Proseguiamo Con I Dischi Fantasma, In Questo Caso Solo Vinile E Download: Anche Senza Tartarughe Che Lo Calpestano…Un Signor Musicista! Dave Simonett – Red Tail

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Dave Simonett – Red Tail – Dancing Eagle/Thirty Tigers LP e Download

Dave Simonett, come saprete, è il leader dei Trampled By Turtles, gruppo country-folk-grass-americana di Duluth, Minnesota (ho già sentito questa città…), una delle band più popolari del genere insieme a Old Crow Medicine Show ed Avett Brothers. Ma Dave è anche l’uomo dietro al moniker Dead Man Winter, che lui stesso ha definito “il mio progetto rock’n’roll” e titolare di due album il secondo dei quali, Furnace, è del 2017. Invece i TBT sono fermi al 2018, cioè all’ottimo Life Is Good On The Open Road, e così Simonett ha pensato che i tempi erano maturi per dare alle stampe il suo primo lavoro da solista. In realtà Red Tail, questo il titolo del LP, è nato un po’ per caso, in quanto Dave si è ritrovato in uno studio insieme a pochi fidati musicisti (non conosco i nomi essendo in possesso di un advance CD *NDB Che però come formato fisico non esiste, c’è solo il vinile) per registrare delle canzoni da lui scritte senza avere in testa un progetto in particolare: dopo aver ultimato otto pezzi, Dave ha considerato che lo stile intimista e cantautorale che li contraddistingueva non era adatto né ai TBT e neppure ai DMW, e solo in quel momento ha deciso di uscire con il suo nome in copertina.

Red Tail è dunque un bellissimo album in cui il nostro ci consegna una manciata di pezzi perlopiù lenti, una serie di ballate classiche sfiorate dal country e dal folk, decisamente adatte ad un ascolto autunnale, dove non c’è spazio per improvvisazioni dal vivo in torride jam come succede nei concerti dei Turtles. Poi però, essendo Simonett il principale songwriter in entrambe le configurazioni, è chiaro che qualche elemento in comune qua e là si sente, anche se qui c’è una maggiore attenzione alla profondità delle melodie e meno alle performance strumentali. L’album si apre in maniera splendida ed evocativa: Revoked è infatti una ballatona sognante ed eterea ma con un motivo ben definito ed un’atmosfera western (l’attacco strumentale può ricordare alla lontana Knockin’ On Heaven’s Door) con ottimo uso di steel e pianoforte, un brano coi fiocchi che fa sì che Red Tail inizi nel migliore dei modi. Pisces, Queen Of Hearts ha un ottimo intro strumentale per chitarra acustica e steel, poi arriva Dave ad intonare una deliziosa e toccante melodia di stampo country che ricorda da vicino le cose migliori di John Prine, ed è seguita dalla breve Silhouette, irresistibile country song di stampo classico, anni settanta https://www.youtube.com/watch?v=fdCNN8xfEd8 , e motivo davvero coinvolgente (chi ha detto Gene Clark?).

By The Light Of The Moon è un piccolo e squisito bozzetto elettroacustico, caratterizzato ancora da un motivo semplice e diretto, che precede la lunga In The Western Wind And The Sunrise, superba ballatona pianistica dal mood autunnale ma con un’intensità da brividi per tutti i suoi sei minuti. It Comes And Goes, pura, cristallina e con un sapore da western song alla Glen Campbell (merito di una leggera orchestrazione), precede le conclusive You Belong Right Here, eccellente ballata country-rock ancora con Prine in mente (la più elettrica del disco), e la pianistica e corale There’s A Lifeline Deep In The Night Sky, altro splendido brano che coniuga la lezione di The Band con una notevole sensibilità gospel https://www.youtube.com/watch?v=ne7IbfHvjAM . Un piccolo grande “dischetto” questo Red Tail (appena 33 minuti, ma decisamente intensi): in qualunque veste si presenti a noi, Dave Simonett si conferma un musicista di primo piano.

Marco Verdi

Un’Antologia Diversa Ed Interessante, Anche Se Costosa. Bob Dylan – Japanese Singles Collection

bob dylan japanese singles collection

Bob Dylan – Japanese Singles Collection – Sony Japan 2 Blu-Spec CD2

La discografia ufficiale di Bob Dylan è piena di antologie e Greatest Hits, alcune più interessanti di altre ed in qualche caso perfino indispensabili (penso al box set del 1985 Biograph, uno dei primi cofanetti ricchi di materiale inedito della storia): un capitolo a parte lo occupano poi le raccolte prodotte esclusivamente per il mercato giapponese, come ad esempio Dylan Ga Rock del 1993 e poi ristampata nel 2010 ma con una tracklist diversa, oppure il bellissimo box quintuplo Dylan Revisited del 2016, con un CD intero dedicato al meglio delle Bootleg Series. L’ultima uscita esclusiva per il paese del Sol Levante è questo doppio CD Japanese Singles Collection, che come fa intuire il titolo raccoglie tutti i brani usciti su 45 giri nella nazione asiatica, nel periodo che va dal 1965 (cioè quando là hanno cominciato ad uscire i dischi di Dylan) al 1985 (quando hanno smesso di pubblicare i 45 giri di Bob, anche se per la precisione nel 1986 sarebbe uscito il raro singolo Band Of The Hand, ma essendo targato MCA non è qua presente: peccato perché ad oggi manca ancora su CD).

Il viaggio inizia dunque con Subterranean Homesick Blues e termina con Tight Connection To My Heart (che ebbe anche un videoclip girato in Giappone, in assoluto il più MTV-oriented tra i pochi di Bob, con alcune scene che oggi va di moda definire “cringe”, imbarazzanti), ed al suo interno presenta più di una chicca come vedremo tra poco; ecco comunque la tracklist:

CD 1:

  1. Subterranean Homesick Blues
  2. Like a Rolling Stone
  3. Positively 4th Street
  4. Can You Please Crawl Out Your Window?
  5. One of Us Must Know (Sooner or Later)
  6. Rainy Day Women #12 & 35
  7. I Want You
  8. Just Like a Woman
  9. Blowin’ in the Wind
  10. The Times They Are a-Changin’
  11. Lay, Lady Lay
  12. Take a Message to Mary
  13. Watching the River Flow
  14. When I Paint My Masterpiece
  15. George Jackson (Big Band Version)
  16. Knockin’ on Heaven’s Door
  17. A Fool Such as I

Track 1 released on Japanese CBS single LL-764-C, 1965.
Track 2 released on Japanese CBS single LL-821-C, 1965.
Track 3 released on Japanese CBS single LL-847-C, 1965.
Track 4 released on Japanese CBS single LL-882-C, 1966.
Track 5 released on Japanese CBS single LL-919-C, 1966.
Track 6 released on Japanese CBS single LL-928-C, 1966.
Track 7 released on Japanese CBS single LL-956-C, 1966.
Track 8 released on Japanese CBS single LL-987-C, 1966.
Track 9 released on Japanese CBS/Sony single SONG-80132, 1968.
Track 10 released on Japanese CBS/Sony single SONG-80156, 1969.
Track 11 released on Japanese CBS/Sony single CBSA-82001, 1969.
Track 12 released on Japanese CBS/Sony single CBSA-82070, 1970.
Track 13 released on Japanese CBS/Sony single SBSA-82116, 1971.
Track 14 released on Japanese CBS/Sony single CBSA-82132, 1971.
Track 15 released on Japanese CBS/Sony single SOPA-1, 1972.
Track 16 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-257, 1973.
Track 17 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-269, 1974.

