Questa Sì Che E’ “Americana”! The Turnpike Troubadours

the turnpike troubadours

The Turnpike Troubadours – The Turnpike Troubadours – Bossier City/Thirty Tigers CD

Lo dico subito: questo è uno dei CD più belli che ho ascoltato quest’anno. I Turnpike Troubadours sono una band proveniente dall’Oklahoma, e gravitante intorno all’ormai noto movimento Red Dirt: il loro leader e compositore principale è Evan Felker, coadiuvato dall’ottimo violinista Kyke Nix (uno dei punti di forza del gruppo), da Ryan Engleman alla chitarra solista e steel, R.C. Edwards al basso e Gabriel Pearson alla batteria; particolare interessante, John Fullbright, uno dei più brillanti cantautori venuti fuori negli ultimi anni, è un loro ex membro (e devono essere rimasti in buoni rapporti visto che lo troviamo tra gli ospiti di questo ultimo disco). I Troubadours, attivi dal 2007, hanno tre album alle loro spalle, tre lavori all’insegna di un country-rock molto elettrico e vigoroso, con decise intromissioni di folk di stampo tradizionale (ma tutti i brani sono originali) e con l’uso di vari strumenti a corda, il tutto suonato con una forza ed un feeling non comune: un paragone può essere fatto con gli Old Crow Medicine Show, anche se nel caso dei Troubadours la componente elettrica è molto maggiore. La carriera del combo guidato da Felker è stata fino ad oggi un continuo crescendo, sia in termini di vendite (non stratosferiche comunque) che di qualità, ma con tutto l’ottimismo possibile non avrei creduto che il nuovo album potesse raggiungere livelli così alti.

The Turnpike Troubadours (averlo intitolato col nome della band non è secondo me casuale, significa un nuovo inizio) è infatti un disco a mio parere splendido, con una serie di canzoni che sono una più bella dell’altra, tutte scritte dai membri del gruppo (principalmente Felker), una miscela a tratti entusiasmante di country, folk e rock, il tutto suonato e cantato in maniera sublime, e con una produzione scintillante (ad opera di Engleman e Matt Wright). Un disco che, non scherzo, mi ha lasciato a bocca aperta fin dal primo brano, The Bird Hunters, uno splendido folk-rock, denso e pieno di pathos, a partire dall’intro a base di violino (nel disco suona anche il fiddler extraordinaire Byron Berline, mica l’ultimo arrivato), subito doppiato dalle chitarre, fino alla turgida melodia vagamente irish: se Mike Scott fosse nato in America probabilmente i suoi Waterboys non suonerebbero tanto diversi da così https://www.youtube.com/watch?v=hFBDxLYNNVQ . Non esagero, una delle canzoni più belle da me ascoltate nel 2015, almeno in ambito roots. Ma il resto non è da meno: The Mercury è completamente diversa, elettrica e roccata, dal ritmo alto e con le chitarre che ruggiscono, mentre la voce potente di Felker e la melodia diretta fanno il resto; Down Here è puro country-rock, molto classico, del genere che andava alla grande negli anni settanta, il suono è cristallino ed il refrain è una goduria; Time Of Day, ancora rockin’ country deciso e solido, è un altro esempio della capacità del gruppo di coniugare sonorità classiche a melodie sempre intriganti.

Ringing In The Year è tersa, limpida, fresca, un esempio di vero country-rock d’autore (è una delle più belle del CD), ed il ritornello corale è da applausi, mentre A Little Song è un delizioso intermezzo per voce e chitarra, però sempre con le giuste vibrazioni; Long Drive Home, ancora introdotta dal violino, è un godibilissimo uptempo chitarristico, con l’ennesimo motivo centrale notevole. Una languida steel introduce Easton & Main, e ditemi se non vi vengono in mente i Byrds di Sweetheart Of The Rodeo: questa è musica con la M maiuscola, ed i nostri si meriterebbero ben altro che un pur rispettabile culto https://www.youtube.com/watch?v=9ZOgzXJQ8EY ; la spedita 7 Oaks ha un ritmo molto sostenuto e può ricordare certe cose di Johnny Cash, mentre Doreen, molto elettrica, è in pieno territorio cowpunk, quasi i nostri fossero degli emuli di Jason & The Scorchers https://www.youtube.com/watch?v=tu4z_VRimeg . Chiudono l’album la lenta Fall Out Of Love, un gradito momento di relax dal motivo malinconico e toccante, e Bossier City (rifacimento del brano che intitolava il loro primo disco), una coloratissima e vivace country tune al quale la fisarmonica (suonata da Fullbright) dona un sapore cajun. Un disco delizioso: per quanto mi riguarda una delle sorprese dell’anno in ambito “Americana” music.

Marco Verdi

La “Cura” E’ Sempre Eccellente! Old Crow Medicine Show – Remedy

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Old Crow Medicine Show – Remedy – ATO Records

A meno di due anni da Carry Me Back di cui vi avevo puntualmente riferito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2012/08/22/nostalgici-del-futuro-nel-passato-old-crow-medicine-show-car/, e da cui potete recuperare eventuali altre notizie sulla band, tornano gli Old Crow Medicine Show, con il nuovo album Remedy, che vede il ritorno in pianta stabile nel gruppo di Critter Fuqua, che peraltro aveva partecipato da “esterno” anche ai due precedenti, riportando la formazione al classico sestetto (o forse settetto?). In copertina la bandiera del Tennessee, quasi a significare un atto di amore per la loro nuova residenza (i sei/sette vengono un po’ da tutti gli Stati Uniti e si erano incontrati in quel di New York, dove grazie all’aiuto di Doc Watson era partita la loro carriera, a cavallo del nuovo secolo). Un altro personaggio importante si affaccia sulle loro traiettorie periodicamente: un certo Bob Dylan, che già sull’omonimo album di debutto aveva regalato alla band un brano inedito, Wagon Wheel, che li aveva fatti conoscere al grande pubblico e che, a tutt’oggi, è una delle canzoni migliori del repertorio degli OCMS.

