Saluti Da Londra, Abbey Road. Joe Bonamassa – Royal Tea

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Joe Bonamassa – Royal Tea – Mascot/JR Adventures/Provogue

E’ passato pochissimo dall’uscita di A New Day Now, la riproposizione riveduta e corretta del suo album del 200https://discoclub.myblog.it/2020/08/29/una-edizione-riveduta-e-corretta-del-suo-primo-album-joe-bonamassa-a-new-day-now-20th-anniversary-edition/ , ma, come ormai tutti sanno, Joe Bonamassa una ne pensa e cento ne fa: bisogna trovare sempre qualche idea nuova, un “progetto” come dicono quelli che parlano bene. L’ultima pensata è stata quella di realizzare un disco ideato e concepito in Gran Bretagna, a Londra in particolare, l’estate scorsa, dedicato ai British Guitar Heroes (qualcuno dirà, ma non era già uscito British Blues Explosionhttps://discoclub.myblog.it/2018/05/13/uno-strepitoso-omaggio-ai-tre-re-inglesi-della-chitarra-joe-bonamassa-british-blues-explosion-live/ ).

Vero, ma ci sono neppure tanto  sottili differenze: quello era un disco dal vivo dedicato a cover di brani del repertorio di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, questa volta Joe si è recato a Londra per respirarne l’aria e soprattutto collaborare con alcuni “luminari” come Bernie Marsden dei Whitesnake (ma prima anche negli UFO), il paroliere dei Cream Pete Brown, e il pianista Jools Holland (Squeeze, ma anche una leggenda della TV e radio inglese), per scrivere una serie di canzoni ispirate da quel mondo, e Bonamassa cita alcuni dei suoi idoli dell’epoca, i Bluesbreakers di Mayall con Eric Clapton, il primo Jeff Beck Group e i Cream. Ovviamente trovandosi a Londra si è pensato bene con il suo produttore Kevin Shirley di incidere l’album a Abbey Road, nel famoso Studio Uno, da dove partì la Mondovisione di All You Need Is Love dei Beatles, il tutto è stato completato a gennaio 2020, prima della partenza della pandemia, dieci canzoni nuove, registrate soprattutto con il nucleo della sua band, Anton Fig batteria, Michael Rhodes basso e Reese Wynans tastiere, visto che Bonamassa ha detto che per l’occasione si è privilegiato principalmente un sound più duro a tutto volume, con la musica che ha invaso anche gli altri studios di Abbey Road, pure quelli più austeri, dedicati alla musica classica.

Al solito ho recensito il disco molto prima dell’uscita prevista per il 23 ottobre, non avendo ancora tutte le notizie, ma le più importanti sì, e quindi sono andato anche a orecchio, come si dovrebbe. When One Door Opens è il primo pezzo dell’album, ma il secondo video uscito, già in circolazione da alcuni mesi: apertura con orchestra sinfonica, perché non approfittare delle facilities della location, poi una epica blues ballad lenta e scandita, maestosa, con l’orchestra che rimane, una voce femminile di supporto, presumo la solita Mahalia Barnes, con Joe che intona una bella melodia “classicamente” britannica, quasi da tema per un film di 007, in leggero crescendo, la chitarra che prima sottolinea il tema e poi rende omaggio ai musicisti che ascoltava nei vecchi dischi della collezione del padre, con un assolo che parte su un crescendo “boleriano” direttamente ispirato dal vecchio brano di Jeff Beck e poi vola in overdrive verso i lidi del rock più classico con un wah-wah di una potenza inusitata e ulteriore citazione zeppeliniana nel finale.

La title track Royal Tea è un rock-blues, sempre con voci femminili di supporto, l’organo di Wynans in evidenza e una atmosfera sonora tipica dei primi anni ‘70, con l’immancabile esuberante assolo di Bonamassa, mentre Why Does It Take So Long To Say Goodbye, il terzo singolo/video, è un altro bel lento, duro e scandito, con un lavoro raffinato della band, in supporto del cantato di Joe, sempre più sicuro ed appassionato, anche in questo caso con accelerazione finale e vigoroso finale chitarristico con la seconda solista di Marsden di supporto. Lookoout Man introdotta da un giro di basso fuzz, è decisamente più dura e vibrante, hard rock di buona fattura, con le coriste ed una armonica aggiunte per variare il repertorio, in attesa delle folate della solista. High Class Girl ci sarebbe stata benissimo in un disco di Mayall o dei Cream, un hard shuffle tipico del British Blues, con passate dell’organo di Wynans, un tocco di errebì nei coretti femminili e assolo di ordinanza.

A Conversation With Alice era stato il primo singolo ad uscire ad aprile, un travolgente rock and roll con uso di slide dall’eccellente impatto sonoro, seguita dall’orgia wah-wah di una veemente I Din’t Think She Would Do It, ritmo scandito ed impiego di differenti chitarre per dargli un tessuto sonoro avvolgente e accattivante. L’inquietante Beyond The Silence, introdotta dagli arpeggi di chitarre acustiche ed elettriche, poi si sviluppa in una canzone più gentile e ricercata, si può dire folk-prog? Seguita dalla fiatistica e swingante Lonely Boy, atmosfere tra jazz e R&B, divertente e scanzonata, anche grazie al piano di Wynans., e a chiudere la countryeggiante e deliziosa Savannah, con mandolino e slide accarezzata e una chiara variazione sulle tematiche principali del disco, preludio a Bonamassa Goes Country?