CD 2:

  1. On A Night Like This
  2. Something There Is About You
  3. Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine) (Before the Flood version)
  4. Tangled Up in Blue
  5. Mr. Tambourine Man
  6. Hurricane (Part 1)
  7. Mozambique
  8. One More Cup of Coffee
  9. Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again (Hard Rain version)
  10. Baby, Stop Crying
  11. Gotta Serve Somebody
  12. Man Gave Names to All the Animals
  13. Sweetheart Like You
  14. Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love)

Track 1 released on Japanese Asylum single P-1293Y, 1974.
Track 2 released on Japanese Asylum single P-1315Y, 1974.
Track 3 released on Japanese Asylum single P-1293Y, 1974.
Track 4 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-307, 1975.
Track 5 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-321, 1975.
Track 6 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-349, 1975.
Track 7 released on Japanese CBS/Sony single SOPB-360, 1976.
Track 8 released on Japanese CBS/Sony single 06SP-1, 1976.
Track 9 released on Japanese CBS/Sony single 06SP-126, 1976.
Track 10 released on Japanese CBS/Sony single 06SP-241, 1978.
Track 11 released on Japanese CBS/Sony single 06SP-410, 1979.
Track 12 released on Japanese CBS/Sony single 06SP-433, 1979.
Track 13 released on Japanese CBS/Sony single 07SP-765, 1983.
Track 14 released on Japanese CBS/Sony single 07SP-901, 1985.

La confezione è molto curata come sempre capita con le edizioni nipponiche, con ben due booklet che rispettivamente contengono le copertine di tutti i singoli ed i testi dei brani in giapponese ed inglese (la copertina invece è davvero brutta per gli standard occidentali ma in linea con la cultura di quel paese), ed il suono, realizzato con la tecnologia Blu-Spec CD2, è decisamente spettacolare. Peccato per il costo, che da noi si aggira intorno ai 50 euro abbondanti: in rete però le lamentele dei fans più che il prezzo hanno riguardato la scelta di pubblicare solo i lati A dei vari singoli, tralasciando quandi una bella serie di rarità in CD come Spanish Is The Loving Tongue per piano solo, Rita May, Trouble In Mind e la cover di Willie Nelson Angels Flying Too Close To The Ground. E’ il caso di fare però qualche considerazione sulla tracklist: intanto ci sono canzoni che non si trovano spesso sulle antologie dylaniane (One Of Us Must Know, Take A Message To Mary, A Fool Such As I, When I Paint My Masterpiece, Something There Is About You, Mozambique, Baby Stop Crying), ed il fatto che in Giappone i singoli siano stati stampati dal 1965 porta brani come Blowin’ In The Wind e The Times They Are A-Changin’ a venire dopo gli estratti da Blonde On Blonde (e Mr. Tambourine Man addirittura nel 1975).

Detto che essendo presenti due pezzi dal vivo (Most Likely You Go Your Way da Before The Flood e Stuck Inside Of Mobile da Hard Rain), trovo strano che non fossero usciti singoli dal live At Budokan, ci sono anche delle versioni “single edit” e quindi rare, come Gotta Serve Somebody ed i due brani dal vivo citati poc’anzi, anche se non ha molto senso includere solo la prima parte di Hurricane (la seconda era sul lato B), visto che così la narrazione si interrompe sul più bello. Ma la vera chicca che “costringerà” i fans a ricomprare per l’ennesima volta le stesse canzoni è la presenza della “big band version” del singolo del 1971 George Jackson, introvabile su CD a meno che non possediate la rarissima stampa in compact dell’antologia australiana del 1978 Masterpieces (infatti la George Jackson presente sul doppio Sidetracks uscito nel cofanetto The Complete Album Collection era la versione acustica).

Forse un po’ poco per accaparrarsi questo Japanese Singles Collection, ma si sa che i “dylaniati” (categoria alla quale mi vanto di appartenere) sono teste particolari.

Marco Verdi

Una Figlia D’Arte Con Un Approccio Musicale Tutto Suo. Aubrie Sellers – Far From Home

aubrie sellers far from home

Aubrie Sellers – Far From Home – Aubrie Seller/Soundly Music CD

Aubrie Sellers, giovane cantautrice non ancora trentenne, non poteva che intraprendere la strada musicale. Già il fatto di nascere e crescere a Nashville predispone in tal senso, ma Aubrie è la figlia di Jason Sellers, autore di canzoni per conto terzi con un paio di dischi all’attivo negli anni novanta, e soprattutto di Lee Ann Womack, una delle più popolari country singer in America; in più, il patrigno di Aubrie (secondo marito di Lee Ann) è il noto produttore Frank Liddell, che è stato anche responsabile del primo album della ragazza New City Blues, uscito nel 2016. Uno potrebbe pensare che con questo lignaggio la Sellers si sia ritrovata la tavola apparecchiata, ma in realtà la ventinovenne cantante ha voluto mettersi in gioco, e con il suo secondo lavoro Far From Home ha fatto un disco di puro rock, nel quale il country è totalmente estraneo se non nella struttura melodica dei brani, che contrasta apertamente (e volutamente) con l’accompagnamento decisamente duro e roccato.

Non c’è l’ombra di violini, steel o mandolini in questo lavoro, ma il suono si regge totalmente sulle chitarre e su una sezione ritmica tosta, Glen Worf al basso e Fred Etchingham alla batteria : sono ben quattro infatti i chitarristi che si alternano (Ethan Ballinger, che è anche il fidanzato di Aubrie, Adam Wright, Park Chisholm e Chris Coleman), i quali forniscono un sound granitico ed abbastanza inatteso, creando un’interessante e stimolante contrapposizione con le linee melodiche cantate dalla Sellers, grazie anche alla produzione essenziale ed asciutta di Liddell. Il CD è aperto dalla title track, un brano dall’atmosfera rarefatta di grande fascino, con le chitarre elettriche dietro la voce di Aubrie e paesaggi sonori quasi alla Daniel Lanois (personalmente noto similitudini con la Emmylou Harris di Wrecking Ball, anche per la somiglianza del timbro vocale). My Love Will Not Change è l’unica cover (è stata scritta da Shawn Camp con Billy Burnette) e ha un suono duro e spigoloso, non lo stile che ti aspetteresti, ed il pezzo è impreziosito dall’intervento vocale di Steve Earle: un brano tosto, tra rock e blues, che non liscia il pelo all’ascoltatore ma gli spara in faccia un sound aggressivo e chitarristico.

