Una Grande Folksinger Muove I Primi Passi, Ecco La Recensione Del Box. Joni Mitchell – Archives Volume 1: The Early Years 1963-1967

joni mitchell archives vol.1 front

Joni Mitchell – Archives Volume 1: The Early Years 1963-1967 – 5CD Box Set Rhino

Se volete andare a rileggervi quanto detto in sede di presentazione del cofanetto, che ovviamente rimane valido, lo trovate a questo link https://discoclub.myblog.it/2020/09/24/apre-gli-archivi-anche-laltra-grande-icona-della-musica-canadese-joni-mitchell-archives-volume-1-the-early-years-1963-1967/ , dove ho scritto le mie considerazioni generali mentre oggi ci occupiamo, come promesso, in modo approfondito dei contenuti del box, che ho avuto modo di ascoltare con attenzione dal giorno della sua pubblicazione avvenuta il 30 ottobre.

Il contenuto è stato, giustamente, pubblicato in base alla sequenza cronologica delle registrazioni, anche su suggerimento di Neil Young alla Mitchell, quindi partiamo con il primo dischetto.

CD1]
Radio Station CFQC AM, Saskatoon, Saskatchewan, Canada (ca. 1963), nove brani provenienti da quella che si ritiene la più vecchia registrazione esistente negli archivi, quando si esibiva ancora come Joan Anderson,  nella città dove abitava allora con la sua famiglia, in un repertorio prettamente tradizionale, a parte due pezzi, come testimoniano le canzoni di questa sorta di provino per una radio locale: la voce a venti anni è già cristallina e formata, con un bellissimo vibrato mutuato dalle grande voci della musica folklorica anglo-scoto-irlandese e dalle sue derivazioni americane, che però poi in seguito non avrebbe amato molto, e dalle quali non fu a sua volta molto amata, ed ecco così scorrere House Of The Rising Sun, John Hardy, il classico di MerleTravis Dark As A Dungeon, la sognanteTell Old Bill, la mossa Nancy Whiskey, Anathea con alcune ardite vocalizzazioni che anticipano le future svolte della sua carriera, per quanto sempre tenute in un ambito rigorosamente tradizionale, accompagnata solo da un ukulele a quattro corde, il suo primo strumento, a parte il pianoforte della gioventù, ad aun certo punto abbandonato, come ricorda nella amabile conversazione con il giornalista e regista Cameron Crowe, contenuta nel libretto che correda il box.

Tornando a quella prima apparizione pubblica troviamo anche, a completare questa registrazione miracolosamente ritrovata di recente, Copper Kettle di Albert Frederick Beddoe, e altri due standard del folk come Fare Thee Well (Dink’s Song) e Molly Malone. Verso la fine del 1964, poco prima di scoprire di essere incinta, Joni si esibisce nel primo importante concerto lontano da casa di fronte ad un pubblico, del quale troviamo sempre nel primo CD i due set completi, che vertono ancora su un repertorio tradizionale, anche se ci sono un paio di brani di Woody Guthrie e uno di Sydney Carter, mentre la Mitchell, come racconta sempre lei stessa, inizia ad inserire nel contesto delle sue esibizioni alcune presentazioni che fanno da raccordo alla sequenza delle canzoni e che seguono anche una ideale traccia logica tra l’una e l’altra e non sono solo pezzi eseguiti senza nessun nesso logico.

Live at the Half Beat: Yorkville, Toronto, Canada (October 21, 1964)
Lei è ancora Joni Anderson, ma appare sempre più sicura della sua vocalità, la registrazione cattura anche i rumori di fondo del piccolo locale, rumori di piatti e bicchieri, ma la qualità sonora è di nuovo eccellente:una brillante Nancy Whiskey, che il pubblico apprezza,  precede The Crow On The Cradle, una canzone contro la guerra che Joni presenta come un brano del repertorio di Ewan MacColl, ma che nel libretto viene attribuita giustamente a Carter e che comunque è sempre quella di cui esiste anche una memorabile versione di Jackson Browne.

Pastures Of Plenty è proprio quella di Woody Guthrie che Joni presenta come uno dei suoi autori preferiti, e che illustra una sempre maggiore destrezza strumentale, anche se nella registrazione appare un leggero fastidioso rumore di fondo, eccellente anche la lunga e solenne Every Night When The Sun Goes In, preceduta da una breve introduzione arriva anche Sail Away, un altro traditional che al suo interno ha anche elementi caraibici di calypso e nel quale la nostra amica timidamente incita il pubblico a cantare con lei nel ritornello, mi pare con poco successo.

Nel secondo set del concerto troviamo di nuovo una brillante John Hardy e Dark As A Dungeon, seguite dal traditional Maids When You’re Young Never Wed An Old Man, preceduta da una breve ed ironica esortazione di Joni alle giovani fanciulle; altro brano della tradizione è The Dowie Dens Of Yarrow, un brano scozzese cantato a cappella, mentre in chiusura la Mitchell esegue un altro brano di Woody Guthrie, la splendida Deportee (Plane Crash At Los Gatos), esecuzione impeccabile di una canzone poi entrata nel repertorio di tantissimi cantanti e gruppi.

Gli ultimi tre brani del primo CD provengono da una registrazione casalinga nell’abitazione dei genitori, a Saskatoon nel Saskatchewan, nel febbraio del 1965, a pochi giorni dalla nascita della figlia Kelly Dale Anderson, che fu data in adozione, visto che il padre se ne lavo le mani. Le tre canzoni sono The Long Black Rifle, Ten Thousand Miles e Seven Daffodils, tutte affascinanti e che testimoniamo la costante crescita artistica della nostra amica.

