Ci Ha Lasciato Anche Bill Withers, Uno Degli “Eroi Sconosciuti” E Schivi Della Black Music, Aveva 81 anni,

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William Harrison Withers Jr. se ne è andato lunedì 30 marzo 2020, anche se le notizia è stata comunicata dalla famiglia solo ieri, per problemi cardiaci. Bill Withers, come era conosciuto da tutti, è stata una delle voci più interessanti e uniche della black music: una carriera nella musica iniziata tardi, quando aveva già passato i 30 anni, e durata solo una quindicina di anni, con la pubblicazione di otto album di studio e uno dal vivo. Molti lo conoscono soprattutto per i suoi due brani più noti, la splendida Ain’t No Sunshine, una canzone con un incipit straordinario e uno svolgimento altrettanto emozionale, e Lean On Me, “conta su di me”, che in questi tempi di coronavirus è stato uno dei pezzi più utilizzati per lanciare campagne di sensibilizzazione e raccolte fondi. Il musicista di Stab Fork, Virginia, dove era nato il 4 luglio del 1938, ma da sempre califoniano di elezione, spesso veniva ritratto sorridente nelle foto e sulle copertine dei suoi album, con quella espressione disincantata e anche scettica che lo aveva accompagnato nell’approccio alla musica e nella vita.

L’ultimo di sei figli, affetto nell’infanzia e nella gioventù dalla balbuzie, Withers era entrato nella Marina Americana all’età di 17 anni, dove poi aveva prestato servizio per nove anni, in seguito aveva fatto diversi lavori, anche nel settore dell’industria aereonautica, comunque coltivando sempre la sua passione per la musica, registrando demo che portava alle case discografiche ed esibendosi in piccoli locali.Tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970, quando il suo nastro contenente Ain’t No Sunshine iniziava a circolare negli ambienti discografici, Bill comunque mantenne il suo lavoro, tanto che nella copertina del suo primo album è ritratto ancora con la sua borsa per il pranzo, “schiscetta” diremmo a Milano, visto che non si fidava molto dell’ambiente in cui era entrato, che definiva, a ragione come vedremo, una industria volubile. Comunque nel maggio del 1971 esce il suo esordio Just As I Am, che molti considerano il suo capolavoro, un disco dove la soul music, il suo genere di pertinenza, era mediato da un utlizzo di stilemi folk, pop, anche con inserti gospel e a livello di testi, oltre alle classiche canzoni d’amore, anche brani che toccavano tematiche sociali e politiche.

L’album uscì per la Sussex, una piccola etichetta di proprietà di Clarence Avant che comunque gli mise a disposizione un dream team di musicisti: Booker T. Jones, oltre a essere il produttore, suonava naturalmente le tastiere, Stephen Stills era la chitarra solista, mentre al basso si alternavano Donald Dunn e Chris Ethridge, alla batteria Jim Keltner e Al Jackson Jr. sempre degli Mg’s, nonché la percussionista Bobbye Hall. Il risultato è un disco dove soul music e pop raffinato vanno fianco a fianco appunto con il soul (non a caso le uncihe due cover erano Let It Be dei Beatles e Everybody’s Talkin’ di Fred Neil/Harry Nilsson, la colonna sonora dell’Uomo Da Marciapede). La voce di Withers non è forse molto potente, ma in ogni caso espressiva e ricercata, con qualche analogia con quella di Stevie Wonder e Marvin Gaye, due musicisti che stavano cambiando la musica nera all’epoca, ci sono anche intermezzi orchestrali come nella potente Harlem che apre l’album, l’utlizzo di chitarre acustiche, per esempio nella splendida Ain’t No Sunshine, che impiega la reiterazione tipica del gospel, come pure l’altro singolo estratto dall’album, l’intensa Grandma’ s Hands, mentre le due cover sono entrambe molto belle, Let It Be che si presta molto al trattamento gospel e Everybody’s Talkin’ che diventa un country got soul. Ma tutto l’album è eccellente, da riscoprire assolutamente.

Anche Still Bill, uscito nel 1972, è un grandissimo disco, l’unico a entrare nella Top Ten delle classifiche USA, un altro dei classici dischi da 5 stellette: ci sono due canzoni che si elevano sulle altre, la ballata universale Lean On Me, senza tempo e utilizzata nei tempi duri, quando c’è bisogno di sostegno e solidarietà, questa volta con un approccio ancora più “nero” del precedente album, grazie all’utilizzo di musicisti come il grande batterista James Gadson, una delle colonne della black music e del funky dell’epoca, del bassista Melvin Dunlap, anche lui, come Gadson, della Watts 103rd Street Rhythm Band, al pari del chitarrista Benorce Blackmon, spesso al wah-wah e a completare la formazione Raymond Jackson alle tastiere e arrangiatore di fiati e archi. Dal precedente disco rimane Bobbye Hall: l’altra canzone di grande fascino è Use Me, un funky proprio tra Stevie Wonder e Marvin Gaye, dalla grande scansione ritmica e con un piano elettrico a caratterizzarne il sound. In ogni caso, come per il disco precedente, non ci sono punti deboli nell’album e tutte le canzoni sono affascinanti e di grande appeal: senza voler fare un trattato sulla discografia di Bill Withers, comunque mi preme segnalare anche il magnifico Live At Carnegie Hall, registrato nella grande sala da concerto newyorchese con gli stessi musicisti del disco in studio nell’ottobre del 1972 e poi pubblicato nel 1973. Un doppio vinile, sempre edito per la Sussex, dove le versioni dei brani spesso vengono allungate con ampi spazi improvvisativi dove i musicisti sono liberi di dare grande supporto alle bellissime canzoni di Withers, in uno dei dischi dal vivo più belli degli anni ’70.

