclettico e sfavillante, dove tutte le componenti citate vengono messe in fila dall’ottimo produttore Kirk Yano.

Ed ecco quindi scorrere un misto di materiale classico e brani originali firmati da Hicks, accompagnato da una band dove militano elementi provenienti da Soullive, Lettuce, le band di Jack White, Hank Williams Jr e altri, più in un brano, come ospite, il vecchio batterista di Savoy Brown/Foghat Roger Earl. Nella presentazione del disco King Solomon ricorda che in questa fusione di stili vorrebbe inserire anche elementi più” moderni”, contemporanei rispetto al suono classico, ma, fortunatamente, mi sembra non ci siano riusciti: l’iniziale I’d Rather Be Blind (da non confondere con I’d Rather Go Blind di Etta James) è un pimpante brano dello stesso Hicks, tra blues e R&B, può ricordare lo stile Stax di Albert King, ma anche il suono Delmark dei primi anni ’70, piano e organo in bella evidenza, un ritmo scandito, la voce calda e suadente di Hicks, sembra quasi un brano uscito da Muscle Shoals (manco a dirlo), la chitarra disegna linee e licks classici senza cadere mai nello scontato, mentre una vibrante Everyday I Have The Blues è meno “swingata” rispetto a quella di B.B. King, decisamente più veloce e vicina agli stilemi delle band rock, con la solista in grande spolvero in una serie di interventi gagliardi, quasi allmaniani nel loro dipanarsi.

What The Devil Loves è un potente brano tra rock, blues e R&B, scritto da Fred Koller, con un magnifico Earl alla batteria e un impeto fluido e torrenziale nella chitarra del nostro; 421 South Main, uno dei pezzi originali, è un veloce shuffle battente con un florilegio di soliste furiose e un suono palpitante, mentre Love You More Than You’ll Ever Know, è proprio il brano di Al Kooper scritto per i Blood; Sweat & Tears, che negli ultimi anni sta vivendo una seconda giovinezza ( di recente Bonamassa e Gary Moore, ma in passato anche Donny Hathaway), la eccellente versione di Hicks ha tocchi jazzy e latineggianti alla Santana, ma anche un timbro di chitarra tra Peter Green e Moore, spaziale e lancinante al contempo. Headed Back To Memphis è un “bluesone” di quelli duri e puri, tosto il giusto, che illustra questo viaggio musicale da Harlem a Memphis con grinta e grande carica, sia vocale che strumentale, a riprova di una classe innata del giovane Solomon, che si difende egregiamente anche nel settore funky con una versione carnale del vecchio brano di Gary Wright Love Is Alive, che diventa uno strumentale tra sax e chitarrine wah-wah impazzite, sonorità sognanti un attimo e carnali e sensuali quello successivo.

Have Mercy On Me, se mi passate l’ossimoro, è un” indiavolato” gospel-rock preso a velocità da ritiro della patente, con Hicks e i suoi accoliti che ci danno dentro alla grande, e pure Riverside Drive quanto ad intensità non scherza, altro strumentale poderoso con la solista pungente del giovane King Solomon di nuovo in grande spolvero in sonorità quasi futuribili ed hendrixiane, ottimo pure It’s Alright , altro fremente e scandito blues di ottima fattura. In conclusione troviamo una versione ardente e magnifica di Help Me, il classico di Sonny Boy Williamson, riletto con grinta, feeling e una perizia tecnica alla chitarra veramente ammirevoli. Il disco esce il 13 marzo.