Ma il buon Bob evidentemente ha sviluppato una passione irresitibile per il gruppo: infatti anche per il disco di quest’anno ha spedito il testo di una nuova canzone, Sweet Amarillo, completo di istruzioni su quali strumenti utilizzare, meno armonica e più violini, il ritornello dopo la 16a battuta, mi raccomando. Inutile dire che il brano, completato da Ketch Secor e Critter Fuqua, è uno dei migliori, probabilmente il migliore del disco, un pezzo che accoppia gli abituali bluegrass e otm dei “Crow” con sfumature cajun e la classifica andatura del miglior Bob Dylan campagnolo, i violini ci sono, quelli di Chance McCoy e Ketch Secor, un “friccico” di fisarmonica a cura di Fuqua, banjo, mandolino, chitarre, contrabbasso e anche una inconsueta batteria, raramente presente nella strumentazione, per segnare il tempo da valzerone della canzone, che più la ascolti più ti piace, magari meno orecchiabile di Wagon Wheel ma di piacevole impatto https://www.youtube.com/watch?v=PMNUCD9US5I . Un’altra caratteristica tipica di questa formazione è sempre stata quella dell’utilizzo di produttori di provata qualità: David Rawlings per i primi due, poi Don Was e, per gli ultimi due dischi, Ted Hutt. E anche se qualcuno sembra non gradire una certa patina, minima, di “contemporaneità” fornita da Hutt, al sottoscritto il sound, anche di questo nuovo album piace, un poco quello che è stato fatto, con le dovute differenze, da Rick Rubin con gli Avett Brothers.

Diciamo che il fatto che i componenti vadano e vengano, a compensare il rientro di Fuqua Willie Watson ha iniziato una carriera solista con Folk Singer Vol.1 https://www.youtube.com/watch?v=b5ukmBguMzYrende i lavori degli OCMS più vari e meno prevedibili. Anche Brushy Mountain Conjugal Trail, dal testo salace e divertente ha un approccio musicale ed un tipo di suono che sembra uscire dai solchi del Dylan nashvilliano di Blonde On Blonde, tra armonica e piano che si fanno largo nel consueto tappeto di mandolini,chitarre acustiche e dobro, tipico del gruppo, e pure il cantato è decisamente “ispirato” dal vecchio Bob https://www.youtube.com/watch?v=PiBXPWZnOyE . I vecchi fans non si preccupino, i frenetici breakdowns a ritmi frenetici, con violini, banjo e tutti gli ingredienti del bluegrass vecchio e nuovo che ti arrivano addosso come treni, non mancano, a partire da una 8 Dogs 8 Banjos che è un programma fin dal titolo. E non mancano neppure quelle ballate struggenti, tipiche del loro repertorio, come la meravigliosa e malinconica Dearly Departed Friend, una piccola meraviglia di strumentazioni parche e armonie vocali stupende (che sono presenti comunque in tutto il disco, un marchio di fabbrica), un esempio di country ballad perfetta, con pedal steel e batteria discreta che si integrano nel suono acustico tipico dei nostri amici. Mean Enough World,  viceversa, è un’altra sarabanda a tutta velocità, con armonica, voci, banjo e contrabbasso che si intrecciano in acrobatiche combinazioni.

Firewater è una ulteriore dimostrazione della loro dimestichezza con le canzoni country, anche quelle che prevedono una bella costruzione armonica, non solo velocità frenetiche e virtuosismi a pié sospinto, ma anche gusto per la melodia e delicate nuances sonore. Però li puoi tenere fermi giusto  per quei tre minuti, poi le mani riprendono a viaggiare sugli strumenti come se le loro vite e quelle degli ascoltatori dipendessero dal divertimento che riescono a generare, come nelle evoluzioni di Brave Boys. Doc’s Day è un sentito omaggio al loro vecchio mentore, Doc Watson, un brano che ha mille profumi, bluegrass, folk, old time, blues, hillbilly e tutti gli ingredienti di quella che viene comunemente definita country music, divertente e coinvolgente, suonata con gran classe, non puoi fare di muovere il piedino a tempo con la musica. O Cumberland ci porta dalle parti degli Appalachi e del folk old time, tra violini, banjo, dobro, l’immancabile armonica e sonorità acustiche che confermano la loro adesione alla tradizione della musica popolare americana. Ribadite in una Tennessee Bound che è un peana e un’ode allo stato che li ospita e da cui gran parte della musica che si ascolta in questo Remedy ha avuto le sue origini e la sua consacrazione.

Notevole anche Shit Creek, ancora un esempio della bravura degli Old Crow Medicine nel calarsi fino in fondo nei meandri della musica country ed uscirne sempre con qualcosa di originale e ricco di spunti, qui sono le derive folk del cantato corale e gli indiavolati interscambi tra i violini, il banjo e tutto il restanti elementi sonori della band. Anche un pizzico di western swing in Sweet Home per ulteriormente movimentare e differenziare i contenuti dell’album, prima di accomiatarsi con una intensa The Warden che li accomuna con i loro amici di oltreoceano, Mumford and Sons, con cui hanno condiviso un tour, in giro per l’America in treno, sul Big Express. quei brani maestosi ma semplici al tempo stesso, che si riappropriano della grande tradizione musicale, in questo caso americana, e, senza stravolgerla troppo, la fanno conoscere alle nuove generazioni, senza dimenticarsi delle “vecchie”, che approvano incondizionatamente (sto annuendo(. Niente di nuovo sotto il sole, però anche stare lì e prenderlo richiede quantomeno una certa classe! Esce domani, se volete fare un ascolto nel frattempo http://www.npr.org/2014/06/22/322596225/first-listen-old-crow-medicine-show-remedy

Bruno Conti

I Cantori Del “New Bluegrass”! Trampled By Turtles – Live At First Avenue

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Trampled By Turtles – Live At First Avenue – Banjodad Records 2013 – CD + DVD

Nel 2003 cinque musicisti originari di Duluth Minnesota (tutti provenienti dal rock-punk) decisero di unirsi e formare i Trampled By Turtles. Con il passaggio a strumenti acustici (banjo, chitarra, contrabbasso, mandolino e violino) e con la pubblicazione di sei album di buon livello (su tutti l’ottimo Stars And Satellites del 2012, recensito da chi scrive su queste pagine virtuali lo scorso anno), festeggiano il decimo anno di attività con questo Live At First Avenue, che certifica la loro crescita artistica nell’ambito del movimento che viene etichettato come “new-bluegrass” (che peraltro è molto simile al “vecchio”, ma è questione di punti di vista. Il concerto è stato registrato nel corso di tre serate tutte esaurite (17-18-19 Aprile 2013), presso il leggendario locale First Avenue di Minneapolis, e di fronte a legioni di fans irriducibili, il leader Dave Simonett chitarra e voce, Tim Saxhaug basso e voce, Dave Carroll banjo e voce, Ryan Young violino e voce e Erik Berry al mandolino, salgono sul palco e danno vita ad uno dei “set” live più elettrizzanti dell’anno.