Negli anni successivi Bill pubblicherà ancora sei album, uno per la Sussex e gli altri per la Columbia, nessuno essenziale come il trittico appena ricordato, comunque (quasi) sempre di qualità eccellente e con la presenza di alcune canzoni tra le più popolari del suo songbook: canzoni come Railroad Man, con José Feliciano alle chitarre e alle congas, o The Same Love That Made Me Laugh sono dei piccoli trattati sulla funk music, Lovely Day su Menagerie, con qualche piccola influenza disco, ma comunque ancora di grande fascino e Just The Two Of Us, l’ultimo grande successo, registrato insieme a Grover Washington Jr. e uscito come singolo nel 1980. Mentre nel 1985 viene pubblicato l’ultimo album per la Columbia, in effetti con un suono orripilante anni ’80, poco successo e un bel calcio nel culo dalla casa discografica che termina lil contratto con lui, e senza problemi Withers si ritira dal mondo della musica, memore di quanto aveva detto agli inizi. Qualche apparizione qui è là per ritirare premi postumi e riconoscimenti, ma nessun rimpianto: nel 2014 esce Bill Withers: The Complete Sussex & Columbia Albums Collection, un box di 9 CD con la sua opera omnia che sarebbe stato l’ideale da avere, per farsi una idea sulla sua musica, ma purtroppo è fuori produzione, quindi se li trovate ancora in giro cercate i primi tre album, oppure in mancanza di altro, qualche bella raccolta. “Unsung Hero” in lingua inglese rende meglio il concetto del nostro “eroe sconosciuto”!

Grazie di tutto e Riposa In Pace!

Bruno Conti

Un’Altra Bella Voce Dalla California Via Texas Su Ruf Records. Whitney Shay – Stand Up!

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Whitney Shay – Stand Up! – Ruf Records

Diciamo che la maggior parte degli artisti messi sotto contratto negli ultimi anni dalla Ruf rientrano nella categoria chitarristi/cantanti, con qualche eccezione tipo Victor Wainwright, eccellente pianista, oppure anche alcuni gruppi, ma ci sono state (e ci sono) alcune bravissime cantanti, penso a Dana Fuchs o Ina Forsman. Forse propsio alla giovane cantante finlandese si può avvicinare Whitney Shay, cantante californiana di San Diego, con un paio di album indipendenti nella propria discografia, che come la Forsman è andata a registrare questo Stand Up! al Wire Recording Studio di Austin, Texas, dove la aspettavano il produttore Mark “Kaz” Kazanoff, leader dei Texas Horns, oltre alla bravissima chitarrista Laura Chavez, al grande Red Young alle tastiere e alla sezione ritmica formata da Chris Maresh al basso e da Brannen Temple e Tommy Taylor, che si alternano alla batteria, poi ci sono anche tre ospiti che vediamo nei brani che li riguardano.

Quindi più o meno i musicisti che suonano nel disco di Ina: la Shay non è una giovanissima (o così credevo, visto che era già in azione nel 2012, ma in effetti è del 1997), si è già creata una certa reputazione negli USA suonando circa 200 date all’anno, che le hanno consentito di vincere per quattro volte i San Diego Music Awards https://www.youtube.com/watch?v=OetG8B_cPvo  e nel 2019 di essere candidata ai Blues Music Awards nella categoria Soul Blues Female Artist of the Year per l’album A Woman Rules The World. Il nuovo disco presenta dieci brani firmati dalla Shay con il suo partner abituale Adam J. Eros, e un paio di cover: la nostra amica ha una voce rauca e potente, con qualche punto di contatto a livello timbrico con Susan Tedeschi o Bonnie Raitt, ma anche con le grandi voci nere del soul e del R&B, e in questo senso l’iniziale vibrante e fiatistica title track è sintomatica di quanto ci aspetta nell’album, con i Texas Horns in azione, la Chavez che rilascia un elegante assolo e l’insieme che rimanda, con i dovuti distinguo, allo stile di Janis Joplin, o della sua discepola Dana Fuchs; Someone You Never Got To Know con l’organo scivolante di Young in evidenza, insieme alla chitarra pungente di Laura Chavez, potrebbe ricordare qualche traccia perduta, di quelle più mosse, di Bonnie Raitt, grinta e stamina alla Shay certo non mancano (*NDB non per nulla fa parte del Blues Caravan 2020 con Jeremiah Johnson e Ryan Perry, di cui leggete in altra parte del Blog) . https://www.youtube.com/watch?v=mhA9-2spvP8  

