Brava Anche Lei, Altra Voce Di Classe! Cathy Lemons – Black Crow

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Cathy Lemons – Black Crow – Vizztone

Cathy Lemons non è una “giovane pischella del bigoncio” è una veterana (“Mistress of The Blues” recita il suo sito) che da oltre 25 anni si muove in quel territorio che sta tra Blues (principalmente), soul, rock, funky e un pizzico di gospel. Nella sua carriera ha cantato con Stevie Ray Vaughan, John Lee Hooker (già nel lontano 1987), Tommy Castro, Anson Fundeberbergh, con cui ha mosso i primi passi, Doug James e Volker Strifler che appaiono anche come ospiti in questo Black Crow, il terzo album della sua discografia.

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Definita una sorta di Howlin’ Wolf in gonnella e dalla voce vellutata e ipnotica, ma le iperboli sono all’ordine del giorno, soprattutto nella critica blues, direi che si tratta “semplicemente” di una brava cantante, tanto per avere una idea potremmo essere più o meno dalle parti di una Janiva Magness (forse non così brava, per onestà): nativa del Wisconsin, ma cresciuta musicalmente in Texas (dove ha conosciuto Funderburgh e SRV), la Lemons, già dalla seconda metà degli anni ’80 opera soprattutto nella Bay Area, San Francisco e dintorni. Anche la brava Cathy, come altre donne nel blues, pure la Magness appena citata, è stata una “late starter”: il primo disco, Dark Road è uscito nel 2000, quando di anni ne aveva già 42 (sempre dire l’età delle signore, per par condicio). Il secondo, Lemonace, esce nel 2010, poi ha sciolto la sua partnership musicale ed affettiva con il bassista Johnny Ace, che durava da 17 anni ed è iniziata la parte tre della sua carriera, con dolori d’amore e nella vita che sono spesso l’oggetto di canzoni struggenti e ricche di pathos: la nostra amica Cathy ne ha scritte sei per questo nuovo album, registrato con la sua nuova band che vede Stevie Gurr alla chitarra, Paul Olguin al basso (che ha lavorato con Maria Muldaur e Bonnie Raitt, altre due donne che trattano bene l’argomento), Theron Person  alla batteria, Kevin Zuffi alle tastiere, tutti bravi ma non particolarmente conosciuti, più Doug James al sax (dalla band di Jimmie Vaughan e dai Roomful Of Blues).

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Il risultato è un disco solido e piacevole, uscito da poco per la Vizztone, una etichetta che ultimamente ha pubblicato i lavori di Bob Corritore, Candye Kane, della Ruff Kutt Blues Band, Dave Riley, in passato Bob Margolin, che è uno dei fondatori della piccola casa, ed è una certezza in questo ambito musicale. Il suono è bello pimpante, come la voce, quindi si parte con una I’m A Good Woman, scritta da Kim Wilson, un bel errebì dal groove poderoso, con ritmica e gli interventi delle due chitarre e del sax che sostengono la voce sicura e grintosa della Lemons https://www.youtube.com/watch?v=eWPlwi88c_w . Ain’t Gonna Do It ha un’aria più country got soul, porta la firma di Kieran Kane ed è più rilassata della precedente ma sempre ben arrangiata, con armonica e chitarre che si dividono la scena, nell’arrangiamento molto memphisiano. La title-track, Black Crow, è una bella ballata quasi di stampo sudista, potrebbe ricordare certe cose à la Lynyrd Skynyrd o Gregg Allman, rarefatte ma ricche di atmosfera, con quei crescendo tipici delle migliori cose del genere https://www.youtube.com/watch?v=ycrCDnswEDE . Stevie Gurr si divide tra chitarra ed armonica, come nell’ottima Hip Check Mama, a tempo di boogie, dove tutta la band ci dà dentro di gusto e la Lemons arrochisce la sua voce, tra Raitt e Magness, per rendere più rovente il tono della canzone.

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Non manca uno slow super classico come You’re In My Town Now dove Cathy gigioneggia come richiesto dal tipo di canzone, con Gurr alla chitarra e Zuffi al piano che la istigano nel giusto modo. Notevole anche la cover di It All Went Down The Drain un brano di Earl King che riceve nuovamente quel trattamento country-soul, tra New Orleans e Memphis anche grazie alla chitarra slide di Volker Strifler, che aggiunge quel pizzico di pepe alle procedure, molto bella, come la precedente peraltro. The Big Payback è proprio quella di James Brown, e quindi vai col funky, chitarrina con wah-wah, voci femminili di supporto, il sax di Doug James, il piano, tutti perfetti nel titillare la Lemons, che ci mette del suo https://www.youtube.com/watch?v=qMtrS6n2hfI . I’m Going To Try è un’altra ballatona di quelle emozionanti, un poco Etta e un poco Janis, con chitarra, organo e sax che disegnano le loro linee per permettere la migliore resa alla voce di Cathy Lemons. Texas Shuffle, come da titolo, è un omaggio all’arte di SRV, un bel blues con la chitarra di Volker Strifler che pompa alla grande. Ancora le dodici battute in evidenza con The Devil Has Blue Eyes, un brano che riprende le leggende dei classici di Robert Johnson, solo voce, acustica ed armonica, usati con gusto e perizia, che sono i tratti più evidenti di questo bel disco. Un altro nome da tenere d’occhio, prendere nota!