Bruno Conti

Un Concerto Strepitoso E Di Grande Valore Storico. Bob Dylan – Hollywood Bowl ‘65

bob dylan hollywood bowl 65

Bob Dylan – Hollywood Bowl ’65 – Rox Vox CD

Se la celeberrima tournée del 1966 di Bob Dylan non ha ormai più segreti grazie al box The 1966 Live Recordings pubblicato nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/27/supplemento-della-domenica-forse-il-tour-piu-importante-sempre-volta-prezzo-contenuto-bob-dylan-the-complete-1966-live-recordings/ , molto più avvolta nel mistero è la seconda parte del tour svoltosi nel 1965, che si tenne in America tra la fine di Agosto e Dicembre e che vedeva alle spalle del leader una vera rock band, per la prima volta dopo la leggendaria apparizione al Festival di Newport dello stesso anno (mentre nella prima parte del ‘65 il tour, svoltosi nel Regno Unito, era stato solo acustico nonché documentato nel famoso film Don’t Look Back). I pochi bootleg in circolazione che si occupavano di quegli show erano perlopiù di infima qualità, ed anche il download omaggio offerto agli acquirenti della versione Super Deluxe del dodicesimo volume delle Bootleg Series, The Cutting Edge, non era di livello molto migliore. E’ quindi con grande sorpresa e soddisfazione che posso affermare che questo Hollywood Bowl ’65 (uno dei soliti bootleg di produzione inglese spacciati per album semi-legali) è invece inciso in maniera eccellente, ancor di più se pensiamo che all’epoca le tecniche di registrazione non erano certo all’avanguardia.

Ma la cosa che più ci interessa è la performance di Dylan, che è altrettanto splendida: Bob solo pochi mesi prima del tour del 1966 sembra quasi un’altra persona, rilassato, spiritoso e ben disposto verso il pubblico che, bisogna dirlo, accetta di buon grado la parte elettrica del concerto senza protestare come avverrà in Inghilterra l’anno seguente (ma anche in alcune date americane a seguire). La cosa si riflette chiaramente sul nostro che è molto meno teso e di conseguenza meno arrabbiato (e forse anche un po’ meno sotto l’effetto di anfetamine), e quindi anche la parte elettrica è molto più musicale e meno “fuckin’ loud” di quelle del 1966. Il CD inoltre ha una confezione quasi comparabile ai dischi ufficiali, in digipak e con un libretto interno corredato da diverse foto e la riproduzione di un articolo dell’epoca del Los Angeles Times. La serata in questione è quella del 3 Settembre, e vede Bob esibirsi nella prima parte in perfetta solitudine, solo con chitarra acustica ed armonica come era sempre stato fino a quel momento. Sette canzoni, tutti classici uno più bello dell’altro, partendo da She Belongs To Me e passando da To Ramona (versione ispiratissima), Gates Of Eden, It’s All Over Now, Baby Blue, una Desolation Row già intensa ed emozionante (l’album Highway 61 Revisited era uscito da appena quattro giorni), per finire con due splendide e cristalline Love Minus Zero/No Limit e Mr. Tambourine Man, quest’ultima troncata durante l’ultimo assolo di armonica per un difetto del nastro originale.

Nella seconda parte (dalla quale purtroppo mancano Tombstone Blues e It Ain’t Me, Babe) Bob viene dunque raggiunto da una band che è un misto tra i sessionmen di Highway 61 Revisited (Al Kooper all’organo, e si sente, e Harvey Brooks al basso) e gli Hawks, cioè i futuri The Band, che accompagneranno il nostro l’anno seguente (Robbie Robertson alla chitarra e Levon Helm, che però nel ’66 non ci sarà sostituito da Mickey Jones, alla batteria). I Don’t Believe You è molto più folk-rock e più pacata di quelle delle future setlist britanniche, con Bob che canta i versi invece di urlarli nel microfono, mentre Just Like Tom Thumb’s Blues non è molto diversa da quella in studio, una rilettura fluida e distesa. La chicca del CD è però senza dubbio From A Buick 6, rock-blues adrenalinico che, nonostante la buona riuscita (assolo chitarristico compreso), non verrà mai più ripreso da Dylan in carriera, neppure nel resto di questo tour, diventando così con sole due performance totali uno dei suoi brani più rari dal vivo (a parte la moltitudine di pezzi che non ha proprio mai suonato). Lo show si conclude con Maggie’s Farm, puro rock’n’roll con ottimo background di organo e chitarra, la già maestosa e luciferina Ballad Of A Thin Man ed il gran finale con Like A Rolling Stone, una versione davvero spettacolare con Dylan rigorosissimo al canto come non lo avevo mai sentito, ed un accompagnamento formidabile da parte della band (d’altronde avere Kooper, cioè l’uomo che aveva inventato il famoso riff di organo del brano aiuta non poco).