Equal Ground presenta l’accoppiata Chavez e Derek O’Brien alla slide, per un minaccioso brano chitarristico che ci porta sulle sponde del Mississippi, zona Louisiana, mentre P.S. It’s Not About You è un vivace funky rock con Alice Sadler che raggiunge Whitney per dare un tocco errebì al tutto. Non mancano le ballate, come la bellissima e malinconica I Thought We Were Through, puro deep soul di marca sudista, con un bel assolo di sax di Kazanoff, seguita dalla ritmata Far Apart (Still Close) un sanguigno duetto con l’ottimo Guy Forsyth, sempre sottolineato dal lavoro di fino di Chavez e Young, e ancheYou Won’t Put Out This Flame rimane sulle coordinate sonore di questo soul blues molto mosso e ritmato, con fiati e sezione ritmica sempre fortemente impegnati a sostenere le divagazioni vocali della Shay. Tell The Truth non è il brano di Clapton, ma una canzone scritta da Lowman Pauling per i suoi Five Royales, un pezzo di ruvido R&B di grande impatto vocale, mentre Boy Sit Down, con Marcia Ball al piano, ondeggia tra R&R, swing e errebì, in modo divertente e piacevolissimo, con Forsyth che aggiunge la sua chitarra resonator alle procedure; I Never Meant To Love Him è una sontuosa ballata soul che faceva parte del tardo repertorio di Etta James, cantata splendidamente dalla Shay, che si conferma interprete di grande intensità dalla notevole estensione vocale.

La chiusura è affidata ad altri due brani firmati dall’accoppiata Shay/Eros, il blues-rock con retrogusti soul, di nuovo alla Bonnie Raitt, della eccellente Getting InMy Way, con Red Young a piano elettrico e organo e la Chavez alla chitarra sempre in grande spolvero, e Change With The Times,un ottimo esempio di incrocio tra R&B e soul di marca Stax, con Kazanoff e gli altri fiati all’unisono a spingere sul ritmo. Un bel disco e una eccellente vocalist, da consigliare a chi ama il genere.

Bruno Conti

Un’Ottima String Band Direttamente Dai Monti Appalachi. Fireside Collective – Elements

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Fireside Collective – Elements – Mountain Home CD

Uno dei filoni più attivi della musica americana è quello delle cosiddette “string bands”, cioè quei gruppi che suonano prevalentemente strumenti a corda e si ispirano alle tradizioni folk, country e bluegrass per creare qualcosa di nuovo. I capostipiti del genere sono senz’altro gli Old Crow Medicine Show, i migliori del lotto, gli Avett Brothers, che però negli ultimi anni hanno differenziato il suono aggiungendo abbondanti dosi di rock e pop, ed i Trampled By Turtles, che sono anche quelli che hanno cambiato meno negli anni (mentre i Mumford & Sons li abbiamo purtroppo persi da diverso tempo). Tra le band più promettenti di questo genere musicale vorrei segnalare i Fireside Collective, un quintetto che proviene direttamente dai monti Appalachi, precisamente dal North Carolina, e che con Elements pubblica il suo terzo lavoro dopo gli autodistribuiti Shadows And Dreams del 2014 e Life Between The Lines del 2017. I cinque ragazzi suonano una miscela molto creativa e coinvolgente appunto di country, bluegrass, folk e mountain music, e la loro caratteristica principale è quella di abbinare ad una strumentazione chiaramente tradizionale una serie di canzoni originali di stampo più moderno, così da creare un mix decisamente stimolante.

Il gruppo, che ha al suo interno ben tre lead vocalists, è formato dal leader Jesse Iaquinto al mandolino, Joe Cicero alla chitarra, Alex Genova al banjo, Tommy Maher al dobro e Carson White al basso: come avrete notato manca la batteria, ma vi posso assicurare che ascoltando il disco non ve ne accorgerete. Elements è prodotto da Travis Book (leader degli Infamous Stringdusters, altra string band) in maniera molto pulita, con le voci e gli strumenti che risaltano allo stesso modo, ed è un album che nel corso dei suoi tredici brani ci presenta una band che sa abbinare mirabilmente tecnica e feeling, ed in più è in grado di scrivere canzoni decisamente piacevoli. Dopo una breve introduzione in cui i nostri accordano gli strumenti si parte a tutta birra con Winding Road, una deliziosa country song dalla melodia accattivante ed immediata che ricorda la Nitty Gritty Dirt Band d’annata, con un ritornello corale e la band che inizia a darci dentro di brutto con gli assoli. Back To Caroline è un vivace bluegrass guidato dal banjo e suonato con notevole velocità e senso del ritmo, un pezzo che coniuga alla perfezione tradizione e modernità e che è seguito dalla limpida Circles, una country ballad che evidenzia la caratteristica principale dei Fireside, cioè pubblicare brani che mescolano una scrittura attuale ad un accompagnamento al 100% acustico, con le voci come ulteriore punto di forza.