L’apertura del concerto è affidata alla sognante Midnight On The Interstate , con grande dispiego di banjo, chitarre e violino, seguita dall’accelerato bluegrass di Burn For Free, da Stranger e Codeine  http://www.youtube.com/watch?v=XirsfmpK0oY. Si prosegue, a sorpresa, con una cover dei Pixies di Frank Black, Where Is My Mind? con il mandolino di Erik Berry a dettare il ritmo, mentre Gasoline http://www.youtube.com/watch?v=p3i1-DB7Q80 mischia blues e bluegrass, per poi ritornare ad una  imperiosa Wait So Long, con tutti gli strumenti a corda in evidenza http://www.youtube.com/watch?v=YTovORb24UQ e cambiare ancora ritmo con il duetto banjo-violino della dolce New Orleans. Il tempo di asciugare qualche lacrima e si riparte a mille all’ora con Drinkin’ In The Morning , non manca una “mandolinata” (in stile napoletano) come Bloodshot Eyes con un intrigante intermezzo strumentale, per chiudere in bellezza con le dolci armonie vocali di Again. Il DVD riprende l’intero concerto, con otto brani in più rispetto al CD, tra cui la bellissima Alone tratta da Stars and Satellites, la poco conosciuta Empire da Duluth, It’s War e Feet And Bones vengono dall’album Palomino, e una cover è stata pescata dal repertorio di Ronnie Lane nei Faces, Ooh La La, e messa alla fine del concerto, per essere ballata e cantata dal pubblico presente.

I Trampled By Turtles, nati come band “prog-grass”, hanno successivamente proseguito il loro percorso entrando nel territorio musicale di gruppi come gli Avett Brothers, ma soprattutto di band  “tradiziononali” come i bravissimi Old Crow Medicine Show, mischiando folk, country, rock e bluegrass, il tutto con un ritmo forsennato e con una forte tendenza all’improvvisazione. Se non sapete cosa regalare nelle prossime festività natalizie (oltre alle solite vacue offerte che vi vengono propinate da molte case discografiche), questo eccellente Live At First Avenue delle “tartarughe” può essere una buona idea, in quanto si presenta con una serie di belle canzoni registrate dal vivo, che uniscono antico e moderno, e le arricchiscono con personalità, ritmo e una indiscutibile bravura musicale. http://www.youtube.com/watch?v=ZlVz6LBnKF4

Tino Montanari

*NDB Vi ho inserito i link di alcuni brani dal live, ma la band li sta caricando, un po’ alla volta, praticamente tutti, se cercate li trovate su YouTube. Inoltre c’è anche un concerto recente, http://KEXP.ORG presents Trampled By Turtles performing live in the Bumbershoot Music Lounge. Recorded September 2, 2013.

Sono Sempre Una Garanzia! Avett Brothers – Magpie And The Dandelion

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Avett Brothers – Magpie And The Dandelion – American Recordings CD

Di questi tempi è di norma far passare almeno due-tre anni, quando non ancora di più, tra un disco e l’altro, l’usanza di fare uscire un lavoro nuovo ogni anno (ed a volte anche due) si è interrotta più o meno con l’avvento degli anni ottanta: perciò sono rimasto molto sorpreso quando ho visto tra le uscite del mese di Ottobre un nuovo album degli Avett Brothers, dato che il loro precedente CD, l’eccellente The Carpenter, è appunto uscito nel 2012.

Quando ho letto che Magpie And The Dandelion, questo il non facilissimo titolo del disco, era frutto delle stesse sessions di The Carpenter ho storto un po’ il naso e mi sono detto : “Vuoi vedere che, tanto per sfruttare il successo del loro ultimo disco (arrivato fino al n. 4 di Billboard), hanno pubblicato gli scarti di quel CD facendolo passare come una novità?”. Già il primo ascolto ha però fugato ogni dubbio: Magpie And The Dandelion non suona affatto come una raccolta di outtakes, ma anzi è in grado di stare a fianco di The Carpenter al medesimo livello.

La band dei fratelli Seth e Scott Avett (coadiuvati come sempre da Bob Crawford, Joe Kwon, Mike Marsh e Paul DeFiglia) ormai non sbaglia un colpo: io la considero personalmente come tra i migliori gruppi in giro in America attualmente, al pari di Old Crow Medicine Show, Mumford & Sons (anche se sono inglesi), Decemberists, Low Anthem, Fleet Foxes e chi più ne ha più ne metta; il loro stile si può collocare giusto a metà tra i primi due gruppi che ho citato, hanno la grinta e lo spirito old-time-country-bluegrass dei primi e la freschezza pop dei secondi, e Magpie And The Dandelion (prodotto ancora una volta da Rick Rubin) si colloca comodamente tra i migliori dischi della seconda parte dell’anno in corso.

L’album esce in due versioni (e te pareva), una normale con undici canzoni ed una deluxe con quattro brani in più (e con un diverso disegno delle gazze in copertina): per la verità ci sarebbe anche una terza versione con due ulteriori pezzi, ma è in vendita solo presso la catena americana Target. Un altro episodio quindi riuscito, pubblicato anche per sfruttare l’onda lunga del successo della tournée americana del sestetto, ma soprattutto un signor disco che non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori.

Open-Ended Life apre splendidamente l’album: una scintillante ballata elettrica guidata da chitarra, piano, banjo ed armonica, con una melodia di grande bellezza e purezza. Poi a metà il brano si velocizza e diventa addirittura irresistibile: grande inizio. Morning Song è più intima ed acustica, il piano di DeFiglia sparge qua e là note di gran classe ed il motivo ha un impatto emotivo molto alto: un brano fluido, evocativo, senza una sbavatura.

Never Been Alive ha un arrangiamento molto cosmic country, quasi come se Gram Parsons fosse ancora tra noi e partecipasse al disco come special guest; Another Is Waiting è il primo singolo, la strumentazione è sempre classica e tradizionale, anche se la melodia tradisce le influenze pop del gruppo. Un brano potente e quasi perfetto nel suo mix di antico e moderno.