Un pezzo che da solo vale il CD, che comunque ha diversi altri punti a favore: performance scintillante, incisione quasi professionale e, non ultimo, un costo decisamente contenuto.

Marco Verdi

Anche In Versione Acustica La Conferma Di Una Voce Splendida. Marc Broussard – Home (The Dockside Sessions)

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Marc Broussard Home (The Dockside Sessions) – G-Man Records

New Orleans, e tutta la Louisiana in generale, in ambito musicale sono rimasti uno degli ultimi baluardi della buona musica, quella vera, naturale, ruspante, rispettosa della tradizioni, una barriera contro il cattivo gusto imperante nella musica attuale: gli artisti, sia quelli autoctoni che i cosiddetti “oriundi”, nati altrove ma che lì si sono stabiliti, offrono una resistenza, quasi una resilienza, verso le derive della massificazione che tendono a rendere tutto uguale ed assimilato, il mondo della rete e dei social media ha questa tendenza a fagocitare tutto (per non parlare dei cosiddetti talent) e quindi i veri talenti fanno fatica ad emergere o appunto a resistere, e diventano purtroppo sempre più piuttosto marginali. A New Orleans e dintorni non è così, la musica si respira ancora nelle strade, nei locali, nei Festival, anche se fa fatica ad uscire da quei confini: qualcuno ci prova ed insiste, come Marc Broussard, che dopo l’uno-due eccellente del 2016-2017 con Save Our Soul 2 e Easy To Love https://discoclub.myblog.it/2017/11/23/diverso-dal-precedente-ma-sempre-musica-di-classe-marc-broussard-easy-to-love/ , ci delizia con questo Home (The Dockside Sessions) che raccoglie una serie di esibizioni (molte peraltro facilmente rintracciabili su YouTube in formato video) registrate appunto ai Dockside, gli studi casalinghi situati a Maurice, sempre in Louisiana.

Un album dove Marc, con l’aiuto di pochissimi musicisti, spesso solo una chitarra acustica ed un pianoforte, non sempre insieme, ha (ri)visitato una serie di canzoni, sia proprie che classici del  soul , in una veste intima e delicata, ma non priva della forza intrinseca insita nella musica di Broussard, che è poi la sua voce: splendida, vellutata, da bianco con l’anima nera, con uno stile che per una volta è stato definito con esattezza attraverso il termine di “Bayou Soul”, un misto di R&B, funky, swamp rock, pop, blues e ovviamente soul , eseguito con una naturalezza quasi disarmante. Il nostro amico ha passato la sua giovinezza e gli anni formativi tra Carencro, dove è nato (e che era il titolo del suo secondo album) e Lafayette, dove il babbo Ted Broussard (una leggenda locale con i Boogie Kings) lo ha nutrito a pane e musica, e i risultati si sentono in ogni disco che pubblica: anche il “nuovo” Home è una vera panacea per le nostra orecchie torturate spesso da sonorità insulse e senza costrutto,  si tratta sicuramente di musica di culto, destinata a pochi, anche per la scarsa reperibilità dei suoi dischi, che però meritano sicuramente lo sforzo di una ricerca.