Done Deal è ancora un bluegrass dalla linea melodica squisita che ricorda molto da vicino gli Old Crow (forse pure troppo dato che il motivo somiglia parecchio a quello di Wagon Wheel) ed uno splendido dobro, Bring It On Home è cadenzata e rimanda maggiormente al country delle origini, da Hank Williams in giù, Waiting For Tennessee è uno strepitoso brano tra folk e bluegrass con una melodia molto “appalachiana” ed una prestazione strumentale collettiva da applausi: con i suoi sei minuti è il brano più lungo del CD, ma scorre in un baleno. Where The Broad River Runs è puro folk d’altri tempi, intenso e drammatico (forse la più tradizionale finora dal punto di vista musicale), a differenza di Night Sky From Here che è un country-grass strumentale trascinante e dal ritmo acceso, con cambi di tempo e melodia assolutamente creativi (ottimo il banjo), mentre l’orecchiabile Don’t Stop Lovin’ Me è puro country-rock suonato acustico con il dobro in evidenza. High Time non è quella dei Grateful Dead, ma è ugualmente una bella canzone, tersa, fluida e con l’aggiunta di una steel suonata da Maher, She Was An Angel è l’ennesimo solare brano tra country e bluegrass ancora con gli Old Crow in mente; il CD si chiude con la forsennata Fast Train, nella quale i nostri suonano a velocità altissima, e con la ripresa strumentale di Winding Road.

E’ giunta l’ora di scoprire i Fireside Collective, soprattutto se un certo tipo di musica country “tradizionale” è pane per i vostri denti.

Marco Verdi

Meno “Cattivo” Del Solito, Ma Sempre Validissimo! Marcus King – El Dorado

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Marcus King – El Dorado – Fantasy/Universal CD

(*NDM: in questa lunga fase di quarantena forzata si è pensato in accordo con Bruno di recuperare anche qualche titolo recente ma la cui pubblicazione risale comunque a qualche mese fa, rimasto magari in arretrato come a volte succede. Oggi è la volta del giovane musicista del South Carolina, e fra pochi giorni toccherà al tributo femminile a Tom Waits).

Dan Auerbach è ormai diventato, insieme a Dave Cobb, uno dei migliori e più richiesti produttori sulla piazza, sia che incida in prima persona con la band che gli ha dato la notorieità, i Black Keys, che come solista (Waiting On A Song è stato per il sottoscritto uno dei più begli album del 2017), sia che si occupi di patrocinare i lavori di giovani artisti (Yola, Dee White, Early James) ed altri non proprio di primo pelo (Robert Finlay, Leo Bud Welch, Jimmy “Duck” Holmes). Una delle ultime produzioni di Auerbach riguarda un musicista che, seppur ventiquattrenne da pochi giorni, è già un artista affermato: sto parlando di Marcus King, enfant prodige della chitarra (e non solo), che a capo della Marcus King Band si è ritagliato un posto al sole nell’ambito della musica rock-blues di matrice southern con tre album di ottimo livello ed in particolare con gli ultimi due, The Marcus King Band e Carolina Confessions.

El Dorado segna il debutto di Marcus come solista, e mi preme avvertire da subito gli estimatori del nostro e del rock-blues in generale che potrebbero rimanere spiazzati dall’ascolto del disco, in quanto il genere che ha reso King popolare è sì presente ma in misura decisamente minore (ed anche la sua chitarra ruggisce di meno), in quanto Auerbach ha provato a fare del lungocrinito musicista un artista a 360 gradi, più autore e cantante che chitarrista, e secondo me con risultati egregi. Sì perché El Dorado a mio parere è un lavoro decisamente bello, con Marcus che si cimenta con successo in una serie di stili che rendono l’album piacevolmente eclettico: al rock-blues, che comunque è presente, si sono infatti aggiunte corpose dosi di soul, rhythm’n’blues, gospel, oltre a qualche momento di rock più “convenzionale” e perfino un pizzico di country. Gran merito va sicuramente ad Auerbach, che ha scritto tutti i brani in coppia con Marcus e gli ha dato il suo classico suono che rimanda agli anni settanta, ma King ha contribuito in maniera decisiva con una vena molto ispirata e soprattutto con la sua strepitosa voce “nera”, adatta a qualsiasi tipo di musica ma particolarmente idonea a sostenere brani a carattere più soul. Un mix di stili dunque molto accattivante, che non va ad intaccare l’unitarietà di un disco che secondo me fa salire King di un paio di gradini, in quanto ce lo presenta come musicista a tutto tondo e non solo come promettente chitarrista (e comunque la sua sei corde qua e là si sente eccome).