Si vedrà: per ora un ennesimo buon album dell’uomo di New York, An American In London!

Bruno Conti

Paganini Non Ripete, Lui Sì E Più Volte, Tra Rock, Sudore e Anima! Jimmy Barnes – Modus Operandi Live At The Hordern 2019/My Criminal Record

jimmy barnes modus operandi

Jimmy Barnes – Modus Operandi (Live At The Hordern Pavilion 2019) /My Criminal Record 2 CD Bloodlines/Liberation Records

A distanza di circa un anno dall’uscita del suo ultimo lavoro di studio il rocker australiano Jimmy Barnes (ri)pubblica, per la terza volta (era già uscito in versione standard e Deluxe), il suo My Criminal Record in una edizione a tiratura limitata in doppio CD con l’aggiunta del live Modus Operandi, uno spettacolare concerto tenuto dall’ex frontman dei Cold Chisel all’Hordern Pavilion di Sidney nell’Ottobre dello scorso anno. Durante il lungo tour che ha attraversato l’Australia e la Nuova Zelanda, il buon Jimmy si è avvalso di una band stellare con il fido Daniel Wayne Spencer alle chitarre, Benjamin Rodgers e Michael Hegerty al basso, i fratelli Clayton e Lachlan Doley alle tastiere, il figlio Jackie Barnes alla batteria e percussioni, arricchita ai cori dai membri della famiglia a partire dalla moglie Jane, i figli Mahalia, E.J. e Elly Barnes, e prodotto come al solito dal noto sudafricano Kevin Shirley (Joe Bonamassa, Beth Hart, e l’ultimo George Benson oltre a vari gruppi rock), per un torrido “set” di ben 17 brani, di cui sette estratti da My Criminal Record, otto dal suo immenso repertorio, e due dal periodo “storico” con i Cold Chisel di cui da poco è uscito il nuovo album https://discoclub.myblog.it/2020/01/24/sono-proprio-loro-sono-tornati-ecco-la-nona-cold-chisel-blood-moon/ .

Jimmy sale sul palco con la sua band di 10 elementi, e attacca subito alzando immediatamente il livello del volume sonoro con la baldanzosa Driving Wheels, riportando tutti al periodo degli esordi solisti con Freight Train Heart (87), per poi presentare due brani dall’ultimo lavoro My Criminal Record, la muscolosa I’m In A Bad Mood e una Stolen Car (The Road’s On On Fire) con la sezione ritmica che gira a mille, brano cantato e urlato da Barnes, diverso dalla versione in studio, e una My Criminal Record anche lei rivoltata come un calzino, con uno strepitoso sound quasi caraibico. Con Ride The Night Away (scritta da Steve Van Zandt) si ritorna ai classici del passato, un brano di rock stradaiolo, che fa da introduzione alla mitica Khe Sanh, canzone del periodo Cold Chisel (a tutt’oggi uno dei pezzi più richiesti alle radio australiane), un brano “pub-rock” cantato e suonato con tanto cuore in un ambiente ideale per Jimmy e la sua band, che contagia poi (e non c’era ancora il virus) il suo pubblico con due brani di energico e sano rock’n’roll (autentiche bombe caloriche) come Lay Down Your Guns (90) e Boys Cry Out For War (84).

Dopo una breve pausa Barnes torna sul palco più baldanzoso che mai proponendo un breve “set” dall’ultimo lavoro che parte con il solido rock di Money And Class, e prosegue con una granitica e meravigliosa versione di Working Class Hero di John Lennon, il pop rock esemplare ma efficace di I Won’t Let You Down, entrando nel cuore della gente con Shutting Down Out Town, un brano dal sound molto “boss style” (o del suo alter-ego Joe Grusheckyhttps://www.youtube.com/watch?v=XGAXnSIOiKo .L’ultima parte del concerto è un tuffo nel passato che inizia con il rock datato ma sempre efficace di I’d Die To Be With You Tonight (85), a cui segue una tambureggiante No Second Prize (84), con la famiglia Barnes ai cori in evidenza, per poi rispolverare il suo inno, la sempre “mitica” Working Class Man (85), con il testo che viene cantato all’unisono dal pubblico in sala e nella quale dove Jimmy come sempre non si risparmia https://www.youtube.com/watch?v=PKqts9V8mr4 , infuocare ancora di più il pubblico con la passionale Love And Hate (99), ma siccome tutte le cose belle devono finire, il nostro amico chiude quasi due ore di concerto di sano rock australiano “vintage” (che però nella versione completa, con 6 brani in più si può ascoltare solo su Spotify) , con un finale appropriato recuperando giustamente dal repertorio dei Cold Chisel, Goodbye (Astrid Goodbye) (79), che in questa occasione viene presentata in una versione lunga e travolgente https://www.youtube.com/watch?v=PKqts9V8mr4 , dove ancora una volta viene evidenziata la bravura della band (coriste comprese).