Bruno Conti   

Dei Bluesmen Austriaci Non Ne Vogliamo Parlare? Mojo Blues Band – Walk The Bridge

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Mojo Blues Band – Walk The Bridge – 2CD Styx Records

CD 1

  1. Wild Wild Woman
  2. She’s A Hot Mamacita
  3. FB Blues (Facebook Blues)
  4. The Crawl
  5. Give Me a J-45
  6. Walk The Bridge
  7. I’m Coming Home
  8. Paul’s Shuffle
  9. Your Funeral And My Trial
  10. Allmony, Allmony
  11. You Must Be Travelling On
  12. I’ll It Through
  13. I Ain’t Funny That Way
  14. I Wish I Could
  15. Waddlin’ Duck

CD 2

  1. My Heart Goes Diddely Bum
  2. The Blues Is All I Wanna Sing
  3. You Turned My World Around
  4. Black Train
  5. I Feel Like Going Home
  6. Movin’ Out Of Town
  7. She’s A Hot Mamacita
  8. I’m New Orleans Bound
  9. High Blood Pressure Boogie
  10. Please, Stay As Long As You Can
  11. Whale Of A Time
  12. Siggi’s Lap Steel Blues
  13. Blue Guitar Stomp
  14. Put Yourself In My Place
  15. Walk The Bridge – Radio Edit

In altra parte del Blog abbiamo archiviato la pratica del blues svedese http://discoclub.myblog.it/2014/05/03/anche-il-blues-svedese-mancava-allappello-t-bear-and-the-dukes-ice-machine/ , ma di quello austriaco non vogliamo parlarne? Certo che sì! Quando la Mojo Blues Band, nel lontano 1978, pubblicava il primo album, Shake That Boogie, addirittura non esisteva una scena blues locale, c’erano solo loro in Austria e quindi oltre a pubblicare i propri dischi accompagnavano, già dall’anno prima,  tutti i bluesmen americani in tour in quel paese, Charlie Musselwhite, Jb Hutto, Johnny Shines, Lousiana Red, Champion Jack Dupree e tantissimi altri. Dal 1980, per un breve periodo, sono stati anche la backing band della brava cantante inglese di R&B, Dana Gillespie, e tra un cambio di formazione e l’altro, con questo Walk The Bridge siamo intorno al 20° disco https://www.youtube.com/watch?v=LJ8_PTjBYhg . L’unico componente della formazione originale e fondatore della stessa è Erik Trauner, l’eminenza grigia del blues austriaco (che nel frattempo ha ampliato i suoi orizzonti, anche grazie alla diaspora dei vari componenti della MBB), vocalist, chitarra solista e slide, anche all’armonica, strumento imparato una ventina di anni fa per sostituire il titolare della formazione ai tempi e mai più abbandonato. https://www.youtube.com/watch?v=42XCFUOO0fI Hanno girato anche per gli Stati Uniti e nella zona di Chicago, dove godono di una buona reputazione, con il loro repertorio che fonde blues elettrico urbano, R&B e qualche spruzzata di musica della Lousiana, come dimostra anche questo doppio CD.

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Trenta brani, molto materiale originale, qualche pezzo strumentale e alcune cover, scelte tra materiale quantomeno inconsueto e non pescando tra i super classici, forse con l’eccezione di una bella versione di I Feel Like Going Home di Charlie Rich. Per i contenuti potremmo parlare di una sorta di Fabulous Thunderbirds mitteleuropei, molto revivalisti, con un sound vecchio stampo, dove il sax dell’ospite Paul Chuey si integra con il pianino di Charlie Furthner e le chitarre di Trauner e Fassi per creare un sound fine anni ’50, inizi ’60, come nell’iniziale Wild, Wild Woman, che molto ricorda le ultime prove discografiche di Jimmie Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=1fbSENquy98 . O nell’honky boogie blues She’s A Hot Mamacita, proposta addirittura in due differenti versioni nel dischetto. FB Blues, che sta per Facebook Blues, perché la “modernità”, almeno nei testi, sembrerebbe giungere anche in questo tipo di blues, è poi in effetti un blues cadenzato con uso di slide, molto Chicago, The Crawl di Lonnie Brooks, sta tra rockabilly e blues, come i T-Birds o ai limiti i Blasters, anche se con meno classe, ma una ammirevole grinta. In Give Me A J-45 Trauner sfodera la sua armonica per un ennesimo shuffle (come tempo siamo sempre più o meno da quelle parti).