L’album è stato registrato a Nashville negli Easy Eye Sound Studios di proprietà di Auerbach, il quale gli ha messo a disposizione la consueta gang di sessionmen fuoriclasse e dal pedigree eccezionale: Gene Chrisman, Russ Pahl, Dave Roe, Bobby Wood, Mike Rojas e Paul Franklin (per citare i nomi più noti), gente che ha suonato, tanto per fare qualche nome “da poco”, con Elvis Presley, Aretha Franklin, Duane Eddy, Johnny Cash, Solomon Burke e Roy Orbison. Young Man’s Dream è il classico inizio che non ti aspetti, una delicata ballata acustica sfiorata dal country, con un motivo molto rilassato ed una strumentazione parca e suonata in punta di dita, fino al secondo minuto quando entra per un attimo il resto della band e possiamo ascoltare il tipico “big sound” delle produzioni di Auerbach. Con The Well andiamo in territori abituali per Marcus, un rock-blues elettrico dal riff aggressivo e grintoso, un pezzo che potrebbe benissimo appartenere anche al repertorio dei Black Keys (che hanno sempre avuto parecchio blues nel dna), con un paio di assoli brevi ma efficaci che ci mostrano che il nostro non ha perso il tocco; Wildflowers & Wine porta il disco ancora più a sud, per una deliziosa ballata southern soul dal suono caldo e cantata alla grandissima da King, con l’aggiunta di un bel coro femminile dal sapore gospel: sembra quasi una outtake di Anderson East.

One Day She’s Here è uno scintillante errebi dai toni pop, un brano decisamente “morbido” se si pensa ai trascorsi di Marcus, ma eseguito a regola d’arte e con un’aria da Blaxploitation anni settanta (e la voce è perfetta), un pezzo che differisce dalla seguente e squisita Sweet Mariona, che è un po’ come se Sam Cooke non fosse stato ammazzato in quella tragica notte del 1964 e ad un certo punto avesse inciso un disco country (splendida la steel di Franklin): una delizia. Un piano elettrico introduce la lenta Beautiful Stranger, altra bellissima canzone tra soul, country e gospel, distante dalla Marcus King Band ma di livello sublime e con un feeling formato famiglia; con Break siamo sempre in territori “black” anche se qui lo stile è più pop ma senza cadute di gusto, anzi il tutto è trattato con i guanti bianchi e classe sopraffina, mentre Say You Will porta un po’ di pepe nel disco, in quanto siamo di fronte ad una rock song potente, chitarristica e tagliente, genere Rory Gallagher meno blues, con assolo finale torcibudella da parte del leader.

Anche Turn It Up ha un gran bel tiro, un rock’n’roll ancora dall’anima nera, un ritmo trascinante e lo spirito sudista del nostro che esce ad ogni nota, e restiamo al sud anche per la coinvolgente Too Much Whiskey, una splendida country song in puro stile outlaw, che sembra quasi un omaggio a Willie Nelson ed alla sua Whiskey River (la melodia è molto simile, e poi le parole “whiskey river” sono citate espressamente nel testo e c’è pure un’armonica alla Mickey Raphael). Finale con la limpida Love Song, altra soul ballad raffinata, elegante e suonata in souplesse (e che voce), e con No Pain, uno slow lucido ed intenso con organo, steel, chitarra elettrica ed archi che creano un suono unico, quasi un riepilogo dei vari stili incontrati nel corso del CD. Ottimo lavoro quindi questo El Dorado, un album che cresce ascolto dopo ascolto e che testimonia la crescita costante di Marcus King come musicista completo e versatile.

Marco Verdi

Sam Cooke E Curtis Mayfield Avrebbero Approvato. Robert Cray Band – That’s What I Heard

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Robert Cray Band – That’s What I Heard – Nozzle Records/Jay-Vee Productions

Sono passati circa tre anni dal precedente album Robert Cray & Hi Rhythm, che aveva portato il musicista della Georgia in trasferta ai leggendari Royal Studios di Memphis, per un tuffo in una delle mecche della soul music https://discoclub.myblog.it/2017/05/06/si-rinnova-la-tradizione-del-blues-e-del-soul-robert-cray-robert-cray-hi-rhythm/ , questo nuovo That’s What I Heard, sempre in compagnia del fido Steve Jordan, che ormai affianca Robert Cray come produttore da parecchi anni (dal 2014 e per gli ultimi tre album, più il disco del 1999 Take Your Shoes Off), conferma questa “svolta” decisamente orientata verso il soul, che senza dimenticare il blues, sembra diventato sempre più lo stile principale verso cui hanno indirizzato la loro musica Cray e Jordan: non per nulla proprio il produttore ha parlato di un disco alla Sam Cooke, dove, come ricorda il titolo, il nostro amico va a rivisitare anche una serie di canzoni che sono state seminali negli anni della sua giovinezza.