Lucky Charm è di nuovo elettrica e potente, ma la melodia è orecchiabile e crea un contrasto volutamente spiazzante con il background decisamente rock: tre canzoni e di country non c’è traccia. Worried Mind inizia con una chitarra nel buio, poi entra la voce di Aubrie che intona un motivo che sarebbe perfetto per una country ballad, ma il sottofondo tagliente e quasi bluesato porta da tutt’altra parte; la tonica Drag You Down è immediata e dotata di gran ritmo, ed è il pezzo più accomodante finora anche se le chitarre a tempo di boogie non sono proprio tipiche di una pop song. Going Places è in bilico tra la ballata anni sessanta con tanto di chitarra twang ed un’aura moderna e quasi ipnotica https://www.youtube.com/watch?v=_EgqWZCRUwQ , Glad pesta di brutto e le chitarre sono anche distorte, e si viene a creare una contrapposizione netta con la voce gentile della Sellers. Haven’t Kissed Me Yet somiglia quasi ad una ballata canonica, uno slow intenso per voce e chitarra (elettrica), mentre con Troublemaker ci rituffiamo in atmosfere urbane e dissonanti, alla Dream Syndicate (altro che country).

La lenta Run, attendista e crepuscolare, precede Under The Sun, forse il brano più rilassato di tutto il disco e con un bel refrain, e la conclusiva One Town’s Trash, un veloce e coinvolgente power pop scritto insieme a Brendan Benson dei Raconteurs https://www.youtube.com/watch?v=hXtdoRRBcAM . Non so se mamma Lee Ann sia contenta delle scelte musicali della figlia Aubrie: quel che è certo che di dischi con questo suono da Nashville non ne escono molti.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica Anche In Tempi Di Coronavirus: Una Serata Di “Ordinaria Amministrazione”, Ma Con Un Finale Da Paura! Bruce Springsteen & The E Street Band – Detroit 1988

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Joe Louis Arena, Detroit 1988 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Di tutte le tournée intraprese da Bruce Springsteen nella sua carriera, quella del 1988 è sempre stata una di quelle che mi ha convinto di meno, e forse la meno brillante di tutte quelle con la E Street Band, non solo per il grande spazio dato all’allora nuovo album Tunnel Of Love (un disco con il quale ho sempre avuto un rapporto complesso fin dai tempi della sua uscita), ma anche per certe performance un po’ con il freno a mano tirato. Intendiamoci, stiamo parlando di Springsteen, uno che ha completamente ridefinito gli standard delle esibizioni dal vivo, e quindi ogni giudizio va rapportato a quello che lui e la sua band “storica” hanno negli anni dimostrato di saper fare su un palco. La penultima uscita della serie di album dal vivo tratti dagli archivi del Boss si rivolge proprio a questo tour (per la quarta volta) con uno dei suoi primi show, registrato il 28 marzo 1988 alla Joe Louis Arena di Detroit: un buon concerto, godibile e con i nostri in ottima forma, che pur non essendo al livello di altri spettacoli usciti in questa serie non farà rimpiangere i soldi spesi per l’acquisto (download o “fisico” che sia), soprattutto per una parte finale nella quale per un attimo ricompare il Bruce da leggenda degli anni settanta.

Ma andiamo con ordine: il fatto che siamo agli inizi del tour lo si capisce anche dalla scaletta, che nella parte di concerto prima dei bis (i primi due CD) dà grande spazio all’ultimo album del momento ma anche al precedente Born In The U.S.A., eliminando addirittura dalla setlist canzoni che solitamente non mancano mai ad un concerto del Boss, come Badlands, Thunder Road, Darkness On The Edge Of Town e The Promised Land. I pezzi tratti da Tunnel Of Love sono ben nove: si parte proprio con la title track (mai stata una grande canzone, e poi c’è troppo synth), per poi dare spazio ad una serie di ballate di buon livello medio, soprattutto la sixties-oriented All That Heaven Will Allow e la semi-acustica Two Faces, ed anche la poco conosciuta (ed anche poco suonata durante il tour) Walk Like A Man non è male con il suo leggero sapore blue-eyed soul, mentre One Step Up non l’ho mai gradita molto. La quota rock’n’roll è riservata a Spare Parts, brano “cattivo” e piuttosto coinvolgente nonostante il nostro abbia scritto di meglio; capitolo a parte per i due episodi migliori di Tunnel Of Love, cioè l’orecchiabile pop song Brilliant Disguise (che negli anni è cresciuta molto nella mia considerazione) e soprattutto la straordinaria Tougher Than The Rest, una delle ballate più belle del Boss, ancora più emozionante dal vivo che in studio.

Sempre nella prima parte da Born In The U.S.A. abbiamo la title track, Cover Me e le “poppeggianti” I’m On Fire e Dancing In The Dark, mentre il periodo “classico” si limita a soli tre brani: una notevole e deflagrante Adam Raised A Cain, una corretta She’s The One e la trascinante You Can Look (But You Better Not Touch) simile alla prima versione all’epoca inedita, più rock’n’roll e migliore di quella finita su The River. Nei concerti di quel periodo venivano suonati anche diversi brani rari, ed anche a Detroit ne possiamo ascoltare più d’uno: Seeds era abbastanza facile da sentire negli show degli anni ottanta del Boss, a differenza della coinvolgente Roulette che era molto meno frequente, mentre le seppur potenti War (cover di Edwin Starr) e Light Of Day non hanno mai incontrato i miei favori (e c’è anche la godibile I’m A Coward, un inedito pezzo dal sapore errebi con i fiati guidati da Richie “La Bamba” Rosenberg in evidenza). Poi ci sono due canzoni uscite al tempo come lati B, e se la scintillante Be True può essere comparata ai classici del nostro, il reggae di Part Man, Part Monkey è indiscutibilmente un brano minore. I bis iniziano con una Born To Run acustica come si poteva ascoltare solo in quel tour, e proseguono con un paio di “crowd pleasers” (Hungry Heart e Glory Days) e con una sorprendente ed inattesa versione di Love Me Tender di Elvis, discreta ma non imperdibile.