Nell’arco della sua lunga carriera Jimmy Barnes a partire da Barnestorming (88) fino a questo Modus Operandi ha pubblicato (se non ho sbagliato i conti) ben 14 album dal vivo (fra ufficiali e non) e credetemi, ogni sera che sale sul palco Jimmy non ha bisogno di convertire nessuno, in quanto è la sua gente, il suo pubblico, raccontando con la sua voce poderosa di piccole storie di dolore personale e di amore eterno, non disdegnando anche un certo impegno politico, sempre con un solido “rock’n’roll” passionale e carico di “soul”, che manda in visibilio il vasto pubblico. Jimmy Barnes apre i suoi concerti urlando “you are ready for a rock and soul” (siete pronti per una serata di rock and soul), e li chiude con la stessa energia, e c’è poco da aggiungere, quella sera del 5 Ottobre 2019 all’Hordern Pavilion di Sydney, ha suonato e cantato per il suo pubblico, e come sempre ha trionfato. Se riuscite a trovarlo, imperdibile!

Tino Montanari

Sia Pure “In Ritardo”, Ma Non Poteva Mancare Un Suo Nuovo Album Nel 2019! Joe Bonamassa – Live At The Sydney Opera House

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Joe Bonamassa – Live At The Sydney Opera HouseMascot/Provogue

Immagino che tutti, come me, foste in trepida attesa di notizie di Joe Bonamassa: scherzo, ma non troppo, stiamo arrivando alla fine del 2019 ed il chitarrista newyorchese al momento non aveva ancora annunciato nessuna pubblicazione discografica per l’anno in corso, dopo che nel 2018, il linea con la sua cospicua discografia, erano usciti ben tre album, l’ultimo Redemption, pubblicato a ottobre https://discoclub.myblog.it/2018/09/17/ormai-e-una-garanzia-prolifico-ma-sempre-valido-ha-fatto-tredici-joe-bonamassa-redemption/ . Persino la sua casa discografica, nell’annunciare il nuovo disco di Joe (perché sta per uscire, ebbene sì, il prossimo 25 ottobre), ci ha scherzato sopra: anche se si tratta di una uscita “strana”, un disco dal vivo, e fin lì niente di inusuale, però registrato ben tre anni fa, nel settembre del 2016, quindi nel tour di Blues Of Desperation, pochi mesi prima del concerto londinese per British Blues Explosion Live. E la cosa più strana è che non si tratta del concerto completo alla Sydney Opera House del 30 settembre del 2016, non ne esistono versioni Deluxe (se non consideriamo il vinile che ha un brano in più) e neppure edizioni in DVD, anche se cercando in rete risulta sia stato filmato.

Peccato perché la location è suggestiva, si tratta di una sala da concerto eletta dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità, dove spesso si svolgono concerti epocali per la musica down under: ho investigato ulteriormente e ho visto che oltre a Livin’ Easy, che è la bonus del doppio vinile, Bonamassa nella parte finale del concerto, non documentata nel CD, ha eseguito una serie di cover rare e sfiziose, Little Girl di John Mayall, Angel Of Mercy di Albert King, If I’m in Luck I Might Get Picked Up, una cover di Betty Davis cantata da Mahalia Barnes, Boogie Woogie Woman di B.B. King, How Many More Times dei Led Zappelin e Hummingbrid di Leon Russell. Sarebbe stato un concerto sontuoso, così è “solo” un bel concerto, perché comunque dal vivo il nostro è sempre una vera forza della natura, ed è accompagnato dalla sue eccellente band, con Reese Wynans alle tastiere, Michael Rhodes  la basso, Anton Fig alla batteria, le sezione fiati con Paulie Cerra e Lee Thornburg, e i vocalist di supporto Juanita Tippins, Gary Pinto e la citata Barnes.

Nove brani con una durata media tra i sette e gli otto minuti, oltre a Love Ain’t A Love Song che supera i dieci, quindi ampio spazio per l’improvvisazione e per le scorribande chitarristiche di un Bonamassa in grande serata, che comunque difficilmente, se non mai, dal vivo delude: sono ben sette brani (più la bonus track) gli estratti da Blues Of Desperation, più il lungo brano ricordato, che viene da Different Shade Of Blue, ed una bellissima cover di Florida Mainiline da 461 Ocean Boulevard di Eric Clapton, fiatistica e gagliarda, dal periodo rock’n’soul di Manolenta, con grande assolo di Wynans all’organo e uno fantastico lunghissimo e fluido di un Joe straripante, degno epigono claptoniano. Per il resto l’iniziale This Train cita nel prologo strumentale Locomotive Breath dei Jethro Tull, poi la band inizia a macinare musica alla grande e il nostro rilascia un altro assolo formidabile, Mountain Of Climbing, anche se non ha la doppia batteria della versione in studio, è comunque rocciosa e riffata, molto alla Led Zeppelin, anche Drive ha questo afflato zeppeliniano, inizio lento e guardingo, poi un crescendo tipo Houses Of The Holy, ma con i fiati e le tastiere quasi jazzate e liquide, prima del solito solo tiratissimo.