Alcuni brani noti, ma non celeberrimi, altri meno, oltre a sette canzoni nuove scritte per l’occasione, cinque da Cray: non ci sono più i musicisti della Hi Rhythm Section, che avevano accompagnato Cray nel 2017, ma Robert ritorna ad utilizzare la sua Band, in particolare lo storico bassista Richard Cousins, con lui dal 1980, ovviamente Jordan alla batteria, che si alterna con Terence F. Clark, l’ottimo Dover Weinberg alle tastiere, Chuck Findley a tromba e trombone e Trevor Lawrence al sax, oltre alle (ai?) Craylettes alle armonie vocali e Ray Parker, chitarrista aggiunto. Il risultato finale è delizioso, una vera panacea per i padiglioni auricolari danneggiati da copiose dosi di “musica di plastica” che aleggiano nell’etere, oltre al coronavirus: qui parliamo solo di musica autentica, che sia quella dei brani originali di Robert, come pure delle cover scelte con cura. Anything You Want, il primo singolo, è uno dei classici blues alla Cray, mosso e pungente, con eccellente lavoro della solista, contrappuntata dall’organo di Weinberg https://www.youtube.com/watch?v=OcmtxxNOg4w , a seguire la prima cover, Burying Ground, un brano di Don Robey scritto per i Sensational Nightingales, interpretato con il giusto fervore gospel dal nostro, in ricordo di quelle mattinate passate ascoltando e cantando in famiglia quel tipo di musica: le Craylettes (uso l’articolo femminile, ma le voci maschili sono predominanti nel tipico call and response) si “agitano” sullo sfondo in modo adeguato, comunque grande interpretazione.

Deadric Malone, che è poi sempre Don Robey, lo pseudonimo di quando scriveva per il blues e il R&B, e You’re The One è proprio uno straordinario errebì con fiati cantato in modo divino alla Sam Cooke da un ispiratissimo Robert Cray; un rotondo giro di basso di Cousins introduce This Man, un’altra delle composizioni originali di Cray, con l’organo che tira la volata alla chitarra per un pezzo veramente super funky nel suo andamento. A proposito di funky, più dalle parti del soul, ottima anche la cover della melliflua You’ll Want Me Back, una canzone di Curtis Mayfield, dove Robert si lancia anche in alcuni falsetti, ben spalleggiato dai backing vocalists e dai fiati di Findley e Lawrence https://www.youtube.com/watch?v=dZrWVlCnmLM , mentre Hot un altro originale di Cray, rimane sempre nell’ambito dei brani dal groove mosso e scandito, con il pianino di Weinberg che sottolinea il ritmo, mentre la chitarra rilascia un altro assolo pungente e incisivo sottolineato dai fiati sincopati e dall’organo. Promises You Can’t Keep è il risultato della collaborazione di uno strano trio, Steve Jordan, Kim Wilson e Danny Kortchmar, una malinconica ballata agrodolce su un amore che finisce, con Steve Perry che aggiunge le sue armonie vocali all’accorato canto di Robert, che conferma il suo stato di grazia in questo brano, e distilla anche magiche noti dalla sua chitarra, mentre i fiati colorano l’assieme https://www.youtube.com/watch?v=7rwB8tHpxgE .

To Be With You è un accorato omaggio allo scomparso Tony Joe White, di cui Cray aveva interpretato un brano in ciascuno degli ultimi due album, altra ballata sopraffina in puro stile deep soul, con organo scivolante e assolo misurato di chitarra. My Baby Likes To Boogaloo, come anticipa il titolo, è una danzereccia ripresa di un oscuro brano di tale Don Gardner, ovvero come si ballava negli anni ‘60, seguita dall’ultimo contributo di Cray You Can’t Make Me Change, un blues after hours soffuso e notturno, molto raffinato, con assolo in punta di dita. Altro brano nuovo che non è una cover è la canzone firmata dall’amico Cousins insieme a Hendrix Ackle, una accoppiata già presente nei precedenti CD, A Little Less Lonely, sofisticata ma non memorabile, anche se ci permette di gustare un altro impeccabile assolo di chitarra, mentre anche Do It fa parte della categoria delle cover “oscure”, un pezzo del repertorio primi anni ‘70 di Billy Sha-Rae, cantante minore della scena funky di Detroit, nell’originale suonava la chitarra un giovanissimo Ray Parker, che per l’occasione rivisita la sua parte spingendo Robert verso l’assolo più lancinante del CD in un tripudio di funky.

Forse non un capolavoro assoluto, ma un solido album di soul “moderno”, inteso nel significato più nobile del termine, Sam Cooke probabilmente avrebbe approvato alcune prestazioni vocali splendide ed ispirate di Cray.

Bruno Conti

Prosegue Il Menu Degustazione A Base Di Ostriche! Blue Oyster Cult – Heaven Forbid/Agents Of Fortune: Live 2016

blue oyster club heaven forbid

blue oyster cult agents of fortune live 2016

Blue Oyster Cult – Heaven Forbid – Frontiers CD

Blue Oyster Cult – Agents Of Fortune: Live 2016 – Frontiers CD/DVD – BluRay

Continua da parte dell’etichetta nostrana Frontiers l’opera di avvicinamento al nuovo album in studio dei Blue Oyster Cult, in una sorta di menu degustazione che lo scorso gennaio aveva visto la ristampa del loro disco del 1994 Cult Classic, nel quale la band reincideva brani noti e meno noti del suo passato, e soprattutto il live inedito Hard Rock Live Cleveland 2014 https://discoclub.myblog.it/2020/02/08/un-doppio-antipasto-in-attesa-della-portata-principale-blue-oyster-cult-cult-classichard-rock-live-cleveland-2014/ . Oggi mi occupo di altri due titoli immessi da poco sul mercato, e cioè la riedizione (senza bonus tracks) del loro “comeback album” del 1998 Heaven Forbid e del disco dal vivo inedito Agents Of Fortune: Live 2016, nel quale i nostri riprendono canzone per canzone il loro lavoro più famoso nel quarantennale della sua uscita (ma pare che ci siano in cantiere altre pubblicazioni a nome BOC, come le ristampe del loro ultimo studio album Curse Of The Hidden Mirror del 2001 e del live A Long Day’s Night uscito l’anno dopo, e ben altri tre dischi dal vivo inediti…speriamo solo di non arrivare saturi all’appuntamento principale). Ecco quindi una breve disamina dei due lavori.

