Slidin’ Blues At Its Best! Sonny Landreth – Bound By The Blues

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Sonny Landreth – Bound By The Blues – Provogue CD

Clyde Vernon Landreth, detto Sonny, è un musicista che nel corso della sua ormai più che quarantennale carriera non ha inciso molti dischi, ma quando lo ha fatto ha quasi sempre colpito nel segno: il suo ultimo lavoro, Elemental Journey (risalente a tre anni fa) è forse il meno brillante del lotto, ma in passato il nostro ci ha regalato vere proprie perle come Levee Town e The Road We’re On (i due che preferisco) ed ottime cose come Grant Street e quel South Of I-10 che nel 1995 lo fece uscire dal semi-anonimato nel quale viveva immeritatamente da anni. Landreth è un grande chitarrista, maestro della tecnica slide (in America, secondo il sottoscritto, inferiore solo a Ry Cooder, almeno tra i viventi) che negli anni è stato sempre molto richiesto anche sui dischi altrui: John Hiatt, uno che di chitarristi se ne intende, lo ha voluto come leader della sua band per ben tre dischi (Slow Turning, The Tiki Bar Is Open, Beneath This Gruff Exterior) e relative tournée.

Sonny è sempre stato avvicinato al genere blues, ma non è un bluesman canonico: nei suoi dischi infatti è sempre partito da una base blues, per poi rivestire le sue canzoni di influenze zydeco-cajun (è infatti soprannominato “il Re dello Slydeco”), country e rock’n’roll, una fusione di stili che è quasi d’obbligo per un musicista cresciuto in Louisiana sin da bambino (essendo nato in Mississippi, altro luogo dove il blues ce l’hai nel sangue). Quindi Landreth un vero disco tutto di blues non lo aveva mai fatto, almeno fino ad oggi: Bound By The Blues è infatti un excursus personale da parte di Sonny nel mondo delle dodici battute, un lavoro fatto con amore e passione esattamente bilanciato tra brani nuovi ed omaggi ai grandi che lo hanno influenzato.

Registrato e prodotto in maniera diretta e senza fronzoli (in trio: oltre a Sonny abbiamo David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria), Bound By The Blues non è quindi un esercizio scolastico fine a sé stesso, ma un vero e proprio Bignami lungo dieci brani nel quale Landreth esplora da par suo i meandri della musica del diavolo: il disco è suonato da Dio (e non c’erano dubbi), prodotto in maniera asciutta da Sonny stesso con Tony Daigle e cantato in maniera più che accettabile (e d’altronde la voce è sempre stato un po’ il tallone d’Achille del nostro, diciamo non altrettanto blues come le sue dita…), un album quindi che soddisferà pienamente sia i fans di Landreth che gli appassionati di blues, e che merita di essere messo a fianco, se non dei suoi lavori migliori in assoluto, sicuramente di quelli appena un gradino sotto (e dunque belli lo stesso).

Il disco si apre con la classica Walkin’ Blues (di Son House, ma resa celebre da Robert Johnson) ed è subito goduria, a partire dal colpo di batteria iniziale e fin dalle prime note di slide, un suono “grasso” che mette subito a suo agio l’ascoltatore, con Sonny che inizia a ricamare assoli. La title track è una rock song fluida e diretta, che ha sì il blues nei cromosomi ma si sviluppa in maniera non canonica, e Landreth alterna con maestria la slide acustica e quella elettrica; The High Side ha un suono paludoso, la sezione ritmica che pressa e Sonny che fa i numeri all’acustica, sopperendo ai suoi limiti vocali con massicce dosi di feeling. It Hurts Me Too è nota soprattutto per le versioni di Tampa Red ed Elmore James, ma l’hanno fatta in mille (tra cui Junior Wells, Eric Clapton, John Mayall, Bob Dylan, Grateful Dead), e qui non riserva grandissime sorprese, ma a me basta che il nostro trio suoni bene, e poi quando Sonny lascia scorrere le dita sul manico non ce n’è per nessuno; Where They Will è un’intrigante rock ballad, intensa e sinuosa, che a ben vedere non è neanche tanto blues (ha quasi un’atmosfera alla Chris Isaak), ma è comunque piacevole e, devo dirlo?, ben suonata.

Cherry Ball Blues, di Skip James (ma l’ha fatta anche Cooder) è tesa ed affilata, quasi più rock che blues, con il nostro che suona come se non ci fosse domani, lo strumentale Firebird Blues è un sentito omaggio al grande Johnny Winter, uno slow blues caldo e vibrante nel quale i tre musicisti danno prova di grande affiatamento: le casse del mio stereo quasi sudano … Dust My Broom (Robert Johnson, ma la versione “storica” è quella di Elmore James) è uno dei classici assoluti della musica del diavolo in generale, e della chitarra slide in particolare, e Sonny ci dà dentro di brutto, fornendo una prestazione da applausi, anche se qui più che mai si sente l’assenza di un vocalist adatto; chiudono il lavoro Key To The Highway (Big Bill Broonzy, ma tutti conoscono quella di Clapton), ripresa abbastanza fedelmente e con la consueta classe da Landreth (anche se verso la fine gigioneggia un po’ ma tenderei a perdonarlo …), e Simcoe Street, uno scatenato boogie strumentale dove tutti girano a mille.

Anche se non sarà un capolavoro, Bound By the Blues è un disco corroborante, che ci fa ritrovare il Sonny Landreth che conosciamo dopo il mezzo passo falso di Elemental Journey.

Marco Verdi

Come Migliorare Un Capolavoro! The Rolling Stones – Sticky Fingers

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The Rolling Stones – Sticky Fingers – Rolling Stones Records CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD + DVD + 45 rpm – LP

Dopo le versioni potenziate di Exile On Main Street e di Some Girls (oltre a quella del magnifico live Get Yer Ya Ya’s Out!), finalmente i Rolling Stones pubblicano in versione deluxe anche quello che, a detta di molti (me compreso, per quello che può interessare) è il loro capolavoro assoluto: Sticky Fingers, uno dei classici dischi da isola deserta, uno di quei rari casi in cui tutti, dal leader del gruppo fino all’ultimo sessionman, ai tecnici del suono e ai grafici (l’iconica copertina era opera, per quei due o tre che ancora non lo sanno, di Andy Warhol) sembrano in un aureo stato di grazia. C’è da dire che all’epoca (1971) gli Stones erano per distacco la migliore band del pianeta (e anche adesso se la battono), venivano da altri due capolavori del calibro di Beggar’s Banquet e Let It Bleed, oltre che dal live citato prima, ed avrebbero pubblicato da lì a un anno il monumentale Exile On Main Street, cioè l’altro disco che contende a Sticky Fingers la palma del disco più bello delle pietre. Ma io non ho mai avuto dubbi nel preferire quello noto anche come “l’album della zip”, più compatto, più ispirato, meno dispersivo, con un suono migliore (la voce in Exile è sempre stata mixata troppo bassa, ed il sound in generale un po’ “fangoso”) e, soprattutto, con una serie di canzoni formidabili. Dulcis in fundo, avevano al loro interno un Mick Taylor (il miglior chitarrista che abbiano mai avuto) ormai perfettamente inserito ed integrato nella macchina da guerra che era all’epoca la band di Jagger e Richards, e dal vivo erano forse ancora meglio dell’anno prima, come dimostra il Live At Marquee di cui vi ha parlato Bruno pochi giorni fa http://discoclub.myblog.it/2015/06/20/erano-proprio-gran-bel-complessino-rolling-stones-from-the-vault-the-marquee-live-1971/ : in poche parole, un ensemble di fenomeni in un momento irripetibile.

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Come di consuetudine, la ristampa esce in varie configurazioni, ed io vorrei come al solito prendere in considerazione la più completa che, oltre ai due CD della “normale” versione deluxe, comprende anche un terzo CD dal vivo, un 45 giri con Brown Sugar e Wild Horses, uno splendido libro pieno di note e foto mai viste, oltre ad un DVD, invero piuttosto inutile, con due (!) brani tratti dal live appena pubblicato al Marquee (che in realtà dovrebbe servire da “traino” per acquistarli entrambi).