CD2)

Sempre nel 1965, ad aprile, incontra Charles Scott “Chuck” Mitchell, un nativo di New York che diventerà il suo primo marito e che la incoraggia ad intraprendere la carriera musicale suonando nelle coffee houses, e alla fine del mese, i due si avviano per gli Stati Uniti, il primo viaggio negli USA per Joni, che nel frattempo comincia a scrivere le sue canzoni, sempre spronata da Chuck che vede le sue potenzialità. Le prime tre registrazioni del secondo CD vengono da un’altra registrazione privata per il compleanno della mamma, messe su nastro a Detroit, Michigan.

Myrtle Anderson Birthday Tape: Detroit, MI (1965)

Ed ecco la prima apparizione di Urge For Going, poi apparsa come lato B di un singolo e nella compilation Hits. A seguire la deliziosa I Was Born To Take The Highway e la leggiadra Here Today Gone Tomorrow, rimaste inedite finora. Nel giugno del 1965 si sposa con Chuck, ma nel frattempo incontra il collega Eric Andersen, che le insegna quella particolare accordatura in open G tuning (sol maggiore) che rimarrà un suo marchio di fabbrica negli anni, in quanto poi Joni la farà propria in modo unico. Con questa nuova tecnica registra un demo da presentare a Jac Holzman, il boss della Elektra, che però non la mette sotto contratto. Oggi possiamo ascoltare anche noi quei cinque brani…

Jac Holzman Demo: Detroit, MI (August 24, 1965)

Tra i quali spicca secondo Cameron Crowe la bellissima Day After Day, ma anche le altre quattro sono interessanti ed inedite a livello ufficiale: What Will You Give Me, l’intricata Let It Be Me, la danzante The Student Song, e la sospesa Like The Lonely Swallow, che già indicano la strada che verrà intrapresa negli album a venire. Ancora come Joan Anderson partecipa il 4 ottobre del 1965, sempre con due canzoni nuove, alla trasmissione televisiva Let’s Sing Out della emittente CTV Winnipeg, registrata alla University Of Manitoba: si tratta di Favorite Colour e di Me And My Uncle, dove appare anche un bassista sconosciuto, molto interessanti entrambe.

Sempre registrato a Detroit in un demo casalingo di inizio ’66, ecco Sad Winds Blowin’, altro interessante brano che non avrebbe sfigurato nei suoi primi album. Al 24 ottobre del 1966 partecipa di nuovo alla trasmissione Let’s Sing Out, come Joni Mitchell questa volta, da London, Ontario: Just Like Me e Night In The City, di cui esistono anche le immagini e, come ricorda il presentatore, oltre che già molto brava, appare anche bellissima.

L’ultima parte del 2° CD è dedicata ai 6 brani, più alcune introduzioni, estratti dalla esibizione

Live at the 2nd Fret: Philadelphia, PA (November 1966)
apparsa già in diversi bootleg, ecco la lista completa

“Brandy Eyes”
Intro to “Urge For Going”
“Urge For Going”
Intro to “What’s The Story Mr. Blue”
“What’s The Story Mr. Blue”
“Eastern Rain”
Intro to “The Circle Game”
“The Circle Game”
Intro to “Night In The City”
“Night In The City”

Questa, non nascondiamocelo, è già Joni Mitchell, fatta e finita, eccellente esibizione dal vivo.

CD3)

Che pochi mesi dopo, il 12 marzo del 1967, sempre a Flladelfia appare al

Folklore Radio Broadcast,

cantando due delle canzoni che diverranno a breve dei capolavori assoluti: Both Sides Now, su Clouds del 1969, e The Circle Game su Ladies Of The Canyon del 1970, due brani di uno splendori assoluto, anche in queste registrazioni inedite, entrambe con brevi interviste e presentazioni radiofoniche.

Nel frattempo, nei primi mesi del 1967, Joni divorzia da Chuck Mtchell, del quale comunque manterrà sempre il cognome, ma prima di trasferirsi a New York registra una seconda apparizione al Second Fret di Philadelphia il 17 marzo e pochi giorni dopo, il 19, tiene anche un secondo breve set nel Folklore Radio Broadcast, sempre da Filadelfia. in entrambe le occasioni, oltre ad eseguire anteprime di altri brani che più avanti appariranno negli album ufficiali, presenta altre canzoni che poi rimarranno a lungo inedite.

Ed ecco quindi scorrere la deliziosa Morning Morgantown, poi su Ladies Of The Canyon, Born To Take The Highway, già apparsa nel nastro per il compleanno della mamma, oltre a Song To A Seagull, la title track del primo album del 1968, Winter Lady, una intima love song che poi rimarrà inedita, la prima versione live di Both Sides Now, dal 2° e 3° set registrati al Second Fret, il primo non appare nel CD. Mentre dal broadcast arrivano le inedite Eastern Rain, con elementi orientaleggianti e blues e un complesso lavoro della chitarra acustica, di cui è sempre più padrona, già presentata a novembre, ma qui più compiuta, e anche Blue On Blue, inframmezzate da dialoghi con Gene Shay, il conduttore della trasmissione, con il quale ha un ottimo rapporto.

Per completare il terzo CD troviamo

“A Record Of My Changes” – Michael’s Birthday Tapes un altro nastro casalingo, registrato a maggio del 1967 nel North Carolina, un nastro dove fanno il loro debutto altri 5 brani, più una improvvisazione di Joni: qualità delle canzoni sempre eccellente, quella sonora un po’ meno, nastro frusciato, ma comunque decisamente buono, troviamo la malinconica Gemini Twin, Strawflower Me dove la Mitchell tenta una vocalità più profonda e ricercata, l’armoniosa A Melody In Your Name, in entrambe la canzoni mi sembra di cogliere delle affinità con il primo Tim Buckley folk, e ancora Tin Angel oscura e brumosa, e la fluida I Dont Know Where I Stand, con un bel fingerpicking e una melodia sognante, seguita da una breve improvvisazione per voce e chitarra, senza testo. L’ultimo brano del CD viene dalla apparizione finale al Folklore Radio Broadcast del 28 maggio 1967, una delle rarissime cover, ovvero una versione di un brano del collega canadese Neil Young, di cui esegue Sugar Mountain, che presenta come una grande canzone: siamo d’accordo.