Bring Your Love To Me è meno diretta e più interiore, ma la capacità dei due fratelli Avett nel songwriting viene forse evidenziata maggiormente in questi brani più riflessivi; Good To You ha un bellissimo accompagnamento a base di piano e cello (ma nel finale entra anche la sezione ritmica), ed il motivo rivela che anche i Beatles fanno parte del bagaglio di influenze dei ragazzi; Part From Me ha un mood tra il folk ed il cantautorale, e qui ci vedo qualcosa del Paul Simon dei primi dischi da solista, con l’aggiunta di una leggera atmosfera country.

Skin And Bones ripropone ancora quella miscela unica tra pop e bluegrass per la quale il gruppo è famoso, ed il refrain è uno dei più coinvolgenti di tutto il disco; Souls Like The Wheels, registrata dal vivo, è una deliziosa ballata acustica, una voce ed una chitarra nel silenzio e tanto feeling. Bella anche Vanity, ancora pop-rock di gran lusso, qui con la componente traditional quasi assente: un’altra grande melodia che potrebbe facilmente diventare un altro instant classic per il gruppo. Per contro, The Clearness Is Gone è un country-rock che non disdegna riferimenti a certa musica country-rock degli anni settanta, quando la California era, musicalmente parlando, al centro del mondo.

Qui termina la versione “normale” del disco, mentre l’edizione deluxe (e quella Target) offrono quattro (sei) dei migliori brani dell’album in versione demo, un’aggiunta interessante che mostra come il gruppo avesse le idee chiare fin dal principio (in parole povere, non sono molto diverse da quelle definitive, ma Morning Song e Vanity mi piacciono quasi di più così).

Un altro gran bel disco per i fratelli Avett: il rischio è che, pubblicando un CD all’anno di questo livello, ci abituino troppo bene.

Marco Verdi

Un Tipo “Strano”, Bravo Però! Pokey LaFarge.

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Pokey LaFarge – Pokey LaFarge – Third Man Records

Un tipo “strano” questo Pokey LaFarge,  forse non “unico” ma certamente originale, anzi, come diceva la mia mamma, “un originale”. Se gli aggiungete un paio di baffetti, un cravattino e un panama (e secondo me li ha) potrebbe trasformarsi anche in Leon Redbone. Altro personaggio, peraltro tuttora in attività, che circa 35, 40 anni fa, ebbe un notevole successo di critica, ma anche di pubblico ( i suoi dischi entrarono nelle classifiche di vendita, fino alla Top 40 di Double Time nel 1977) con una miscela di jazz, ragtime, vaudeville, blues, folk, il tutto solidamente fondato nella musica degli anni ’20 e ’30, quelli subito prima, durante e dopo la Grande Depressione. E prima ancora c’era stato Dan Hicks e andando a ritroso Jim Kweskin con la sua jug band e tanti altri che nel corso degli anni si sono appassionati a questo recupero delle tradizioni della musica popolare americana.

In questi tempi da Seconda Grande Depressione si assiste ad un ritorno alla musica acustica, nelle sue varie forme, musicisti come i Carolina Chocolate Drops o Luke Winslow-King si possono considerare dei “neo-tradizionalisti”, come pure gli Old Crow Medicine Show nel loro ambito più country e bluegrass, con un pizzico di old time music. E, non a caso, il loro leader Ketch Secor produce questo omonimo Pokey LaFarge, che è già il suo nono disco (compreso un 45 giri per la Third Man Records di Jack White, alla quale sono tornati per questo CD) in vari formati e formazioni e in meno di sette anni di carriera. Dalla ragione sociale della formazione è sparito quel South City Three che aveva caratterizzato tutti i dischi della formazione dal 2009 ad oggi, compreso il Live In Holland, uscito lo scorso anno in Europa per la Continental Song City, comunque la formazione si è ampliata e si sono aggiunti al trio originale di chitarra, contrabbasso e armonica, anche una cornetta e un clarinettom Chloe Feoranzo, anche voce femminile aggiunta. Quindi sempre più anni ’30 ma senza dimenticare quella patina country, old time che lo differenzia parzialmente, ma non troppo, dal citato Redbone, per un genere che è stato definito Riverboat Sound.  Lui, il nostro amico Andrew Heissler, 30 anni, da Bloomington, Illinois, viene da una passione giovanile per il blues (in fondo è nativo dello stato dove si trova Chicago, una delle capitali del Blues), ma anche per il bluegrass di Bill Monroe, suona il mandolino e la chitarra e canta con una bella voce che  si ispira soprattutto al country, ma ha naturalmente retrogusti jazz e blues.

La musica è veloce e ritmata, con gli strumentisti che si alternano alla guida del piccolo combo e supportano LaFarge con brio e tecnica, come nella iniziale Central Time che è subito indicativa di quanto ascolteremo nel resto del disco. Divertente l’old time swing di The Devil Ain’t Lazy con l’armonica frenetica di Ryan Koenig (è lui Leon Redbone, guardatelo) in alternativa alla chitarra di Adam Hoskins e la voce di Pokey che ci riporta al suono dei vecchi 78 giri dell’epoca,  riprodotti con la tecnologia di oggi, con testi che parlano di quanto ci succede intorno, forse anche per questo si può parlare di modernismo retrò. Quando entrano il clarinetto e la cornetta, come nella bella ballata malinconica What The Rain Will Bring, si accentua questo spirito jazzato da bei tempi andati, non guastano in questo senso anche le saltuarie ma precise armonie vocali che accompagnano l’incedere del cantato del leader in quasi tutti i brani. Il tenore nasale di LaFarge (ma gustatevi il falsetto della deliziosa Let’s Get Lost) ci scaraventa in questi brani che profumano di inizio secolo (quello scorso), come Woncha Please Don’t Do It e l’effetto è più quello dei musicisti bianchi di quell’epoca, un Jimmie Rodgers, o a livello strumentale, Django Rheinhardt e Stephane Grappelly, quando Ketch Secor aggiunge il suo violino alle procedure come in One Town At A Time, che per la presenza di una steel guitar ante litteram potrebbe avvicinarsi allo swing di Bob Wills.