French Café, posta in apertura, è una canzone di David Egan (altro figlio della Louisiana, autore sopraffino scomparso nel 2016), un brano solo voce e pianoforte (il padre Ted, anche se è principalmente un chitarrista), ballata suadente e di gran classe, che, anche in questa versione più intima di quella che era presente sul disco di esordio del 2002, riluce delle sue squisite capacità interpretative, uno che in questo campo non è sicuramente inferiore a gente come John Hiatt o Delbert McClinton, tanto per non fare nomi. Broussard non tradisce neppure come autore, canzoni come le bellissime The Wanderer , con chitarra acustica aggiunta, Lonely Night In Georgia, The Beauty Of Who You Are, con i suoi altopiani vocali, la dolce e malinconica Gavin’s Song, l’intensa Let Me Leave, l’avvolgente Send Me A Sign (e le altre che non cito per brevità, ma non ce n’è una scarsa), parlano di un interprete affascinante per la sua capacità di immergersi  a fondo nell’atmosfera della canzone.

E che poi eccelle anche quando viene a confrontarsi con canzoni immortali come lo splendido blues I Love You More Than You’ll Ever Know, il brano di Al Kooper che grazie alla voce superba di Marc e alla elettrica di Ted Broussard, nonché di un piano elettrico, raggiunge livelli di intensità straordinari, poi replicati in versioni  eccezionali di Do Right Woman, Do Right Man, dove quasi non fa rimpiangere la grande Aretha, per non parlare di una mirabile Cry To Me, il capolavoro di Solomon Burke, che era già presente come bonus in Save Our Soul II, e di una splendida These Arms Of Mine, che sono sicuro il grande Otis Redding da lassù avrebbe certamente approvato. Chiude un album eccellente l’unico pezzo con la band completa, una intensa e tirata Home Anthology che illustra anche il lato elettrico di questo grande cantante. Ancora una volta, sentire per credere.

Bruno Conti

Un’Ora Di Divertimento Assicurato! Webb Wilder & The Beatnecks – Powerful Stuff!

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Webb Wilder & The Beatnecks – Powerful Stuff! – Landslide CD

Webb Wilder, nato John McMurry 64 anni fa in Mississippi, è un musicista (ed attore a tempo perso) che non ha mai assaporato neppure per un attimo alcunché di lontanamente paragonabile al successo, e nemmeno ha conseguito una grande notorietà. Eppure è sulle scene da oltre trent’anni, e la sua miscela di rock’n’roll, country, pop, blues e rockabilly avrebbe meritato maggior fortuna. Una decina di album in totale, quasi tutti prodotti da R.S. Field, songwriter e produttore molto noto a Nashville, ma nessuno di essi è mai entrato in nessun tipo di classifica. Ma giustamente Webb se ne è sempre fregato, ed è andato avanti a proporre il suo mix a tutta adrenalina, un tipo di musica che nell’approccio non può non ricordare quella di Commander Cody & His Lost Planet Airmen, anche se il Comandante negli anni d’oro era diversi livelli più in alto, oltre che dal suono molto più country. Ma Wilder non è uno che si tira indietro, è un valido cantante e buon chitarrista, e ha un senso del ritmo notevole, ma anche feeling, idee e creatività.

Powerful Stuff! non è un disco nuovo, e neppure un’antologia, ma una collezione di brani inediti registrati tra il 1985 ed il 1993, comunque in definitiva suona fresco e stimolante come se le canzoni in esso contenute avessero poche settimane di vita. Merito va sicuramente anche alla band che lo accompagnava, The Beatnecks, un trio composto da Donny Roberts alla chitarra, Denny Blakely al basso e Jimmy Lester alla batteria, un combo tutta potenza e feeling, che rende l’ascolto dei sedici brani contenuti in questo CD (alcuni dei quali dal vivo) estremamente piacevole; come ciliegina, abbiamo anche diversi ospiti di gran nome, tra cui il noto bassista Willie Weeks, il grande axeman David Grissom e soprattutto il leggendario Al Kooper all’organo in un pezzo. Inizio a bomba con Make That Move, un rock’n’roll dal ritmo pulsante ed un’atmosfera da garage band anni sessanta, subito seguita dall’elettrica New Day, rock song con tanto di chitarra distorta, ma comunque immediata e con un retrogusto pop. Anche No Great Shakes prosegue sulla stessa linea, puro rock’n’roll con chitarre in primo piano, suono ruspante e gran ritmo, mentre la cadenzata Lost In The Shuffle è un gustosissimo errebi con tanto di fiati ed organo (Kooper è riconoscibilissimo), un brano che dimostra che Wilder non è affatto monotematico.