CD4)

Ad aprire il CD troviamo un altro demo, questa volta registrato a New York nel giugno del 1967, dove Joni presenta alcune canzoni che poi entreranno nel suo repertorio, e altre ancora inedite: I Had A King dal primo album, la bellissima Free Darling, che rimarrà inedita, ma ha tutti crismi delle tipiche scansioni delle migliori composizioni della Mitchell, stesso discorso per la lunga Conversation, con la voce che sale e scende nel suo tipico stile vocale, Morning Morgantown, la “strana” Dr. Junk, sottotitolo The Dentist Man, che però anticipa alcune soluzioni sonore che poi verranno riprese negli anni ’70, Gift Of The Magi, che nella conversazione tra Cameron Crowe e Joni viene indicato come uno dei brani che avrebbe meritato di essere recuperato in qualcuno degli album ufficiali, cosa invece avvenuta per l’euforica Chelsea Morning poi apparsa nel 1969 su Clouds e per la leggiadra e fiabesca Michael From Mountains poi pubblicata su Song To A Seagull, ma non per un altro brano delizioso come Cara’s Castle, che avrebbe meritato una miglior fine, mentre la conclusiva Jeremy rimarrà solo un frammento incompleto, per quanto intrigante.

Da qui in avanti troviamo i tre set completi registrati il 27 ottobre del 1967 alla

Canterbury House Ann Arbor, Michigan

dove una Joni Mitchell ormai divenuta una perfetta performer delizia il pubblico con le sue canzoni e anche con presentazioni sempre illuminanti, a tratti timide, sulla sua personalità. Nel quarto CD il primo set, con il pubblico che ascolta rapito una splendida Conversation, poi in una sequenza di brani noti ed inediti troviamo Come To The Sunshine, Chelsea Morning, Gift Of The Magi, la rara Play Little David, il traditional accapella The Dowie Dens Of Yarrow, I Had A King, Free Darling, Cactus Tree, poi inserita nel primo album.

CD5)

Prosegue il concerto con il secondo set, ancora ricco di brani rari come Little Green, bellissima, Marcie, ispirata dal suo primo viaggio a Londra, la soave e spensierata Ballerina Valerie, The Circle Game, una delle sue canzoni più belle, che però ad Ann Arbor ancora non conoscono, anche se lei prova a farli cantare, Michael From Mountains, Go Tell The Drummer Man, sconosciuta ovunque, ma un altro brano che avrebbe meritato maggior fortuna e a chiudere il secondo set I Don’t Know Where I Stand, una canzone dedicata al padre, con relativa lunga introduzione.

Nel terzo set A Melody In Your Name, altra piccola meraviglia della cantante canadese, cantata con voce stentorea, come pure Carnival In Kenora, un altro dei brani che Cameron Crowe indica tra i suoi preferiti tra quelli inediti contenuti nel box, in effetti splendida, e molto bella pure Songs To Aging Children Come, poi troviamo Dr. Junk, dedicata al suo amico dentista, con citazione del riff di Hey Bo Diddley, la dolcissima Morning Morgantown, la eccellente Night In The City e gran finale con Both Sides Now Urge For Going, una più bella dell’altra. Come dice lei stessa, ridendo, alla fine della conversazione con Crowe, I Was A Folksinger”! E non aveva ancora pubblicato nulla, ma qui troviamo tutto.

Grande cofanetto da avere assolutamente: attendiamo con ansia i prossimi della serie.

Bruno Conti

Ennesima Conferma Per Una Delle Migliori Band Rock Alternative Americane. Old 97’s – Twelfth

old 97's twelfth

Old 97’s – Twelfth – Ato Records CD LP

Come ci ricorda il titolo del disco, Twelfth è il dodicesimo disco in studio della band texana, ma se contiamo riedizioni potenziate, Live vari, dischi natalizi https://discoclub.myblog.it/2019/01/25/se-volete-celebrare-ancora-il-natale-in-ritardo-facendo-casino-old-97s-love-the-holidays/ , si superano abbondantemente le venti unità, senza contare gli otto dischi solisti di Rhett Miller, di cui uno pubblicato prima della nascita degli Old 97’s. Non male per un gruppo che viene considerato tra i fondatori del movimento alt-country negli anni ‘90, ma il cui genere Miller ha comunque preferito definire “loud folk”. Un’altra delle loro peculiarità è che hanno mantenuto sempre la stessa formazione degli esordi: Ken Bethea, chitarra solista e voce, Murry Hammond, basso e voce, Philip Peeples, batteria e appunto Rhett Miller, voce solista, chitarra ritmica, e autore della quasi totalità delle canzoni. Nella scorsa decade hanno avuto quasi tutti grossi problemi di salute, Peeples una frattura al cranio che ha fatto temere per la sua vita, Bethea, perdita di funzioni motorie con intervento alla spina dorsale, mentre Miller è riuscito dopo anni a risolvere i suoi problemi di alcolismo, Hammond tutto bene, grazie.

Se aggiungiamo che la registrazione del disco, partita la notte successiva al forte tornado che ha colpito Nashville ad inizio anno, si è trovata a fare i conti poi con la pandemia e il disco ha avuto quindi una genesi laboriosa. Il CD ha ricevuto ottime recensioni , con un paio di eccezioni dei soliti pignoli, e ci presenta la band alle prese con il loro classico R&R venato di alt-country, o viceversa se preferite; al sottoscritto sembra un ottimo album, del tutto degno del predecessore Graveyard Whistling, del quale mantiene il produttore, l’esperto Vance Powell. “Casualmente” nel disco ci sono 12 canzoni (ma 12 è anche il numero del Quarterback dei Dallas Cowboys Roger Staubach che appare sulla copertina), e sin dall’iniziale Dropouts le chitarre iniziano a ruggire, i ritmi sono elevati, Miller canta con brio, e le melodie sono accattivanti, gli argomenti trattati sono i soliti che girano intorno all’amore e le sue varie sfaccettature, magari aggiornati al fatto che i nostri veleggiano ormai sulla cinquantina e guardano agli errori del passato per correggerli, visto che Rhett ha compiuto i 50 anni proprio il 6 settembre, ma cercano di mantenere quell’eterno amore per power pop, rock, qualche reminiscenza di cow punk che da sempre li caratterizza, Forever Young cantava qualcuno.