CD1: qui troviamo la versione nota di Sticky Fingers (album prodotto, lo ricordo, da Jimmy Miller, dietro la consolle in tutti i dischi del periodo d’oro delle Pietre, e anche responsabile dei lavori dei Traffic e del mitico LP dei Blind Faith), rimasterizzata ex novo e con un suono spettacolare. Che dire che non sia già stato detto di questo album epocale? Che contiene la migliore rock’n’roll song di sempre delle Pietre (Brown Sugar, a pari merito secondo me con Jumpin’ Jack Flash e con buona pace di Satisfaction)! Che ospita la loro più bella ballata (Wild Horses, stavolta ex-aequo con Salt Of The Earth)? Che c’è una delle migliori country songs di sempre, e non solo degli Stones (Dead Flowers)? Che Sister Morphine mi fa accapponare la pelle anche al centesimo ascolto (specie quando Ry Cooder fende l’aria con la sua slide tagliente)? Che non vedo l’ora che in Can’t You Hear Me Knocking Jagger smetta di cantare per sentire l’assolo di Taylor? Che nella stupenda I Got The Blues canta Mick ma sembra quasi di sentire Otis Redding? Che è un delitto che un pezzo come Sway lo conoscano solo i die hard fans? E potrei andare avanti…

CD2: a differenza delle reissues di Exile e Some Girls qui non troviamo vere e proprie outtakes, ma solo versioni alternate di cinque brani del disco originale, ma i motivi di interesse non mancano di certo, a partire da una Brown Sugar non molto diversa ma con l’aggiunta della succosa (e riconoscibilissima) partecipazione di Eric Clapton alla slide, per poi ascoltare una versione più spoglia di Wild Horses, che però non ha nulla da invidiare a quella nota, ed una Dead Flowers più rock di quella finita sul disco. Completano la serie una Can’t You Hear Me Knocking più corta e grezza ed una extended version di Bitch. Siccome cinque pezzi erano pochi per riempire un CD, eccone altrettanti registrati nello stesso anno alla Roundhouse di Londra, con le Pietre accompagnate da Jim Price alla tromba e soprattutto dai grandissimi Bobby Keys al sax e Nicky Hopkins al piano: la spedita Live With Me serve da antipasto per una Stray Cat Blues sporca e cattiva, una sontuosa Love In Vain con Taylor e Richards che fanno a gara a che è più bravo (vince Taylor a mani basse, anche se a feeling Keith non lo batte nessuno), una monumentale Midnight Rambler, allora come oggi momento centrale del concerto, con Taylor ancora sugli scudi e Hopkins che sembra avere venti dita, per finire con la sempre coinvolgente Honky Tonk Women.

CD3: intitolato Get Your Leeds Lungs Out, documenta un concerto del 1971 alla Leeds University, con gli stessi musicisti dei pezzi alla Roundhouse. Tredici canzoni, tra le quali le stesse cinque presenti nella parte live del secondo CD, in versioni similari (cioè eccelse, anzi credo che Midnight Rambler sia pure meglio), tre dal nuovo disco (Dead Flowers, ancora più bella della versione in studio, la trascinante Bitch ed una Brown Sugar nella quale Keys sotterra tutti con il suo sax pieno di groove) ed una manciata di classici suonati alla grandissima, che rendono questo CD superiore anche a quello appena uscito del Marquee, tra cui una Jumpin’ Jack Flash che apre la serata col botto (e con Bill Wyman e Charlie Watts che si confermano silenziosi ma indispensabili), due covers di Chuck Berry (Little Queenie e Let It Rock) cantate e suonate come se non ci fosse domani, una Street Fighting Man che non è mai stata tra le mie preferite ma qui spacca e Satisfaction che è forse l’unica con il pilota automatico (ma forse perché ormai l’ho ascoltata circa 1.500 volte).

Il box non costa poco (anzi), ma qui siamo di fronte al miglior gruppo di sempre (con i Led Zeppelin), nel loro momento migliore di sempre e nella miglior formazione di sempre, in più con degli extra da leccarsi i baffi: devo ancora convincere qualcuno?

Marco Verdi

Cantautrice E Rocker Di Spessore. Romi Mayes – Devil On Both Shoulders

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Romi Mayes – Devil On Both Shoulders – Factor Records/Romi Mayes Music

Romi Mayes viene da Winnipeg, Canada (dove è molto popolare, anche a livello critico) e dopo un esordio poco considerato e ancor meno ascoltato, The Living Room Sessions Vol.1 (05) ( *NDB Per la verità, tra il 1997 e il 2004, ne erano usciti altri tre, ormai irreperibili!), sotto la produzione di Gurf Morlix incide un ottimo album di folk-roots Sweet Somethin’ Steady (08), con chiari riferimenti a Lucinda Williams (e non poteva essere altrimenti), trovando l’attenzione degli addetti ai lavori e una forte dimensione di cantautrice di “culto”, confermata poi con il seguente Achin In Yer Bones (09), un lavoro duro e sofferto (sempre prodotto da Morlix), con una miscela di brani blues, rock e country, che vengono certificati dal successivo Lucky Tonight (11), registrato in presa diretta dal vivo  http://discoclub.myblog.it/2011/06/30/ci-vuole-coraggio-romy-mayes-lucky-tonight/  con un gruppo elettrico guidato dal chitarrista Jay Nowicki (membro anche della rockin’ blues band The Perpetrators) dove Romi inizia un nuovo percorso, e dopo un silenzio abbastanza lungo eccola tornare con una band elettrica al completo per questo nuovo disco Devil On Both Shoulders, affidandosi alla produzione di Grant Siemens (degli Hurtin’ Albertans, che ammetto di non conoscere).

La Mayes ha riunito nei Private Ear Studios del suo paese natio una band tosta, con componenti di “glorie locali” tra i quali il citato Grant Siemens alle chitarre, Damon Mitchell alla batteria, Bernie Thiessen al basso, Marc Arnould alla tastiere, e con il contributo alle armonie vocali delle brave Alexa Dirks e Joanne Rodriguez, dando seguito al questo nuovo percorso con un lavoro assolutamente intrigante.

E lo si nota subito dall’iniziale title-track Devil On Both Shoulders, un moderno blues chitarristico, una canzone da cantare nelle notti d’estate lungo il delta del Mississippi, seguita dalle svisate sempre bluesy di una grintosa Monkey Of A Man, lo spettacolare impatto di Let You Down (figlia bastarda degli Stones) con i graffianti “riff” della Telecaster di Grant Siemens https://www.youtube.com/watch?v=co2iDJwEVtA , che fa da preludio ad una ballata che sembra sbucare dai solchi di un disco di Lucinda Williams, una Gonna Miss Me con la splendida voce di Romi in evidenza; troviamo ancora un tagliente blues come Bee Sting, dove il buon Grant si supera con un lavoro di chitarra degno del miglior Ry Cooder https://www.youtube.com/watch?v=JqhwaX0S8Mc. Con Soul Stealer Romi propone una variazione al tema, una sorta di “garage-blues” tutto scossoni e rasoiate di chitarra, mentre con Make Your Move si torna alla ballata confidenziale, prima di approdare ad una Low Light Lady con un ritmo che non sentivo dai tempi eroici della Tina Turner di quarant’anni fa e oltre https://www.youtube.com/watch?v=qDLJBB05BmE , quelli con Ike (anche se Beth Hart ultimamente…), mentre con Wonder How si torna al blues grezzo con violente sventagliate di roots-rock, andando a chiudere il cerchio con la meravigliosa ballad pianistica Walk Away (fin d’ora una delle canzoni dell’anno), cantata con grazia e la voce appena incrinata di Romi (forse troppe sigarette bruciate) https://www.youtube.com/watch?v=1vtJTz8Ar3Y , un brano che a chi scrive ricorda una cantante di cui purtroppo ho perso le tracce, tale Chi Coltrane.

Questa signorina, nella sua pur breve, ma non troppo, carriera, ha condiviso il palco con artisti del calibro di Levon Helm, Derek Trucks, Ricky Sgaggs, Jim Cuddy, Guy Clark, Sue Foley, Fred Eaglesmith, Joe Ely, Blackie & The Rodeo Kings, e molti altri, e questo Devil On Both Shoulders (per i pochi che conoscono la Mayes), nel seguire il suo percorso, è il classico disco che mi aspettavo, duro, sofferto, bluesy, ma anche dall’anima tenera, con alcune canzoni indimenticabili. Chiunque abbia a cuore i percorsi della buona musica, farebbe bene a tenere in considerazione Romi Mayes, il suo talento e la sua voce parlano per lei. Vivamente consigliato!

Tino Montanari

Una Delle Grandi Della Musica Folk Americana: L’Ultima “Pellerossa” ! Buffy Sainte-Marie – Power In The Blood

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Buffy Sainte-Marie – Power In The Blood – True North Records

Riappare a sei anni dall’ultimo album Running For The Drum (08), questa arzilla signora (è nata nel 1941),  la cantautrice Buffy Sainte-Marie, una che nella sua lunga carriera è stata attiva su molti fronti contro “l’establishment” americano, diventando per il popolo “pellerossa” (ma non solo), una vera “icona”. Beverly (nome d’arte Buffy) nata da genitori indiani nella riserva Cree del Saskatchewan canadese, viene scoperta dal manager Maynard Soloman, che la porta a diventare un personaggio importante della scena del Greenwhich Village folk di New York (grazie ad alcune sue composizioni portate al successo da altri artisti). Il suo primo disco su Vanguard It’s My Way (64), contiene una delle più belle e note canzoni di protesta di sempre, The Universal Soldier https://www.youtube.com/watch?v=DbKa2gapq_M  che diventerà un grande successo in seguito per Donovan e Glen Campbell, e la famosa Cod’ine, una lenta ballata contro la droga https://www.youtube.com/watch?v=d3bfqlTCHZk (ripresa da numerosi gruppi degli anni ’60, fantastica la versione dei Quicksilver Messenger Service). Anche negli album successivi Many A Mile (65), Little Wheel Spin And Spin (66), Fire & Fleet & Candlelight (67), gran parte dei brani parlano della situazione degli indiani d’America. I’m Gonna Be A Country Girl Again (68) viene registrato a Nashville, mentre nel seguente Illuminations (70) fanno capolino i primi arrangiamenti elettronici, ma il grande successo internazionale arriva con Soldier Blue, una delicata ballata dedicata ai massacri nelle guerre indiane e tema del film Soldato Blu https://www.youtube.com/watch?v=LlrOaJFf6tg  ( con una meravigliosa Candice Bergen e Peter Strauss) tratta dall’album She Used To Wanna Be A Ballerina (71) registrato con l’ausilio di Ry Cooder e di Neil Young con i suoi Crazy Horse e che conteneva un brano dello stesso Neil e uno di Leonard Cohen, a cui farà seguire due dischi “minori” come Moonshot (72) e Quiet Places (73).