La citata  Love Ain’t A Love Song è il tour de force del concerto, una esplosione di energia e forza dirompente, con le coriste impegnatissime come pure i fiati sincopati e il piano elettrico, fino ad un assolo che parte lento e poi prende energia nella parte finale, How Deep This River Runs, più lenta e scandita è un’altra piece de resistance con la chitarra che imperversa. Della cover di Clapton abbiamo detto, The Valley Runs Low con Joe al bottleneck è una bella soul ballad malinconica ed avvolgente, con Blues Of Desperation siamo di nuovo dalle parti degli Zeppelin, direi periodo Kashmir, anche se l’uso dei fiati lo diversifica da quel sound, benché l’assolo, ancora con uso slide, è molto Jimmy Page. A chiudere un altro ottimo disco dal vivo No Place For Lonely, una lirica hard blues ballad che rende omaggio allo stile di Gary Moore, con un assolo finale da urlo.

Bruno Conti

Anche Al “Cubo” E’ Sempre Bonamassa Con Soci Vari. Rock Candy Funk Party – The Groove Cubed

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Rock Candy Funk Party – The Groove Cubed – Mascot/Provogue     

Già serpeggiava la preoccupazione tra I fans e gli addetti al settore: ma come, saranno almeno un paio di mesi (o poco più), in pratica dall’ultimo dei Black Country Communion  , che non usciva nulla di nuovo di Joe Bonamassa http://discoclub.myblog.it/2017/09/13/avevano-detto-che-non-sarebbe-mai-successo-e-invece-sono-tornati-e-picchiano-sempre-come-dei-fabbri-black-country-communion-bcciv/ ! E invece niente paura ecco il nuovo CD dei Rock Candy Funk Party, il quarto, compreso il Live del 2014: il titolo The Groove Cubed, ovvero “il groove al cubo” farebbe pensare ad un album ancora più funky del solito, invece mi sembra, pur rimanendo in quell’ambito, che la quota rock sia aumentata http://discoclub.myblog.it/2015/09/05/attesa-del-nuovo-live-ecco-laltro-bonamassa-rock-candy-funk-party-groove-is-king/ . Non che il funk ed jazz-rock strumentale dei dischi precedenti sia assente, ma già la presenza di due brani cantati, uno da Ty Taylor dei Vintage Trouble e l’altro da Mahalia Barnes (sempre più figlia di Jimmy, e spesso “complice” di Bonamssa nei suoi dischi), segnala una maggiore varietà di temi sonori, peraltro non del tutto per il meglio.

Il disco è suonato comunque in modo impeccabile (a tratti addirittura travolgente a livello tecnico) dal quintetto dei RCFP: Ron De Jesus alle chitarre e Renato Neto alle tastiere, si dividono con Joe Bonamassa le parti soliste, senza dimenticare la sezione ritmica con l’ottimo bassista Mike Merritt ed il fantastico batterista Tal Bergman, una vera potenza nonché leader della band. Brani come l’iniziale Gothic Orleans, con le sue atmosfere sospese che poi esplodono in un vortice rock, e la successiva Drunk On Bourbon On Bourbon Street segnalano una maggiore presenza appunto del filone rock, con elementi funky in arrivo questa volta dalla Louisiana, ma la con band che tira anche di brutto, con le chitarre ficcanti e un piano elettrico che si dividono gli spazi solisti. Il funky al cubo riprende il sopravvento in una ritmatissima In The Groove che sembra uscire da qualche vecchio disco dei Return To Forever con Al DiMeola o della band di Herbie Hancock di metà anni ’70, quella con Wah-Wah Watson alla chitarra; pure il brano cantato da Ty Taylor, Don’t Even Try It, più che a James Brown o al soul, mi sembra si rivolga a Prince e Chaka Khan, piuttosto che a Parliament o Funkadelic, per la gioia della casa discografica, quasi un singolo radiofonico, direi fin troppo commerciale.

Two Guys And Stanley Kubrick Walk Into A Jazz Club, oltre a candidarsi tra i migliori titoli di canzone dell’anno, è più scandita e jazzata, con improvvise scariche elettriche a insinuarsi in un tessuto quasi “tradizionale” con Merritt impegnato anche al contrabbasso e Renato Neto al piano, entrambi che lavorano di fino; Isle Of The Wright Brothers è un breve intermezzo superfluo, mentre il groove torna padrone assoluto nella atmosferica Mr. Space, che tiene fede al proprio titolo, in un brano che potrebbe richiamare persino i Weather Report più elettrici. I Got The Feelin’ è il pezzo dove appare Mahalia Barnes, ma anche  in questo caso più che al soul o al R&B misto al rock, marchio di famiglia, ci si rivolge ad un funky alla Chaka Khan, ma non del periodo Rufus. Insomma i due brani cantati mi sembrano i meno validi ed interessanti, bruttarelli direi, a dispetto delle belle voci utilizzate, sulla pista da ballo faranno la loro porca figura, ma ci interessa meno. Afterhours è un altro breve episodio più riflessivo, ma termina troppo presto, mentre nella ricerca di titoli divertenti e curiosi, il secondo che troviamo è This Tune Should Run For President, un mid-tempo quasi melodico, con improvvise accelerazioni e cambi di tempo di stampo zappiano, che culmina in un notevole assolo di Bonamassa, ricco di feeling, tecnica e velocità.