Annie Crawford all’harmonium, Eleanor Denig al violino e agli arrangiamenti degli archi e Cara Fox al cello, aggiungono un tocco raffinato ad alcuni brani; This House Got Ghosts ha un vago sentore garage-psych con elementi di rock britannico fine anni ‘70, Turn Off The TV, il singolo, cita T.Rex, Pixies e Kids, in un euforico power pop che riporta ai tempi migliori, con chitarre sbarazzine e ripetute, mentre I Like You Better è più riflessiva e mi ha ricordato i Kinks americani” di inizio anni ‘70, anche per il cantato disincantato (se mi passate il bisticcio) di Miller, e le chitarre tintinnanti, Happy Hour, non credo dedicata agli amanti della movida, è cantata dal bassista Murry Hammond, con chitarrone twangy e richiami al country punk meno frenetico, misti a sonorità spaghetti western. Belmont Hotel è una bella ballata malinconica a tempo di valzer con uso di archi, mentre Confessional Boxing, con chitarre vivaci e pungenti, e ritmi accelerati, è un R&R vibrante come nella migliore tradizione degli Old 97’s.

Molto bella anche Diamonds On Neptune, tra jingle-jangle alla Tom Petty e il Bowie del periodo Ziggy Stardust, con un bel florilegio di chitarre che si rispondono dai canali dello stereo, mentre Miller ci ricorda che lui è You know I’m always on the move. Leavin’ is what I do, I go from neon sign to neon sign”, seguita dalla speranzosa e quasi esultante Our Year, un’altra delle canzoni migliori dell’album, con un notevole lavoro della chitarre. Bottle Rocket Baby è forse una astuta citazione dei loro compagni di avventura durante il massimo splendore dell’alt-rock? Dal ritmo galoppante e dalle sferzate della chitarra di Bethea potrebbe anche essere; Absence (What We’ve Got) è una deliziosa ed elegante love song dai retrogusti pop, sempre cantata da Rhett, che lascia a Hammond il compito di concludere l’album con la propria Why Don’t We Ever Say We’re Sorry?, acustica e confessionale., solo una chitarra e l’armonium.

Bruno Conti

L’Angolo Del Jazz. Parte Terza: Bill Frisell – Valentine

bill frisell valentine

Bill Frisell – Valentine – Blue Note CD

Bill Frisell, sopraffino chitarrista di orientamento jazz, durante la sua lunga carriera ha suonato di tutto. Dal suo esordio datato 1983 ad oggi ha pubblicato una miriade di lavori tra opere da solista e collaborazioni, spesso andando oltre il jazz e trascendendo i vari generi musicali, sperimentando via via con blues, country, folk e rock e realizzando dischi bellissimi come Nashville (forse il mio preferito), Gone Just Like A Train, Good Dog Happy Man, Blues Dream, The Willies, East/West, Big Sur (altro lavoro splendido), fino al recente Harmony, senza dimenticare il notevole Songs We Know, in duo con il pianista Fred Hersh, ed i due eccellenti album incisi come chitarrista del Ginger Baker Trio. Frisell è un chitarrista capace di coniugare tecnica e feeling, ed in grado di donare profondità con il suo tocco magico a tutti i brani a cui partecipa, cosa che lo ha portato negli anni ad essere rischiestissimo anche sui lavori altrui.*NDB Mi aggiungo io, ricordando un brano che secondo me contiene uno degli assoli più belli, lirici e lancinanti di Frisell, quello nella cover di Going Going Gone di Bob Dylan contenuta nel doppio CD Rubaiayt, che festeggiava i 40 anni della etichetta Elektra, cantata da Robin Holcomb, la trovate come brano n.25, a circa 1 ora e 33 minuti di questo link https://www.youtube.com/watch?v=h1sPaQVV684).

Valentine è il nuovo CD di Bill, ed è a mio parere uno dei suoi più riusciti, un lavoro che rappresenta una sorta di riepilogo di tutti gli stili provati in carriera: l’album è prodotto come d’abitudine da Lee Townsend (e mixato da Tucker Martine, noto per la sua collaborazione con i Decemberists) e vede il nostro esibirsi in trio assieme all’ottima sezione ritmica formata da Thomas Morgan al basso e Rudy Royston alla batteria, due musicisti con i quali Frisell ha un’intesa a prova di bomba in quanto lo accompagnano da anni on stage, ma che qui incidono con lui per la prima volta in studio. Valentine è un disco quasi perfetto nel suo genere, un album che si divide tra brani autografi vecchi e nuovi (la maggioranza) e qualche cover di estrazione molto eterogenea, il tutto con il comune denominatore della creatività di Bill e dei suoi compagni, che per tutti i 65 minuti del CD lasciano volare liberi i loro strumenti nell’aria. Apre il lavoro Baba Drame, un pezzo del cantautore del Mali Boubacar Traoré, brano attendista con Frisell che ricama di fino all’elettrica: c’è del rock ma non è un pezzo rock, ha la struttura tipica del trio jazz ma il jazz è solo sfiorato, e le percussioni aggiungono un sapore etnico.

