Un’Orgia Di Wah-Wah Per Un Disco Di Psichedelia Massiccia. Tia Carrera – Tried And True

tia carrera tried and true

Tia Carrera – Tried And True – Small Stone Records CD+Download – LP

Nonostante il nome Tia Carrera sono una band, vengono da Austin, Texas, sono in pista da una ventina di anni, e ogni tanto, quando li coglie l’estro, pubblicano un nuovo album (il precedente risale al 2011). Questo nuovo Tried And True, oltre ai cinque brani canonici della versione per il download e vinile, nella versione in CD riporta come bonus il contenuto del LP dello scorso anno Visitors/Early Purple, solo due brani, ma per un totale di 35 minuti. La formazione aggiunge ai due membri storici del gruppo, Jason Morales alla chitarra e Erik Conn alla batteria, anche il bassista Curt Christenson: genere direi rock-blues con fortissime influenze psichedeliche. Solo brani strumentali, spesso e volentieri abbondantemente oltre i dieci minuti, jam dove regna l’improvvisazione quasi pura, in un’orgia inarrestabile di wah-wah come se non ci fosse un futuro (e forse neppure un passato) per la musica, per dare una idea pensate alla terza facciata, quella futuristica e sperimentale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, mista allo stoner rock più estremo, al fuzz rock, quello che praticano quasi tutti gli artisti sotto contratto per la Small Stone Records, etichetta di Detroit, per la quale incidono anche i Tia Carrera.

Diciamo che non c’è molto da descrivere, ma ci provo, chi ama il genere avrà capito più o meno di cosa parliamo: Layback apre le ostilità, basso fuzzy e batteria molto attivi, Morales che dopo circa venti secondi innesta il wah-wah, che da lì a poco è in modalità Cry Baby, e per circa sette minuti inesorabili di libera improvvisazione da power trio non si fanno prigionieri. Taos è decisamente più free form, sempre psichedelia massiccia, per “soli” cinque minuti, una sorta di finale infinito di qualche brano heavy rock, Swingin’ Wing rallenta leggermente e dilata i tempi, batteria molto indaffarata, sound tra stoner, heavy rock sabbathiano, sempre con wah-wah immancabilmente innestato per altri sei minuti, Zen and the art of the Thunderstorm con i suoi 3:22 è quasi un 45 giri come durata, però qui andiamo di feedback massiccio, tipo il Neil Young di Arc/Weld.

Rimane la lunga title track, oltre 14 minuti, questa volta all’inizio siamo dalle parti del doom rock dei primi Black Sabbath, qualcuno ha detto War Pigs? Questa volta il wah-wah scatta solo dopo due minuti e mezzo, poi il brano si dipana inquietante e magnetico, grazie alla comunque eccellente interpretazione dei tre musicisti. Rimangono le due bonus tracks aggiunte alla edizione in CD: sempre registrate nel loro BBQ Shack Studios, a Austin, TX, si tratta di Visitors, altri 18 minuti abbondanti di psichedelia pura improvvisata, molto hendrixiana, con la chitarra di Morales ancora una volta in piena libertà, ben spalleggiato da Conn e Christenson, che trovato un groove non lo mollano più, mentre il wah-wah impazza sempre inesorabile, breve riposo per ricaricare le pile e vai con i 16 minuti di Early Purple, ennesima lunghissima jam costruita all’impronta, come usano fare d’abitudine i Tia Carrera, viulenza” sonora non consigliata ai deboli di cuore e di spirito, che se non amano il genere sono pregati di astenersi.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Il Broadcast “Perso”…E Ritrovato! Bruce Springsteen & The E Street Band – Atlanta, September 30 1978

bruce springsteen fox theater 1978

Bruce Springsteen & The E Street Band – Fox Theatre, Atlanta, GA 9/30/78 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

L’escalation di Bruce Springsteen come performer dal vivo si può riassumere brutalmente come segue: nel 1975 comincia a farsi notare come uno degli acts più coinvolgenti in circolazione, nel 1978 si crea la leggenda, che viene consolidata nel tour 1980-81 (forse il suo migliore di sempre), mentre nel 1984-85 il Boss “passa alla cassa” per riscuotere una popolarità ormai allargata a livello mondiale. E’ indubbio però che l’anno chiave della carriera live di Bruce sia il 1978, quello del tour di Darkness On The Edge Of Town, che vede il nostro e la sua E Street Band letteralmente, come avrebbe detto il grande Gianni Brera, in “erezione agonistica” durante tutto l’anno. La serie mensile di CD e download live del Boss finora ha dato parecchio spazio a questo fantastico tour con ben sette pubblicazioni, alle quali si aggiunge ora lo show del 30 settembre al Fox Theatre di Atlanta, che va anche a completare un’ideale collezione dei broadcast radiofonici usciti all’epoca, cinque in tutto (insieme ai mitici Roxy Theatre di Hollywood, Agora Ballroom di Cleveland e Capitol Theatre di Passaic, ed al leggermente meno noto show al Winterland di San Francisco).

Questa serata nel capoluogo della Georgia è abbastanza particolare, in quanto per anni è stata considerata come “the lost broadcast”, non perché i nastri fossero andati persi ma per uno stranamente scarso utilizzo e diffusione come bootleg, sia in vinile prima che in CD dopo. E’ quindi con particolare piacere che mi occupo oggi di questo show, dal momento che pure essendo meno famoso di quelli a Cleveland e Passaic non ha nulla da invidiare a loro in termini di intensità della performance, coinvolgimento di chi ascolta e perfezione nel suono (ed anche il missaggio, all’epoca affidato per il broadcast al noto produttore Jimmy Iovine, è perfetto). Quasi tre ore di grandissimo rock’n’roll e ballate sontuose quindi, come spesso è capitato in questa benemerita serie i cui responsabili vanno a scegliere i concerti migliori del Boss già negli anni meno “leggendari”, figuriamoci quando tocca al 1978 o 1980-81, che da qualunque parte scegli non sbagli. L’uno-due iniziale, formato da due travolgenti versioni del classico rock’n’roll Good Rockin’ Tonight e di Badlands, ci fa subito capire che la serata è di quelle giuste, ma Bruce mantiene alta la tensione con una vibrante Spirit In The Night di nove minuti e due ottime riletture di Darkness On The Edge Of Town e The Promised Land, inframezzate dall’allora inedita Independence Day in anticipo di due anni su The River ma già profonda e toccante.

A questo punto c’è forse la sequenza migliore della serata, formata da Prove It All Night (dodici minuti fantastici, con la strepitosa introduzione per piano e chitarra esclusiva di questo tour), Racing In The Street, Thunder Road e Jungleland, quattro canzoni magnifiche ulteriormente nobilitate dallo straordinario pianoforte di Roy Bittan, il cui tocco inconfondibile è in grado di innalzare qualsiasi brano e che quella sera è in particolare stato di grazia. Dopo un’inattesa Santa Claus Is Coming To Town (al 30 settembre…) i nostri improvvisano una breve e decisamente swingata, cover di Night Train di James Brown (figlio “adottivo” di Atlanta), qui nell’unica esecuzione della loro carriera; Fire è più sintetica e con meno cazzeggio del solito, Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire (ma è un mio problema), ma Because The Night è proposta in una maniera che definire trascinante è dire poco.

Dopo un’altra anteprima da The River, la drammatica Point Blank, Bruce improvvisa un notevole medley fra Not Fade Away di Buddy Holly, Gloria di Van Morrison e la sua She’s The One, ed a seguire ci delizia con un altro uno-due micidiale formato dalla sempre maestosa Backstreets e da una roboante Rosalita di 16 minuti. I bis di Born To Run e Tenth Avenue Freeze-Out sono preparatori al gran finale, con un Detroit Medley da favola, altri dieci minuti che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il triplo CD; a chiudere abbiamo Raise Your Hand (Eddie Floyd), suonata quasi in souplesse dal momento che il pubblico non si è ancora ripreso dal medley precedente. Con la prossima uscita faremo un salto in avanti di ben trent’anni, uno Springsteen più maturo e forse appagato, ma sul palco sempre un numero uno.