Heaven Forbid. Nel 1998 i BOC pubblicano in maniera abbastanza inattesa un nuovo album a ben dieci anni dal bellissimo Imaginos: Heaven Forbid è un tipico lavoro nello stile dei nostri (gli “originali” Eric Bloom, Donald “Buck Dharma” Roeser e Allen Lanier, più la sezione ritmica di Danny Miranda e Chuck Burgi), un disco di rock classico con momenti più hard ed altri quasi AOR, caratterizzato dal consueto chitarrismo sopraffino e versatile di Roeser, eccellente sia nei pezzi più duri che in quelli più lirici e melodici, e con i testi ad opera del noto scrittore sci-fi John Shirley. L’inizio (insieme alla copertina in stile horror) può trarre in inganno, in quanto See You In Black è un pezzo violentissimo, una cavalcata chitarristica dai toni quasi punk, ma il resto del disco richiama il suono classico dei nostri. Alcuni pezzi hanno maggior appeal radiofonico, come l’immediata Harvest Moon, dal bel refrain corale ed ottima accelerazione centrale, la potente e cadenzata Cold Gray Light Of Dawn, la semiacustica Real World o l’orecchiabile Live For Me, mentre in altri momenti viene pigiato il piede sul pedale del rock’n’roll, come nella trascinante Power Underneath Dispair, la spumeggiante X-Ray Eyes o la tonica Damaged, secca come una frustata.

Non mancano i brani minori come Hammer Back e Still Burnin’, che hanno ottime parti di chitarra ma uno script piuttosto debole, mentre come finale abbiamo una deliziosa ripresa live unplugged di In Thee (in origine su Mirrors del 1979), che assume quasi tonalità caraibiche. Quindi un lavoro solido e compatto anche dopo 22 anni, nonostante l’assenza di brani da tramandare ai posteri.

Agents Of Fortune: Live 2016. Registrato nel mese di aprile nei Red Studios di Hollywood di fronte ad un pubblico selezionatissimo (a volte non si sente neppure, come se alcuni brani provenissero dal soundcheck), questo mini-concerto riprende come ho detto poc’anzi il loro quarto album Agents Of Fortune nella sua interezza, con i BOC nella stessa formazione del live a Cleveland del 2014 (quindi Bloom e Roeser, Richie Castellano alla chitarra e tastiere, Kasim Sulton al basso e Jules Radino alla batteria, mentre a sorpresa in alcuni pezzi compare sul palco l’ex membro originale Albert Bouchard): i nostri non improvvisano più di tanto dato che il concerto dura 37 minuti esattamente come l’album del 1976, ma il suono è più diretto e meno “levigato” dell’originale, che in alcuni momenti tendeva verso il pop. L’album, che riprende in copertina lo stesso cartomante di 40 anni prima (44 ormai), esce in versione CD/DVD ma anche nel solo formato video in BluRay, e stranamente nella parte visiva manca la prima canzone, come se si fossero dimenticati di accendere le telecamere…

La serata inizia con una splendida ripresa di This Ain’t The Summer Of Love, uno dei più trascinanti rock’n’roll del gruppo, seguita dallo squisito ed orecchiabile pop-rock True Confessions e dal superclassico (Don’t Fear) The Reaper, una di quelle canzoni che anche al millesimo ascolto non perdono nulla della sua bellezza, resa qui in maniera perfetta. Ci sono due tracce scritte da Bouchard insieme ad una giovane Patti Smith (che all’epoca era legata sentimentalmente a Lanier), cioè la cadenzata ed un po’ angosciante The Revenge Of Vera Gemini e la deliziosa ballata Debbie Denise, mentre la roccata e coinvolgente E.T.I. (Extra Terrestrial Intelligence) è l’unico contributo come autore dell’ex mentore della band Sandy Pearlman. Completano il quadro Sinful Love, tra le più dirette e piacevoli, la potente e chitarristica Tattoo Vampire, la vibrante Morning Final, che contrappone un accompagnamento decisamente energico ad una delle melodie più attraenti del lavoro, e la bizzarra e quasi pop Tenderloin.

Ai prossimi appuntamenti con i Blue Oyster Cult, che a quanto pare saranno una costante di questo 2020.