Hour Glass è ipnotica, quasi psichedelica, e lascia il passo alla godibile title track, questo sì puro jazz, un brano che coniuga swing ed improvvisazione con una classe sopraffina (un applauso va anche ai due accompagnatori di Bill), mentre la notevole Levees mette insieme jazz ed influenze blues desertiche, un pezzo che piacerebbe molto ai Calexico. La rilassata e sinuosa Winter Always Turns To Spring Frisell l’aveva già incisa per l’album Ghost Town, ma qui mi sembra più ispirata; Keep Your Eyes Open è una deliziosa e quasi solare ballata accarezzata dal country e con un leggero mood anni 60: splendida. Altri episodi degni di nota sono lo standard A Flower Is A Lovesome Thing (composto da Billy Strayhorn), uno slow profondo e con un gran lavoro di basso, la western song Wagon Wheels (ma negli anni diventata anche un classico jazz), elegantissima e suonata in punta di dita, una rilettura pulsante ed assolutamente creativa di What The World Needs Now Is Love di Burt Bacharach, tra le più riuscite del CD, e l’acustica e leggiadra Where Do We Go?, in cui i nostri flirtano ancora col country; chiusura con una toccante versione della popolarissima folk song We Shall Overcome, quasi irriconoscibile ma densa di lirismo. Valentine quindi non è un disco di puro jazz, come non lo è di folk, blues, country, rock o fusion, ma è solo ed esclusivamente grande musica.

Marco Verdi

Cantastorie, Pittore E Artista Di “Culto”. Otis Gibbs – Hoosier National

otis gibbs hoosier national

Otis Gibbs – Hoosier National – Wanamaker Recording Company – CD – LP – Download

Questo signore è un cliente abituale di queste pagine virtuali fin dal lontano 2010, nel Bog abbiamo recensito i suoi dischi a partire da Joe Hill’s Ashes, e poi in seguito Harder Than Hammered Hell, Souvenirs Of A Misspent Youth, sino al più recente Mount Renraw https://discoclub.myblog.it/2017/02/22/un-grande-narratore-alt-country-da-salotto-otis-gibbs-mount-renraw/ . Stiamo parlando del barbuto Otis Gibbs (un tipo che potrebbe essere benissimo il quarto componente dei texani ZZ Top), pittore, fotografo ed ecologista convinto, oltre che narratore e artista di culto nell’ambito country, più o meno alternativo, che torna con questo nuovo lavoro Hoosier National, un disco completamente elettrico, dove per la prima volta suona una vecchia chitarra Les Paul con corde di grosso calibro, collegata ad un amplificatore Princeton Tuxedo del ’63, particolare non indifferente nello sviluppo delle storie che compongono questo grintoso concept album in stile roots-rock.

Per questo ennesimo capitolo della sua saga, il buon Otis si avvale come è consuetudine del suo ristretto giro di eccellenti musicisti, a partire dal chitarrista Thomm Jutz (Nanci Griffith, Mary Gauthier), il batterista Lynn Williams (Delbert McClinton, Wallflowers), Mark Fain al basso (uno che ha lavorato con Tom Petty, John Fogerty e Ry Cooder), e il pianista Jen Gunderman (Sheryl Crow, Jayhawks), ma su tutto spicca la sua voce che negli anni è diventata sempre più roca e sofferta. Le storie si aprono con una Nine Foot Problem dal passo tipico dei folksinger americani, a cui fanno seguito i sei minuti di Panhead, un bel groove blues che mi ricorda l’ultimo Steve Earle, mentre Sons And Daughters viaggia su una buona ritmica con il suono di una chitarra potente. Il racconto prosegue con l’incantevole Lord Open Road dal complesso spirito narrativo (si racconta l’omicidio di un certo James H.Langford avvenuto nel lontano 1981), un brano quasi recitativo cantato e suonato in perfetto stile Dirty Blvd del grande Lou Reed (era nell’album New York (89), per poi passare ad un brano molto rootsy come Fountain Square Stare, con un riff e una melodia trascinante, rispolverare il blues paludoso alla Tony Joe White di Mid Century Modem e a seguire un altro ritratto di vita reale come Bill Traylor (storia della vita di un afro-americano in Alabama), cantata da Gibbs con la grazia e il cuore di un vecchio bluesman.

Le storie volgono alla fine con il sincopato riff chitarristico, alla Keith Richards, di una trascinante Blood, per poi cambiare ancora genere con il gioioso country di Ten Minutes (G.A.R. Reprise), e andare a chiudere il percorso con la solita ballata commovente, una Faithful Friend dal feeling universale che ricorda il duo Mellencamp/Springsteen, su un bel tessuto musicale di tastiere e chitarre. Negli ultimi 18 anni Otis Gibbs ha pubblicato alcuni dischi straordinari (i primi tre soprattutto), ma questo ultimo lavoro Hoosier National contrassegnato da una svolta più elettrica (chitarra elettrica, basso e percussioni) potrebbe nel tempo diventare il suo CD migliore. Negli anni Otis Gibbs è stato paragonato a molti (forse troppi) musicisti, a partire da Woody Guthrie,Johnny Cash, Steve Earle, Guthrie Thomas (un altro assolutamente da riscoprire), JJ Cale, il Tom Waits più oscuro, mentre musicalmente è certamente possibile cogliere rimandi a Bruce Springsteen, e per quello che vale, credetemi, non c’è un brano debole in tutto lo sviluppo di questo splendido album roots-rock.

Per quanto riguarda la sua attività musicale, Gibbs rimane un grande narratore musicista itinerante che sa scrivere canzoni accattivanti e avvincenti, che porta la sua musica in giro per il mondo, suonando ovunque possa farlo, rimanendo volutamente fuori dallo “showbiz”, e ciò lo porta a essere un musicista di culto, ma con un fascino che molti artisti sopravvalutati neanche sfiorano. Alla fine la filosofia musicale di Otis è quella di cantare storie, a chi ha voglia di sentirle. Se lo ascoltate, difficile che possiate pentirvene.

NDT: Come al solito il CD è di difficile reperibilità, comunque lo si può acquistare sul suo sito, anche se le spese di spedizione dagli Usa sono molto salate!