Marco Verdi

Ascesa, Caduta e Resurrezione Di Un Cantautore Di Culto. Michael J. Sheehy – Distance Is The Soul Of Beauty

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Michael J. Sheehy – Distance Is The Soul Of Beauty – Lightning Archive Records

Avevo scoperto Michael Sheehy, questo sconosciuto cantautore anglo-irlandese nel lontano 2007, tramite una bellissima canzone Twisted Little Man (inserita nella serie televisiva Deadwood), e come conseguenza, qualche anno dopo, recensito sul Blog con un “post” che ripercorreva a ritroso la sua discografia a partire dall’esordio con Sweet Blue Gene, e in seguito III Gotten Gains, No Longer My Concern, Ghost On The Motorway, dischi dalle atmosfere intimistiche, crepuscolari e ammalianti, che l’autore sa creare con indubbia maestria https://discoclub.myblog.it/2012/01/19/un-altro-sconosciuto-perdente-ma-di-valore-michael-j-sheehy/ . Poi, colpevolmente, ho perso le tracce dei lavori seguenti With These Hands e Loose Variaton On A Near Miss, il primo una sorta di “concept-album” ideato su un musical ambientato negli anni ’60 che narra le vicende di un pugile (la storia di Francis Delaney), il secondo che contiene delle registrazioni e versioni live di materiale precedente , e adesso, a più di dieci anni di distanza dal precedente, torna con questo Distance Is The Soul Of Beauty (il titolo è una citazione della filosofa e mistica francese Simone Weil) ispirato dalla recente nascita della figlia durante il periodo del “Covid 19”, un lavoro di una bellezza spettrale, accompagnato musicalmente da una strisciante melanconia acustica, prodotto e arrangiato dallo stesso Sheehy (come se fosse ancora in isolamento), aiutato da Patrick McCarthy alle chitarre, Ian Burns alla batteria, Andrew Park e Andy Hamill al basso, per una selezione intima di una decina di brani influenzati musicalmente da gruppi come i leggendari Velvet Underground.

E tutto questo è immediatamente evidente sin dagli arpeggi di chitarra dell’iniziale Tread Gently Leave No Scar, mentre la seguente Bless Your Gentle Soul si avvale di una strumentazione più ampia e di una melodia che viene cantata languidamente da Michael, quasi in stile Bryan Ferry, e temi simili, con in evidenza una sostenuta “drum machine,” si manifestano pure in We Laugh More Than We Cry, per poi immaginarsi nella malinconia di un tramonto la dolcissima Turn Back For Home, che viene sussurrata dall’autore sulle note di una scarna chitarra elettrica. Una profonda tristezza si avverte anche nel valzer minimale di The Girl Who Disappeared (molto simile al Leonard Cohen di New Skin For The Old Ceremony), per poi passare alle atmosfere “dylaniate” di I Have To Live This Way, e il jazz notturno di una inquietante Blue Latitudes And Starless Skies, accompagnata dal lancinante suono di una chitarra.

Ci si avvia alla fine con il suono amplificato di una lacerante Judas Hour (il momento più scioccante dell’album), i riverberi notturni di una intrigante litania che si insinua sotto la pelle come Blackout Of Arrows, e chiudere il cerchio con il brano finale Everything That Rises Must Converge (titolo di un romanzo della scrittrice americana Flannery O’Connor), un sentimento che riassume in toto e adeguatamente lo spirito compositivo di Michael J. Sheehy in questo bellissimo lavoro.

A cominciare dall’esperienza con i Dream City Film Club (una sfigata british band), la carriera di Michael j. Sheehy è sempre stata nelle retrovie, nonostante i suoi dischi ( almeno i primi tre) fossero stati pubblicati dalla prestigiosa Beggars Banquet, e i seguenti tre dalla Glitterhouse Records, e non si capisce il motivo, in quanto il buon Sheehy oltre ad essere un ottimo musicista (suona con abilità la chitarra e il pianoforte), è innanzitutto un narratore di storie all’interno delle quali è racchiusa la parte più oscura e intima della sua vita. E’ mia convinzione che anche questo Distance Is The Soul Of Beauty, che merita di essere considerato (per il sottoscritto naturalmente) uno dei migliori dischi dell’anno, come al solito passerà praticamente inosservato, ed è molto difficile che giri la ruota per questo autore, troppo orgoglioso e fiero del suo lavoro per scendere a compromessi, più probabile che aumenti la sua figura di cantautore di culto, dimostrando che i “beautiful loser” non esistono solo in America.

In chiusura mi permetto un’ultima considerazione, questo lavoro è stato composto a tarda notte, e quindi va ascoltato al meglio a tarda notte, possibilmente in dolce compagnia. *NDT: Distance It The Soul Of Beauty è autoprodotto su CD – LP e venduto sulle piattaforme in rete.

Tino Montanari

Terza Uscita Annuale Del “Bisonte”, In Attesa Dei Botti Finali! Neil Young & Crazy Horse – Return To Greendale

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Neil Young & Crazy Horse – Return To Greendale – Reprise/Warner 2CD – 2LP – Deluxe 2CD/2LP/BluRay/DVD Box Set

Da artista che annuncia mille progetti per poi rimandarne più della metà, quest’anno Neil Young è diventato quasi affidabile (ho detto quasi). Sarà perché si è reso conto di non essere più un giovincello (ha compiuto 75 anni proprio in questi giorni), fatto sta che il rocker canadese nel corso del 2020 ha pubblicato finalmente il leggendario album inedito Homegrown, l’instant-EP acustico The Times, il disco dal vivo di cui mi accingo a parlare, e tra pochi giorni sarà la volta del tanto atteso secondo volume degli archivi a ben undici anni dal primo, sulle cui discutibili modalità di commercializzazione tornerò a tempo debito.

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Non solo, perché a dicembre uscirà una deluxe edition per i 50 anni di After The Gold Rush (invero piuttosto magra), e per l’anno prossimo sono già in programma un altro live per febbraio (Way Down In The Rust Bucket, registrato nel 1990) e più avanti un concerto acustico del 1971 intitolato Young Shakespeare, la ristampa del rarissimo EP El Dorado del 1989 e, pare, un altro disco dal vivo con i Promise Of The Real (per non parlare dell’annunciato progetto Bootleg Series che dovrebbe riguardare altri concerti del passato, con la copertina originale dell’edizione pirata dell’epoca ma con il suono potenziato). Oggi mi occupo del nuovo episodio delle “Performance Series” di Young, ovvero del live Return To Greendale, registrato il 4 settembre del 2003 all’Air Canada Center di Toronto insieme ai Crazy Horse, durante il tour in supporto all’album Greendale, un concept ambizioso che narrava le vicende degli abitanti di un’immaginaria cittadina sulla costa della California, una storia con risvolti ambientali ed ecologisti che però attirò su Neil parecchie critiche: il nostro fu infatti accusato di aver pubblicato un disco noioso, pretenzioso, prolisso e poco ispirato, ed alcuni arrivarono anche a definirlo il suo peggior lavoro con i Crazy Horse (dimenticandosi forse dell’esistenza di Re-ac-tor e Life), provocando la sua profonda delusione in quanto si trattava di un progetto al quale teneva particolarmente.