buffy sainte marie it's my way buffy sainte marie she used to wanna be

Con Buffy (74) la “nostra” effettua una  svolta artistica, passando ad una musica più convenzionale e pop, per poi subito ritornare con Changing Woman (75) e Sweet America (76) con canzoni basate su materiale popolare indiano,  e melodie originali del popolo “pellerossa”. all’inizio degli anni ’80, Buffy sposa in terze nozze (il primo matrimonio con un insegnante di surf) il compositore Jack Nitzsche (Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo) e si ritira dalle scene per quindici anni, a parte la parentesi del ’83 quando Up Where We Belong, (da lei scritta per Joe Cocker e tema del film Ufficiale e Gentiluomo), si aggiudica l’Oscar come migliore canzone da colonna sonora. Il ritorno discografico avviene con Coincidence And Likely Stories (92) con nuove sonorità elettroniche, a cui segue Up Where We Belong (96), una collezione dei suoi grandi successi riproposti per l’occasione in una nuova veste sonora https://www.youtube.com/watch?v=M7C1JLd30Uk , un imperdibile Live At Carnegie Hall (04), e l’ultimo lavoro in studio il sopracitato Running For The Drum con allegato un DVD con un interessante documentario sulla carriera di Buffy Sainte-Marie https://www.youtube.com/watch?v=TbqsVyDO7gQ  (a completamento vi consiglio anche varie raccolte del primo periodo Vanguard).

Questo nuovo lavoro Power In The Blood è stato registrato a Toronto con tre dei migliori produttori di musica del Canada, Michael Wojewoda (Rheostatics), Chris Birkett (Sinead 0’Connor) e Jon Levine (Serena Ryder) tutti noti per successi pop e materiale più esoterico, e contiene intriganti rielaborazioni di brani del passato, due cover abbastanza sorprendenti, e nuove canzoni. Si parte con una formidabile versione di una delle sue prime canzoni It’s My Way, rivoltata come un calzino con un suono potente, seguita dalla title track Power In The Blood,  una cover degli Alabama 3 con un arrangiamento techno-pop che ci poteva risparmiare, il tradizionale We Are Circling su un moderno tessuto tribale https://www.youtube.com/watch?v=YxZilJNVmc0 , e la rilettura di due brani della “lista nera” di Lyndon B. Johnson, Not The Lovin Kind e la famosa Generation, assai efficace.

Con Love Charms (Mojo Bijoux) e la ninna-nanna magistrale di Ke Sakihitin Awasis (I Love You, Baby) arrivano le prime ballate cantate da Buffy in uno stile confidenziale e il suo particolare vibrato, per poi passare alla dolce litania di Farm In The Middle Of Nowhere (sulla sua vita in mezzo alla natura) https://www.youtube.com/watch?v=JgvJ1GxP0y0 , e ad un’altra inaspettata cover degli UB4O Sing Our Own Song su un testo modificato dalla Sainte-Marie, con un ritornello dal canto tribale. Ci si avvia alla fine con la struggente elegia di Orion scritta con il marito Jack (prima della sua scomparsa), il canto accorato di una trascinante The Uranium War, e lo splendore di una gioiosa Carry It On, un inno alla nuova generazione dei nativi americani https://www.youtube.com/watch?v=Ow2_j3YF06o .

Per quanto nel corso della sua carriera abbia attraversato diversi campi artistici, dalla recitazione all’attivismo politico, dalla televisione per bambini alle colonne sonore, dalla canzone rock alla musica country, Buffy Sainte-Marie non è mai stata (a parte dalla sua gente e da molti colleghi) considerata come il suo talento avrebbe meritato, e sarebbe ora che questa simpatica signora che ha inciso parecchi ottimi album e ha composto molte belle canzoni (mai banali nei testi), venga riscoperta dai tanti amanti della buona musica, perché se vogliamo trovare una via alternativa, dobbiamo cercarla tra la gente che conosce la maniera di comunicare fuori dagli schemi, e Buffy Sainte-Marie è sicuramente una degna rappresentante di questa scuola di pensiero.

Tino Montanari

Disco Bellissimo, Peccato In Teoria Non “Esista”! NMO/ Anders Osborne + North Mississippi AllStars – Freedom And Dreams

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NMO – Anderson Osborne & North Mississippi Allstars – Freedom And Dreams solo download

Come sapete chi scrive (e gli altri collaboratori del Blog), sono fedeli seguaci del disco fisico e contrari per principio al download digitale degli album, ma quando i dischi sono così belli come questo Freedom And Dreams dei North Mississippi Osborne, NMO per abbreviare, l’eccezione conferma la regola, e quindi mi sono affrettato a scaricare questa collaborazione tra alcuni dei migliori musicisti che attualmente graziano il panorama americano della buona musica: vogliamo definirlo un disco roots and blues, con la voce splendida di Anders Osborne, grande vocalist (e chitarrista) di origine svedese, ma da anni cittadino di New Orleans, Lousiana, dove ai Dockside Studios, nel cuore dello stato del Sud, e sotto la produzione di Mark Howard, è stato registrato questo meraviglioso disco. Un disco dove si respira grande musica, sembra a tratti un disco di quelli belli del Ry Cooder degli anni ’70, a momenti sembra di ascoltare la Band (tanto per volare bassi), ma perlopiù si tratta di questa riuscitissima fusione tra il soul-blues di Osborne e il groove e la musica folk-rock-blues dei NMA, ovvero i fratelli Luther e Cody Dickinson. Non so dirvi se ci siano altri musicisti coinvolti (si sentono qui e là piccoli interventi di tastiere, fisarmonica e qualche strumento acustico) e anche se dalla foto qui sotto pare esserci un quarto elemento nella line-up, non avendo trovato note nel download non posso confermarlo.

North-Mississippi-Allstars-Anders Osborne

Comunque la musica parla da sola, dai primi ripetuti ascolti mi sembra una delle cose migliori mai fatte dai musicisti coinvolti (e dischi belli sia Anders Osborne, quanto i fratelli Dickinson, nelle loro varie personificazioni, ne hanno fatti parecchi in passato): ma in questo caso deve essere scattato quel quid che si accende quando si incontrano spiriti eletti. Registrato in quattro giorni di sessions non-stop ai citati Dockside Studios l’album (mi suona strano definirlo così, ma il futuro, speriamo lontano, sembra essere questo) nasce da una serie di brani di Osborne costruiti con questo spirito collaborativo, da jam session, dove l’improvvisazione ha ovviamente una sua parte, ma le canzoni hanno pure una loro solida costruzione ed una notevole varietà di temi sonori. Il disco si apre con il blues puro di Away Way Too Long che sembra quasi un brano di Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, dove maestri stregoni delle 12 battute ed apprendisti si scambiano impressioni a colpi di slide e voce, ma in modo molto rispettoso della tradizione. Back Together è la prima di una serie di blues soul ballads, marinate nell’aria della Lousiana e caratterizzate dalla bellissima voce di Osborne, con le chitarre che pigramente intessono un finissimo lavoro di cesello ed interscambio degno dei “sudisti” più raffinati degli anni ’70, un piccolo gioiello di equilibri sonori, grazie anche all’eccellente groove impostato dall’inconsueto drumming di Cody Dickinson, e Lonely Love con le soliste di Luther e Anders che navigano a vista di conserva https://www.youtube.com/watch?v=wLdE0TUHlBc , potrebbe essere una traccia perduta di qualche vecchio vinile dei Free di Paul Kossoff (magari, come atmosfera, Molten Gold, tratta dal suo primo disco solista https://www.youtube.com/watch?v=WmKPNaV2HX0), tra improvvisazione e leggera psichedelia.