Tino Montanari

Uno Strepitoso Disco Di Blues Acustico, Come Non Se Ne Fanno Quasi Più! Bobby Rush – Rawer Than Raw

bobby rush rawer Than Raw

Bobby Rush – Rawer Than Raw – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Nativo della Louisiana, ma residente a Jackson, Mississippi sin dagli anni ‘80, Bobby Rush, 86 anni suonati, è uno strane personaggio del blues americano: a cavallo tra le 12 battute classiche, il soul e il funky, da qualche anno si è inventato un termine per definire la sua musica “Folkfunk”. Personaggio diciamo “minore”, ma non marginale, Rush era apparso anche nella miniserie The Blues, prodotta da Martin Scorsese, sempre in pista e pronto a raccontare aneddoti sulla sua lunga carriera, che lo vede come una sorta di Numero Uno di Alan Ford, uno che nel corso degli ha incontrato e suonato con tutti, “consigliandoli” su cosa fare, da Skip James, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II, Muddy Waters a Elmore James, i cui brani reinterpreta in questo Rawer Than Raw, praticamente tutti i grandi della musica nera, tanto che nelle note si dice dispiaciuto di non avere potuto cimentarsi con brani di Jimmy Reed, John Lee Hooker, Son House e BB King. Già nel 2006 aveva inciso un album Raw, composto solo di rivisitazioni di proprie canzoni e che si concludeva con il brano Bobby Rush For President. Quale è la particolarità di questi album?

Come suggerisce il titolo si tratta di album acustici, nel caso di quest’ultimo, anche in solitaria: solo voce, chitarra ed armonica. Ripreso in copertina tra attrezzi agricoli e galline, e all’interno in varie pose, dove sfoggia la sua tinta di capello sempre corvina, un must per i vecchi bluesmen, il buon Bobby ha ancora una voce potente e squillante, e le sue riletture dei classici, miste ad alcune canzoni a propria firma, sono la prova che il nostro amico conosce la materia e sa come trattarla con classe. Sin dall’apertura con Down In The Mississippi, scritta dallo stesso Rush, si respira un’aria “antica” ma non vetusta, voce e chitarra acustica a ripercorrere i vecchi tracciati del blues del Delta, l’armonica a colorare il suono. D’altronde si intuisce che si tratta, come dicono gli americani, di un “labor di love”, realizzato nel corso del tempo tra Jackson, Ms e Montreal: ascoltatevi il blues primigenio di Hard Times (che sarebbe Hard Times Killing Floor Blues di Skip James) al quale, oltre ad acustica e armonica aggiunge il foot stomp per ricreare il sound dell’originale del 1931 (e lì Rush non era presente). Let Me In Your House è una delle canzoni di Bobby, salace e ironico come deve essere il blues, “If I can’t sleep in your bed, let me sleep on your floor. If I walk in my sleep, you’re the only one who’ll ever know. If I can’t be your full-time lover, let me be your part-time man”, scandito dall’interpretazione quasi danzante del nostro.

Che poi si cimenta con Smokestack Lighting di Howlin’ Wolf, che invece ha conosciuto e incontrato nella sua gioventù, quando si aggirava per locali, con baffi finti per nascondere la sua vera età, versione intensa e vissuta, ora che gli anni sono quelli giusti, e anche Shake It For Me, scritta da Willie Dixon, viene dal repertorio del Lupo, con l’acustica suonata ancora con grande destrezza e la voce sicura in grado di emozionare. In Sometimes I Wonder, sempre farina del suo sacco, dimostra di essere anche un ottimo armonicista, poi cimentandosi anche con uno dei maestri dello strumento Sonny Boy Williamson II nella classica Don’t Me Start Me Talkin’, qui ripresa in una vibrante versione; molto intenso anche un altro originale di Rush come Let’s Make Love Again, che poi lascia spazio al lato più ironico della sua arte nella divertente Garbage Man, un potente lentone dove il testo però è molto scherzoso “of all the men my woman could have left me for, she left me for the garbage man. Every time I see a garbage can, I think of her and the garbage man all the time”, con la sua donna che lo tradisce con lo spazzino. Honey Bee, Sail On è un traditional , ma faceva parte del repertorio di Muddy Waters, che riceve il suo giusto tributo, in un brano che evidenzia ancora la voce splendida di Rush, che poi si cimenta con il super classico Dust My Broom, non nella versione di Robert Johnson (anche lui non lo ha conosciuto), ma in quella di Elmore James, conosciuto invece in un club nel 1947, quando ci si aggirava con i suoi baffi finti appena ricordati, grande versione, come d’altronde tutto l’album, uno dei migliori dischi di blues acustico dell’anno.

Bruno Conti

L’Angolo Del Jazz. Parte Seconda: Ella Fitzgerald – The Lost Berlin Tapes

ella fitzgerald the lost berlin tapes

Ella Fitzgerald – The Lost Berlin Tapes – Verve/Universal CD

Mack The Knife: Ella In Berlin, live album uscito nel 1960, è stato uno dei dischi di maggiore successo della grandissima Ella Fitzgerald, semplicemente una delle massime cantanti di tutti i tempi, al punto da convincerla a tornare nella metropoli tedesca sia nel 1961 (anno in cui venne costruito il famigerato muro) che nel 1962. Se il concerto del ’61 verrà pubblicato con trent’anni di ritardo (Ella Returns To Berlin), di quello del ’62 non si saprà più nulla, al punto da far pensare che quella registrazione fosse andata persa per sempre. Fortunatamente non è stato così, ed oggi finalmente possiamo godere di quella performance grazie a The Lost Berlin Tapes, un CD che documenta il concerto del 25 marzo del 1962 allo Sportpalast, nato grazie all’iniziativa di Gregg Field, batterista jazz dal fantastico pedigree (Frank Sinatra, la Count Basie Orchestra e la stessa Fitzgerald) ed affermato produttore ed organizzatore di concerti (c’è lui dietro lo show Ella At 100, che si è tenuto nel 2017 al mitico Apollo Theatre di New York per celebrare il secolo dalla nascita della grande cantante ed è stato pubblicato su CD qualche mese fa).