Dopo un omaggio al passato con Rosalita ecco però che il Boss si trasfigura letteralmente e per un quarto d’ora torna ad essere quello leggendario dei seventies, con un formidabile e travolgente Detroit Medley (non poteva mancare vista la location) in una delle versioni migliori mai sentite, quindici minuti di performance assolutamente incendiaria che vince a mani basse il premio di highlight della serata: avrei voluto durasse mezz’ora. Finale con una colorata e festosa Raise Your Hand di Eddie Floyd e, come bonus, una Reason To Believe presa dal soundcheck in una inedita rilettura elettrica full band che in scaletta avrebbe funzionato alla grande (e che non verrà invece mai suonata durante tutto il tour). Arrivederci al prossimo episodio, che vedrà un Boss “europeo” esibirsi in terra svedese in uno show del 2012.

Marco Verdi

E Ora Qualcosa Di Completamente Diverso! The Alan Parsons Project – Ammonia Avenue

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The Alan Parsons Project – Ammonia Avenue Super Deluxe – Esoteric/Cherry Red 3CD/BluRay/2LP Box Set

Il titolo del post odierno l’ho rubato al primo film del gruppo comico inglese Monty Phyton, in quanto la recensione che segue è frutto della prolungata quarantena e del rinvio delle uscite discografiche più interessanti (oltre chiaramente al benestare concessomi dal titolare del blog). Infatti oggi mi occupo dell’ultima uscita di uno dei miei “piaceri proibiti”, vale a dire The Alan Parsons Project, band inglese in attività dal 1976 fino alla fine degli anni ottanta, titolare di una decina di album di gradevole pop-rock (con giusto una spruzzatina di prog specie nei primi lavori), dei quali almeno quelli degli anni settanta a mio parere farebbero la loro discreta figura nella discoteca di chiunque. Gli APP in realtà più che un gruppo vero e proprio era una sorta di progetto di studio (infatti non si esibiranno mai dal vivo) che girava intorno al tecnico del suono Alan Parsons, noto nell’ambiente per aver lavorato ad Abbey Road dei Beatles e a The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd (ma anche per aver prodotto il famoso Year Of The Cat di Al Stewart) ed al paroliere e cantante Eric Woolfson, ai quali di volta in volta si aggiungevano una serie variabile di sessionmen dalle indubbie capacità.

I nostri iniziarono quasi per gioco nel 1976 con Tales Of Mystery And Imagination Edgar Allan Poe, ispirato appunto ai racconti del leggendario scrittore americano, un album che ebbe un grande successo di pubblico e critica (ancora oggi è considerato da molti il capolavoro del duo) e che li spronò a proseguire con una serie di lavori tutti sottoforma di concept albums: per esempio I Robot (1977) era influenzato dagli scritti futuristici di Isaac Asimov, Eve (1979) dall’universo femminile, The Turn Of A Friendly Card (1980) dal gioco d’azzardo e così via. Fino ad oggi sono stati ristampati come “super deluxe box set” due album degli APP, senza seguire un ordine cronologico ma privilegiando il già citato esordio del 1976 ed Eye In The Sky del 1982 che è il loro lavoro più famoso e di maggior successo. Quest’anno mi sarei aspettato un’edizione deluxe di The Turn Of A Friendly Card (tra l’altro il mio preferito insieme a quello dedicato a Poe), sia perché ne ricorre il quarantennale sia perché Parsons (da anni non più Project, cosa ancora più impossibile dopo la scomparsa di Woolfson avvenuta nel 2009) aveva in programma prima del coronavirus una tournée celebrativa di quel disco: invece Alan ha deciso un po’ a sorpresa di omaggiare Ammonia Avenue, album del 1984 che fu comunque uno dei più grandi successi del Project anche perché veniva subito dopo Eye In The Sky.

Ammonia Avenue, ispirato al tema dell’eccessiva industrializzazione (il disco prende il nome da una strada realmente esistente, che costeggiava una gigantesca industria chimica vicino a Middlesborough ora chiusa), era ancora un discreto album di pop-rock, con un ricorso tutto sommato blando alle sonorità tipiche degli anni ottanta, e che rappresentò forse l’ultimo lavoro di un certo valore degli APP prima del lento declino che porterà Parsons e Woolfson a separarsi nel 1990. Il cofanetto, oltre ad un poster e ad un bel libro dalla copertina dura e ricco di foto e testi, comprende tre CD, un BluRay per audiofili con il disco originale sia in 5.1 surround che in stereo HD ed un inutile doppio LP sempre con l’album uscito nel 1984 (in modalità 45 giri!). Il disco è dotato come al solito di un suono perfetto, ed è suonato da musicisti di indubbio valore, tra i quali gli habitué per gli APP Lenny Zakatek, Chris Rainbow e Colin Blunstone (ex Zombies), che si alternano con Woolfson alle parti vocali, il chitarrista Ian Bairnson, la sezione ritmica di David Paton e Stuart Elliott e le orchestrazioni di Andrew Powell, mentre come ospite in un paio di pezzi c’è il sassofonista Mel Collins, già con King Crimson, Dire Straits, Eric Clapton e Rolling Stones.

Il primo CD del box è occupato dall’album originale (e qualche bonus), nove brani dei quali i due più noti sono l’opening track Prime Time, piacevole e sufficientemente trascinante brano dal ritmo mosso che richiama penso volutamente Eye In The Sky (la canzone), con un ritornello molto “catchy”, e la deliziosa Don’t Answer Me, brano dichiaratamente ispirato alle produzioni di Phil Spector (e si sente). Non manca un buon pezzo rockeggiante come la cadenzata Let Me Go Home, una raffinata pop ballad (Since The Last Goodbye), l’orecchiabile Dancing On A Highwire, l’avvolgente strumentale Pipeline ed un’elaborata mini-suite come la canzone che intitola il disco, dotata di un bel crescendo orchestrale; ci sono però anche un paio di riempitivi come One Good Reason e You Don’t Believe, quest’ultima la più anni ottanta come suono. Le otto bonus tracks sono le stesse della ristampa del 2008, una serie di demo, basic tracks e rough mix di brani finiti poi sul disco, ed una versione alternata strumentale di You Don’t Believe con la chitarra di Bairnson che scimmiotta volutamente il suono di Hank Marvin degli Shadows.

Il secondo dischetto, intitolato Eric’s Songwriting Diaries, è una serie di demo casalinghi voce e piano nei quali Woolfson costruisce a poco a poco le melodie delle varie canzoni, un work in progress interessante ma riservato agli “hardcore fans” del gruppo, con anche l’accenno a brani rimasti inediti (Don’t Take Chances On Me, You’ll Be Surprised, Wish I Was Miles Away, Toby’s Theme, mentre Amelie’s Theme si evolverà in Limelight sull’album Stereotomy). Per fans è anche il contenuto del terzo CD, 17 tracce inedite che sono una sorta di prolungamento delle bonus tracks del primo dischetto, con basi senza voce, guide vocali (tra cui una, non imperdibile, dello stesso Parsons sempre su You Don’t Believe), versioni strumentali ed esperimenti vari. Da lì in poi gli APP pubblicheranno ancora tre album non imperdibili (Vulture Culture, Stereotomy – il migliore dei tre – e Gaudi, mentre il doppio Freudiana del 1990 non fu accreditato a loro nonostante lo fosse al 100%, pare a causa di divergenze creative tra i due mastermind del Progetto), e Parsons continuerà da solo dal 1993 fino ad oggi con lavori via via sempre più trascurabili, ma iniziando finalmente ad esibirsi dal vivo.