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Molto bella anche Dyin’ Days, altro pregevole esempio della grande capacità di Osborne di riappropriarsi della tradizione sonora del Sud degli States, grazie ancora una volta al preciso lavoro, molto minimale, ma direi essenziale dei fratelli Dickinson raramente così ispirati https://www.youtube.com/watch?v=tXMvz24WU0Y ; Shining (Spacedust), viceversa, altra ballata sontuosa, potrebbe avvicinarsi al Ry Cooder legato alle radici blues e soul dei suoi dischi migliori della decade fine anni ’70, primi anni anni ’80,  addirittura con qualche retrogusto dylaniano e messicano che avevano canzoni di frontiera come Across The Borderline (che porta anche la firma di Jim Dickinson, il babbo) https://www.youtube.com/watch?v=wzWuTxNfLQI . Brush Up Against You è il brano più lungo del disco e qui la slide viaggia, perentoria e minacciosa, appaiata alla voce distorta e incattivita di Anders, per creare un groove che viene dalle colline del Mississippi, da quei juke joints dove si praticava un blues elettrico primevo e malandrino, egregio nuovamente il lavoro delle chitarre, sempre in grande spolvero e libere di improvvisare, come il gruppo nel suo insieme https://www.youtube.com/watch?v=OAwhFBC7EbI . Annabel è pura southern music della più bell’acqua, una bella voce, una melodia delicata, un liquido piano elettrico che si aggiunge alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=MwChOeTUVes  e il risultato ricorda la Band più legata al sound del Sud, che qui viene replicato in un brano che vuole essere un ricordo di un avvenimento mai dimenticato dagli abitanti di New Orleans, Katrina, una delicata ballata pianistica cantata con grande trasporto e partecipazione da Osborne, che si conferma vocalist dal feeling innato, prima di lasciare spazio all’essenziale lavoro della solista slide che imbastisce un lavoro di breve ma intenso raccordo con il piano.

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Kings And Peasants si incentra su un elegante groove ritmico, un brano quasi cantautorale, dove le chitarre lavorano ancora una volta di fino, in un sottile lavoro dove toni e volumi sono impiegati con precisione e classe squisita https://www.youtube.com/watch?v=iDweTJxIeLw . Ancora due brani prima della conclusione, Many Wise Men ricorda le migliori ballate mainstream scritte da Anders Osborne per i suoi dischi solisti https://www.youtube.com/watch?v=RptHWExz2Oo , quelle canzoni dove lo spirito di Jackson Browne sembra aleggiare benevolo su queste morbide ed aggraziate atmosfere, tra folk e canzone d’autore, mentre Junco Parda è un’ultima scarica di blues cooderiano, semplice, raffinato ed estremamente coinvolgente, come peraltro tutto il disco. Veramente niente male per un disco che “non esiste”.

Bruno Conti

Altri Dischi Dal Vivo, Sempre Quasi Ufficiali! The Band, Stephen Stills, David Crosby, Bonnie Raitt and Lowell George, Ry Cooder, James Taylor, Tom Waits, Santana, Gram Parsons, Janis Joplin

the band palladium circles the band carter barrom

Dopo il numero speciale dedicato al triplo di Bruce Springsteen vediamo gli altri titoli più interessanti, diciamo quasi ufficiali, usciti o di prossima uscita, in questo periodo. Non vi indico le date in quanto trattandosi di etichette “ballerine” non sempre sono molto attendibili, la qualità sonora è spesso e volentieri molto buona ed il contenuto pure, trattandosi quasi sempre di broadcast radiofonici. Non dimentichiamo che i potenziali acquirenti di questi prodotti sono appassionati che il più delle volte posseggono l’opera omnia degli artisti interessati e quindi certamente non danneggiano le case discografiche e gli artisti stessi, al limite quelli che ne beneficiamo sono i misteriosi personaggi alle spalle di queste operazioni. Comunque visto che si tratta di buona musica, ed in questo Blog è quello che ce interessa, procediamo con la disamina, partendo da ben due titoli dedicati alla Band.

The Band – Palladium Circles: The Classic NYC Broadcast 1976 – Iconography

The Band Carter Barron Amphitheater, Washington DC, July 17th 1976 – Keyhole

Entrambi i concerti provengono più o meno dallo stesso periodo, gli ultimi mesi di vita del gruppo di Robbie Robertson, Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson Richard Manuel, un paio di mesi prima della registrazione del “mitico” The Last Waltz, e il repertorio delle serate, pur presentando parecchi punti in comune è differente nei due CD, oltre che nelle esecuzioni, quindi niente timore, non si tratta di duplicati dello stesso concerto (come può capitare in questo materiale di dubbia provenienza, dove la “fregatura” potrebbe essere proprio nel fatto che, in alcuni casi, sono gli stessi concerti, sia pure con titoli diversi, ma non è questo il caso). Questo il contenuto dei due concerti:

Palladium, New York City https://www.youtube.com/watch?v=cNk2G8SxzaA

1. Ophelia
2. The Shape I’m In
3. It Makes No Difference
4. The Weight
5. King Harvest
6. Twilight
7. The Night They Drove Old Dixie Down
8. Across The Great Divide
9. Stage Fright
10. Acadian Driftwood
11. The Genetic Method
12. Chest Fever
13. This Wheel’s On Fire
14. Don’t Do It
15. Up On Cripple Creek
16. Life Is A Carnival
17. W.S. Walcott Medicine Show

Carter Barron, Washington DC https://www.youtube.com/watch?v=qNNSYrMix8k

1. Don’t Do It
2. The Shape I’m In
3. It Makes No Difference
4. The Weight
5. King Harvest (Has Surely Come)
6. Twilight
7. Ophelia
8. Tears Of Rage
9. Forbidden Fruit
10. This Wheel’s On Fire
11. The Night They Drove Old Dixie Down
12. The Genetic Method
13. Chest Fever
14. Up On Cripple Creek
15. The W.S. Walcott Medicine Show

stephen stills bread & roses festival

Stephen Stills- Bread And Roses Festival 04-09-1978 – Klondike

Si tratta di una rara apparizione acustica al Festival benefico organizzato da Mimi Farina, la sorella di Joan Baez, e tenuto al Greek Theater di Berkeley https://www.youtube.com/watch?v=78DMXbhsuUk . Da Thoroughfare Gap, che era il non proprio fantastico disco uscito in quel periodo, per fortuna ci sono solo due brani:

1. Love The One You’re With
2. Not Fade Away
3. One Moment At A Time
4. Everybody’s Talkin’
5. 4+20
6. Colorado
7. Take Me Back To Ohio Valley
8. Jesus Gave Love Away For Free
9. Fallen Eagle
10. Old Man Trouble
11. Thoroughfare Gap
12. Medley: Crossroads/You Can’t Catch Me
13. 49 Bye Byes/For What It’s Worth

david crsoby towering inferno 1989

David Crosby – Towering Inferno: The 1989 Broadcast – Gossip

Molto buono anche questo concerto di Crosby, tenuto al Tower Theatre di Philadelphia l’8 aprile del 1989. Accompagnato da una ottima band: Michael Finnigan (keyboards), Dan Dugmore (guitar), Jody Cortez (drums), e Davey Faragher (bass/vocals), questa è la tracklist della serata:

1. Tracks In The Dust
2. Guinnevere
3. Dreams
4. Drive My Car
5. Lady Of The Harbour
6. Deja Vu
7. Wooden Ships
8. Almost Cut My Hair https://www.youtube.com/watch?v=eec9hE-WZ0k
9. Long Time Gone

bonnie raiit lowell george ultrasonic studios 1972

Bonnie Raitt And Lowell George – Ultrasonic Studios 1972 – Iconography

Questa è una vera chicca, una session agli studi Ultrasonic di NYC nel 1972, con Bonnie Raitt accompagnata alla chitarra da Lowell George, che alla richiesta del presentatore della serata di eseguire Willin’ propone una nuovissima per l’epoca (siamo ancora negli anni della guerra del Vietnam) A Apolitical Blues. Ospite della serata anche John Hammond e Freebo al basso. Questa la sequenza dei brani:

https://www.youtube.com/watch?v=1GALqVg3biE

1. Intro
2. Love Me Like A Man
3. Under The Falling Sky
4. Love Has No Pride
5. Going Down To Louisiana
6. Can’t Find My Way Home
7. Big Road Blues
8. You Got To Know How
9. Apolitical Blues
10. Riding In The Moonlight
11. As The Years Go By
12. All Night Long
13. I Can’t Be Satisfied
14. The Sky Is Crying
15. Honest I Do
16. It’s Too Late

ry cooder broadcast from the plant 1974

Ry Cooder – Broadcast From The Plant: 1974 Record Plant, Sausalito, CA – All Access

Altro eccellente reperto d’epoca, Ry Cooder ai celeberrimi Record Plant Studios di Sausalito, con Russ Titelman al basso e Jim Keltner alla batteria, più Milt Holland – percussion, drums Bobby King – backing vocals Gene Mumford – backing vocals Cliff Givens – backing vocals, in promozione radiofonica per l’album Paradise And Lunch, ci regala una delle migliori performances di una sfolgorante carriera (a dimostrazione che questi album spesso sono delle vere pepite d’oro, scovate negli archivi o riprese, migliorate, da vecchi bootleg). Grande repertorio:

1. Police Dog Blues
2. F.D.R. In Trinidad
3. If Walls Could Talk
4. Tamp ‘Em Up Solid
5. Ax Sweet Mama
6. Billy The Kid
7. Vigilante Man
8. How Can A Poor Man Stand Such Times And Live https://www.youtube.com/watch?v=i8mOF332uwQ
9. Tattler
10. Comin’ In On A Wing And A Prayer
11. Alimony
12. Teardrops Will Fall
13. I’m A Pilgrim

james taylor georgia on my mind live in atlanta 1981

James Taylor – Georgia On My Mind: Live In Atlanta 1981 – Iconography

Questo titolo in particolare è dato in uscita il 18 agosto: si tratta di un concerto di James Taylor non più nel periodo d’oro (i capelli cominciano ad andarsene) ma sempre una buona annata, 1981, non so il giorno esatto, Atlanta Civic Center, nel corso del tour promozionale per il disco Dad Loves Is Work, buono ma non esattamente eccelso, però il concerto è nobilitato anche dalla ottima band che accompagna James: Dan Dugmore e Waddy Wachtel alle chitarre, Leland Sklar basso, Don Grolnick tastiere, Rick Marotta batteria, David Lasley e Arnold McCuller, armonie vocali, più John David Souther che canta con James Taylor una fantastica versione di Her Town Too https://www.youtube.com/watch?v=CQR1In6lGCg , forse il brano migliore di quel disco. Il resto non è da meno:

1. How Sweet It Is
2. Stand And Fight
3. Up On The Roof
4. Fire And Rain
5. Steamroller
6. Daddy’s All Gone
7. Her Town Too
8. Mexico
9. Country Road
10. Money Machine
11. You’ve Got A Friend

tom waits a s mall affair in ohio

Tom Waits – A Small Affair In Ohio: FM Radio Broadcast, Live In Cleveland, 1977 – All Access

Altro notevole concerto, registrato il 25 ottobre del 1977 all’Agora Ballroom di Cleveland https://www.youtube.com/watch?v=UeHUZt6cwLU , per promuovere Foreign Affairs, ma come era spesso (ed è tuttora) vezzo di questi grandi artisti il grosso del repertorio della serata viene dal precedente Small Change:

1. Standing On The Corner
2. I Never Talk To Strangers
3. The One That Got Away
4. Depot, Depot
5. Jitterbug Boy
6. Step Right Up
7. Invitation To The Blues
8. Eggs & Sausage
9. Small Change
10. I Can’t Wait To Get Off Work

santana live at the ryanearson stadiumsantana live at the bootom line 1978

Santana – Live At The Rynearson Stadium, Ypsilanti MI 25TH May 1975 – Klondike

Santana – Live At The Bottom Line 1978: Radio Broadcast Recording – All Access

Un’altra accoppiata di concerti, questa volta relativi ai Santana, in entrambi i casi non siamo più nel periodo migliore della band del grande Carlos, ma soprattutto nel primo concerto, registrato nel 1975, l’anno dopo il grande Lotus, ci sono sprazzi della vecchia classe. Il nome della località è esotico ma siamo nel Michigan, nel concerto appare una rara Time Waits For No One https://www.youtube.com/watch?v=KBYbD62hOEY , un paio di brani da Borboletta, Soul Sacrifice dal primo album e i classici Black Magic Woman, Oye Como Va e Incident At Neshabur, canta tale Leon Patillo, Tom Coster, tastiere, Leon Ndugu Chancler, batteria, David Brown, basso, Armando Peraza, percussioni:

01 – Black Magic Woman
02 – Gypsy Queen
03 – Oye Como Va
04 – Time Waits For No One
05 – Give And Take
06 – Incident At Neshabur
07 – Savor
08 – Soul Sacrifice

Tre anni dopo, al leggendario Bottom Line di New York, 16 ottobre 1978, il disco da promuovere è Moonflower e pure questa serata sembra riuscita:

1. Well Alright
2. Black Magic Woman/Gypsy Queen
3. Dance Sister Dance
4. Europa
5. Dealer/Spanish Rose
6. Incident At Neshabur
7. Batuka/No One To Depend On
8. One Chain
9. She’s Not There
https://www.youtube.com/watch?v=wvcjlmxTeG8

10. Open Invitation
11. Jungle Strut
12. Transcendence
13. Evil Ways

gram parson featuring emmylou harris live new york 1973

Gram Parsons – Live New York 1973 featuring Emmylou Harris 2 CD Nova Sales

Questo il contenuto:

  1. Cry One More Time
  2. Six Weeks on the Road
  3. Streets of Baltimore
  4. Drug Store Truck
  5. California Cottonfields
  6. Love Hurts
  7. That’s All It Took
  8. We’ll Sweep Out the Ashes
  9. The New Soft Shoe
  10. Big Mouth Blues
  11. A Song for You
  12. We’ll Sweep Out the Ashes in the Morning
  13. Cold Cold Heart
  14. Still Feeling Blue
  15. That’s All It Took
  16. Folsom Prison Blues
  17. How Can I Forget You / Cry One More Time
  18. Ain’t No Beatle, Ain’t No Rolling Stone
  19. Song for You

Difficile capire l’esatta provenienza, visto che in passato sia la Rhino che la Sierra hanno pubblicato materiale di quel periodo. comunque molto interessante.

janis joplin on television

Per concludere con un extra, questo Janis Joplin On Television è pubblicato dalla Immortal, quindi c’è sia in CD che in DVD. Poco più di mezz’ora la durata, ma come si rileva dal retro copertina sembra materiale interessante anche in questo caso:

https://www.youtube.com/watch?v=jXlP7PyaHdA

https://www.youtube.com/watch?v=AC1TNgAx4AI

janis joplin on television back cover

That’s all, prossima lista, uscite imminenti agosto e inizio settembre, oltre alle recensioni che mancano all’appello.

Bruno Conti

In Due Parole: Era Ora! John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall

john mellencamp trouble no more live at town hall

John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall – Mercury/Universal CD USA 08/07/2014 EUR/ITA 22/07/2014

Di tutti i cosiddetti “big” della musica internazionale, John Mellencamp era l’unico che non aveva ancora pubblicato un vero e proprio album dal vivo, a parte qualche bonus track sparsa qua e là nei singoli ed un EP (Life, Death, Live And Freedom), che però riprendeva soltanto una manciata di brani tratti dal suo disco del momento (il quasi omonimo Life, Death, Love And Freedom). Tra l’altro stiamo parlando di uno di quei musicisti che trova sul palco la sua dimensione ideale, uno che negli anni ottanta riempiva le arene e si rimpallava con Springsteen e Petty il ruolo di rocker numero uno in America (Bob Seger aveva perso un po’ di terreno negli eighties), quindi l’assenza di live albums nella sua discografia gridava ancor più vendetta. Ora finalmente anche il nostro ripara a questa grave mancanza, ma lo fa a modo suo: Trouble No More Live At Town Hall non è un live canonico, in quanto palesemente (ed anche il titolo lo indica) sbilanciato verso quello che comunque è obiettivamente uno dei migliori lavori della seconda parte della carriera dell’ex Puma, Trouble No More.

john mellencamp trouble no more

Pubblicato nel 2003, l’album era una sorta di ripasso da parte di Mellencamp delle sue radici, un disco di pura roots-Americana che, con un feeling formato famiglia, presentava una serie di covers prese a piene mani dal ricco songbook a stelle e strisce . Brani tradizionali, cover di canzoni blues, riletture di vecchi folk tunes (ed un solo brano contemporaneo): un disco che lasciava un po’ indietro il Mellencamp rocker e ci presentava il Mellencamp musicista a tutto tondo, che proseguì con i seguenti dischi il suo discorso di brani che, anche se autografi, erano profondamente legati alla tradizione dei songwriters blues e folk più classici https://www.youtube.com/watch?v=xi3w9eduwXI .

john mellencamp trouble no more making

Trouble No More Live At Town Hall riprende (quasi) interamente quel disco, aggiungendo un omaggio a Bob Dylan e, solo nel finale, tre classici di John: registrato nel 2003 a New York con la sua touring band dell’epoca (Mike Wanchic ed Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, John Gunnell al basso, Dane Clark alla batteria e Michael Ramos alle tastiere e fisa), davanti a 1.500 persone, tra le quali anche membri della famiglia di Woody Guthrie.

Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (mi sembra di essere il Mollicone nazionale): Mellencamp dimostra di essere un fuoriclasse sul palco, la band dietro di lui va come un treno, dipingendo le canzoni con tinte rock che le loro versioni di studio non avevano, ed i brani, va da sé, sono straordinari. L’unica piccola pecca è l’aver lasciato fuori due canzoni che quella sera (era il 31 Luglio) John suonò, e se all’assenza di The End Of The World possiamo sopravvivere. *NDB Però… https://www.youtube.com/watch?v=8GpxR2H241g , mi sarebbe invece piaciuto parecchio ascoltare la versione di Mellencamp dell’ultraclassico House Of The Risin’ Sun (non presente peraltro sul Trouble No More di studio).

john mellencamp 1

1. Stones In My Passway (Robert Johnson)

2. Death Letter (Son House)

3. To Washington (John Mellencamp/Traditional)

4. Highway 61 Revisited (Bob Dylan)

5. Baltimore Oriole (Hoagy Carmichael/Paul Francis Webster)

6. Joliet Bound (Kansas Joe McCoy)

7. Down In The Bottom (Willie Dixon)

8. Johnny Hart (Woody Guthrie)

9. Diamond Joe (John Mellencamp/Traditional)

10. John The Revelator (Traditional)

11. Small Town (John Mellencamp)

12. Lafayette (Lucinda Williams)

13. Teardrops Will Fall (Marion Smith)

14. Paper In Fire (John Mellencamp)

15. Pink Houses (John Mellencamp)

Apre Stones In My Passway, di Robert Johnson, con Wanchic (o è York?) scatenato alla slide ed il nostro subito in partita; Death Letter (Son House), ancora blues, senza un momento di respiro, ancora la slide a dominare e John che canta alla grande https://www.youtube.com/watch?v=vN2AMvDdOAk . To Washington è splendida, una folk song tradizionale alla quale John ha aggiunto delle parole nuove, non proprio carine verso l’allora presidente George W. Bush: accompagnamento rootsy, con chitarre acustiche, violino e slide, una vera goduria. Highway 61 Revisited è il già citato omaggio a Dylan, nel quale viene fuori il Mellencamp rocker: solito grande lavoro di slide (una costante per tutto il CD) ed il violino che le dà un sapore meno urbano, facendola sembrare una outtake del grande The Lonesome Jubilee (per chi scrive il miglior disco di Mellencamp).