A me Greendale era invece piaciuto, al punto che lo avevo addirittura messo tra i dieci migliori album del 2003 (ammetto però che non è tra i dischi di Neil che ascolto più di frequente), e quindi ho accolto con favore anche la pubblicazione di questo doppio CD dal vivo, che esce anche come doppio LP ed in formato box set con entrambe le configurazioni audio, un BluRay con le immagini dello stesso concerto ed un DVD con il “making of” del Greendale originale (già uscito nel 2003): questa volta ho optato per la versione “semplice” in CD, dal momento che il box non offre granché in più e costa pure caro (circa 100 euro). Return To Greendale presenta le stesse dieci canzoni del disco in studio, che veniva suonato per intero tutte le sere nella prima parte dello show, e devo dire che i vari brani ne escono addirittura migliorati: d’altronde sappiamo che i Crazy Horse hanno sempre suonato meglio dal vivo (e molto spesso le loro incisioni in studio sono comunque in presa diretta), ma lo stesso Neil appare più convinto e concentrato, cosa che si riflette nelle canzoni che ne escono arricchite e nel suono che appare più grintoso e coinvolgente.

E non è una questione di improvvisazione, dal momento che i vari pezzi sono riproposti abbastanza in linea con le loro versioni originali (infatti Greendale durava 78 minuti e questo live 81, che è la ragione per cui è doppio). Neil è accompagnato come al solito da Frank “Poncho” Sampedro (però al piano elettrico e non alla chitarra ritmica, e d’altronde sul Greendale originale il buon Poncho manco c’era) e dalla sezione ritmica di Billy Talbot e Ralph Molina, con l’aggiunta ai cori delle Mountainettes, ovvero l’ex moglie di Neil Pegi Young, Twink Brewer, Nancy Hall e Susan Hall; durante lo show tra un brano e l’altro c’erano anche gli interventi di un gruppo di attori che recitavano parti della trama di Greendale, ma per fortuna qui ce li hanno risparmiati. (NDM: siccome non sono mai contento, e dato che sul doppio CD di spazio ne avanzava a iosa, non mi sarebbe dispiaciuto ascoltare il concerto completo. Nella fattispecie la serata in questione si era chiusa con una sequenza formata da Hey Hey, My My, Sedan Delivery, Down By The River, Powderfinger, Prisoners Of Rock’n’Roll, Cinnamon Girl e Fuckin’ Up).

L’inizio dello show è molto piacevole con la cadenzata Falling From Above, un country-rock ruspante nello stile di pezzi leggendari come appunto Powderfinger, melodia diretta ed orecchiabile, Neil che soffia dentro all’armonica e la sua chitarra che vola libera nel vento per quasi otto minuti. Double E è un rock-blues decisamente sanguigno e coinvolgente dal ritmo sostenuto, un riff insistito ed il nostro che inizia a maltrattare la sua Old Black come da prassi, mentre Devil’s Sidewalk è rock’n’roll alla maniera del Cavallo Pazzo, chitarra in primo piano con il tipico botta e risposta tra la voce di Young ed i suoi riff per uno dei pezzi più trascinanti del progetto (e sinceramente non ricordavo un avvio così roccato e potente sul Greendale originale). Leave The Driving è cadenzata e distesa, con un’armonica bluesy ed uno sviluppo strumentale molto discorsivo, e precede Carmichael, primo di tre brani che superano i dieci minuti: questa è una fulgida rock ballad con una parte chitarristica tutta da godere, grazie a Neil che svolge un lavoro splendido suonando con il suo abituale feeling che sopperisce ad una tecnica un po’ grezza.

L’acustica e delicata Bandit, che vede Young da solo sul palco per un momento di quiete fra cantato e talkin’ (ma la chitarra sembra quasi scordata), porta ad un altro dei brani centrali del doppio: Grandpa’s Interview, altra rock song intensa e profonda con un lirismo chitarristico ed un tocco che si riconoscono dopo due note, tredici minuti di puro godimento musicale, non importa che il brano non abbia una melodia ben definita. La breve e toccante ballata Bringin’ Down Dinner, con Neil all’organo, prelude ai dodici minuti di Sun Green, vibrante rock song dal motivo forse già sentito ma con un approccio decisamente trascinante, che ad un certo punto diventa quasi un boogie. A conclusione del doppio CD abbiamo la straordinaria Be The Rain, una di quelle cavalcate elettriche travolgenti che hanno fatto la fortuna del connubio Neil Young/Crazy Horse, corredata da un ritornello irresistibile: un brano che ha le stimmate del classico. Un ottimo live quindi, che rivaluta un album, Greendale, secondo me ingiustamente bistrattato e che prepara il palato al volume due degli archivi younghiani.

Che, almeno per il momento, saranno un privilegio per pochi.

Marco Verdi

Commander Cody & His Lost Planet Airmen: Ballerine, Nani E Tanto Rock’n’Roll E Country! Parte II

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Parte seconda.

Per l’ultimo disco per la Paramount a novembre 1973 i Commander Cody si presentano a Austin, dove, in un tripudio di armadilli in copertina disegnati da Jim Franklin, registrano un grande disco dal vivo che esce a Marzo dell’anno dopo. Ed ecco

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Live from Deep in the Heart of Texas 1974 Paramount/MCA ****1/2, naturalmente siamo all’Armadillo World Headquarters, uno dei dischi classici in concerto degli anni ‘70, con il gruppo in forma strepitosa, di fronte ad una folla adorante (ma gli applausi sembrano mezzi fasulli visto che il locale teneva al massimo 1.500 persone) e l’ultimo disco per il momento con Black alla pedal steel, Una sequenza di brani formidabile che parte con lo strumentale Armadillo Stomp, con tutti gli strumentisti al proscenio, prosegue con Farlow che incanta il pubblico con Good Rockin’ Tonight, l’honky-tonk accelerato di I’m Coming Home di Johnny Horton, una variazione su un loro classico che per l’occasione diventa Down To Seeds and Stems Again Blues, ma rimane una splendida canzone, e molto bella anche la suggestiva cowboy song Sunset On The Sage.

Si prosegue con una serie di canzoni estratte dal loro enorme repertorio, non presenti nei dischi di studio, come Little Sally Walker, dai profumi R&R, Git It che ricorda moltissimo le scorribande degli Sha Na Na, e ancora la sfrenata Oh Momma Momma, leggendaria nei loro concerti, con Frayne che va di barrelhouse e sul lato country la loro cover di Crying Time di Buck Owens, l’allegra Diggy Liggy Lo, con violino e steel sugli scudi, mentre gli altri armonizzano di gusto. Il divertimento continua con una trascinante Riot In Cell Block #9 e un altro dei loro cavalli di battaglia,una dirompente Too Much Fun, e per chiudere in gloria una fantasmagorica Mean Woman Blues.

Dal vivo erano veramente fantastici, confermo perché mi è capitato di vederli di persona ai tempi. A fine 1974, scaduto il contratto con la Paramount, firmano il contratto con la Warner Bros e durante l’anno successivo esce l’omonimo

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Commander Cody and His Lost Planet Airmen1975 Warner Bros ****

Prodotto da John Boylan è probabilmente il loro disco di studio più bello: copertina fantascientifica, e contenuto pure, nel senso che è talmente bello che quasi non ci si crede, uno dei primi esempi di Americana music. Ernie Hagar sostituisce Black alla pedal steel , arriva la sezione fiati dei Tower Of Power e la scelta dei brani è di prima qualità: si parte con Southbound di Hoyt Axton, un perfetto esempio di country-rock con il lavoro del nuovo produttore che evidenzia tutti i particolari sonori in modo superbo. Don’t Let Go è un’altra delle loro formidabili escursioni tra rock’n’roll e R&B, California Okie un sentito omaggio alla musica dello stato che li ospita, altro esempio di country-rock da manuale.