Marco Verdi

Musica Sempre Più “Virtuale” in Tempi Di Covid-19: Mancavano (Quasi) Soltanto Loro! Rolling Stones – Living In A Ghost Town

rolling stones living in a ghost town inner

In questo periodo di quarantena il mercato discografico è completamente stravolto, con uscite programmate per una certa data che vengono rinviate di diversi mesi (o anche al gennaio 2021, come nel caso del nuovo album di Steven Wilson), ed altre che vengono invece anticipate seppur, per ora, soltanto in formato digitale. L’ultima sorpresa in ordine di tempo è venuta dai Rolling Stones, che hanno pubblicato come un fulmine a ciel sereno (anche se erano presenti al “concerto” One World Together At Home) una nuova canzone intitolata Living In A Ghost Town. Si sapeva da tempo che Mick Jagger e soci stavano lavorando al loro primo album di inediti dai tempi di A Bigger Bang del 2005, ma un brano nuovo così di punto in bianco non se lo aspettava nessuno (è il loro primo pezzo originale dal 2012): Living In A Ghost Town è la classica canzone giusta al momento giusto, dato che parla espressamente del periodo sconvolgente che stiamo vivendo, con un video che alterna immagini della band al lavoro con altre che mostrano una Londra completamente deserta. Il brano è stato registrato tra la stessa Londra e Los Angeles, e le Pietre avevano cominciato a lavorarci sin dallo scorso anno, ma lo hanno completato solo in queste settimane (e voglio pensare che il testo sia recente, se no i nostri avrebbero aggiunto alle loro molteplici doti anche quella di saper predire il futuro con una precisione inquietante).

Dal punto di vista musicale a me la canzone piace molto (anche se so che Bruno non condivide al 100% il mio entusiasmo *NDB Ma non mi dispiace), in quanto fonde in maniera coinvolgente un mood sonoro tipico dei nostri ad un beat ritmato e moderatamente funky, sullo stile di album del passato dei nostri come Black And Blue, con Jagger in forma vocale splendida se pensiamo che a luglio saranno 77 primavere. Il singolo è disponibile su tutte le piattaforme digitali, ed è anche in pre-ordine come supporto fisico in vinile giallo e, in esclusiva sul sito della band, in vinile viola ed in CD (per spedizione a fine maggio per quanto riguarda il CD e fine giugno per i vinili).

Se l’album fosse tutto a questo livello ci metterei comunque la firma.

Marco Verdi

Sferzate Blues E Ballate Elettriche Urticanti Dalla Città Degli Angeli. Lucinda Williams – Good Souls Better Angels

lucinda williams good souls better angels

Lucinda Williams – Good Souls Better Angels – Highway 20/Thirty Angels – CD – 2 LP

Non si può negare che Lucinda Williams sia un’artista che divide, molto amata da chi ammira la sua musica, e sono la maggioranza di chi segue la buona musica, e “odiata” (diciamo non apprezzata) dai detrattori che non sopportano la sua voce. E questo non si può forzare, ognuno rimarrà fermo nelle proprie convinzioni: Good Souls Better Angels è il quattordicesimo album della sua discografia, iniziata nel lontano 1979 con Ramblin’ ed il cui capitolo precedente era la rivisitazione nel 2017 di This Sweet Old World, “aggiornamento” di Sweet Old World uscito in origine nel 1992, mentre l’ultimo album di canzoni nuove era stato https://discoclub.myblog.it/2016/01/20/il-miglior-disco-del-2016-forse-presto-lucinda-williams-the-ghosts-of-highway-20/ , uno dei dischi migliori di quella annata. La nostra amica torna più agguerrita che mai con questo nuovo CD, che esce oggi 24 aprile, concepito, come ricordo nel titolo del Post, anche a Los Angeles, dove poi è stato masterizzato il disco, influenzato quindi dalle tematiche urbane della città degli angeli, ma comunque registrato a Nashville, dove Lucinda vive con il marito Tom Overby, e prodotto da Ray Kennedy che torna in cabina di regia, con risultati eccellenti, a 22 anni di distanza da Car Wheels on a Gravel Road, uno degli album più belli in assoluto della cantante di Lake Charles, Lousiana.

Ad accompagnarla lo stesso nucleo di musicisti con cui aveva lavorato nel disco del 2017, e nei concerti degli ultimi anni, ovvero il chitarrista Stuart Mathis (anche al violino), fantastico il suo lavoro, e la rodata, eclettica e rocciosa sezione ritmica composta da Butch Norton alla batteria e David Sutton al basso, non c’è Greg Leisz, ma all’organo in un paio di brani troviamo Mark Jordan e nella versione doppia limitata in vinile, c’è un secondo LP con cinque versioni acustiche di brani dell’album, curate da Colin Linden. Q, Mojo, Uncut e il sito American Songwriter ne hanno parlato in termini entusiastici, dalle 4 stellette in su, come pure il Buscadero, la rivista per cui scrivo, che lo ha eletto Disco Del Mese, ma, per quella piccola percentuale di detrattori di cui vi dicevo, l’Indipendent si è distinto definendoolo “doom laden”, che però forse alla fine è anche un complimento. Il marito Tom Overby viene promosso da “ghost writer”, visto che come ha dichiarato la stessa Lucinda in alcune interviste, già in passato aveva collaborato con la moglie fornendo i suoi suggerimenti sia per i testi che per i titoli di dei brani, a co-autore a tutti gli effetti. Partiamo non dalla prima canzone, ma da Man Without A Soul, uno dei pezzi centrali e più belli del disco, soprattutto a livello di testi, ma è anche una splendida ballata sudista di grande intensità sonora: testo che recita “You bring nothing good to this world / Beyond a web of cheating and stealing / You hide behind your wall of lies, but it’s coming down…”, chi sarà questo uomo? Ma certo è “The Donald”, Trump per i nemici, il soggetto di questo brano, una delle canzoni più esplicite della Williams, che comunque non le ha mai mandate a dire. Mathis ci regala un lavoro alla solista eccezionale, che oscilla tra blues e psichedelia, wah-wah innestato e slide all’opera per una serie di assoli torbidi e variegati, su cui la voce roca e spezzata di Lucinda declama la sua rabbia con vigore ed impeto in un crescendo di grande vigore.