Powerful Stuff è in linea con il titolo, chitarre, ritmo, grinta e feeling, Ain’t That A Lot Of Love è un soul-rock vibrante e solido, mentre I’m Wild About You Baby è puro boogie, che sarebbe irresistibile se non fosse penalizzato da una registrazione quasi amatoriale (ma è un caso isolato). Non mancano le cover: Nutbush City Limits, versione al fulmicotone del classico di Ike & Tina Turner, suonata con foga da punk band, Catbird Seat di Steve Forbert, oltremodo accelerata ed elettrificata, l’irresistibile rockabilly Hey Mae, un vecchio brano country di Rusty & Doug Kershaw rivoltato come un calzino (sembrano i Blasters) ed una scatenatissima Lucille di Little Richard. Altri highlights sono il gradevole power pop di Animal Lover, decisamente chitarristico, i vibranti rock’n’roll High Rollin’ e Revenoor Man (e qui le similitudini con il gruppo del Comandante George Frayne sono molte), la deliziosa e tersa country ballad Is This All There Is?, davvero bella, e l’incalzante Dead And Starting To Cool. Un ottimo dischetto di rinfrancante rock’n’roll, perfetto se di Webb Wilder non avete nulla, ma anche se siete fra i pochi che lo conoscevano già.

Marco Verdi

Il Vero Inventore Del Folk-Rock? Dion – Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions

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Dion – Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions – Norton CD

Tutti i libri e siti che trattano di storia della musica contemporanea sono soliti far coincidere la nascita del folk-rock, genere popolarissimo nella seconda metà degli anni sessanta, con il 1965, ed in particolare intorno a tre eventi principali: l’uscita dell’album Bringing It All Back Home di Bob Dylan, nel quale il grande cantautore per la prima volta elettrificava le sue canzoni (in realtà lo aveva già fatto nel 1962 con il singolo Mixed-Up Confusion, ma non siamo troppo pignoli), la sua partecipazione al Festival di Newport accompagnato dalla band di Paul Butterfield, che scandalizzò i puristi del folk, e l’esordio dei Byrds, gruppo inventore e leader del jingle-jangle sound, con Mr. Tambourine Man (album e singolo). Sempre nello stesso anno ci furono altri eventi minori sempre legati alla nascita del folk-rock, come l’uscita del singolo The Sound Of Silence di Simon & Garfunkel (evento che a ben vedere tanto minore non è, dato che stiamo parlando di una canzone che è nella mia Top 3 di sempre), con l’aggiunta arbitraria da parte del produttore Tom Wilson di strumenti elettrici e sezione ritmica, brano che di fatto rilanciò la carriera del duo, oppure l’esordio di altri gruppi dal suono che rimandava al nuovo genere musicale, come Turtles e Sonny & Cher, o ancora la pubblicazione del disco più famoso (e più bello) di Barry McGuire, quell’Eve Of Destruction la cui title track è tra i capolavori assoluti del folk-rock.