Una volta messe le mani sui nastri originali della serata, Field ha svolto un lavoro certosino insieme al produttore Ken Druker, remixando completamente il tutto ed affidando poi il lavoro finito alle sapienti mani del mitico Greg Calbi per il mastering: il risultato è un album dal vivo con un sound davvero spettacolare, come se fosse stato registrato da poche settimane e non quasi 60 anni fa. Ma il suono da solo non basterebbe se non ci fosse anche la qualità della performance, e The Lost Berlin Tapes è forse addirittura superiore al disco pubblicato nel 1960: Ella, qui al massimo della sua potenza vocale ed interpretativa (all’epoca del concerto non aveva neanche 45 anni), ammalia il pubblico con una prestazione davvero strepitosa tirando fuori il meglio dalla sua fantastica ugola, presentandosi con alle spalle un terzetto formidabile composto da Paul Smith, pianista superbo (già presente nel live del ’60), e dai “nuovi” Wilfred Middlebrooks al basso e Stan Levey alla batteria (NDM: rispetto a Mack The Knife manca il chitarrista, ma il livello del concerto non ne risente). Grande band quindi, ma la differenza la fa Ella, una che davvero avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa con la massima naturalezza, con una voce che è un vero e proprio strumento aggiunto.

Ascoltiamo quindi (con una resa sonora, ripeto, spettacolare) classici senza tempo come Cheek To Cheek (sentite come canta e come la segue il trio, già l’inizio è da cinque stelle), la raffinatissima My Kind Of Boy, una superlativa versione della celeberrima Cry Me A River e via via titoli come I Won’t Dance (che classe), Angel Eyes, Taking A Chance On Love, C’Est Magnifique, Good Morning Heartache, tutti interpretati in modo magnifico e suonati dal trio con grande eleganza e robuste dosi di swing (ed il pubblico, decisamente caldo, applaude sempre più convinto man mano che la serata prosegue). C’è anche una divertita ripresa di Hallelujah, I Love Her So di Ray Charles (che Ella vira al femminile cantando quindi “I love him so”), eseguita addirittura due volte di fila e con un accenno a Hit The Road, Jack, ed una breve ma intensissima rilettura del classico di George Gershwin Summertime, semplicemente sublime. Dopo una soffusa Mr. Paganini, in cui Ella gigioneggia piacevolmente, il concerto si chiude con l’immancabile Mack The Knife e con una fluida Wee Baby Blues, cantata tanto per cambiare senza sbavature e con una eccellente prova di Smith al piano.

The Lost Berlin Tapes è un live album strepitoso, grande musica che va aldilà del genere jazz e che ci fa riassaporare nuovamente il talento cristallino di Ella Fitzgerald: non per niente la chiamavano “The First Lady Of Song”.

Marco Verdi

Un Bel Mini Album Di Rock Sudista, Peccato Sia Solo Per Il Download. The Georgia Thunderbolts EP

the georgia thunderbolts

Georgia Thunderbolts – The Georgia Thunderbolts EP – Mascot Provogue download

I Georgia Thunderbolts vengono da Rome, Georgia, alle pendici dei monti Appalachi, il disco è stato registrato a Glasgow, nel Kentucky (se vi interessa, a scopo statistico, in Texas c’è anche la piccola cittadina di Milano, abitanti 428), e ovviamente fanno southern rock. In teoria hanno inciso un primo album autogestito intitolato Southern Rock From Rome, anche se nelle biografie ufficiali questo Georgia Thunderbolts omonimo viene presentato come disco di esordio. Oltre a tutto è un EP ed esce solo per il download, ma visto che è bello ce ne occupiamo lo stesso (per quanto contrari come principio al formato). Pare peraltro che il formato EP, Mini album, chiamatelo come volete, soprattutto in digitale, stia tornando in auge: Norah Jones ne ha rilasciati parecchi, anche Huey Lewis ha dato il suo contributo, e come avrete visto pure Neil Young a sorpresa ne ha pubblicato uno recente The Times, pure in formato fisico https://discoclub.myblog.it/2020/09/22/un-annuncio-atteso-da-anni-ed-un-piccolo-disco-per-ingannare-lattesa-neil-young-archives-vol-iithe-times/ .

Ma bando alle ciance e veniamo a questo dischetto (lo chiamiamo così lo stesso): i Georgia Thunderbolts sono una formazione canonica di rock sudista, un buon cantante T.J. Lyle, all’occorrenza anche a piano e armonica, come attittudine diretto discendente della schiatta Van Zant, Allman e soci, due chitarristi Riley Couzzourt e Logan Tolbert, in alternanza o all’unisono a solista e slide, una solida sezione ritmica con Zach Everett basso, armonie vocali e tastiere,e Bristol Perry batteria. Cinque brani in tutto, tre già apparsi nel citato CD autogestito, un suono a cavallo tra il classico southern di Lynyrd Skynyrd, Allman Brothers e Marshall Tucker e quello delle nuove leve capitanate da Whiskey Myers e Blackberry Smoke, robusto e chitarristico, ma anche in grado di regalare intarsi elettroacustici come nell’iniziale ballata mid-tempo Looking For An Old Friend, dove slide e chitarre acustiche rimandano al suono dei primi Skynyrd, con belle melodie ricercate, ottima anche So You Wanna Change The World, sempre con chitarre spiegate https://www.youtube.com/watch?v=LBuy4fJ8tCQ .

 Niente male anche il robusto blues-rock di una vigorosa Lend A Hand, a tutto riff e con continue sventagliate delle chitarre, come pure la raffinata Spirit Of A Workin’ Man con le soliste spesso impiegate all’unisono e Lyle che ci mette del suo con una interpretazione molto sentita, nello spirito dei vecchi tempi. In chiusura troviamo Set Me Free, l’unico brano che supera i sette minuti, parte da un riff ammiccante, e poi in un lento ma inesorabile crescendo, e qualche gigioneria vocale di Lyle, arriva alla immancabile coda strumentale https://www.youtube.com/watch?v=0w3p_Xyu6Vc . Niente per cui strapparsi le vesti, ma un buon biglietto da visita per una band che renderà felici gli appassionati del southern rock.