Un minuto di raccoglimento, anzi 3:38 minuti, tanto dura la cover di Willin’ dei Little Feat, a mio parere la più bella mai incisa, cantata a più voci, con delle armonizzazioni da lasciare senza fiato, la pedal steel che quasi ti abbraccia con calore, veramente un capolavoro, l’avrò sentita centinaia di volte nel corso degli anni ma non mi stanco mai, e comunque l’originale dei Feat non scherzava, ma questa è unica, l’epitome della country song per eccellenza. Il resto dell’album prevede The Boogie Man Boogie, un altro omaggio allo swing ed al jump blues, diretto discendente di Hey! Ba-Ba-Re-Bop di Lionel Hampton, con la band che viaggia come un treno, il Comandante Cody in testa con il suo piano fiammeggiante; la più rilassata Hawaii Blues è una deliziosa pillola tra steel scivolanti in mezzo a palme tropicali e western swing, ma è un attimo perché il boogie riprende subito fiato grazie ai fiati (scusate, mi è scappato) scatenati dei Tower Of Power che faticano a tenere testa agli 88 tasti di Frayne nella magnifica House Of Blue Lights.

Torna anche il country insaporito di western swing alla Asleep At The Wheel (ma anche Bob Wills, grande influenza su Frayne) di Keep On Lovin’ Her, con il violino scatenato di Andy Stein, e non manca neppure il romanticismo adorabile di una ballata come Devil & Me cantata in modo favoloso da John Tichy, con la pedal steel di Hagar che non fa rimpiangere Black, in grande evidenza anche nello swing sincopato e dai salaci doppi sensi di Four Or Five Times e rendere infine omaggio diretto a Bob Wills con la splendida e vorticosa That’s What I Like About the South, dove Stein ci delizia una volta di più con il suo violino, che conclude un album veramente superbo. Difficile fare meglio, ma il disco successivo ci va molto vicino, anzi direi che siamo alla pari con

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Tales From The Ozone – 1975 Warner Bros ****

Disco che vede il ritorno in formazione del figliol prodigo Bobby Black (ma Hagar aveva fatto più che bene) e una ulteriore serie di canzoni strepitose: produce Hoyt Axton, e tra gli ospiti, oltre ai Tower Of Power, troviamo David Bromberg al dobro, oltre ad una serie di backing vocalist tra cui spiccano Nicolette Larson, Mimi Farina e Ronee Blakley e lo stesso Axton. Si parte subito forte con una pimpante e corale versione, tra classico e “moderno” di Minnie The Moocher di Cab Calloway, seguita dal rockabilly rock di It’s Gonna Be One Of Those Nights dove ancora una volta i Planet Airmen eccellono, Connie è una delle due brillanti country tunes portate da Kevin “Blackie” Farrell, vecchio amico di Bill Kirchen e autore di altre canzoni nei dischi precedenti della band, molto bella anche Tina Louise, una sorta di ballata di frontiera, con mariachi ed atmosfere messicane.

Ma il country è lo stile prevalente in Tales, come sottolinea anche la bellissima cover di I Been to Georgia on a Fast Train di Billy Joe Shaver, e l’altrettanto emozionante cover di Honky Tonk Music dei Dusty Chaps (vi potrei fare il giochino di chi li ricorda alzi la mano? https://www.youtube.com/watch?v=GHa9k-UTaas ). Ottima anche la corale Lightning Bar Blues di Hoyt Axton, con un ritornello irresistibile e intrecci di violino e steel sempre impeccabili, Axton che firma anche il country’n’roll fiatistico di Paid In Advance, con tutte le ragazze a gorgheggiare sullo sfondo, di Tina Louise abbiamo detto,

ma prima troviamo anche una cover di Cajun Baby di Hank Williams Jr. che appartiene alla famiglia di Jambalaya e canzoni simili, e a seguire una delle tipiche canzoni di Leiber-Stoller come la divertente The Shadows Knows dove Frayne si può divertire con il suo vocione, l’allegra e scanzonata Roll Your Own di Mel McDaniel, con Bromberg al dobro a fronteggiare il piano dei Comandante, che lascia il proscenio finale a Andy Stein, ottimo violinista anche tra classico e tzigano nella conclusiva Gypsy Fiddle. Per dirla con Asterix SPQCC (Son Pazzi Questi Commander Cody): prima di sciogliere la band tutta la troupe parte per un tour europeo, dove tra gennaio e febbraio 1976 viene registrato in Inghilterra

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We’ve Got a Live One Here! 1976 2LP Warner Bros ***1/2

Ci sono delle variazioni nella formazione, John Tichy non è più della partita, sostituito da Rick Higginbotham alla chitarra, mentre viene aggiunto alla line-up il veccgio amico Norton Buffalo, ad armonica, trombone e voce. Dal vivo sono sempre formidabili e nel loro elemento, ci mancherebbe, ma manca forse un po’ del fuoco del Live degli Armadilli. Comunque un commiato più che rispettabile per i Lost Planet Airmen: anche in questo tour appaiono, com’era loro usanza, molte canzoni non apparse su dischi precedenti, dall’apertura con la scintillante One Of Those Nights, che dà il via subito alle danze, fanno la prima apparizione anche Big Mamou, un valzerone in salsa New Orleans cajun che poi accelera come forse neanche Zachary Richard all’epoca, un altro classico è la soave San Antonio Rose dell’amato Bob Wills, il contributo di Norton Buffalo con la frenetica e bellissima 18 Wheels, visto che c’è un altro chitarrista in formazione, ogni tanto all’occorrenza Kirchen suona il trombone, come pure Norton Buffalo, l’ultima canzone che appare per la prima volta nel doppio è Milk Cow Blues, dove appunto i fiati sono in evidenza sempre con questo effetto Louisiana.

Le altre canzoni, comunque tutte suonate alla grande, già le conosciamo: Semi Truck dedicata a tutti i camionisti, con un florilegio di chitarre, Smoke!Smoke!Smoke!, con il Comandante che si “Ingigionisce” (si può dire!), la splendida Mama Hated Diesels dove armonizzano alla grande, come pure in Seeds And Stems, ma anche tanto boogie e R&R, Back To Tennessee, Rock That Boogie, Don’t Let Go, Too Much Fun, Hot Rod Lincoln e in ambito country Lost in The Ozone.

Da allora a oggi, tra quello di nuove Commander Cody Band, alla pubblicazione di molto materiale di archivio, è uscito parecchio a livello discografico, anche se poi quelli che contano sono i primi sette album in sei anni, comunque ecco un rapido

Best Of The Rest 1977-2020

Rock’N’Roll Again del 1977 è un buon album (su CD Wounded Bird): dei “vecchi” rimane solo Bobby Black, mentre la voce solista è sempre George Frayne, con un aiuto da Nicolette Larson, ma si sente la mancanza di un cantante vero, stesso discorso per Flying Dreams del 1978, con miriadi di ospiti, Jeff Baxter, Buzzy Feiten, Danny Gatton, Neil Larsen, il solito Bobby Black, vocalists a go-go, cover dei Beatles, della Band, ma non ci siamo proprio.

Vengono nel 1980 al Rockpalast di Essen, e nel 2009 esce postumo un CD o DVD, c’è Bill Kirchen alla chitarra e alla voce di tanto in tanto, buono ma non eccelso, 3 stellette e mezzo di stima, lo stesso anno esce anche il disco di studio Lose It Tonight, giudizio un bel bah! Nel 1986 esce Let’s Rock per la Blind Pig, un po’ meglio, con il ritorno di Bruce Barlow e Kirchen, che divide le parti vocali con Austin De Lone e Cody, qualche remake, un paio di brani di “Blackie” Farrell, per un disco discreto. A questo punto cominciano a uscire dei dischi con materiale d’archivio: la Relix ne pubblica un paio Aces High, con materiale live 1979-1989 e soprattutto Sleazy Roadside Stories con un concerto inedito del dicembre 1973 all’Armadillo World Headquarters, registrato il mese dopo Deep In The Heart Of Texas, ma temo non si trovino più.