john mellencamp 2

Baltimore Oriole è il più celebre brano scritto da Hoagy Carmichael: la versione di John è bluesata, quasi tribale, profonda, suggestiva, con strumentazione scarna ma tanta anima (il duetto tra fisarmonica e violino è da brividi). Il pubblico ascolta in rigoroso silenzio per poi esplodere in un fragoroso applauso nel finale. Joliet Bound è un antico brano reso noto da Memphis Minnie: versione frenetica, dalla ritmica spezzata, sempre con il giusto bilanciamento tra folk, blues e roots; Down In The Bottom vede Mellencamp alle prese con Howlin’ Wolf, una trascinante resa tra rock, blues ed un pizzico di swamp, tanto che non sarebbe dispiaciuta a John Fogerty: ritmo alto e solita grande slide. E’ la volta di Guthrie a venire omaggiato: Johnny Hart mantiene intatto lo spirito dell’originale, una versione splendida per purezza e sentimento, il miglior ricordo che John poteva tributare a Woody.

john mellencamp 4  live

Diamond Joe è un traditional rifatto da un sacco di gente (anche da Dylan): John la personalizza parecchio, suonandola full band, elettrica, ritmando e roccando, e facendola sembrare sua. Un capolavoro rifatto alla grande, uno dei momenti salienti del CD. John The Revelator è un gospel che hanno cantato in mille: ancora un intro swamp e John che si traveste da predicatore, versione intensa come al solito, manca solo il coro alle spalle. Ci avviamo alla conclusione: Small Town è uno dei tre classici di John presenti, una delle canzoni rock con il più bel riff in assoluto, anche se qui viene stravolta ed adeguata al mood della serata (tanto che il pubblico la riconosce solo quando John inizia a cantare).

john mellencamp 3

Lafayette, di Lucinda Williams, era l’unico brano contemporaneo presente su Trouble No More, e siccome io non sono un fan della Williams performer, ho gioco facile ad affermare che la versione di John è di gran lunga superiore; Teardrops Will Fall l’hanno incisa da Wilson Pickett a Ry Cooder, e Mellencamp la personalizza, grazie anche alla sua band coi fiocchi, e la fa sembrare anch’essa sua (cosa non facile quando su un brano ci ha già messo le mani Cooder) https://www.youtube.com/watch?v=JOk8kv_Tecc . La serata si chiude in crescendo con le straordinarie Paper In Fire, il pezzo che apriva col botto The Lonesome Jubilee (e qui la resa è molto più aderente all’originale, anche se manca la batteria esplosiva di Kenny Aronoff), e con Pink Houses, un manifesto roots-rock, scritta quando il movimento roots era di là da venire: leggermente più blues della versione apparsa all’epoca su Uh-Huh, resta comunque un capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=-fDZmEW4TMs .

Grande disco questo “esordio” dal vivo di Mellencamp (anche se comunque prima o poi ci vorrà anche un live, diciamo, career-spanning): esce l’8 Luglio in America ed il 22 in Europa (anche in vinile, ma con solo 10 canzoni contro le 15 del CD).

Non lasciatevelo sfuggire.

Marco Verdi

Dei Bluesmen Austriaci Non Ne Vogliamo Parlare? Mojo Blues Band – Walk The Bridge

mojo blues band walk the bridge

Mojo Blues Band – Walk The Bridge – 2CD Styx Records

CD 1

  1. Wild Wild Woman
  2. She’s A Hot Mamacita
  3. FB Blues (Facebook Blues)
  4. The Crawl
  5. Give Me a J-45
  6. Walk The Bridge
  7. I’m Coming Home
  8. Paul’s Shuffle
  9. Your Funeral And My Trial
  10. Allmony, Allmony
  11. You Must Be Travelling On
  12. I’ll It Through
  13. I Ain’t Funny That Way
  14. I Wish I Could
  15. Waddlin’ Duck

CD 2

  1. My Heart Goes Diddely Bum
  2. The Blues Is All I Wanna Sing
  3. You Turned My World Around
  4. Black Train
  5. I Feel Like Going Home
  6. Movin’ Out Of Town
  7. She’s A Hot Mamacita
  8. I’m New Orleans Bound
  9. High Blood Pressure Boogie
  10. Please, Stay As Long As You Can
  11. Whale Of A Time
  12. Siggi’s Lap Steel Blues
  13. Blue Guitar Stomp
  14. Put Yourself In My Place
  15. Walk The Bridge – Radio Edit

In altra parte del Blog abbiamo archiviato la pratica del blues svedese http://discoclub.myblog.it/2014/05/03/anche-il-blues-svedese-mancava-allappello-t-bear-and-the-dukes-ice-machine/ , ma di quello austriaco non vogliamo parlarne? Certo che sì! Quando la Mojo Blues Band, nel lontano 1978, pubblicava il primo album, Shake That Boogie, addirittura non esisteva una scena blues locale, c’erano solo loro in Austria e quindi oltre a pubblicare i propri dischi accompagnavano, già dall’anno prima,  tutti i bluesmen americani in tour in quel paese, Charlie Musselwhite, Jb Hutto, Johnny Shines, Lousiana Red, Champion Jack Dupree e tantissimi altri. Dal 1980, per un breve periodo, sono stati anche la backing band della brava cantante inglese di R&B, Dana Gillespie, e tra un cambio di formazione e l’altro, con questo Walk The Bridge siamo intorno al 20° disco https://www.youtube.com/watch?v=LJ8_PTjBYhg . L’unico componente della formazione originale e fondatore della stessa è Erik Trauner, l’eminenza grigia del blues austriaco (che nel frattempo ha ampliato i suoi orizzonti, anche grazie alla diaspora dei vari componenti della MBB), vocalist, chitarra solista e slide, anche all’armonica, strumento imparato una ventina di anni fa per sostituire il titolare della formazione ai tempi e mai più abbandonato. https://www.youtube.com/watch?v=42XCFUOO0fI Hanno girato anche per gli Stati Uniti e nella zona di Chicago, dove godono di una buona reputazione, con il loro repertorio che fonde blues elettrico urbano, R&B e qualche spruzzata di musica della Lousiana, come dimostra anche questo doppio CD.

mojo blues band 2

Trenta brani, molto materiale originale, qualche pezzo strumentale e alcune cover, scelte tra materiale quantomeno inconsueto e non pescando tra i super classici, forse con l’eccezione di una bella versione di I Feel Like Going Home di Charlie Rich. Per i contenuti potremmo parlare di una sorta di Fabulous Thunderbirds mitteleuropei, molto revivalisti, con un sound vecchio stampo, dove il sax dell’ospite Paul Chuey si integra con il pianino di Charlie Furthner e le chitarre di Trauner e Fassi per creare un sound fine anni ’50, inizi ’60, come nell’iniziale Wild, Wild Woman, che molto ricorda le ultime prove discografiche di Jimmie Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=1fbSENquy98 . O nell’honky boogie blues She’s A Hot Mamacita, proposta addirittura in due differenti versioni nel dischetto. FB Blues, che sta per Facebook Blues, perché la “modernità”, almeno nei testi, sembrerebbe giungere anche in questo tipo di blues, è poi in effetti un blues cadenzato con uso di slide, molto Chicago, The Crawl di Lonnie Brooks, sta tra rockabilly e blues, come i T-Birds o ai limiti i Blasters, anche se con meno classe, ma una ammirevole grinta. In Give Me A J-45 Trauner sfodera la sua armonica per un ennesimo shuffle (come tempo siamo sempre più o meno da quelle parti).

mojo blues band

Ma qualche eccezione c’è: Walk The Bridge è una bellissima ballata di stampo country, come il citato brano di Charlie Rich, con piano e Fassi alla pedal steel e un terzetto di voci femminili di supporto, assai gradevole, I’m Coming Home di Clifton Chenier, con la fisarmonica di Furthner in bella evidenza potrebbe essere un brano di Zachary Richard, scuola New Orleans, così come I’m New Orleans Bouund. Your Funeral And My Trial di Rice Miller (che sta per Sonny Boy Williamson II) è un blues primigenio, Alimony, alimony, fin dal titolo e con la sua slide insinuante potrebbe stare nel repertorio di Ry Cooder, come pure la lunga You Must Be Travelling On, cantata in duetto con una voce femminile ( se non ci sono, nel repertorio di Cooder, una ragione ci sarà). Per il resto molto divertimento, boogie, rockabilly, jump, tutti i vecchi stili convergono nel suono di questa Mojo Blues Band. Diciamo che come “modernità” del suono, in alcuni brani, al massimo possiamo arrivare dalle parti del blues fine ’60 di Bluesbreakers, Fleetwood Mac di Peter Green e soci. Anche in questo caso quindi niente di nuovo o di particolarmente eccelso, ma gli appassionati di blues avranno motivo di che rallegrarsi.