Mr Funkadamus Returns And He Is Mad, sembra un pezzo estratto da Spectrum di Billy Cobham, con la batteria “lavorata” di Bergman in evidenza. Funk-o-potamia (nei titoli la fantasia regna sovrana), potrebbe essere il figlio illegittimo di Kashmir e di qualche brano degli Yes o degli Utopia, quindi più sul lato rock che funky, mentre The Token Ballad, nonostante il titolo che fa presagire qualcosa di tranquillo,  viaggia ancora verso territori prog, con vorticosi interscambi tra tastiere e chitarre, con un assolo di synth molto anni ’70. Ping Pong è il divertissement finale, una specie di swing jazz con assolo di chitarra situato tra Jim Hall e Wes Montgomery e successivo intervento di piano elettrico. Molta carne al fuoco, forse anche troppa, ma chi ama la musica complessa potrebbe trovare pane per i suoi denti.

Bruno Conti

Non Si Smentisce Mai, Per Fortuna, “Finalmente” E’ Uscito Anche Questo ! Joe Bonamassa – Live At Carnegie Hall: An Acoustic Evening.

Joe Bonamassa Live At Carnegie Hall An Acoustic Evening

Joe Bonamassa – Live At Carnegie Hall: An Acoustic Evening – Mascot/Provogue 2 CD/2 DVD /Blu-Ray 

*NDB Finalmente è uscito, proprio lo scorso venerdì 23 giugno, ho aggiornato il Post aggiungendo anche l’ultimo video pubblicato The Valley Runs Low. Magari ve ne eravate dimenticati o vi era sfuggito, ma il disco merita davvero: buona lettura di nuovo.

Il nostro vecchio “Beppe” Bonamassa” (ormai siamo in confidenza, il dizionario inglese traduce così Joe) è abbastanza noto che una ne pensa e cento ne fa. In attesa di tornare in pista con i riformati Black Country Communion, il nostro amico ci regala la registrazione di uno dei due concerti “acustici” che si sono tenuti il 21 e 22 gennaio del 2016 alla Carnegie Hall di New York. Forse qualcuno dirà che la carta del concerto acustico l’aveva già provata, con il peraltro splendido An Acoustic Evening At The Vienna Opera House del 2013, ma non essendo Joe Bonamassa Paganini, per una volta può anche ripetersi, tenendo conto che le platee americane non avevano potuto gustare quella sciccheria. Che sia prolifico è un fatto ormai noto e risaputo, ma, come detto in altre occasioni, il chitarrista di New York riesce comunque a creare sempre interesse intorno a questi eventi, presentandoli sotto spunti e forme sempre diverse: una volta è il concerto alla Royal Albert Hall con Clapton, un’altra la serata al Beacon Theatre di New York, oppure ancora la serata acustica a Vienna, e poi l’anno dopo l’accoppiata ad Amsterdam con Beth Hart, i quattro concerti londinesi consecutivi in locali di diverse dimensioni e con repertorio diversificato, il concerto nello splendido anfiteatro naturale di Red Rocks, per una serata di blues dedicata a Howlin’ Wolf e Muddy Waters, e poi quella al Greek Theatre incentrata sui tre King, Albert, B.B. e Freddie http://discoclub.myblog.it/2016/10/03/finche-fa-dischi-cosi-belli-puo-farne-quanti-ne-vuole-joe-bonamassa-live-at-the-greek-theater/ , e non li abbiamo citati neppure tutti, però c’è sempre un’idea diversa alla base dei progetti (e manca ancora all’appello il tour dedicato al British Blues, Clapton, Beck, Page e soci).

Questa volta la scintilla è l’idea di proporre una sorta di East Meets West in veste acustica, ma essendo Bonamassa al timone il tutto viene realizzato in modo faraonico, con nove musicisti sul palco: la sua band, tre coriste abbigliate all’indiana, ma si riconosce Mahalia Barnes alla guida delle vocalist, la cellista acustica ed elettrica di origine cinese Tina Guo (impegnata anche al erhu) e il percussionista egiziano Hossan Ramzy (che era quello utilizzato da Page & Plant per l’album No Quarter e nel Unledded Tour). Nella band di Bonamassa a fianco dei soliti Reese Wynans (piano), e Anton Fig batteria), troviamo anche Eric Bazilian, l’eccellente multistrumentista degli Hooters, alle prese con mandolino, hurdy-gurdy, sax, chitarra acustica e voce di supporto. E il risultato è notevole: un suono raffinato e corposo al contempo, arrangiamenti ricchissimi e complessi di canzoni del repertorio di Bonamassa, e anche alcuni brani mai eseguiti in precedenza, il tutto eseguito in modo abbastanza diverso rispetto al suono più folk o “classico” del precedente concerto viennese, l’anima è acustica, ma la presenza della batteria garantisce comunque anche una grinta rock, mista a sviluppi quasi etnici (toglierei il quasi), senza dimenticare il blues sempre amato dal nostro. Come potete rilevare all’inizio del Post il concerto esce in vari formati, questa volta divisi, e visto che sto scrivendo la recensione in netto anticipo sull’uscita prevista per il 23 giugno, quanto leggete è basato sulla versione audio in doppio CD, ma il doppio DVD avrà anche una parte di contenuti extra con ulteriori 45 minuti di dietro le quinte. Diciamo che il live viennese era Bonamassa solo circondato da vari strumenti e con musicisti ospiti, mentre questo nuovo lavoro è più il frutto di una band all’opera con un solista straordinario.