Bruno Conti

Non E’ Ancora “Tale Padre Tale Figlio” Ma La Strada E’ Quella Giusta! Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound

joachim cooder over that road

Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound: The Songs Of Uncle Dave Macon – Nonesuch/Warner CD

Sinceramente non mi ero mai interessato molto prima d’ora alla carriera solista di Joachim Cooder, figlio del grande Ry Cooder e dagli anni 90 presenza quasi fissa sui dischi del padre (compreso il mitico Buena Vista Social Club, ideato e patrocinato dal chitarrista californiano) come batterista e percussionista, una passione che fin da piccolo gli aveva trasmesso il leggendario Jim Keltner. I due lavori pubblicati da Joachim a suo nome finora, un album nel 2012 ed un EP nel 2018, non avevano ottenuto molti riscontri, e quindi non è che attendessi in maniera spasmodica un suo nuovo album. Le critiche più che positive ricevute dal suo ultimo CD, Over That Road That I’m Bound, mi hanno però convinto ad avvicinarmi a lui, e devo dire che dopo averlo ascoltato non mi sono pentito dell’investimento fatto. Come lascia intendere il sottotitolo del lavoro, The Songs Of Uncle Dave Macon, si tratta di un progetto di stampo decisamente “cooderiano” (nel senso di Ry), cioè l’omaggio ad un artista sconosciuto ai più ma di sicura importanza nella storia della nostra musica: nella fattispecie stiamo parlando appunto di Uncle Dave Macon, musicista, cantante, autore e banjoista attivo dagli anni venti fino alla morte sopravvenuta nel 1952, un personaggio poco noto ma che in seguito verrà soprannominato “il nonno della musica country”, visto che il ruolo di “padre” era già stato preso da Jimmie Rodgers.

Over That Road That I’m Bound è quindi un album di cover di pezzi scritti da Macon e di tradizionali resi popolari da lui, ma le versioni qui contenute sono proposte in riletture moderne ed attuali, con arrangiamenti di stampo contemporaneo che contrastano piacevolmente con le melodie di un tempo. Devo ammettere che quando ho letto i nomi di alcuni tra i musicisti in session, cioè papà Ry alle chitarre, basso e armonie vocali, Glenn Patscha al piano ed organo e Juliette Commagere (moglie di Joachim) alle voci ho pensato: “Ok, è un disco di Ry Cooder cantato dal figlio”: invece Ry si è “limitato” a suonare, mentre tutte le idee, i suoni e gli arrangiamenti sono farina del sacco di Joachim, che però qua e là palesa l’influenza del celebre genitore (ma mi sarei stupito del contrario). Il nostro si conferma un valido musicista (non c’è una vera e propria batteria nel disco, solo vari tipi di percussioni dal suono anche esotico, come ad esempio l’array mbira – che però è di origine americana – una via di mezzo tra un’arpa ed uno xilofono) e dimostra di essere anche un buon cantante. Ma il colpo di genio finale è stato quello di chiamare la bravissima Rayna Gellert, che con il suo splendido violino riesce ad impreziosire più di un brano, elevando da sola il livello di un disco già riuscito di suo.

Over That Road I’m Bound To Go apre il CD con un sottile gioco di percussioni, poi entra la voce limpida di Joachim a stendere una melodia di stampo decisamente folk, ben doppiato dal violino della Gellert (grande protagonista del disco, anche più di papà Ry), che nel finale prende il sopravvento. Ancora violino e percussioni introducono When Ruben Comes To Town, Joachim canta con un’inflessione tipica del padre ed il brano, una folk ballad moderna e cadenzata, è molto piacevole; Come Along Buddy vede il nostro all’array mbira, un coro femminile entra ogni tanto alle sue spalle ed il motivo è di stampo tradizionale ma arrangiato in modo decisamente attuale, con Ry che ricama con discrezione sullo sfondo, mentre Oh Lovin’ Babe è un blues dal mood orientaleggiante con il solito tappeto percussivo (una costante del disco), e Cooder Sr. che fa sentire la sua elettrica insieme a quella di Vieux Farka Touré, figlio di Ali. Splendida Tell Her To Come Back Home, una soave ballata dalla melodia toccante, voci sospese ed un delizioso accompagnamento per banjo, violino e poco altro, a differenza di Backwater Blues che torna dalle parti del folk, con percussioni e voce in primo piano ed un tessuto sonoro ricco anche se creato con pochi strumenti (ottimo come sempre il violino).

La breve Rabbit In The Pea Patch è quasi musica appalachiana tra folk e bluegrass, ed è finora quella con l’arrangiamento più tradizionale, Morning Blues ha ancora reminiscenze con la musica del padre, specie quella degli anni 70 in cui fondeva folk, blues e musica hawaiana, All In Down And Out è una ballata cantata a due voci, con l’esclusivo accompagnamento di banjo e le consuete percussioni dal suono etnico. Heartaching Blues è invece il pezzo più strumentato ed elettrico, e ricorda certi pezzi tra il blues e le sonorità moderne di quando i Los Lobos erano prodotti da Mitchell Froom (o ancora meglio della loro “spin-off band”, i Latin Playboys), mentre Molly Married A Traveling Man è l’ennesima ballad dal sapore tradizionale, stavolta con la slide acustica di Ry in evidenza assieme al solito violino; chiusura con When The Train Comes Along, dal bel motivo di fondo cantato quasi a cappella (ci sono solo piano e basso, ma suonati in punta di dita).

Un dischetto quindi piacevole questo “vero” esordio di Joachim Cooder, che non vi farà rimpiangere i soldi spesi, anche se in futuro auspico arrangiamenti più variegati con una minor incidenza delle percussioni.

Marco Verdi