Bruno Conti

Sempre Nove Sotto Zero, Ma Più Di Trent’Anni Dopo! Nine Below Zero – Don’t Point Your Finger + Third Degree

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Nine Below Zero – Don’t Point Your Finger – 2 CD A&M Universal

Nine Below Zero – Third Degree – 2 CD A&M Universal

Dopo la folgorante ristampa nel 2012 del bellissimo Live At The Marquee, in versione CD+DVD (di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2012/10/06/un-piccolo-classico-nine-below-zero-live-at-the-marquee/), prosegue la ripubblicazione, da parte della Universal, dei primi album dei Nine Below Zero, quelli di studio, usciti per la A&M nel 1981 e 1982. Entrambi, rispetto alle versioni pubblicate dalla BGO, aggiungono un disco, o di materiale dal vivo, nel caso di Don’t Point Your Finger o la versione alternativa dell’album, quella prodotta da Glyn Johns, mai pubblicata prima, e molto migliore rispetto a quella uscita all’epoca, aggiungo io. Il disco da avere è indubbiatemente il Live At The Marquee, e i motivi, come ricordato sopra, li trovate nel Post a lui dedicato, ma soprattutto Don’t Point Your Finger (At The Guitar Man), per restituirgli il titolo completo, è ancora un signor disco. Siamo nel 1981, in piena epoca New Wave (anche il precedente Live era uscito solo l’anno prima), ma il gruppo, almeno per questo disco, resiste ancora alle mode musicali del tempo: c’è la grinta del punk e del combat rock di alcuni gruppi e solisti britannici che impazzavano all’epoca, ma anche il rigore di certo pub rock e blues corrosivo, tipico dei Dr. Feelgood, c’è l’onda lunga della second wave del British Blues (o terza, se preferite), con gruppi come la Blues Band di Paul Jones, la De Luxe Blues Band di Danny Adler, o band come i Rockpile, che avevano elementi roots, R&R e blues nella loro musica, per non parlare dei vari Costello, Graham Parker, il primo Joe Jackson, Nick Lowe, i Jam di Paul Weller, che suonavano un rock energico, misto a pop, che aveva molti punti di contatto con i Nine Below Zero, e ne parliamo tra un attimo, in relazione a Third Degree.

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La differerenza sostanziale rispetto a molti dei nomi citati era la presenza di un’armonicista al limite del virtuosismo come Mark Feltham che alzava molto la quota Blues nell’ambito sonoro del gruppo. E in Don’t Point Your Finger armonica ce n’è ancora molta, suonata in un modo particolare, molto energico, vicino al rock, simile a quello che avrebbe usato nella decade successiva John Popper dei Blues Traveler. Un soffio poderoso, elettrico, che si fa largo tra le sciabolate e i riff energici di Dennis Greaves, il chitarrista e voce solista, nonché autore principale della band che, forse anche per colpa delle scelte della casa discografica, emarginerà sempre di più la presenza di Feltham dai loro dischi, con la fine della prima parte della loro storia dopo l’uscita di Third Deegree. Non dimenticate che il nome derivava da un famoso brano dell’armonicista Sonny Boy Williamson, ma era diventato a sua volta molto conosciuto in Inghilterra perché veniva utilizzato in una popolarissima sitcom della BBC, The Young Ones,  in onda proprio in quel periodo e dove appariva anche il gruppo, nella prima puntata, con 11 Plus 11.

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Musicalmente, si diceva, il disco attinge molto dal blues, ma anche dal R&B, da certa mod music di cui erano stati maestri gli Who negli anni ’60 e uno dei loro produttori preferiti, Glyn Johns, si occupa dell’album. Dennis “The Menace” Greaves scrive la quasi totalità dei brani, con un piccolo aiuto dal batterista Mickey Burkey in tre, mentre le tre cover sono dei classici: Treat Her Right, del soul, un brano che hanno fatto in tantissimi, da Otis Redding a Jerry Lee Lewis, passando per Thorogood e Rory Gallagher, le cui traiettorie si sono intrecciate per alcuni anni con quelle di Feltham, quando l’armonicista entrò nella sua band, portandosi poi via la sezione ritmica per dare vita ad una nuova breve versione dei Nine Below Zero, versione in stile NBZ a tutta velocità, con armonica e chitarra in grande spolvero; Sugar Mama, il pezzo di Chester Burnett (a.k.a. Howlin’ Wolf) è uno slow blues di quelli canonici e tosti, grande versione, in tutto degna del disco dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=ie4LPys-A8g , mentre Rockin’ Robin è un altro piccolo gioiello dal passato, un rock’n’roll scatenato che permette alla sezione ritmica di mettersi in evidenza mentre Greaves e Feltham sono indaffaratissimi. Ma tutto l’album funziona, dall’iniziale tiratissima One Way Street, che ha il solito tiro frenetico dei migliori brani dei NBZ, passando per il rock di Doghouse, con l’armonica di Feltham che ricorda moltissimo le sonorità del suo “discepolo” John Popper http://www.youtube.com/watch?v=PWOrE5UMGtU . Helen è una delle loro rare concessioni (fino a quel momento) al pop melodico, deliziosa comunque, ma si torna subito al blues classico con una Ain’t Comin’ Back dove Greaves si cimenta anche alla slide http://www.youtube.com/watch?v=04NS3jTvCbs , ottime anche I Won’t lie e Three Times Enough che ricorda i migliori Dr. Feelgood, ma tutto il disco è di ottima qualità.

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E in più gli hanno aggiunto, in questa versione doppia, il concerto completo, registrato il 24 ottobre del 1981 al Granary di Bristol per la serie BBC Session – In Concert http://www.youtube.com/watch?v=taiyq3nCZns , che se non raggiunge lo splendore di Live At The Marquee, poco ci manca: tra le chicche una scoppiettante Don’t Point Your Finger At The Guitar Man che riscopre gli splendori del migliore rockin’ blues, Three Times Is Enough che nella versione in concerto, se possibile, acquista ulteriore grinta, il loro classico Ridin’ On The L&N cantata a squarciagola e con Feltham che fa i numeri all’armonica, Eleven Plus Eleven che sarebbe uscito nel successivo Third Degree, una sontuosa I Can’t Quit Baby, blues all’ennesima potenza, Treat Her Right (abbiamo un riff, geghe geghe geghe, uhm!) http://www.youtube.com/watch?v=QyXzuCZ2jN4 , Sugar Beat (And Rhythm Sweet), il nuovo singolo che ha un giro di basso e un ritmo che ricorda i migliori Police, più scatenati. Per concludere con i quasi dieci minuti di una versione indemoniata di One Way Street che incorpora nel lungo medley classici del soul, del r&R e del blues.

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Più o meno un paio di mesi prima erano entrati in studio ancora con Glyn Johns, per registrare il nuovo album Third Degree (ma questo il pubblico non lo sapeva). E non sapeva neppure che la casa discografica, la A&M, aveva respinto quella versione, in favore di una nuova versione, prodotta da Simon Boswell, che incorporava tutti gli stereotipi del pop britannico di quegli anni, 11 brani 11, tutti firmati da Greaves, ma con un sound molto commerciale, quasi new wave, basso slappato, ritmi spezzati, più di un accenno di reggae. Di 11+11 abbiamo detto, la versione è gagliarda http://www.youtube.com/watch?v=ExM1vP-rhH4 , con Feltham ben presente all’armonica e Greaves alla chitarra, come nella successiva, ancora buona, Wipe Away Your Kiss, un giro di basso alla Taxman o tipo Jam (che erano quasi la stessa cosa), tastiere aggiunte, coretti sgargianti, la chitarra tagliente, ma niente armonica. Che però riappare nella vivace Why Can’t We Be What We Want To Be, pop ma ancora di buona qualità. Tearful Eye sembra un brano di Nick Lowe, come solista o con i Rockpile, niente male devo dire, e anche True Love Is A Crime rimane su quelle coordinate sonore, con un breve intermezzo, pur se brevissimo, dell’armonica di Feltham. Ma Egg On My Face ha sempre quel sound dove il basso è in primissimo piano, l’organo si fa largo e lo spazio per l’armonica è meno marcato, in questo suono decisamente pop. Sugarbeat (and Rhythm Sweeet) nella versione di studio accentua le somiglianze con i Police, l’armonica è tristemente in sottofondo, come nella successiva Mystery Man, che ricorda gli episodi più orecchiabili dei Jam o addirittura dei Level 42, niente di male http://www.youtube.com/watch?v=TNCyc32M-B8 , ma con i NBZ, come direbbe Tonino, che c’azzecca. Loro sono sempre bravi ma East Street, SE 17 con i suoi ritmi ska-reggae sembra un pezzo dei Madness e You Don’t Love Me oscilla addirittura verso Spandau Ballet e New Romantics, prima di una ultima vigorosa scrollata di armonica e chitarre a tutto ritmo con la conclusiva You Can’t Say Yes And You Can’t Say No, ma sempre con il basso molto marcato di Brian Bethell in primo piano nel missaggio.