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Ma qualche eccezione c’è: Walk The Bridge è una bellissima ballata di stampo country, come il citato brano di Charlie Rich, con piano e Fassi alla pedal steel e un terzetto di voci femminili di supporto, assai gradevole, I’m Coming Home di Clifton Chenier, con la fisarmonica di Furthner in bella evidenza potrebbe essere un brano di Zachary Richard, scuola New Orleans, così come I’m New Orleans Bouund. Your Funeral And My Trial di Rice Miller (che sta per Sonny Boy Williamson II) è un blues primigenio, Alimony, alimony, fin dal titolo e con la sua slide insinuante potrebbe stare nel repertorio di Ry Cooder, come pure la lunga You Must Be Travelling On, cantata in duetto con una voce femminile ( se non ci sono, nel repertorio di Cooder, una ragione ci sarà). Per il resto molto divertimento, boogie, rockabilly, jump, tutti i vecchi stili convergono nel suono di questa Mojo Blues Band. Diciamo che come “modernità” del suono, in alcuni brani, al massimo possiamo arrivare dalle parti del blues fine ’60 di Bluesbreakers, Fleetwood Mac di Peter Green e soci. Anche in questo caso quindi niente di nuovo o di particolarmente eccelso, ma gli appassionati di blues avranno motivo di che rallegrarsi.

Bruno Conti

E Quindi Ci Siamo, Album # 2, Ma Prima Concerto! Psychic Twins – A Small World In Black And White

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In qualità di loro sostenitore e tenutario di Blog mi permetto di ricordarvi che domani sera, 20 Maggio, ore 21.30, alla Salumeria della Musica, Via Pasinetti 4, in quel di Milano, ingresso euro 10, concerto degli Psychic Twins per la presentazione del nuovo album A Small World In Black And White, opera seconda del duo, Fabrizio Friggione musica e Massimo Monti testi. Se volete ascoltare della buona musica rock non mancate! Sul palco con questa formazione:

Fab Friggione, voce e chitarra, Nik Taccori, alle percussioni, Cesare Nolli, al basso, Chris Lavoro, alla chitarra, Ermanno Fabbri alla chitarra, Davide Dave Rossi, alla tastiera e  Debora Cesti, voce.

Se vi piace il rock anglo-italo-americano non mancate, questo è quello vecchio http://discoclub.myblog.it/2013/06/19/quello-bravo-e-in-mezzo-nella-foto-ma-anche-gli-altri-non-so/, su quello nuovo vi riferirò non appena sentito il CD. I brani nuovi sentiti in concerto mi paiono molto buoni, questa è una piccola anteprima video https://www.youtube.com/watch?v=BIiORToBC7I e questa del concerto https://www.youtube.com/watch?v=fruKACTfYmQ.

Mi raccomando, per loro, sono bravi, intervenite numerosi, se potete ovviamente, ma potete…

Bruno Conti

Un Disco Per La Vita! Walter Trout – The Blues Came Callin’

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Walter Trout – The Blues Came Callin’ – Provogue CD CD/DVD 03-06-2014

Ho sempre considerato Walter Trout uno dei migliori chitarristi di rock-blues attualmente in circolazione, uno degli ultimi grandi prodotti dalla scena americana, negli anni ’70 molta gavetta, poi nei Canned Heat nel 1981 e da lì il passaggio all’ultima grande formazione dei Bluesbreakers di John Mayall, quella che negli anni ’80 lo ha visto a fianco di Coco Montoya, una coppia per una ultima volta in grado di rinverdire i fasti del passato. Nel 1990 ha pubblicato il primo album a nome proprio e quindi si avvicinava a grandi passi il 25° Anniversario della sua carriera da festeggiare nella giusta maniera. Purtroppo, come forse avrete letto, Trout è molto malato, le varie cure che ha tentato nell’ultimo anno per combattere la malattia al fegato che lo ha colpito non hanno dato i frutti sperati, ha perso tra i 50 e i 60 chili di peso, diventando l’ombra di sé stesso, l’unica soluzione per risolvere la situazione, che è sempre più disperata, è quella di un trapianto, ma si tratta di operazioni molto costose, tra annessi e connessi, si parla di 250.000 dollari. Mentre pubblico queste righe siamo circa alla metà di Maggio e la sottoscrizione avviata dalla moglie di Danny Bryant (suo pupillo e protetto) ha comunque raccolto oltre duecentoventimila dollari, e dovrebbe essere chiusa, se volete verificare questo è il link al sito  http://www.youcaring.com/medical-fundraiser/walter-trout-needs-a-new-liver-you-can-help-/151911, sperando di arrivare in tempo.