L’apertura è affidata alla assertiva You Can’t Rule Me (scritta, come le altre, prima dell’avvento del coronavirus), un midtempo bluesy, con Mathis alla slide a creare vortici di elettricità, sostenuto dal suono secco e potente della sezione rtimica e dalla voce ringhiosa e caratteristica di LW, mentre anche Bad News Blues gira intorno alle 12 battute in modo più classico, con fare pigro e sornione, mentre ci narra, un “po’ seccata”, delle cattive notizie che girano incontrollate sui media e in televisione, spesso bufale ma comunque certo non rassicuranti. Big Black Train è un brano che tratta del tema della depressione, che in modo ricorrente è comunque presente anche nella vita dell’artista americana, non solo in senso metaforico, con la melodia della ballata che si dipana lenta e struggente ed è tipica del songbook delle sue migliori canzoni, sempre con il lavoro di fino di Mathis e l’organo di Jordan che sussurra sullo sfondo; Wakin’ Up è uno dei brani più “duri”, quasi punk nell’attitudine, con scariche percussive e le chitarre incattivite e urlanti che sottolineano il tema trattato, che è quello degli abusi domestici. Anche Pray The Devil Back To Hell, con Mathis anche al violino, è una variazione del tema del blues according to Lucinda, con l’atmosfera incalzante e senza requie che ti porta in crescendo in un mondo sulfureo senza pietà dove la chitarra di Stuart impartisce l’ultima punizione a colpi di wah-wah.

Shadows And Doubts quantomeno non ha certezze assolute, anche se diciamo che l’ottimismo non regna sovrano, ma il suono elettrocustico e delicato di questa ballata ha un che di sereno nel suo dipanarsi lento e solenne, ancora con l’organo di Jordan in bella evidenza a sottolineare il lavoro certosino delle chitarre, con finale in slide di Mathis. L’oscurità è anche il tema di When The Way Gets Dark, che tratta del tema dibattuto di certi aspetti dubbi dei social media, in un altro brano lento ed avvolgente con una vocalità più curata del solito e accorata al tempo stesso, meno opprimente e con soluzioni sonore meno estreme e stridenti; ma è un attimo, perché le chitarre tornano a ruggire in Bone Of Contention, un’altra scarica di adrenalina con un incipit quasi hendrixiano e la voce di Lucinda motivatissima, sostenuta da quella di Mathis, che al tempo stesso estrae dalla sua solista altre stille di eletricità allo stato puro, ancora con rimandi al punk-rock migliore, ma pure a mio avviso al Jimi più visionario degli anni d’oro. E anche in Down Past The Bottom non si scherza, la band sembra un gruppo di novelli Crazy Horse, tra sferzate chitarristiche brucianti e il cantato quasi sguaiato e rozzo della Williams, che poi vengono ribadite anche nella altrettanto feroce Big Rotator, un ulteriore esempio dell’eccellente e duro rock-blues a colpi di wah-wah, impiegato spesso da Mathis in questo Good Souls Better Angels, che però si chiude in una nota di speranza con la (quasi) ottimistica e serena Good Souls, una ballata malinconica e ricca di passione, dove emerge il lato più melodico di Lucinda Williams, che in questo tipo di canzoni veramente eccelle, a conferma del suo status di grande (cant)autrice, con la band che questa volta la accompagna meravigliosamente in punta di dita.

In due parole: grande musica.

Bruno Conti

Un Bel Disco Di Ispirazione Letteraria. David Starr – Beauty & Ruin

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David Starr – Beauty & Ruin – Cedaredge CD

Pur avendo esordito nel 2003 e vantando una discografia di quasi una decina di unità, il nome di David Starr è abbastanza sconosciuto presso il pubblico. Originario dell’Arkansas ma da anni spostatosi in Colorado, Starr è un cantautore classico, di quelli che si ispirano alla scuola californiana degli anni settanta (Jackson Browne, Dan Fogelberg, ecc.) costruendo le sue canzoni attorno alla voce ed alla chitarra, e rivestendo il tutto con pochi ma selezionati strumenti: una steel in sottofondo, talvolta un organo, una sezione ritmica mai invadente, in certi casi un violino. Per il suo nuovo lavoro Beauty & Ruin David ha scelto di farsi produrre da John Oates, che dopo i fasti del duo Hall & Oates si è reinventato come artista roots-oriented (ottimo il suo album Arkansas del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/13/chiamatelo-pure-mississippi-john-oates-john-oates-arkansas/ ), ed i due hanno selezionato una serie di autori noti e meno noti, tra i quali Jim Lauderdale, il duo formato da Doug e Telisha Williams (più conosciuti come Wild Ponies) ed Oates stesso, dando ad ognuno dei quali una copia del libro Of What Was, Nothing Is Left, opera del 1972 del noto autore Fred Starr (nonno di David), e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ad esso ispirato al quale poi lui e John avrebbero aggiunto la musica.

Il risultato è appunto Beauty & Ruin, un album di ballate intense e profonde suonato da un manipolo di gente molto nota tra cui Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow: musicisti che solitamente troviamo in dischi country, anche se qui il country è solo un tramite (e neanche sempre) per dare un suono ai brani di Starr, che come dicevo poc’anzi derivano direttamente dalla lezione dei cantautori classici dei seventies. Laura è una gentile ballata acustica, profonda ed intensa, con David che canta con voce limpida: un brano da vero songwriter, con strumentazione parca ma dosata al punto giusto e la steel di Dugmore che si staglia sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=pvk2p81XXGk . Bella anche la title track, un pezzo tenue suonato in punta di dita che rimanda allo stile pacato di James Taylor, anche se qui l’accompagnamento è più “rootsy”; Rise Up Again è ariosa e tersa, un brano che sembra uscito proprio da qualche disco degli anni settanta, mentre Bury The Young ha un delicato sapore western ed è dotata di un motivo profondamente evocativo ed emozionante, una gran bella canzone. Il quinto brano si intitola proprio come il libro di nonno Fred, Of What Was, Nothing Is Left, ed è un pezzo attendista che si sviluppa con lentezza intorno alle chitarre, fino al refrain in cui il suono si fa più corposo: David si conferma un autore coi fiocchi, brani come questo non si scrivono per caso.

Cracks Of Time è soffusa e raffinata, con un arrangiamento che valorizza la melodia ed un bel gioco di percussioni, Road To Jubilee (il brano di Lauderdale) ha una strumentazione avvolgente con le chitarre e l’organo che creano un tutt’uno col motivo centrale https://www.youtube.com/watch?v=6RKBZKhFLRA , mentre con My Mother’s Shame torniamo alle atmosfere interiori, e non manca una certa tensione di fondo (non è un brano rock, ma è quello che si avvicina di più) https://www.youtube.com/watch?v=L_31JXbnNIw . Il CD prosegue senza sbavature: Fly By Night ha una bella chitarra che accompagna la melodia solare ed è uno dei brani più belli ed immediati, con un suono vagamente jingle-jangle; chiusura con Laurel Creek, deliziosa ballata dal sapore country, e con I Don’t Think I’ll Stay Here, canzone distesa ed orecchiabile che mette il sigillo ad un bel disco di cantautorato d’alta classe.