Marco Verdi

Dopo La Prima Sfornata, Altro Pane “Prelibato”. Carla Olson – Have Harmony Will Travel 2

carla olson have harmony will travel 2

Carla Olson – Have Harmony, Will Travel 2 – Sunset Blvd Records

A sette anni di distanza dal precedente Have Harmony, Will Travel (anche se devo ammettere che avevo perso quasi le speranze https://discoclub.myblog.it/2013/04/09/per-l-occasione-meglio-in-compagnia-che-sola-carla-olson-hav/ ), Carla Olson (una delle frequentatrici più assidue di questo blog, anche con la reunion dei Textones, https://discoclub.myblog.it/2018/11/01/sono-passati-piu-di-30-anni-ma-ma-non-hanno-dimenticato-come-si-fa-buona-musica-textones-old-stone-gang/) ha mantenuto la promessa e dato un seguito allo sforzo iniziale, riproponendosi con questo lavoro Have Harmony, Will Travel 2, dove, come nel precedente, si avvale di una schiera di “guest stars”, merito di una solida reputazione che si è costruita nel tempo, per attuare il progetto che abbiamo oggi a disposizione da ascoltare e recensire. E così la Olson riesce a portare nei suoi studi californiani di Woodland Hills il bassista degli Eagles Timothy b.Schmidt, l’icona giovanilistica britannica Peter Noone (Herman’s Hermits), Stephen McCarthy dei Long Ryders, il rocker Terry Reid, l’ex chitarrista dei Bee Gees Vince Melouney, con il contributo di Rusty Young dei Poco, e come vocalist la cantante multilingue Ana Gazzola, l’attrice Mare Winningham, e il cantautore Jim Muske, per una selezione di sette brani originali e quattro recuperati da dischi precedentemente pubblicati (in primis il sodalizio col suo vecchio amico Gene Clark e Percy Sledge, entrambi scomparsi).

Sostenuta dalla sua solida “line-up” attuale, Carla apre con una Timber, I’m Falling In Love del cantautore country americano di origine greca Kostas Lazarides (e portata al successo da Patty Loveless), qui riletta in una versione con un bel gioco di chitarre alla Byrds, e con la voce principale di Stephen McCarthy, seguita da A Child’s Claim To Fame di Richie Furay (membro dei Buffalo Springfield e Poco), dove brillano le corde di Rusty Young e la voce dell’ex Eagles Schmidt, una “pop-song” anni ’60 come Goodbye My Love (Searchers) cantata e suonata alla grande con Peter Noone, e omaggiare il compianto John Stewart con una versione “western” di Shackles & Chains, cantata con vigore dalla Olson sulle chitarre di Vince Melouney.

Il lavoro prende quota con una squisita versione di Uno Mundo di Stephen Stills ripresa dagli anni gloriosi dei Buffalo Springfield, con le voci di Ana Gazzola e Carla che seguono il buon lavoro di chitarra di Todd Wolfe (ultimo partner della Olson in The Hidden Hills Sessions https://discoclub.myblog.it/2019/07/19/un-set-musicale-acustico-suonato-e-cantato-con-grande-passione-carla-olson-todd-wolfe-the-hidden-hills-sessions/ ), recuperare una ballata come Scarlet Ribbons (cantata tra gli altri anche dal grande Harry Belafonte), eseguita con trasporto dal britannico Terry Reid (una voce incompresa del rock, mancato cantante dei Led Zeppelin per scelta personale e autore di un album splendido come River), riscoprire le atmosfere alla Roy Orbison con una Haunting Me cantata in duetto con l’autore Jim Muske, e recuperare dall’ album So Rebellious A Lover, inciso nel 1987 con Gene Clark la sua After The Storm, eseguita con l’eclettica Mare Winningham.

Con la bellissima Honest As Daylight rubata dall’album Reap The Whirlwind si alza (e di molto) la famosa asticella, una ballata “soul” che oltre alla voce di Percy Sledge si avvale della bravura alla “slide” dell’ex chitarrista dei Rolling Stones Mick Taylor, mentre la band di culto californiana I See Hawks In L.A. presta alla Olson una gradevole Bossier City ripresa dall’album Shoulda Been Gold, in un duetto che rimanda al suono che hanno forgiato gruppi come Flying Burrito Brothers, Poco, New Ryders Of The Purple Sage, e chiudere (e non poteva essere altrimenti) con un altro duetto con Gene Clark, una “country-ballad” come Del Gato un brano tratto dall’unico lavoro in studio del mai dimenticato musicista con la Olson, nel superbo e consigliabile So Rebellious A Lover, citato poc’anzi.

La voce di Carla Olson (come nella raccolta precedente) nel complesso non domina molto rispetto ai numerosi ospiti, con canzoni comunque ben eseguite e suonate al meglio da uno stuolo impressionante di musicisti di valore, una “signora” che nella sua vasta carriera solista ha collaborato oltre che con il citato Gene Clark, anche con personaggi come Bob Dylan, Don Henley, Mick Taylor e altri, sempre mantenendo una coerenza di fondo, poco riscontrabile nell’attuale panorama musicale. A volte i dischi di “duetti” funzionano e altre volte meno, ma in questo caso specifico di Have Harmony Will Travel 2, la Olson ha sicuramente prodotto un ottimo lavoro, che è una vera delizia per tutti i “fan” del genere “Americana”, confidiamo però di non aspettare altri sette anni per la terza raccolta.

Tino Montanari