In Kentucky Mae, sempre malinconica si aggiunge un quartetto archi e torna la coppia di fiati, piccoli interventi di una chitarra elettrica che insinua la sua modernità apportano leggere correzioni al sound del disco che per il resto è abbastanza atemporale. Doveva essere nel preambolo ma lo dico qui, ovviamente per ascoltare questa musica avete due opzioni: o siete grandi appassionati del genere e in questo caso potete aggiungere anche una stelletta al giudizio critico dell’album, oppure vi dovete calare in un mondo musicale dove il rock o il blues, ma anche il country non hanno nulla del suono dal R&R in avanti, magari da prendere in piccole dosi. Nella frenetica Bowlegged Woman fa anche capolino un pianino indiavolato, ci spingiamo fino al boogie woogie ma il suono rimane rigorosamente unplugged e old time come in City Summer Blues che ti può ricordare sinuose donnine in gonnellino in vecchi locali di un’epoca che non c’è più, ma potrebbe ritornare! Insomma ci siamo capiti, forse, “vecchia musica per giovani” o “musica giovane per vecchi”?  Boh. Bravo, però!

Bruno Conti

100 Anni + Uno! Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center

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Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center – CD+DVD – Sony Legacy

Lo scorso anno, il 14 luglio, si festeggiavano 100 anni dalla nascita di Woody Guthrie e il 14 ottobre al Kennedy Center di Washington, DC, si è tenuto un concerto per ricordare l’Anniversario. Hanno partecipato alcuni dei nomi più importanti della musica americana (ed uno scozzese in trasferta), folk, country, blues e bluegrass, di qualità in generale. Questo è il resoconto, track-by-track, del DVD che è stato ricavato dall’avvenimento, il CD dura 77 minuti, il DVD, una ventina di di più, ma visto che vengono venduti insieme, al prezzo di poco più di uno, vale lo sforzo dell’acquisto anche per coloro che sono contrari per principio all’acquisto dei DVD musicali, in fondo qui c’è anche il CD.

1. Howdi Do — Old Crow Medicine Show Vestiti come dei sopravvissuti al periodo della depressione i primi a presentarsi sul palco sono gli Old Crow Medicine Show di Ketch Secor, il sestetto procede a dimostrare perchè sono una delle migliori string bands in circolazione, in bilico tra country e bluegrass, come nella indiavolata 2. Union Maid — Old Crow Medicine Show

3. This Is Our Country Here — Jeff Daniels Il primo intermezzo parlato da parte di uno degli ospiti della serata viene seguito da quello che viene indicato come uno degli eredi migliori di Woody Guthrie (e di Bob Dylan), 4. Ramblin’ Reckless Hobo — Joel Rafael è un bellissimo bravo, reso in modo dylaniano come pochi altri sapranno fare nel corso della serata.

5. Hard Travelin’ – Jimmy LaFave Questo signore texano, in trio, con mandolino e fisarmonica si conferma uno dei migliori cantautori del panorama americana.

6. Riding In My Car — Donovan Visto che il bardo di Duluth non era disponibile per la serata la cosa più vicina era il menestrello scozzese, Donovan Leitch si conferma ancora una volta animale da palcoscenico facendo cantare il pubblico con la sua disincantata simpatia e una canzone presa dal repertorio di Woody per bambini, incisa per la prima volta nel 1965.

7. I Ain’t Got No Home — Rosanne Cash with John Leventhal In rappresentanza della famiglia Cash, Rosanne, accompagnata dal marito John Leventhal e dalla sua bellissima voce regala una dei momenti salienti della serata con una canzone che lei stessa definisce perfetta, e quella che segue 8. Pretty Boy Floyd — Rosanne Cash with John Leventhal non è da meno, uno dei capolavori assoluti di Guthrie, con un po’ del boom chicka boom di babbo John nella chitarra di Leventhal

9. I’ve Got To Know — Sweet Honey In The Rock In rappresentanza del gospel e della città di Washington, con i loro intrecci vocali ancora integri dopo una lunghissima carriera.

10. House Of Earth — Lucinda Williams Alle prese con un inedito consegnatole da Nora Guthrie pochi mesi prima e completato per l’occasione, il brano viene eseguito dal vivo per l’occasione e per la prima volta dalla Williams, bella versione, anche se molti non amano Lucinda!

11. Pastures Of Plenty — Judy Collins Un altro dei brani folk più celebri di Woody Guthrie eseguito da una delle leggende di questa musica e da una delle voci più incredibili mai espresse dal genere ancora stupenda dopo tutti questi anni, solo piano, chitarra acustica e voce, grande versione.

12. Ease My Revolutionary Mind — Tom Morello Ovviamente il chitarrista dei Rage Against The Machine, grande amico e collaboratore di Springsteen e cantante folk, non necessariamente nell’ordine, sceglie uno dei brani più politici e di “battaglia politica” del cantante di Okemah e si presenta sul palco con una band “springsteeniana” composta da molti dei protagonisti della serata, in particolare molti Old Crow Medicine Show e Jackson Browne che tornerà più tardi, un altro dei momenti migliori della serata. 

13. Deportee — Ani DiFranco with Ry Cooder and Dan Gellert Altro grandissimo chitarrista al servizio di una delle cantautrici più valide delle ultime generazioni alle prese con un’altra canzone bellissima (ma ce ne sono di brutte) e forse la preferita in assoluto di chi scrive del repertorio di Guthrie. Il violino di Gellert e la chitarra “discreata” di Cooder aggiungono magia ad una canzone che Ani DiFranco canta benissimo, con rispetto e partecipazione, come è giusto che sua.  

14. I Hate A Song (spoken word) — Jeff Daniels Secondo ed ultimo intervento parlato da parte del noto attore americano

15. You Know The Night — Jackson Browne Un altro degli highlights della serata, Jackson è già apparso in altri tributi alla musica di Woody Guthrie e anche in questa serata conferma la sua classe, un altro brano “inedito” completato da Browne, con il grande Rob Wasserman al contrabbasso, che per ragioni televisive non appare nella versione monstre da 20 minuti che era stata pubblicata su Note Of Hope, bellissima comunque!

16. So Long, It’s Been Good To Know Yuh — Del McCoury Band with Tim O’Brien Di nuovo country e bluegrass per una delle migliori formazione nel genere, aumentata per l’occasione da Tim O’Brien nel primo brano e da Tony Trischka per lo strumentale 17. Woody’s Rag.