Il concerto si apre con This Train, tratta da Blues Of Desperation, che alla data di registrazione del concerto non era ancora uscito, introduzione pianistica di Wynans, poi arriva l’acustica di Joe e a seguire tutta la band, in un vortice blues elettroacustico di sicura efficacia, con l’effetto “ferroviario” che caratterizza il tempo del brano, e la Guo che inizia a tessere le sue melodie al cello, mentre la Barnes e soci scalpitano sullo sfondo, Drive mantiene questo tema del viaggio, una ballata quieta e sognante, con il mandolino di Bazilian, di nuovo il piano e il cello e l’erhu della Guo a cullare la voce di Bonamassa, poi il ritmo cresce, entrano le percussioni e le altre voci, finché non parte uno splendido assolo dell’acustica.

Prosegue la presentazione dei brani dell’album, è la volta di una The Valley Runs Low che viaggia verso lidi quasi celtici, un’altra delicata ballata resa al meglio, anche con retrogusti gospel e country; Dust Bowl viene dal disco omonimo del 2011, con un flauto sullo sfondo )o forse è l’erhu) e un’atmosfera sospesa e misteriosa, su cui si inserisce il lavoro della chitarra. Driving Towards The Daylight è la title track dell’album del 2012, quasi una via di mezzo tra i Led Zeppelin o i Jethro Tull più pastorali, molto bella in ogni caso, sempre corale nello sviluppo sonoro; Black Lung Heartache ancora da Dust Bowl, vede inizialmente Bonamassa impegnato alla slide per un blues quasi in solitaria, che poi nella seconda parte vira verso sonorità decisamente più “esotiche”, con la Guo ancora in bella evidenza. Da Black Rock viene estratta Blue And Evil uno dei pezzi che meglio illustra questo East Meets West del concerto, tra blues, folk e musica etnica, e un finale di nuovo alla Zeppelin.

Livin’ Is Easy sempre dall’ultimo album all’epoca, con Bazilian al sax, si sposta verso un blues vecchio stile, polveroso e ciondolante, con Get Back My Tomorrow, tratta da Different Shades Of Blue, uno dei brani più ritmati e vicini al rock, anche se l’uso del banjo e della  strumentazione acustica ne attutiscono l’impatto, comunque è l’occasione per un bel duetto vocale tra Joe Bonamassa e Mahalia Barnes. Mountain Time apre il CD 2 ed è uno dei brani più vecchi, targato 2002, una canzone affascinante che fa molto Led Zeppelin III, ma si distingue per l’uso del piano di Wynans. Poi a sorpresa arriva una versione del blues di Alfred Reed How Can A Poor Man Stand Such Times and Live, che rivaleggia nella sua diversità con quelle di Ry Cooder Bruce Springsteen, come la giri questa canzone è comunque sempre splendida e la Barnes ci mette di nuovo del suo; molto bella è pure una lunghissima versione di Songs Of Yesterday, uno dei brani migliori dei Black Country Communion, che non soffre nella transizione da pezzo rock durissimo a raffinata ballata elettroacustica con la Guo fine protagonista al cello e con i continui cambi di tempo e le accelerazioni e le pause, nuovamente molto reminiscenti dei migliori Led Zeppelin, tra mandolini, chitarre acustiche e percussioni impazzite, e che finale. Woke Up Dreaming era uno splendido blues elettrico su Blues DeLuxe, qui diventa un travolgente duetto tra l’acustica di Joe e la Guo al suo strumento. Hummingbird, con uno splendido Reese Wynans al piano è un omaggio al bellissimo brano di Leon Russell, in una versione magnifica, con gran finale blues della chitarra di Bonamassa, mentre la sorprendente cover di The Rose, il brano di Bette Midler dalla colonna sonora di quel film, è anche un indiretto omaggio a Janis Joplin, una splendida ballata cantata con impeto e passione da Joe, Mahalia Barnes e Bazilian. Mi cito da solo: “Finché Fa Dischi Così Belli, Può Farne Quanti Ne Vuole”!

Bruno Conti

Finché Fa Dischi Così Belli, Può Farne Quanti Ne Vuole! Joe Bonamassa – Live At The Greek Theater

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Joe Bonamassa – Live At The Greek Theatre – 2 CD – 2 DVD – Blu-Ray – 3 LP – Mascot/Provogue