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La versione di Glyn Johns, che appare nel secondo CD, è meno pompata e commerciale, ma forse più vicina allo spirito della band e anche se la versione di Why Don’ You Try Me Tonight, che era apparsa su Borderline, non raggiunge i vertici di quella di Ry Cooder, è sempre un bel sentire rispetto ad alcuni brani della versione ufficiale di Third Degree, e l’armonica si sente, eccome se si sente http://www.youtube.com/watch?v=J15SPf2OEZ0 . Mama Talk To Your Daughter è un blues coi fiocchi, i controfiocchi e tutto il pappafico, bellissima. E anche Johnnie Weekend non presente nell’album uscito nel 1982 è un brano per nulla disprezzabile. E, come dicevo all’inizio, tutta questa versione mi sembra decisamente migliore di quella di Boswell, più naturale e organica al sound della band. Comprando questa versione doppia del CD, con il combinato dei due album, anche Third Degree rimane un album su cui mettere le mani, mentre Don’t Point Your Finger, nell’economia del gruppo, ma non solo, si avvicina quasi all’indispensabile. Se poi pensate che sono usciti a prezzo speciale, io un pernsierino ce lo farei.

Bruno Conti

Semplicemente Una Delle Più Grandi Band Di Sempre! Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90

little feat rad gumbo

*NDB Torna il supplemento della Domenica Del Disco Club, dischi, gruppi e musicisti che hanno fatto la storia del Rock (e altro). Se il Blog fa giudizio, nei giorni festivi periodicamente c’è sempre spazio per questa rubrica: la parola a Marco!

Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90 – Rhino/Warner 13 CD Box Set in uscita il 25-02-2014

Tra le mode discografiche degli ultimi tempi, una delle più apprezzate è la riproposizione delle discografie complete (o quasi) di gruppi o solisti che hanno fatto la storia della nostra musica, in piccoli box comodi e pratici, con tutti gli album in formato mini-LP, ad un prezzo il più delle volte contenuto (basti pensare al recente cofanetto dedicato a Ry Cooder): l’ultimo in ordine di tempo ad essere preso in esame è il periodo Warner, cioè il migliore, di uno dei gruppi americani cardine degli anni settanta, i Little Feat.

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Se leggete abitualmente questo blog sapete già di chi stiamo parlando, ma per quei pochi che ancora non li conoscono, questo box di 13 CD, che raccoglie tutta la discografia degli anni settanta più i premi due album della reunion di fine anni ottanta (ed una chicca che vedremo), è assolutamente indispensabile per colmare una grave lacuna nella propria discoteca personale.

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Formatisi nel 1969 a Los Angeles su iniziativa del geniale cantante e chitarrista Lowell George (già membro delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, che aveva intuito prima di tutti il suo talento) e del tastierista Bill Payne, i Little Feat (che pare prendessero il nome dalla dimensione dei piedi di George) furono probabilmente il primo gruppo di Americana della storia (insieme a The Band, che però aveva una dimensione più rock) in quanto la loro musica fondeva mirabilmente rock, blues, errebi, country, funk, southern rock, boogie, marcate influenze di New Orleans ed in un secondo tempo perfino jazz e fusion.

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Lowell George era la vera punta di diamante del gruppo, un songwriter geniale ed anche ottimo chitarrista (purtroppo incostante e con brutte abitudini – leggi droghe ed alimentazione non proprio bilanciata – che lo porteranno ad una morte prematura), ma anche Payne era (è) un pianista della Madonna, ed i restanti membri del gruppo (Sam Clayton, Roy Estrada, sostituito dopo pochi anni da Kenny Gradney, Richie Hayward e Paul Barrere) un treno in corsa che in quegli anni aveva pochi rivali come backing band (Jimmy Page, non un pivello qualsiasi, dichiarò che i Feat erano il suo gruppo americano preferito).

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E’ quindi un piacere immenso ripercorrere l’epopea della band californiana, dall’esordio del 1971 Little Feat, un disco ancora un po’ acerbo e parzialmente influenzato dal blues, ma con un futuro classico come Truck Stop Girl ed una prima versione simil-demo del loro capolavoro, Willin’ (e Ry Cooder in session), ai due album seguenti, gli imperdibili Sailin’ Shoes e Dixie Chicken, due dischi da cinque stelle che hanno imposto i Feat come una delle realtà più brillanti del periodo: brani come Tripe Face Boogie, A Apolitical Blues, Cold Cold Cold, Teenage Nervous Breakdown, la stupenda Dixie Chicken, un brano così “New Orleans” che sembra impossibile sia stato scritto da un californiano, Fat Man In The Bathtub, Roll Um Easy e la meravigliosa Willin’, in assoluto una delle più belle canzoni della decade (e non solo).

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In più, comincia con questi due album l’iconica serie di artwork ad opera di Neon Park, tra il surreale e l’umoristico, che diventerà un punto fermo della discografia della band; Feats Don’t Fail Me Now, del 1974, ha la sfortuna di venire dopo due capolavori come i due album precedenti, ma è comunque un signor disco, con una prima facciata quasi perfetta (Rock & Roll Doctor, Oh Atlanta, Skin It Back, Down The Road  e Spanish Moon) e con Emmylou Harris e Bonnie Raitt ospiti.

A questo punto della carriera comincia la fase discendente: George inizia ad avere seri problemi fisici e si disinteressa sempre di più delle sorti del gruppo (terrà il meglio per sé stesso, pubblicandolo poi nell’ottimo album solista Thanks I’ll Eat It Here), mentre il resto della band, con Payne in testa, pretende di avere più spazio ed introduce nel suono elementi jazzati e quasi fusion.

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Si sa che nelle band la democrazia ha sempre funzionato poco (basti pensare all’ultimo album dei Creedence, Mardi Gras, o ai brani dei Grateful Dead non scritti da Jerry Garcia), ed i due lavori che i Feat pubblicano in questo periodo, The Last Record Album e Time Loves A Hero, sono i meno interessanti della loro discografia: si salvano chiaramente i (pochi) brani a firma di George (specialmente Rocket In My Pocket) ed una splendida versione di New Delhi Freight Train di Terry Allen.

Little_Feat_-_Waiting_for_Columbus

Dal vivo però il sestetto continua ad essere una formidabile macchina da guerra, come testimonia il fantastico live del 1978 Waiting For Columbus (l’unico doppio CD presente in questo box), un album imperdibile nel quale tutti i classici del gruppo vengono proposti nella loro versione definitiva, un momento di ispirazione generale che ha pochi eguali nella storia della musica (personalmente è nella mia Top 3 dei dischi live anni 70, subito dopo il Live At Fillmore East degli Allman e Rock And Roll Animal di Lou Reed, con Made In Japan dei Deep Purple a fungere da disturbatore).

Little_Feat_-_Down_on_the_Farm

Le condizioni di salute di George sono però sempre più critiche, e la situazione precipiterà durante le sessions per Down On The Farm, quando il talentuoso musicista viene trovato morto per un attacco di cuore (causato da anni di stravizi): il resto della band porterà a termine da sola il disco (che per ironia della sorte è meglio dei due precedenti lavori di studio) per poi annunciare lo scioglimento.

Hoy_hoy

Ma la storia non finisce qui: nel 1981 esce Hoy Hoy!, una collezione di brani live inediti e di demos ed outtakes di studio (un ottimo disco, in quanto c’è dentro parecchio Lowell George) e, nel 1988, la reunion a sorpresa dei membri originali, con l’aggiunta del chitarrista Fred Tackett e, al posto di George, di Craig Fuller, ex membro dei Pure Prairie League.

Little_Feat_-_Let_It_Roll Little_Feat_-_Representing_the_Mambo

I primi due album della nuova formazione sono anche gli ultimi (o quasi) di questo box: Let It Roll è un buon disco, suonato alla grande (i Feat sono sempre dei grandi musicisti), anche se si sente la mancanza del genio di George, mentre Representing The Mambo è più riuscito, grazie soprattutto ad una serie di canzoni di qualità superiore.

La carriera dei Little Feat proseguirà fino ad oggi, tra dischi buoni, un paio ottimi (Ain’t Had Enough Fun e Join The Band, sorta di auto-tributo con grandi ospiti) ed altri più ordinari, l’uscita di Fuller e l’ingresso (e poi uscita) della vocalist Shaun Murphy e, purtroppo, la perdita recente (nel 2010) di Hayward, andato a far compagnia a George a causa di un cancro al fegato.

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Il box in questione non prende in considerazione questi album, in quanto usciti per altre etichette, ma ha in serbo un’ultima sorpresa: un CD intitolato Outtakes From Hotcakes, pieno di inediti in studio e live del loro periodo d’oro, una vera leccornia finora disponibile soltanto all’interno del box di quattro CD Hotcakes And Outtakes, uscito nel 2000.

Motivo in più, insieme al costo non elevato, per accaparrarsi questo cofanettino: dentro c’è musica tra la migliore degli ultimi quarant’anni.

Marco Verdi