18. Do Re Mi — John Mellencamp C’era già 25 anni in A Vision Shared e canta di nuovo lo stesso brano, ma è uno dei più celebri e coinvolgenti del repertorio di Guthrie, chi meglio dell’ex “Coguaro” Mellencamp per eseguirlo?

19. 1913 Massacre — Ramblin’ Jack Elliott Altro pezzo da 90 sul palco per un altro dei cavalli di battaglia del repertorio di entrambi, la cui melodia venne usata da Dylan per scrivere la prima canzone da lui incisa, Song For Woody. Ramblin’ Jack Elliott gli 80 li ha passati da un pezzo e non si direbbe (o forse sì?) ma rimane un grande e merita rispetto.

20. Nora Guthrie (spoken word) Un breve saluto dalla figlia e poi tutti insieme appassionatamente sul palco per il gran finale con i due brani più celebri, tra cui il secondo inno americano.

21. This Train Is Bound For Glory — All Performers

22. This Land Is Your Land — All Performers

Bella serata, da avere!

Bruno Conti

Saint Stephen…I Migliori del 2012: Le Tante “Alternative” Parte II

Naturalmente dopo Natale viene “Saint Stephen”! Per cui continuiamo con la seconda parte della lista delle migliori “alternative” del 2012 according to Bruno Conti. Se non riuscite a leggerli durante le feste natalizie mi pare ovvio che non hanno una scadenza…eravamo più o meno a luglio!

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Robert Cray – Nothing But Love

 

 

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Joss Stone – The Soul Sessions Vol. 2

 

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Bill Fay – Life Is People

 

 

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Old Crow Medicine Show – Carry Me Back

 

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John Hiatt – Mystic Pinball

 

 

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Chris Knight – Little Victories

 

 

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Michael McDermott – Hit Me Back

 

 

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Dwight Yoakam – 3 Pears

 

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Beth Hart – Bang Bang Boom Boom

 

 

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Jamey Johnson – Living For A Song. A Tribute To Hank Cochran

 

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Donald Fagen – Sunken Condos

 

 

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Van Morrison – Born To Sing No Plan B

 

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Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill

 

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Iris DeMent – Sing The Delta

 

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Greg Brown – Hymns To What Is Left

 

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Graham Parker & the Rumour – Three Chords Good

Mi sa che mi sono dimenticato qualcosa, ma se non volevo fare un elenco da Pagine Gialle dovevo, a malincuore, saltare dei dischi che avrebbero meritato questa lista di fine anno. La seconda parte è più breve della prima perché avrebbe dovuto contenere molti dei titoli che sono già apparsi nella Top Ten. E mancano ristampe, cofanetti e live (qualcuno ha detto Led Zeppelin!).

E se vi sembrano “troppi” perché non si fanno più i grandi dischi di una volta, questo lo diceva anche mia mamma, ma bisogna sapersi accontentare e in questa annata è stato un bel “accontentarsi”!

Comunque per oggi per può bastare.

Bruno Conti

Nostalgici Del Futuro Nel Passato! Old Crow Medicine Show – Carry Me Back

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Old Crow Medicine Show – Carry Me Back – ATO Records

Per il titolo ho fatto un triplo salto mortale con ossimoro avvitato, è talmente contorto che quasi non l’ho capito neppure io che l’ho scritto. Come avrebbe detto qualcuno degli addetti ai lavori calcistici che imperversava sul Mai Dire Gol dei gloriosi inizi ” forse non mi sono capito bene!”. Ma facezie a parte, questo fenomeno delle, come vogliamo definirle?, string bands, che fanno un genere che, in mancanza di termini migliori e per convenienza chiameremo Bluegrass, negli ultimi anni ha colpito la scena musicale americana. Anche se poi andiamo a vedere bene è uno stile che è sempre stato presente negli States: è la loro musica, tanto quanto il rock and roll, il blues o il jazz. Lo chiameranno anche country, con il rischio di confonderlo con molta della porcheria che esce da Nashville (non tutto, c’è molto da salvare anche lì), ma ora, per gli strani casi della vita, è diventata una sorta di musica futuribile, alternativa addirittura, per i gruppi più giovani, come gli stessi Old Crow Medicine Show, viene presentata addirittura come una rottura con il passato.

Al sottoscritto non pare proprio, se un tempo un gruppo come la Nitty Gritty Dirt Band, country-rock per attitudine, faceva un disco super tradizionale come Will The Circle Be Unbroken, oggi ci sono band come gli Avett Brothers, sodali per certi versi degli Old Crow, che affiancano senza problemi musica elettrica ed acustica, country e bluegrass, con il rock mainstream, sotto la produzione di un Rick Rubin. Ma potremmo citare anche gruppi del filone jam come gli String Cheese Incident o la Yonder Mountain String band e molti altri che veleggiano al limite di queste convenzioni sonore. Gli Old Crow Medicine Show sono forse più “puristi”, string band acustica per definizione, niente batteria, niente chitarre elettriche, contrabbasso per tenere il ritmo ma aperti a collaborazioni con altri artisti anche di generazioni precedenti, contrariamente a quello che dicono alcuni giovani recensori che non riscontrano questi legami con il passato. Ad esempio in questo Carry Me Back, Jim Lauderdale, grande musicista di culto della scena musicale country americana della generazione precedente, scrive, e canta con loro, nella bella ballatona Half Mile Down, un lamento sulle tradizioni della grande America rurale che si vanno perdendo.

E poi non è che siano degli integralisti assoluti, nel precedente Tennessee Pusher, prodotto da Don Was, batteria e qualche sprazzo di elettricità c’erano. E non dimentichiamo che lo scorso anno, su invito dei Mumford and Sons, in ricordo delle vecchie carovane che il nome del gruppo evoca, hanno girato per gli Stati Uniti in treno, anche con Edward Sharpe and the magnetic Zeros, in un Big Easy Express Tour che è diventato anche un bel documentario in Blu-Ray/DVD. Una formula che era ripresa dal vecchio Festival Express, un altro tour su carrozze del 1970, quando band del calibro dei Grateful Dead, Janis Joplin, la Band, ma anche Flying Burrito Brothers, Sha Na Na e molti altri, avevano scorrazzato in treno per le lande canadesi.