Credo che per Joe Bonamassa il disco dal vivo sia come una religione (o forse vuole battere i record assoluti di uscite, ma gente come Grateful Dead, Phish o gli stessi Gov’t Mule saranno difficilmente superabili, anche se a questi ritmi potrebbe farcela): in fondo è ancora giovane, 39 anni quest’anno, e fino ad oggi a nome suo ne già ha pubblicati 13, compreso quello con Beth Hart (14 con questo) più la collaborazione con i Rock Candy Funk Party. Comunque al di là dei fattori numerici quello che conta è la qualità degli album, e quella ultimamente non manca mai, e dietro questi album dal vivo c’è spesso una idea intrigante: il disco acustico alla Vienna Opera House, la collaborazione con una grande vocalist come la Hart, il disco nell’anfiteatro di Red Rocks, che è anche un omaggio alla musica di Howlin’ Wolf e Muddy Waters, nel caso di Live At The Greek Theatre, l’oggetto del concerto è la musica dei tre grandi King del blues, B.B., Freddie e Albert, in una selezione dei loro brani migliori, più qualche chicca, estratti dal tour di 14 date negli anfiteatri americani dell’estate del 2015. E per sapere cosa ci/vi aspetta per il futuro, nel 2016 Bonamassa ha girato i palcoscenici europei (compresa una data italiana) con uno spettacolo incentrato sui grandi della British Blues Invasion, ovvero Beck, Clapton e Page, non aggiungo altro.

Ma concentriamoci su questo doppio CD ( e nel DVD doppio ci sono vari extra musicali, oltre ad una intervista con i genitori di Joe): Bonamassa è accompagnato dalla sua fantastica band, Anton Fig, batteria, Michael Rhodes, basso, Reese Wynans, tastiere, oltre a Lee Thornburg, Paulie Cerra e Ron Dziubla, alla sezioni fiati, Kirk Fletcher, chitarra aggiunta e le coriste Jade Mcrae e Juanita Tippins, guidate dalla bravissima Mahalia Barnes (la figlia di Jimmy, che duetta anche con Joe in una spumeggiante versione di Let The Good Times Roll, uno dei super classici di B.B. King). Brano che troviamo solo verso metà concerto, l’apertura è affidata a See See Baby, dal repertorio del forse meno noto, ma sempre grandissimo, dei tre re, Freddie King, versione compatta e swingante, con i fiati a manetta, Dziubla e Cerra anche al proscenio e il piano di Wynans subito sul pezzo, poi entra la solista di Joe, limpida ed inventiva, come richiede il repertorio. Anche Some Other Day Some Other Time era di Freddie, Federal 1964, forse meno conosciuta della precedente, la cantava pure Tony Bennett, ma qui Bonamassa comincia a scaldare le mani con un paio di soli dei suoi e il ritmo ha tocchi latineggianti. Ormai si sarà capito che la prima parte del concerto è dedicata a Freddie King, Lonesome Whistle Blues è un lento di quelli atmosferici e sofferti, tutto chitarra lancinante e torrida e piano, ma Joe canta anche bene e con voce sicura in tutto il concerto, ben spalleggiato a richiesta da Mahalia, per esempio in Sittin’ On The Dock Boat di nuovo danzabile e R&B, con formidabili inserti di chitarra, che poi assurge a protagonista assoluta in You’ve Got To Love Her With A feeling, uno slow dove la solista vi fa il pelo e il contropelo, e Going Down l’avrà anche scritta Don Nix ma la versione di riferimento era quella di Freddie, blues e rock a braccetto.

Cambia il soggetto, si passa ad Albert King, ma partendo da I’ll Play The Blues For You si rimane in quel blues misto soul di cui l’omone di Indianola era maestro assoluto nelle sue incisioni Stax, con tanto di Flyng V sfoderata da Joe https://www.youtube.com/watch?v=qoX0Olfqziw , e anche I Get Evil era uno dei classici assoluti del blues, qui rifatto con grinta da leone e assolo di organo di Wynans da sballo. Breaking Up Somebody’s Home è in una versione lunga e torrida, con la band che crea un train sonoro dove Bonamassa può scaricare la solista alla grande e in Angel Of Mercy la febbre sale ancora, il concerto comincia a scaldarsi, il blues si tinge di rock e si comincia a godere https://www.youtube.com/watch?v=kUJsi4vuGjY , mentre il funky-jazz-soul di Cadillac Assembly Line, ancora Albert, conclude la prima parte https://www.youtube.com/watch?v=bSLXTxKHDS4 .

Per il secondo CD è B.B. King time, ma all’inizio del dischetti c’è ancora una Oh Pretty Woman di Albert King da manuale del blues, di Let The Good Times Roll abbiamo detto, ma non vogliamo parlare di una Never Make Your Move Too Soon bella cattiva https://www.youtube.com/watch?v=HW9qLOfHabI ? Poi tocca allo spiritual meets blues di Ole Time Religion, che uno di solito non assocerebbe a lui, ma era su un disco del 1959 B.B. King Sings Spirituals e qui le tre coriste prima di lasciare il proscenio alla solista di Joe ci danno dentro di gusto.. Poi a seguire una versione in crescendo torrenziale di Nobody Loves Me But My Mother, quattro minuti di assolo da spellarsi le mani per gli applausi prima della parte cantata, una divertente Boogie Woogie Woman per stemperare la tensione, prima di una colossale Hummingbird, dieci minuti di pura magia sonora, dove Bonamassa dà fondo a tutte le sue riserve di feeling, splendida versione. E i tre bis diciamo pure che non sono malaccio neanche quelli: Hide Away, velocissima e fulminante, Born Under A Bad Sign, in una versione da “Creaminologo”, ma con fiati, coriste e tastiere aggiunte ad allargarne lo spettro sonoro, e per finire in gloria The Thrill Is Gone, che fin che verrà fatta così bene il brivido non se ne andrà mai. Riding With The Kings, posta in coda come bonus è un adattamento del pezzo di John Hiatt, una versione sapida cantata a due voci con Mahalia Barnes. Fino a che fa dei dischi così  belli come si fa a rimproverarlo, forse per la copertina un po’ pacchiana!