Tra le cose d’archivio, sempre del periodo Lost Planet Airmen, uscite più di recente e quindi spero reperibili, vi segnalo Live In San Francisco 1971 della Sundazed, Live In The Ozone 1973 Usa Tour della Cleopatra/Purple Pyramid, e Live From Ebbetts Field, Denver Colorado Aug 11 1973, oltre allo strepitoso Found In the Ozone, ricordato all’inizio dell’articolo, tutti più o meno imperdibili e immancabili tasselli per ricordare una delle più grandi e sottovalutate band di culto della musica americana degli anni ‘70. Saluti al Comandante!

Bruno Conti

Un Album Che E’ Di Nuovo Un Capolavoro (Con L’Aggiunta Del “Solito” Disco Dal Vivo). Grateful Dead – American Beauty 50th Anniversary

grateful dead american beauty 50th anniversary

Grateful Dead – American Beauty 50th Anniversary – Rhino/Warner 3CD Deluxe – LP Picture Disc

Com’era prevedibile, a pochi mesi dalla ristampa deluxe di Workingman’s Dead, seminale album del 1970 dei Grateful Dead che sancisce la fine del periodo psichedelico a favore di sonorità più roots https://discoclub.myblog.it/2020/07/25/da-gruppo-leader-del-rock-psichedelico-a-paladini-del-suono-americana-grateful-dead-workingmans-dead-50th-anniversary/ , le edizioni per i cinquantesimi anniversari degli LP di studio della storica band californiana proseguono con American Beauty, che viene quasi all’unanimità considerato il loro capolavoro. Stiamo infatti parlando di un album nel quale i Dead consolidano la loro posizione preminente di paladini del crescente sound country-rock, un genere che in America in quel periodo sta prendendo sempre più piede grazie al lavoro di gruppi come Byrds, Flying Burrito Brothers e New Riders Of The Purple Sage (che devono ancora esordire su disco ma sono già in giro da un paio d’anni, e partecipano anche ad American Beauty nelle persone di David Nelson e Dave Torbert).

Ma il disco non si fa notare solo per il suono roots (già ampiamente nelle corde di Jerry Garcia, basta guardare i suoi esordi), ma soprattutto per il fatto che contiene una serie di canzoni formidabili che vanno a formare una tracklist pazzesca, che lo fanno sembrare più un’antologia di successi che un disco nuovo e che da lì in poi costituiranno gran parte dell’ossatura dei loro concerti. L’album contiene la miglior canzone di Phil Lesh (l’iniziale Box Of Rain, splendida nonostante Phil non sia un granché come cantante) e la miglior canzone di Bob Weir (l’irresistibile Sugar Magnolia), ma anche Garcia non è da meno con la straordinaria e toccante Ripple (che vede l’amico David Grisman al mandolino), che se non è il suo brano più bello di sempre rientra di sicuro tra i primi cinque. Poi c’è una delle loro rock’n’roll songs più trascinanti (Truckin’, rara collaborazione tra Weir e Garcia in sede di scrittura), l’ultima testimonianza in studio del tastierista Ron “Pigpen” McKernan (che morirà all’inizio del 1973) che per una volta non ricorre alle sue influenze blues ma propone un gradevole country-rock intitolato Operator, mentre un Garcia in stato di grazia contribuisce con altri cinque pezzi, la mitica Friend Of The Devil, due sontuose country ballads (Candyman e Brokedown Palace), la coinvolgente ‘Till The Morning Comes ed il bellissimo slow Attics Of My Life, contraddistinto da una impeccabile armonia a tre voci tra Jerry, Bob e Phil.

Un disco ancora da cinque stelle a 50 anni dall’uscita originale, e che oggi viene ripubblicato in una confezione tripla con aggiunto l’ennesimo concerto inedito del gruppo, mentre come per Workingman’s Dead le sessions di studio sono state messe a disposizione solo online sotto il nome di The Angel’s Share. La (parziale) delusione per la poca fantasia di chi gestisce l’eredità della band ha lasciato però spazio alla soddisfazione nell’ascolto del secondo e terzo CD, in quanto stiamo parlando di uno degli show a lungo invocati dai “Deadheads”, che lo hanno sempre considerato uno dei migliori del periodo, vale a dire quello tenutosi il 18 febbraio del 1971 al Capitol Theatre di Port Chester, nello stato di New York (cosa ancor più degna di nota dal momento che il biennio 1971-72 è forse il migliore di sempre dei Dead dal vivo). Un concerto potente, suonato alla grande e cantato senza sbavature, con parecchie canzoni all’epoca recenti (e di alcune ancora oggi non esiste la versione in studio), qualche omaggio agli anni 60 ed una serie di cover molto interessanti.

Apertura tipica di quel periodo con la coinvolgente Bertha, seguita subito dai nove minuti di una Truckin’ tiratissima e con Garcia e la sua chitarra che mostrano di essere in serata; una solida It Hurts Me Too di Elmore James (canta Pigpen) precede Loser, deliziosa ballata di Jerry, e la breve Greatest Story Ever Told di Weir, che a sua volta confluisce in un trittico di cover che vanno dal rock’n’roll (Johnny B. Goode di Chuck Berry) al country (Mama Tried di Merle Haggard) all’errebi (Hard To Handle, Otis Redding). La mitica Dark Star, con un Jerry stellare, viene divisa in due da Wharf Rat, altro slow tra i più apprezzati di Garcia, ed a chiudere il primo CD c’è la consueta rilettura di Me And My Uncle di John Phillips. La seconda parte si apre con Casey Jones, altro classico senza tempo, e prosegue con l’interlocutoria Playing In The Band ed una bella versione di Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson; dopo due estratti da American Beauty (una notevole Candyman di otto minuti e la sempre travolgente Sugar Magnolia) ed un viscerale omaggio di McKernan a Willie Dixon con Big Boss Man, i Dead entrano nel finale del concerto con un lucido omaggio al loro periodo psichedelico (St. Stephen) e la rilettura rielaborata alla loro maniera di Not Fade Away di Buddy Holly, anch’essa divisa in due dalla splendida Goin’ Down The Road Feeling Bad. Una serata quasi perfetta non può che chiudersi con la più bella canzone di sempre dei Dead, ovvero l’inimitabile Uncle John’s Band, degno finale di un concerto più che adeguato ad impreziosire un disco come American Beauty.

La prossima celebrazione di un cinquantennale dei Grateful Dead arriverà solo nel 2023 (il sottovalutato Wake Of The Flood), ma credo proprio che nei prossimi due anni le pubblicazioni d’archivio del gruppo non mancheranno di certo.

Marco Verdi

Commander Cody & His Lost Planet Airmen: Ballerine, Nani E Tanto Rock’n’Roll E Country! Parte I

commander cody 1970

La pubblicazione del recente doppio album Found In The Ozone della serie Bear’s Sonic Journals ha creato un rinnovato interesse per Commander Cody, soprattutto nel periodo d’oro in cui si accompagnava con i Lost Planet Airmen . Per cui abbiamo deciso di dedicargli una retrospettiva, incentrata soprattutto sugli anni dal 1967 al 1976, ma anche, in modo più succinto, su quanto successo in seguito. Riguardo al titolo dell’articolo, per le ballerine, il country e il R&R confermo, i nani ammetto che forse me li sono inventati, ma servono per inquadrare un’epoca in cui nel rock, anche a livello scenico, succedeva di tutto.

1967-1970 Le origini di una “piccola leggenda”.