Chiusa la parentesi torniamo a questo Carry Me Back. Per la prima volta sono entrati nei Top 30 della classifica americana, sia pure al 22° posto, e solo per una settimana, anche se i loro concerti, come documentato da vari DVD, sono frequentati da orde di giovanissimi assatanati, accorsi per ascoltare e ballare con i loro frenetici breakdowns a base di violino, banjo e chitarre acustiche a velocità supersoniche, un po’ come accade nelle sezioni acustiche degli shows degli Avett Brothers. O, a livello ancora più di massa, nelle parti più folk degli spettacoli dei Mumford and Sons, il cui album di esordio (in attesa del nuovo Babel in uscita il 25 settembre, così come The Carpenter degli Avett l’11 settembre) è nelle classiche USA da 125 settimane. E nelle classifiche americane di genere il disco degli Old Crow, lo trovate in quelle di Folk, Country, Bluegrass e Tastemakers (qualsiasi cosa voglia significare), non solo, se cercate su AllMusic Guide per vedere, oltre al genere, Pop-rock/Folk/Country, a che stili si possano accostare, troverete: Neo-Traditional Folk, Jug Band, String Band, Americana e Contemporary Folk. E quindi?

E quindi sono dodici brani dodici, per un totale di 36 minuti e 50, dove Ketch Secor e soci, soprattutto Critter Fuqua e Willie Watson, perché altri membri della band vanno e vengono, ci accompagnano in un frenetico viaggio a tempo di strumenti a corda con alcune ballate a spezzare la frenesia delle operazioni. Dopo David Rawlings, che ha prodotto i primi due album e il già citato Don Was che ha curato il terzo, questa volta, per l’esordio su ATO Records (l’etichetta di proprietà di Dave Matthews) si sono affidati a Ted Hutt, non più impegnato con i Gaslight Anthem, e già veterano della musica folk in senso lato per i suoi trascorsi con Dropkick Murphys e Flogging Molly. Il risultato è un disco dove la musica degli OMCS, risalta chiara e cristallina, con venature di old time e mountain music (queste non le avevamo ancora citate).

Siano i ritmi forsennati della iniziale Carry me Back To Virginia, dove le arie tradizonali irlandesi li avvicinano ai migliori Pogues, se fossero nati negli Stati Uniti, ma anche viceversa. We don’t Grow Tobacco è una bella country song cadenzata con il violino in primo piano, cantata da Secor, ancora sulle vecchie tradizioni che vanno scomparendo. Levi è una ballata old time corale molto bella, ai livelli delle cose migliori della Nitty Gritty dei tempi d’oro mentre Bootlegger’s Boy è uno di quei brani bluegrass suonati a tutta velocità, se venisse attivato l’autovelox gli verrebbe ritirata la patente per superamento dei limiti. Ain’t It Enough è un bel valzerone con armonica e chitarra acustica in evidenza, qualche richiamo dylaniano ma di nuovo ancora e soprattutto alla Nitty Gritty Dirt Band che era maestra in questo tipo di brani, qualcuno ha detto Mr. Bojangles?

Mississippi Saturday Night dal vivo dovrebbe fare sfracelli, la velocità è all’incirca doppia rispetto a Bootlegger’s dove già tiravano come dei dannati. Steppin’ Out è una sorta di ragtime e qui lo stile è veramente quello delle string bands, alla Carolina Chocolate Drops, per citare un altro gruppo di giovanotti e giovanotte di belle speranze. Genevieve è una ballata di classe sopraffina, con armonie da leccarsi i baffi, un piccolo capolavoro che ti potresti aspettare da un gruppo di questo spessore, bellissima! Country Gal, come da titolo, è un brano che si sarebbe potuto trovare nel repertorio di un Hank Williams, con tanto di citazione di Hey Good Lookin’ nel testo della canzone. Di Half Mile Down abbiamo detto, rimangono la classica fiddletune Sewanee Mountain Catfight che dall’altra parte dell’oceano i Fairport Convention avrebbero definito un reel e Ways Of Man, un’altra ballata stupenda alla Guy Clark o Townes Van Zandt, con Critter Fuqua e Jim Lauderdale alle armonie vocali e una struggente fisarmonica e il piano ad alternarsi a condurre le danze, un’altra piccola meraviglia di questo  gioiellino della musica americana che risponde a Carry Me Back.

Super consigliato per chi ama il genere, ma in generale a tutti. Veramente bella musica, futura, presente e passata!

Bruno Conti

Proprio Bravi Questi “Pickers”! Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick

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Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick – Sci Fidelity CD

Keller Williams è un musicista eclettico.

Cantante, chitarrista, compositore, one man band, percussionista (bella pettinatura anche, NDB*), ha al suo attivo una lunga serie di albums (nonostante la giovane età), da solo o in collaborazione con diverse band del circuito jam: ha infatti collaborato e girato in tour con gli String Cheese Incident (e questo disco di cui mi accingo a parlare esce per l’etichetta di proprietà dei ragazzi del Colorado), Umphrey’s McGee, Yonder Mountain String Band, oltre ai Rhythm Devils, cioè il combo di Mickey Hart e Bill Kreutzmann dei Grateful Dead.

Come possiamo vedere tutte band che hanno come comune denominatore la creatività e la capacità di improvvisazione oltre, con l’eccezione dei Devils, a un contatto ben definito con la musica della tradizione americana, che sia country, bluegrass o folk. Williams ha poi sempre amato i cosiddetti “pickers”, cioè gli specialisti degli strumenti a corda tradizionali, suonati con l’uso dei polpastrelli (gli Incident sono a loro volta dei pickers eccellenti), ed era quindi nelle cose che il suo cammino si incrociasse con quello dei Travelin’ McCourys (che non sono altro che la Del McCoury Band senza Del, quindi Rob e Ronnie McCoury, Jason Carter ed Alan Bartram).

La famiglia McCourys è da sempre una delle eccellenze assolute nel mondo del bluegrass tradizionale, non li scopro certo io, e Pick, frutto della collaborazione con Williams, è un bel disco di pura bluegrass music, con una spiccata tendenza alla jam, in cui i cinque lasciano correre in libertà le dita in una gara di bravura mai fine a sé stessa, ma con grande creatività e coesione, come se suonassero insieme da una vita. Le dodici canzoni presenti sono per una buona metà opera di Williams, mentre per il resto troviamo riedizioni di brani già noti dei McCourys, oltre ad alcune covers, un paio delle quali davvero sorprendenti.