Bruno Conti

Parenti Eccellenti! Mahalia Barnes & The Soulmates – Ooh Yea The Betty Davis Songbook

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Mahalia Barnes & The Soulmates – Ooh Yea The Betty Davis Songbook – Provogue/Edel

Mahalia Barnes ha sia un nome che un cognome che mi dicono qualcosa: il cognome è lo stesso del suo babbo (il poderoso cantante australiano Jimmy Barnes, e lo zio è Johnny Diesel, sposato con la sorella della moglie di Jimmy e leader degli ottimi Diesel), il nome di battesimo il padre glielo ha dato in onore della grande cantante gospel, Mahalia Jackson. Era quasi inevitabile che con simili precedenti familiari anche la giovane Barnes (ma ormai ha i suoi bravi 32 anni) si sarebbe data alla musica ed in effetti con le sorelle ha iniziato a cantare quando era meno che una adolescente. Ha già prodotto un paio di EP e un album a nome proprio, oltre ad un disco in coppia con Prinnie Stevens, sua compagna di viaggio al The Voice Australia, dove nessuna delle due ha vinto, ma almeno partecipano come “Sister Of Soul”, piuttosto che “sorelle” vere! Recentemente ha partecipato al disco di duetti di babbo Jimmy Barnes, 30:30 Hindsight http://discoclub.myblog.it/2014/11/04/30-anni-jimmy-barnes-hindsight/ , firmando una delle migliori prove con Stand Up. In quell’occasione, già che si trovavano down under e avevano tre giorni liberi, il produttore Kevin Shirley e Joe Bonamassa, sono entrati in studio con Mahalia Barnes ed i suoi Soulmates e qui si sono detti, che facciamo?

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Perché non un bel disco tributo ad una delle donne simbolo della fine anni ’60, primi anni ’70, quella Betty Davis che ai meno attenti non dirà nulla (non è l’attrice ovviamente), ma agli amanti della buona musica, viceversa sì. Modella, attrice, cantante, moglie di Miles Davis, secondo varie voci (tra cui lo stesso Davis nella sua autobiografia) colei che ha introdotto Jimi Hendrix e Sly Stone al grande Miles (e viceversa), piantando i primi germi della svolta elettrica di quegli anni, e quello che più importa autrice di tre ottimi album usciti nel 1973-1974-1975 per la Just Sunshine e ripubblicati in CD dalla Light In The Attic.

Si tratta di un vero compendio di sana ed ottima funky music, mista a rock, soul e R&B, che ha sicuramente influenzato gente come Rick James, Prince, Erykah Badu, i Roots e moltissimi altri negli anni a venire, e penso anche i Rufus di Chaka Khan, nati più o meno in contemporanea, mentre anche lo Stevie Wonder di quel periodo era a sua volta una influenza.

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Se tutti questi nomi non vi sono ignoti, in questo album di Mahalia Barnes troverete di che compiacervi: con un bel sound realizzato da Shirley, la presenza fissa e costante di Joe Bonamassa che con la sua chitarra rilascia una serie di assolo che dimostrano che la parentesi con i Rock Candy Funk Party non era dovuta al caso. Darren Percival, altro concorrente a The Voice (mi sa che è meglio di quello nostrano!) duetta in una “cattivissima” Nasty Gal, dove anche il buon Joe rivolta la sua solista come un calzino, il papà appare come indiavolata voce aggiunta nella seconda parte di Walking Up The Road, uno dei tanti brani che non hanno nulla da invidiare al repertorio più R&B-soul oriented della coppia Beth Hart/Joe Bonamassa.

Le ballate e i brani lenti non sono molti, anzi direi uno, ma In The meantime è una piccola delizia di pura soul music, impreziosita dal lavoro prezioso della chitarra di Bonamassa, ormai un uomo per tutte le stagioni (e tutti i generi); per il resto è un impazzare di chitarrine choppate, clavinet, piani elettrici e organo messi ovunque sul groove super funky di un basso spesso slappato e batteria dai ritmi sincopati, in brani che rispondono a nomi come He Was A Big Freak, Anti-Love Song, Shoo-B-Doop And Cop Him, If I’m In Luck I Might Get Picked Up dove ricorrono termini piccanti e salaci tipo “Wiggling my Fanny”, che però secondo la Barnes in Australia hanno altri significati. In definitiva se vi piace un suono crudo, gagliardo, sentito oggi magari non particolarmente innovativo, ma ruspante e decisamente ben suonato vi consiglio di farci un pensierino https://www.youtube.com/watch?v=uG9KSnwy5cU . Lei è brava, ha una bella voce, potente e decisa, Bonamassa e Shirley ultimamente sono una garanzia, il gruppo dei Soulmates è ben bilanciato, non sarà un capolavoro ma perché no? Potete pensarci con calma, perché tanto esce verso fine febbraio, il 24 per la precisione!

Bruno Conti