Marco Verdi

Un Ultimo Colpo Di Coda? Soul Asylum – Hurry Up And Wait

soul asylum hurry up and wait

Soul Asylum – Hurry Up And Wait – Blue Elan Records – CD Usa 17/04/2020 Europe 01-02-2020

Per chi scrive, la carriera dei Soul Asylum è stata contrassegnata da una serie di alti e bassi, una vicenda iniziata a Minneapolis nel lontano 1984 per merito dei leader carismatici Dave Pirner e Dan Murphy alle chitarre, Karl Mueller al basso, Pat Morley e poi Grant Young alla batteria. L’esordio con Say What You Will (84) lasciava intravedere il loro “genio” (infatti era prodotto dal concittadino Bob Mould degli Husker Du); disco seguito due anni dopo da Made To The Broken (86) uno dei primi album “pop” che conteneva un brano epico come Can’t Go Back, e nello stesso anno diedero alle stampe While You Were Out di impronta chiaramente “garage rock”, con il conclusivo e lungo blues-rock di Passing Sad Daydream, per poi arrivare alla consacrazione con Hang Time (88) con brani che spaziavano dall’hard-rock venato di blues di Little Too Clean, al rock’n’roll energico di Standing In The Doorway, fino al “boogie” sincopato di Jack Of All Trades, per poi chiudere gli anni ’90 con l’interlocutorio And The Horse They Rode In, di cui mi piace ricordare una fiaba rock come Gullible’s Travels.

Con Grave Dancers Union (92) arriva il successo planetario per merito di Runaway Train (senza dubbio la ballata più orecchiabile della loro carriera), per poi passare definitivamente al “mainstream” con album come Let Your Dim Light Shine(95) e Candy From A Stranger (98) con brani alla Bon Jovi, Police, John Mellencamp, Eagles, e affini, perdendo prima il pubblico e in seguito il contratto, con il gruppo che inevitabilmente si sfalda, e con Dan Murphy che con Jeff Tweedy dei Wilco, Gary Louris e Marc Perlman dei Jayhawks forma il supergruppo Golden Smog (autore di buoni lavori come Down By The Old Mainstream (96) e Weird Tales (98).

Dopo un disco dal vivo passato quasi inosservato After The Flood. Live From The Grand Forks Prom (04), Pirner a otto anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio riforma la band pubblicando un bel disco come The Silver Lining (l’ultimo in cui suona il bassista Karl Mueller, in seguito morto per cancro), cosa che non si può dire del seguente Delayed Reaction (12), per poi finalmente tornare a fare una certa musica “sperimentale” con i brani di Change Of Fortune (16). Quando ormai avevo perso le loro tracce, i Soul Asylum si rifanno vivi con questo nuovo lavoro Hurry Up And Wait, che vede l’attuale “line-up” del gruppo sempre capitanata dal leader carismatico Dave Pirner alla chitarra e voce, Ryan Smith alla chitarra solista, Winston Roye al basso, e Michael Bland alla batteria, per 45 minuti di sano ed intenso rock e belle melodie da cantare, sotto la produzione di John Fields.

.L’apertura del disco con The Beginning è quello che ti aspetti dai Soul Asylum, come ai bei tempi, orecchiabile e diretta, e nello stesso tempo senza perdere un briciolo di impeto rock, per poi tornare alla normalità con il seguente If I Told You, brano che si ascolta volentieri ma nulla di più, mentre con la graffiante Got It Pretty Good il pensiero e la mente corrono a suono e ritmica degli anni ’80, e un altro pezzo acustico e tranquillo come Make Her Laugh, che si fa ricordare al primo ascolto.

Con la vibrante e energica Busy Signals ritroviamo un brano aggressivo, tirato, come nella loro migliore tradizione, seguito da una ballata contagiosa come Social Butterfly, con un bel suono armonioso, e dalla bellissima Dead Letter, una sentita ballata acustica piena di dolore e rimpianto, cantata con voce graffiante da Pirner (per ora per il sottoscritto è candidata a canzone dell’anno), per poi cambiare ancora ritmo con il “blues-rock” di Landmines, con il “riff” potente di chitarra e la band al meglio.

Si riparte con una ballata mid-tempo come Here Were Go dal suono acustico e contagioso, seguita da una sincopata e veloce Freezer Burn, e dalla boccata d’aria fresca con l’elettro-acustica Silent Treatment, per poi ritornare piacevolmente al suono grezzo degli anni ’80 con il “punk-rock” aggressivo di Hopped Up Feelin’, e andare a chiudere con un altro brano interessante, una ballata energica come Silly Things, che rimanda al “sound” della migliore tradizione americana.

Abbandonate le sonorità radicali degli esordi, i Soul Asylum (almeno fino Let Your Dim Light Shine) sono depositari di una discografia di tutto rispetto, poi complici le sbandate personali (vedi sotto la voce Dan Murphy) e la scomparsa del bassista Karl Mueller, la band si è infilata in un limbo da cui ha faticato molto per riemergere, e ora sono semplicemente una rock band che non ha perso il gusto per il rock’n’roll sporco e ruvido, ma che non disdegna di aggiungere elementi “pop”, ed è questo il caso di questo ultimo lavoro Hurry Up And Wait (a dir del vero di un paio di brani ne avrei fatto volentieri a meno), ma il resto non riesce a rovinare questo bel ritorno dei Soul Asylum, una grande band che certamente avrebbe meritato di più nel corso di una comunque lunga carriera.

Tino Montanari

 

 

Un Album Spiazzante, Sicuramente Difficile, Ma Affascinante. The Dream Syndicate – The Universe Inside

dream syndicate the universe inside

The Dream Syndicate – The Universe Inside – ANTI CD USA 10-04-2020/Download

Andiamo con ordine. Quando nel 2017 i Dream Syndicate avevano pubblicato il loro comeback album How Did I Find Myself Here?, avevo giudicato il disco sorprendente non tanto per il fatto che fosse uscito (dopotutto i nostri si erano riformati come live band nel 2012, ed era dunque lecito aspettarsi un nuovo lavoro prima o poi) quanto per la bontà del contenuto, una miscela vincente di rock’n’roll urbano, punk e psichedelia che riportava i nostri ai fasti degli anni ottanta: Un album che era l’ideale seguito più del mitico Medicine Show che del loro epitaffio Ghost Stories, ed era anche meglio di tutta la discografia solista del leader Steve Wynn, con la possibile eccezione dei notevoli Kerosene Man e Fluorescent. Lo scorso anno era poi uscito These Times, questa volta sì un po’ a sorpresa in quanto non mi aspettavo un seguito così presto https://discoclub.myblog.it/2019/05/19/la-reunion-prosegue-ed-anche-molto-bene-the-dream-syndicate-these-times/ , e di sicuro non di livello quasi comparabile al precedente: il disco era però in parte diverso, con un maggior ricorso all’elettronica pur dosata in maniera intellingente, ed un ruolo decisamente più importante per le tastiere di Chris Cacavas (ex Green On Red), un lavoro cupo e pessimistico sia dal punto di vista dei testi che del sound, e che non aveva mancato di suscitare perplessità ed attirarsi qualche timida critica.