Il disco non è forse al livello delle cose migliori di band come Old Crow Medicine Show (nei quali però la componente rock non è da sottovalutare), Black Twig Pickers o Trampled By Turtles, ma è di sicuro una proposta sopra la media. E dire che l’album parte quasi in sordina, come se i cinque stessero scaldando i motori, ma poi dal quinto brano in poi il disco decolla ed arriva fino alla fine come un treno in corsa.

Apre le danze Something Else, un brano invero dalla melodia un po’ contratta, anche se il dialogo tra gli strumenti funziona subito molto bene (violino e mandolino su tutti); meglio American Car, più solare e ritmata (anche se il ritmo è dato dagli strumenti a corda, la batteria è assente), mentre Messed Up Just Right ha un motivo molto old fashioned, sembra proprio un brano supertradizionale, con l’amalgama tra gli strumenti e le voci (a turno cantano tutti) che cresce ulteriormente.

Mullet Cut non è un granché come canzone in sé, ma i cinque compensano con la bravura negli incroci e stacchi strumentali; l’album si impenna con Graveyard Shift (di Steve Earle, tratta proprio da The Mountain, il disco che Steve aveva inciso con la Del McCoury Band), un country-blues molto pimpante, nel quale domina il banjo di Rob, anche se gli altri non si tirano certo indietro. I Am Elvis ha un inizio attendista, nel quale i nostri sembra quasi che stiano accordando gli strumenti, poi il violino di Carter dà il via ed il brano parte in quarta, un perfetto viatico per le dita capaci dei nostri pickers (ed il brano mi ricorda quasi i Dead più bucolici). What A Waste Of Good Corn Liquor (un brano dei McCourys originali) è puro bluegrass, dal refrain che più tradizionale non si può, uno dei brani migliori fino ad ora; Broken Convertible è un divertente country-grass con tendenza spiccata alla jam, cinque minuti di piacere per le orecchie.

L’album volge al termine, ma i cinque non mollano la presa, anzi iniziano proprio ora le sorprese: I’m Amazed è una tonica e corroborante versione di un brano dei My Morning Jacket, piena di assoli (grande il banjo), mentre Price Tag è una versione in puro bluegrass style, a dir poco stupefacente, di una nota canzonetta pop insulsa di tale Jessie J (è stato un vero tormentone alla radio), una trasformazione che mi ha lasciato a bocca aperta. Come prendere una ciofeca e farne un grande brano: neanche Rick Rubin avrebbe osato tanto. Chiudono il disco una versione molto traditional di Sexual Harassment (un brano di John Hartford) e la veloce e corale Bumper Sticker, che vede anche il vecchio Del McCoury alla voce solista (ed il carisma si sente subito).

Un dischetto tonico, una collaborazione azzeccata: speriamo soltanto che non rimanga un episodio a sé stante.

Marco Verdi

Attenti Alle “Tartarughe Musicali”! Trampled By Turtles – Stars And Satellites

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Trampled By Turtles – Stars And Satellites – Banjodad Records in uscita il 10-04-2012

Sulla scena da circa otto anni  i Trampled By Turtles sono uno dei gruppi di Alternative o Americana o Roots music, vedete voi, più interessanti e stimolanti dell’attuale scena a stelle e strisce. Non sono paragonabili a nessuno, ma, se proprio volete, fanno diretta concorrenza,  inizialmente, agli Old Crow Medicine Show, e ultimamente agli Avett Brothers. Non sono dei novellini, vengono da Duluth (Minnesota), la patria di un certo Bob Dylan e hanno sei dischi al loro attivo: Songs from a Ghost Town /2004), Blue Sky and the Devil (2005), il rarissimo Live at Lucè (2006), Trouble (2007), Duluth (2008) e Palomino (2010) che ha dato una certa visibilità alla Band, vendendo oltre 50.000 copie.

Oltre al leader indiscusso Dave Simonett (canta, compone, arrangia e produce), il gruppo è formato da Tim Saxhaug basso e voce, Dave Carroll banjo e voce, Erik Berry mandolino e Ryan Young al violino, e il loro “sound” spazia fra bluegrass, country, folk e una certa musica degli Appalachi. Per Stars and Satellites il quintetto si è rintanato in una capanna nei boschi di Duluth e le sessioni di registrazione si sono sviluppate musicalmente attraverso la convivenza e partecipazione del gruppo, con il risultato di sfornare un lavoro che mischia tradizione e attualità.

Indubbiamente non si resta indifferenti all’apertura di Midnight on the Interstate, voci all’unisono e una deliziosa melodia scandita da violino, mandolino e banjo, come nella successiva e bellissima Alone con una parte finale dirompente, con gli strumenti che si accavallano in modo vorticoso. Walt Whitman cresce immediatamente e ci porta nel mondo dei TBT, senza un attimo di tregua con un ritmo accesissimo, seguita da High Water una splendida oasi melodica, ballata di grande respiro con il violino di Ryan Young che le danza attorno. Si arriva con Risk al primo brano strumentale del lavoro, molto bluegrass, con gli strumenti che si rincorrono, mentre Widower’s Heart inizia come una ballata tradizionale, con il violino che traccia la melodia, mentre un banjo lo segue a ruota, e la voce di Simonett è molto simile a quella degli Avett.

Con Sorry si riprendono a macinare suoni, con un ritmo che diventa frenetico, per poi tornare ad atmosfere confessionali con Beautiful, brano lento scarnificato, ma decisamente bello. Don’t Look Down è un altro brano strumentale travolgente, con il banjo che va a mille, mentre Keys To Paradise con gli strumenti arpeggiati ad arte, dà la misura della bravura dei TBT. Chiude The Calm and the Crying Wind, e ancora una volta Dave mette da parte il ritmo, per proporre un valzerone nostalgico volutamente “old fashioned”.

Ascoltandoli con attenzione si scoprono sfumature e melodie, che rivelano passaggi e intuizioni che al primo ascolto possono essere sfuggiti, una musica in cui il bluegrass e il folk sono un patrimonio epico, su cui costruire il futuro. Se gli Avett Brothers sono uno dei vostri gruppi preferiti, chiudete gli occhi e vi troverete davanti una Band molto simile, dall’anima antica e dallo spirito giovane. Consiglio per l’ascolto: recatevi nel bosco più vicino (possibilmente non da soli), sdraiatevi sull’erba , guardate le stelle, e lasciatevi trasportare dalla musica dei Trampled By Turtles.

Tino Montanari