Pochi però sanno che il primo destinatario dell’idea di elettrificare la musica folk è un “insospettabile”, cioè Dion Di Mucci, che con i suoi Belmonts aveva già assaporato il successo sul finire dei fifties, e che in quegli anni, dopo aver sciolto il suo gruppo originale e formato i Wanderers, era alla ricerca di qualcosa di nuovo dal punto di vista sonoro. Galeotto fu l’incontro, verso la fine del 1964, proprio con Tom Wilson, che non dimentichiamo in quel periodo era anche il produttore di Dylan (ed anche Bringing It All Back Home vedrà Tom in cabina di regia), il quale propose a Dion di prendere delle canzoni folk note e meno note e di rivestirle di sonorità elettriche: al musicista del Bronx l’idea piacque molto, dato che era anche un fan di Dylan (ammirazione tra l’altro ricambiata), e così nel 1965 i due entrarono negli studi della Columbia, all’epoca la casa discografica per la quale lavorava Dion, ed incisero quindici pezzi, tra cover (poche) e brani originali, di puro folk-rock, con l’aiuto dei Wanderers (Johnny Falbo alla chitarra solista, Pete Falsciglia al basso e Carlo Mastrangelo alla batteria) e delle tastiere di Al Kooper, altro musicista determinante per il 1965 dylaniano. Il risultato finale soddisfò sia il cantante italoamericano che Wilson, ma inspiegabilmente la Columbia si rifiutò di pubblicare il disco, limitandosi a fare uscire qualche canzone su singolo: scelta abbastanza inspiegabile, in quanto in quel periodo il folk-rock si stava affermando come il genere in assoluto più in voga, ed anche perché le incisioni che Dion aveva portato in dote erano di ottimo livello. Fatto sta che la cosa rovinò i rapporti tra il cantante e l’etichetta, che gli rescisse il contratto lasciandolo a piedi, cosa che dovette lasciare il nostro abbastanza sconcertato visto che il suo album successivo, Dion, uscì solo tre anni dopo.

Oggi finalmente la Norton ripara al torto subito da Di Mucci 52 anni fa pubblicando quelle quindici canzoni ed intitolando l’album Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions: da qualche parte è stato detto che questo disco è inedito, ma va detto che di inedito non c’è nulla, in quanto tutte le canzoni, oltre ai singoli dell’epoca, sono uscite in LP successivi o in antologie (quindi non è un’operazione analoga, per fare un esempio, ad Out Among The Stars di Johnny Cash), ma di sicuro è la prima volta che l’album esce così come era stato pensato in origine (e poi comunque voglio vedere in quanti già possiedano tutte queste canzoni). Che Dylan fosse un modello per queste registrazioni lo si capisce dalla title track, che sembra una outtake proprio da Bringing It All Back Home (anche se è l’unica, insieme ad altri due pezzi a non essere prodotta da Wilson, bensì da Bob Mersey, già collaboratore del cantante newyorkese), compreso il modo di cantare di Dion che ricalca quello di Bob. Come già detto le cover non sono poi molte, solo cinque su quindici: tanto Dylan, ovviamente (presente con ben tre brani, le all’epoca inedite Baby, I’m In The Mood For You e Farewell, quest’ultima molto bella, ed una scintillante ripresa di It’s All Over Now, Baby Blue), Tom Paxton, la cui Can’t Help But Wonder Where I’m Bound è suonata in puro Byrds-style, mentre All I Want To Do Is Live My Life, scritta da Mort Shuman, è anch’essa figlia del nuovo suono di Mr. Zimmerman. I brani originali sono tutti in perfetto stile folk-rock, con chitarre ed organo in primo piano, come le orecchiabili My Love e Wake Up Baby, alcune con l’influenza di His Bobness decisamente pronunciata (Tomorrow Won’t Bring The Rain e Two Ton Feather), qualcuna con un maggior gusto pop, sia beatlesiano (Now) che non (Time In My Heart For You, impreziosita dai cori e dall’inconfondibile organo di Kooper), altre belle e basta, come la limpida Knowing I Won’t Go Back There, dall’ottima melodia cantata benissimo (Dion è sempre stato un’ugola notevole) e la deliziosa You Move Me Babe, eseguita quasi nello stile doo-wop delle origini musicali del nostro.

Più di 50 anni per riparare ad un torto, in un tipico caso di sliding doors chissà che piega avrebbe preso la carriera di Dion se Kickin’ Child, come da progetto iniziale, fosse stato pubblicato nel 1965?

Marco Verdi