George Frayne assume il proprio alias di Commander Cody già nel 1967, ispirato dai film di Serie B o dai serial in più episodi: in uno di questi c’era un personaggio chiamato “Commando Cody”, mentre in una serie King Of The Rocket Man, un episodio si chiamava Lost Planet Airmen, fate 1+1 e con un po’ di fantasia ecco Commander Cody & His Lost Planet Airmen. A questo punto, come appena detto, siamo dunque nel 1967, e ci troviamo ancora ad Ann Arbor nel Michigan: l’anno in cui Andy Warhol operava a New York con la sua Factory che includeva anche i Velvet Underground. Per non essere da meno Frayne, che era arrivato in Michigan dalla natia Boise, Idaho, via Long Island, per studiare all’Università (ed in effetti poi si laureò in Belle Arti ed aveva già pronta anche una carriera come insegnante) studiò la sua contromossa: si sa che un’altra delle Arti che gli piaceva praticare era la musica, ed avendo incontrato nel biondo elegante John Tichy uno spirito affine, che poteva unire la sua chitarra al pianoforte di George, entrambi innamorati di country e R&R, trovano anche il violinista Andy Stein, l’unico studente di musica, in grado di suonare pure il sax e il nucleo della band era nato.

E siccome erano tutti anche dei pazzerelloni, trovato il nome si sarebbe dovuto trovare anche un genere, ma si pensò di farli tutti contemporaneamente e non solo: visto che la troupe che girava attorno a Warhol pareva esigua, nelle prime edizioni del gruppo c’erano 34 elementi, 5 suonatori di kazoo (e avrei voluto vederli), una ragazza (ballerina?) in reggiseno e slip, con stivaloni neri, una bella frusta, che però stava seduta e non faceva nulla (non so perché mi ricorda la TV italiana), una ragazza di quasi 100 chili avvolta nella bandiera americana che faceva capriole per il palco (!), mentre sullo sfondo scorrevano immagini di estrazioni dentali, e in tutto ciò, come ricorda lo stesso Frayne, “a nessuno fregava niente”. Però almeno i nostri amici ci credono, la band si crea un repertorio e quando arrivano nella terra promessa, almeno per la musica, ovvero la California, Bay Area, San Francisco, sono anche diventati “bravini”. Billy C. Farlow è la voce solista e all’occorrenza armonicista, Bill Kirchen, chitarra e voce, del Comandante e Stein abbiamo detto, Tichy rientrerà più avanti, a completare la formazione ci sono Steve Davis alla pedal steel, Bruce Barlow al basso e Lance Dickerson alla batteria, per un totale di sette elementi.

E cominciano ad aprire i concerti di chiunque li voglia, tra il Fillmore West di Bill Graham e il Family Dog del suo rivale Chet Helms. A questo punto andate a riprendervi la recensione dello splendido doppio CD Commander Cody & His Lost Planet Airmen – Bear’s Sonic Journals Found in the Ozone 1970 Owsley Stanley Foundation **** https://discoclub.myblog.it/2020/09/15/unaltra-succulenta-uscita-di-archivio-per-gli-amanti-della-buona-musica-commander-cody-his-lost-planet-airmen-bears-sonic-journals-found-in-the-ozone/  e vi saranno chiare le ragioni dell’inizio della leggenda della band: 41 brani formidabili, tra country, rock, western swing, rockabilly, jump, blues, cajun e la futura Americana, registrati da Owsley “Bear” Stanley, mitico soundman dei Grateful Dead. A questo punto la reputazione dei loro concerti dal vivo comincia a spargersi e vengono contattati dalla Paramount che li mette sotto contratto nel 1971 per realizzare il primo album. Integrando gli ascolti fatti per recensire il doppio, mi sono (ri)ascoltato bene il vecchio catalogo ed ecco il responso, naturalmente personale sui loro album.

1971-1974 Il Periodo Paramount.

Ad affiancare George Frayne come produttore c’è Bob Cohen (che negli anni successivi lavorerà, ma solo come musicista, con Lesley Duncan, Jesse Winchester e Tim Hardin. Il risultato è l’eccellente

commander cody lost in the ozone

Lost In The Ozone – 1971 Paramount/MCA ***1/2

Rientrato in formazione anche John Tichy, che canta in due brani, il gruppo ha una formidabile serie di vocalist: Billy C. Farlow voce solista, Billy Kirchen in altri due pezzi, e anche Commander Cody ne canta una, ed insieme a Barlow creano delle splendide armonie vocali. Il grande successo dell’album è Hot Rod Lincoln, una cover affidata a Frayne che entra nella Top 10 dei singoli, e che rimarrà anche l’unica hit delle loro carriera, mentre l’album a fatica arriva al n°82 di quelle degli album, vendendo comunque un rispettabile numero di copie (erano altri tempi). La canzone è un boogie frenetico strepitoso, tra country e western swing, con il vocione recitante di Cody, e la chitarra elettrica, il violino e la pedal steel ad impazzare.

Nel disco ci sono anche tre brani dal vivo, da sempre uno dei loro punti di forza, a maggior ragione nel 1971, quando erano una delle migliori band in concerto: da Berkeley arrivano What’s The Matter Now?, una pigra country song old style, scritta da Farlow, che le canta deliziosamente, con piano, pedal steel, chitarra e violino perfetti, senza dimenticare le fantastiche armonizzazioni vocali, e poi il R&R devastante di Twenty Flight Rock di Mastro Eddie Cochran, e qui non ce n’è per nessuno, il sax di Stein in grande spolvero e la chitarra di Kirchen completano l’opera, niente male, per usare un eufemismo, il boogie woogie Beat Me Daddy, Eight to the Bar da Ann Arbor, con piano, pedal steel, sax e armonica a menare le danze, perfino Barlow va di basso, canta Tichy.

Tra i brani in studio la scatenata Back To Tennessee della coppia Frayne/Farlow è un altro ottimo esempio del loro stile inconfondibile, tra country e R&R, Wine Do Yer Stuff è un honky tonk a tutta steel e piano, grande Farlow alla voce. Mentre in Seeds And Stems (Again) cede il microfono a Kirchen per una ballatona country, che se non avessi letto il nome dell’autore avrei giurato fosse di Willie Nelson, Tichy si disbriga alla grande nel valzerone Family Bible, questa sì scritta da Willie benché accreditata ad altri. Daddy’s Gonna Treat You Right canta coralmente dalla band non ha nulla da invidiare alla Nitty Gritty o ai Flyng Burrito. Home In My Hand è un potente brano tra country e rockabilly, di nuovo affidato a Kirchen, mentre Lost In The Ozone è un western swing degno dei migliori Asleep The Wheel, loro grandi amici e protetti, manca Midnight Shift, con Farlow che va di Elvis prima maniera, come piace a lui.

Un solido esordio, doppiato l’anno dopo a maggio con

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Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites – 1972 Paramount/MCA ***1/2

Altro grande album che conferma tutto quanto di buono mostrato nel primo album, ed introducendo in Bobby “Blue” Black uno dei più grandi suonatori di pedal steel della storia del country-rock, a livello di Sneaky Pete Kleinow, Rusty Young, Al Perkins, Buddy Cage, e via così. Solito misto di materiale originale e cover, in questo caso più le seconde: di inni dedicati ai guidatori di trucks ce ne sono ben tre, la corale e scoppiettante Truck Stop Rock, il super classico Truck Drivin’ Man, dove si inizia ad apprezzare la guizzante steel di Black, e la splendida Semi-Truck dell’accoppiata Farlow/Kirchen.

Ma non mancano devastanti escursioni nel “vero” R&R con una vorticosa Rip It Up, con Cody molto impegnato al piano, ma anche gli altri non scherzano, e pure in una Tutti Frutti registrata dal vivo non si risparmiano. Sul lato country brillano Cravin’ Your Love, Kentucky Hills Of Tennessee, Diggy Liggy Lo che faceva anche la Nitty Gritty, e una superba Mama Hated Diesels degna delle migliori canzoni di Merle Haggard. Non mancano un paio di escursioni tra blues e R&B con It Should’ve Been me e la divertente e super funky Watch My .38, definita Ozone Music.

Passa un altro anno ed esce

Commander Cody Country_Casanova

Country Casanova – 1973 Paramount/MCA ***1/2

Disponibile anche in Stereo 8 (particolare non trascurabile), visto il titolo l’album entra nelle classifiche country, anche se Everybody’s Doin’ It chissà perché venne censurato dalle radio di settore, inspiegabilmente, in fondo “fuckin” non lo ripeteranno in questa cover di western swing più di una trentina di volte.