A meno di un anno di distanza il Sindacato del Sogno è di nuovo tra noi con The Universe Inside (che, coronavirus permettendo, uscirà in CD il primo maggio (a parte negli States, dove è in vendita dal 10 aprile, per ora è solo in download), un album ancora più imprevedibile e spiazzante nel quale i nostri in cinque lunghi pezzi ci fanno vedere quello che sono oggi, cioè una band in cui il Paisley Sound degli inizi ha ceduto ormai il passo ad una musica che fonde in maniera solo apparentemente caotica avanguardia europea, jazz-rock, progressive e massicce dosi di psichedelia. Registrato in presa diretta durante una notte di fine anno scorso (80 minuti poi ridotti a 58), The Universe Inside ci mostra che i nostri oggi non concepiscono la loro musica secondo schemi classici, e le cinque tracce presenti non è neppure il caso di chiamarle “canzoni”, bensì un viaggio lisergico ed allucinato nei bassifondi di Los Angeles (o di New York, i bassifondi sono tutti uguali, marci e malati allo stesso modo), un disco che avrebbe potuto concepire uno come Lou Reed se fosse stato ancora tra noi, ed in cui la voce di Wynn non è una guida melodica ma una sorta di strumento aggiunto. In questo lavoro vengono poi fuori le radici avanguardistiche dell’altro chitarrista Jason Victor e quelle jazz della formidabile sezione ritmica formata da Mark Walton e Dennis Duck: infatti l’approccio musicale si potrebbe paragonare a quello che diede vita al leggendario Bitches Brew di Miles Davis, cioè un’unica ed improvvisata session che fu poi leggeremente accorciata in sede di post-produzione.

E’ un po’ come se Wynn e soci ci avessero detto: “Eccoci di nuovo qui: ora vi facciamo vedere che siamo ancora capaci di fare quello che sapevamo fare negli anni ottanta (How Did I Find Myself Here?). Attenzione però, noi non siamo più quelli, ma il nostro suono si sta evolvendo (These Times), ed oggi siamo questi qua (The Universe Inside)”. L’album non mette dunque l’ascoltatore in posizione privilegiata, ma in realtà è come se lo caricasse di botte ed alla fine lo lasciasse a terra malconcio e sanguinante (e magari in overdose), ma se riuscirete ad “entrare” nel disco per il verso giusto, come sono fortunatamente riuscito a fare io, non potrete che rimanerne affascinati. Se la struttura vi può sembrare simile a quella di The Third Mind, esordio omonimo del supergruppo guidato da Dave Alvin, tenete presente che là i brani erano un omaggio al rock psichedelico di fine anni sessanta ed il suono decisamente più accomodante https://discoclub.myblog.it/2020/03/06/un-dave-alvin-diverso-ma-sempre-notevole-the-third-mind/ : qui di accomodante non c’è assolutamente nulla.

l pezzo più lungo, The Regulator, è messo proprio all’inizio, più di venti minuti che partono con un ritmo sostenuto, una chitarra per ognuno dei due lati dello stereo che vanno ciascuna per conto suo riuscendo però a non perdere il filo con il tema musicale di base (“melodia” mi sembra una parola grossa), con l’aggiunta dei riff di un sitar elettrico suonato da Stephen McCarthy dei Long Ryders; poi una chitarra parte per la tangente con suoni distorti, così come distorta è la voce di Wynn (sembra più Leonard Cohen all’inizio ed Iggy Pop alla fine), mentre Cacavas comincia a farsi largo con un piano elettrico ed un synth usato in maniera “giusta”, e spuntano anche un’armonica, il sax di Marcus Tenney suonato proprio alla maniera di Miles Davis (so che Miles era un trombettista, ma sto parlando dello stile) ed un coro quasi onirico, fino all’esplosione sonora finale. Musica in assoluta libertà, di chiaro impianto psycho-jazz (se mi passate la definizione), ma decisamente intrigante. In confronto la seguente The Longing (“solo” sette minuti e mezzo) è una canzonetta: con il suo ritmo cadenzato ed i riff chitarristici lancinanti alla Neil Young, il brano è un rock psichedelico e notturno che rimanda ai Dream Syndicate classici, con un motivo di fondo abbastanza definito che mi ricorda un po’ anche il David Bowie più sperimentale e che si potrebbe anche definire piacevole (almeno fino al quinto minuto, dato che il finale è puro trip lisergico).

Apropos Of Nothing (nove minuti e mezzo) è un potente rock’n’roll elettrico alla maniera dei nostri, leggermente più disteso dei precedenti ma sempre con un’aura psichedelica, con una steel in sottofondo che cerca di ammorbidire il suono: Steve canta nel suo tipico stile ed in leggero contrasto con l’accompagnamento strumentale, ed il tutto risulta anche gradevole (nel senso più “perverso” del termine) e meno difficile del resto, nonostante anche qui la parte centrale sembri la colonna sonora di un “viaggio” a base di allucinogeni, con tanto di accelerazione ritmica finale. Lo strumentale Dusting Off The Rust, altri dieci minuti, inizia in maniera obliqua con le chitarre decisamente “avant-garde” ed i suoni elettronici di Cacavas che prendono il sopravvento, mentre il sax tenta di riportare il tutto ad una dimensione terrena riuscendoci a poco a poco visto che il sound si fa più morbido con il passare del tempo, ed il brano diventa quasi fruibile pur rimanendo nei binari dell’improvvisazione “free”; chiusura con gli undici minuti di The Slowest Rendition, un pezzo che parte lento, etereo e dissonante, con Wynn che interviene in maniera discorsiva con voce quasi narrante, poi entra una ritmica ossessiva dai suoni sintetici trasformando la canzone nell’ideale soundtrack di un film sperimentale di ambientazione post-apocalittica, per quello che è l’episodio più ostico di The Universe Inside.

Un disco non facile quindi, che necessita di più ascolti per essere assorbito a dovere: una cosa è sicura, e cioè che i Dream Syndicate non sono certo una band che si adagia sugli allori.

Marco Verdi