Altro pezzo in cui Frayne impazza è in una grandiosa cover di Smoke! Smoke! Smoke! (That Cigarette), e boogie e western swing regnano, come da titolo, anche in Rock That Boogie. Eccellente anche il trattamento alla Commander Cody di Rave On di Buddy Holly, con squisiti siparietti sonori dei vari solisti. La quota country è assicurata dalla title track, uno strano ma efficace country funk con pedal steel d’ordinanza di Black e colossale groove di basso di Barlow; Shall We Meet (Beyond the River), cantata da John Tichy aggiunge forti elementi gospel al classico country della band, che riprende vigore nel western swing a tutta steel di My Window Faces The South, come pure in One Man’s Meat (Is Another Man’s Poison) e Sister Sue, sempre scritta da Tichy, ma decisamente più orientata verso il rock, con pianino caliente di Frayne, e ottima anche Honeysuckle Honey un’altra piccola perla di country & western swingato.

Fine della prima parte.

Bruno Conti

Musica Country Forse Non Indispensabile, Ma Diretta E Senza Fronzoli. Mo Pitney – Ain’t Lookin’ Back

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Mo Pitney – Ain’t Lookin’ Back – Curb CD

Mo Pitney è un countryman originario dell’Illinois ma di stanza a Nashville da diversi anni (“Mo” sta per Morgan), e ha già alle spalle un disco, Behind This Guitar, pubblicato nel 2016 ed entrato anche nella Top Ten di settore. Pitney è un musicista vero, che fa un country moderno ma ispirato ai classici, ha una buona penna ed è capace di passare in maniera disinvolta dai brani più movimentati alle ballate lente, ma senza snaturare il suo suono che rimane ancorato alle tradizioni. Per questo suo secondo lavoro, intitolato Ain’t Lookin’ Back, la Curb (gloriosa etichetta indipendente fondata nei primi anni sessanta) gli ha assicurato i servigi di Jim “Moose” Brown, affermato produttore di Nashville, nonché apprezzato chitarrista che ha fatto parte di recente della house band degli ultimi lavori di Bob Seger: Brown lo ha assistito dando al CD un suono solido e senza troppi fronzoli, valorizzando al meglio le composizioni di Mo e portando in studio anche qualche nome di rilievo come il noto steel guitarist Bobby Terry, l’armonicista Mickey Raphael e la corista Shaun Murphy, la quale vanta anche una lunga militanza all’interno dei Little Feat (ci sono altri ospiti speciali, che vedremo tra poco).

Ain’t Lookin’ Back è dunque un bel disco di country elettrico e moderno, ma suonato da veri musicisti e non da macchine (Keith Urban, sto parlando con te…). Il CD parte benissimo con A Music Man, che vede la partecipazione alla seconda voce di Jamey Johnson, ma a prescindere dalla presenza del countryman dell’Alabama il brano è un’intensa ed emozionante ballata acustica con la band che entra di soppiatto accompagnando il nostro con discrezione: non è da tutti iniziare un disco con un lento di questa portata, e ciò dà la misura dell’abilità di Pitney nel songwriting. Con la ritmata Right Now With You le cose iniziano a farsi movimentate, il brano è terso, disteso ed estremamente piacevole, con chitarre e organo a fornire un suono caldo all’orecchiabile melodia; Ain’t Bad For A Good Ol’ Boy è una limpida canzone country-rock dal refrain coinvolgente e suono vigoroso, ‘Til I Get Back To You è puro country, una ballata solare guidata dalla steel con un motivo diretto ed un retrogusto southern, mentre Looks Like Rain è ancora cadenzata e gradevole, dall’accompagnamento semplice basato su chitarre e steel, niente di rivoluzionario ma fatto bene.

Boy Gets The Girl conferma la facilità da parte del nostro di scrivere melodie immediate e di rivestirle di sonorità classiche: qui l’arrangiamento è leggermente più moderno ma sempre ben al di sopra del livello di guardia; la vibrante e western-oriented title track precede Old Home Place, uno dei brani centrali del lavoro in quanto ad accompagnare Mo c’è una All-Star Band nella quale troviamo musicisti del calibro di Marty Stuart alla solista, Jerry Douglas al dobro e Ricky Skaggs al mandolino, ma aldilà dei nomi altisonanti il pezzo è un irresistibile mix tra rockabilly e bluegrass, con uno di quei motivi che si canticchiano dopo mezzo ascolto: di sicuro uno degli highlights del disco. La soave ballata Plain And Simple e la crepuscolare Mattress On The Floor, ricca d’atmosfera, indirizzano l’album verso i tre brani finali: il rockin’ country sudista Local Honey, con slide e piano elettrico che dicono la loro in maniera ruspante, la soffusa Old Stuff Better e la toccante Jonas, western song lenta e decisamente evocativa. Mo Pitney con Ain’t Lookin’ Back dimostra quindi che per fare del country come si deve non è il caso di fare i fenomeni (Keith Urban, non stai ascoltando…), ma basta avere delle buone canzoni e la giusta predisposizione.

Il che, lo riconosco, non è poco.

Marco Verdi

Probabilmente La Vera Erede Della Grandi Voci Nere Del Passato! Shemekia Copeland – Uncivil War

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Shemekia Copeland – Uncivil War – Alligator Records/Ird

Ormai Shemekia Copeland è entrata di diritto tra le voci più interessanti delle ultime generazioni blues (e non solo), con una serie di album, questo è il decimo, che spesso e volentieri sono stati candidati ai Grammy e hanno vinto molto premi di settore, l’ultimo come Female Artist Of The Year 2020 per Living Blues. Tutti di qualità elevata, con punte di eccellenza appunto nel precedente America’s Child, dove tra ospiti e collaboratori apparivano John Prine, Rhiannon Giddens, Mary Gauthier, Emmylou Harris, Steve Cropper, Gretchen Peters, Tommy Womack e svariati altri https://discoclub.myblog.it/2018/09/04/alle-radici-della-musica-americana-con-classe-e-forza-interpretativa-shemekia-copeland-americas-child/ . Disco che accentuava, come in precedenti album, ma in modo più marcato, la presenza di elementi rock, soul, country e “Americana” sound, quindi tutta la musica delle radici. Per questo nuovo Uncivil War la formula viene ripetuta: stesso produttore, l’ottimo Will Kimbrough, stessi studi di Nashville, massiccia presenza di ospiti di pregio e la scelta di un repertorio molto variegato, cercato con molta cura tra alcuni classici del passato e il nuovo materiale scritto principalmente dai due produttori John Hahn e Will Kimbrough.

Poi il resto lo fanno la bellissima voce di Shemekia e le sue sublimi capacità interpretative: Clotilda’s On Fire, è una storia vera, dalla penna di Kimbrough, che anche negli Orphan Brigade è un eccellente narratore, e racconta le vicende dell’ultima nave di schiavi che arrivò n America (a Mobile Bay, Alabama nel 1859, 50 anni dopo che il traffico di schiavi era stato ufficialmente bandito). La nave fu incendiata e distrutta dal capitano per nascondere l’evidenza dei fatti, e (ri)scoperta solo nel 2019: uno slow blues di grandissima intensità, cantato con passione dalla Copeland e con Jason Isbell superbo alla chitarra solista, mentre Kimbrough e la ritmica di Lex Price, basso e Pete Abbott, batteria, lavorano di fino, come in tutto l’album, grande canzone. E la successiva Walk Until I Ride non è da meno, come ospite troviamo Jerry Douglas ad una sinuosa lap steel, e la canzone, chiaramente ispirata da quelle degli Staple Singers, anche per l’uso di elementi gospel nei cori e il gran finale emozionante , tratta l’argomento dei diritti civili, sempre di attualità anche nell’America di oggi, e che voce, Mavis sono sicuro che approverà.

Ottima pure la title track Uncivil War, sulla attuale situazione di incertezza e paura che attanaglia il mondo: uno splendido country-folk-blugrass con Douglas che passa al dobro, con Sam Bush al mandolino, Steve Conn all’organo e gli Orphan Brigade alle armonie vocali, sempre cantata con impeto da Shemekia, basterebbero queste tre canzoni per celebrarne l’eccellenza, ma anche il resto del disco, per usare un eufemismo, non è male. Money Makes You Ugly ci introduce agli straordinari talenti del suo giovane compagno di etichetta, il bravissimo chitarrista Christone “Kingfish” Ingram https://discoclub.myblog.it/2019/06/24/lultima-scoperta-della-alligator-un-grosso-chitarrista-e-cantante-in-tutti-i-sensi-christone-kingfish-ingram-kingfish/ , che ci regala una incandescente serie di assoli di chitarra in questo travolgente rock-blues, mentre la Copeland dirige le operazioni con la sua voce potente; Dirty Saint è una commossa dedica a Dr. John, un amico che non c’è più, un brano di tipico New Orleans sound, con Phil Madeira all’organo, Will Kimbrough alla chitarra e slide e un terzetto di vocalist ad alzare la temperatura.

La prima cover è una raffinata ripresa di Under My Thumb degli Stones, rallentata e trasformata quasi in un R&B intimo e notturno, mentre Apple Pie And A .45, sulla proliferazione delle armi negli USA, è una poderosa rock song con Will Kimbrough che imperversa di nuovo a slide e solista a tutto riff, con un suono cattivo il giusto. Give God The Blues del terzetto Shawn Mullins, Phil Madeira e Chuck Cannon è una sorta di preghiera laica alle 12 battute, con Kimbrough e Madeira che si dividono le parti di chitarra, mentre la Copeland declama questo carnale rock-blues cadenzato, seguito dalla divertente e tirata ode al vecchio R&R, She Don’t Wear Pink firmata da Webb Wilder che incrocia anche la chitarra con il re del twang Duane Eddy, mentre No Heart At All vede aggiungersi alla coppia di autori Kimbrough e Hahn, anche il noto produttore/batterista Tom Hambridge, con Jerry Douglas di nuovo alla lap steel in un assolo da urlo e un suono sanguigno quasi alla Ry Cooder dei tempi d’oro del blues elettrico. Per chiudere un paio di altri blues d’annata, di Don Robey una sospesa e sognante In The Dark, con Steve Cropper a duettare con Kimbrough, mentre Shemekia emoziona con una interpretazione da brividi, prima di rendere omaggio al babbo Johnny Clyde Copeland con una deliziosa blues ballad come Love Song, dove Kimbrough ci mette ancora del suo alla chitarra. Il tutto cantato e suonato come Dio comanda.

Bruno Conti

Due Concerti Storici Finalmente Disponibili…Ma Perché Niente CD E DVD? John Lee Hooker – Live At Montreux 1983 & 1990

john lee hooker live at montreux

John Lee Hooker – Live At Montreux 1983 & 1990 – Eagle Rock/Universal 2LP – Digital Download

Tra gli innumerevoli concerti che negli anni si sono svolti presso il mitico Montreux Jazz Festival, particolarmente ricercati dai fans (e più volte bootlegati) sono i due show che il grande John Lee Hooker tenne nella località svizzera nel 1983 e 1990: oggi la Eagle Rock rende finalmente ufficiali quelle serate seppur con una modalità discutibile, e cioè solo in doppio LP e niente CD come supporto audio “fisico” (e fin qui ci può stare), ma senza nessuna pubblicazione tangibile per la controparte video, che è pertanto disponibile solo come download digitale. Scelte bizzarre a parte, Live At Montreux 1983 & 1990 testimonia in maniera esauriente due serate in stato di grazia per il leggendario bluesman del Mississippi, accompagnato in entrambi i casi dalla Coast To Coast Blues Band, un gruppo che in quegli anni era la sua abituale backing band e che aveva come punte di diamante il talentuoso chitarrista Michael Osborn e l’eccellente Melvin Jones alle tastiere. Ma il vero protagonista è naturalmente il vecchio Hook, che fornisce due prestazioni formidabili con il suo tipico stile quasi laidback, riuscendo a sprizzare carisma pur restando seduto durante tutta la performance e muovendosi il meno possibile: il resto lo fanno le canzoni, veri e propri classici del blues che non hanno bisogno di grandi presentazioni.

Lo show del 1983, che occupa il primo LP, vede il nostro salire sul palco con un improbabile completo rosa e cappello scuro, e piazzare subito una It Serves Me Right To Suffer da antologia, sinuosa ed elegante, con la band che suona con precisione svizzera (d’altronde siamo a Montreux) ed il vecchio Uncino che dosa da par suo silenzi, pause e momenti in cui “maltratta” la chitarra. Il ritmo si alza con I Didn’t Know, un boogie-blues incalzante con John Lee che non si scompone più di tanto ma guida il gruppo con piglio da vero leader (ottimo l’assolo di Osborn), prima di una versione tosta e sanguigna di Hi-Heel Sneakers, in cui la band si fa notare per compattezza e feeling, e di una strepitosa If You Take Care Of Me, I’ll Take Care Of You, slow blues sensuale ed appiccicoso in cui Hook gigioneggia alla sua maniera e Jones rilascia un notevole assolo d’organo. La temperatura sale ancora con la classica ed applauditissima Boom Boom e con una calda e fluida rilettura dello standard Worried Life Blues (in America la definirebbero “steamy”), seguite dalla frenetica I’m Jealous e dalla lenta e sulfurea Crawlin’ King Snake, altro slow blues coi controfiocchi. La saltellante Little Girl Go Back To School (presente solo nella parte video) prelude allo straordinario finale con una monumentale e strepitosa jam session basata sul superclassico Boogie Chillen, durante la quale salgono sul palco altri musicisti tra cui il chitarrista Luther Allison e l’armonicista Sugar Blue.

Esecuzione letteralmente epica in cui perfino Hooker lascia la sedia ed accenna addirittura il passo dell’oca, mentre tutti on stage sorridono compiaciuti, per più di 25 minuti di grandissimo blues che valgono da soli l’acquisto del doppio album. E veniamo al 1990, in cui un John Lee stavolta vestito di scuro e con occhiali neri si presenta con una vigorosa e coinvolgente jam strumentale senza titolo durante la quale improvvisa il testo sul momento, e prosegue con la soffusa ed attendista Mabel, un blues lento di gran classe: la Coast To Coast Blues Band mostra qualche cambiamento di formazione (ci sono anche un chitarrista ed un sassofonista in più), ma sia Osborn che Jones sono ancora ben saldi al loro posto. Rispetto allo show del 1983 ci sono quattro ripetizioni (Crawlin’ King Snake, in cui Hook duetta con l’affascinante vocalist Vala Cupp https://www.youtube.com/watch?v=PRm54WNNnmQ , It Serves Me Right To Suffer, Boom Boom e la sempre fantastica Boogie Chillen), mentre le novità sono I’m In The Mood, splendido e lussurioso blues dal tempo cadenzato e decisamente coinvolgente, una rilassata Baby Lee e, come bis, una languida e quasi ipnotica rilettura dell’allora recente The Healer (title track dell’album del 1989 che aveva avuto un notevole successo riportando in auge il nome del nostro), in cui Osborn si cala nei panni di Carlos Santana che suonava nella versione in studio.

Un doppio album dunque imperdibile per i fans di John Lee Hooker e del blues in generale, anche se per ascoltarlo dovrete fare ricorso al caro vecchio giradischi o al “moderno” download.

Marco Verdi