Ho deciso di anticipare la recensione di questo nuovo CD, The Blues Came Callin’, che uscirà il 3 giugno, anche per permettervi di conoscere la situazione, di esorcizzarla se possibile, come ha fatto Walter  in questo ultimo anno, dopo l’uscita dell’ottimo Luther’s Blues di cui vi avevo parlato giusto un anno fa http://discoclub.myblog.it/2013/06/16/tra-bluesmen-ci-si-intende-walter-trout-his-band-luther-s-bl/ . Nel frattempo la malattia è progredita ma Trout ha continuato a fare concerti e ad incidere questo nuovo album, fino a che le condizioni di salute glielo hanno concesso, ora entra ed esce dall’unità di cura intensiva tra un ospedale del Nebraska e l’UCLA in California. I testi delle canzoni, sono molto influenzati, ovviamente, dalla sua attuale situazione, ma il disco è sorprendentemente vivo e vitale, uno dei suoi migliori in assoluto e dove non arriva la sua voce, a tratti affaticata, ci pensa una chitarra ancora tagliente e vibrante come nelle sue migliori prove. Nello stesso periodo, per raccogliere altri fondi, sono previste anche la pubblicazione della sua biografia Rescued From Reality – The Life And Times of Walter Trout e un documentario, attualmente in produzione, che verrà allegato alla edizione Deluxe del CD.

https://www.youtube.com/watch?v=btiS6ijncMk

Torniamo alla musica: vi assicuro che non si tratta di piaggeria, il disco è veramente bello, il musicista nativo del New Jersey, ma californiano di adozione, ha scritto per l’occasione dieci brani nuovi, due sono le cover, una dell’amato JB Lenoir, conosciuto tramite il suo mentore John Mayall, proprio presente come ospite nell’album e autore dell’altro pezzo non a firma Trout, una Mayall’s Piano Boogie, che come dice il titolo è un boogie creato all’impronta al piano da John, con i vari musicisti che improvvisano una sorta di jam spontanea e divertente. Per il resto tanto blues(rock) in tutte le sue forme: la tirata e grintosa Wastin’ Away, che nel suo incedere ricorda i migliori Ten Years After, nell’interplay tra la chitarra sempre tagliente di Trout e l’organo dell’immancabile Sammy Avila, con il testo che ricorda che anche se il corpo “se ne sta andando”, lui non molla. Il riff roccioso di The World Is Goin’ Crazy con la chitarra imperiosa di Walter, The Bottom Of The River, altro brano che affronta la sua attuale condizione su uno sfondo musicale elettroacustico di notevole spessore con una bella armonica aggiunta al sound d’insieme.

Take A Little Time è un brano più R&R vecchio stile, una sorta di omaggio al Chuck Berry del periodo Chess, con tanto di pianino suonato da Avila, The Whale è la cover di JB Lenoir, con Mayall punto di riferimento nel blues classico. Willie è una canzone dedicata da Trout alle infinite fregature prese negli anni dall’industria discografica, nella persona di un ipotetico “maneggione”, a tempo di boogie-blues, solido e con un bel alternarsi di chitarra ed armonica, poderoso. Detto della boogie jam con Mayall, c’è spazio anche per uno slow blues torrido come Born In The City, vero marchio di fabbrica di Walter, uno strumentale alla Freddie King, Tight Shoes, che illustra la grande tecnica del nostro, un altro sapido blues elettrico, The Blues Came Callin’, con un eccellente Mayall all’organo e la risposta puntuale della solista in grande spolvero di Trout a dispetto della salute, altro brano che vuole esorcizzare i fantasmi che lo tormentano ultimamente. Se il Blues è una musica che illumina i sentimenti “tristi” della vita, Hard Time è una variazione a tempo di funky-blues di questo tema mentre Nobody Moves Me Like You Do è un sentito omaggio alla moglie Marie, compagna e amore di una vita, madre dei suoi ancora giovani figli, una “hard” ballad che conclude in gloria questo ottimo album, ripeto uno dei suoi migliori di sempre. Forza Walter speriamo che tutto vada bene!

Bruno Conti

Aspettando I Richmond Fontaine…La Sorpresa Del 2014? The Delines – Colfax

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The Delines – Colfax – Décor Records/Audioglobe

Non credo che esistano dischi in grado di essere ascoltati solo in un determinato contesto, è altresì vero che certe canzoni, in situazioni particolari, riescono a ricordarci emozioni profonde, in quanto ad ognuno è capitato, capita e capiterà sempre di infatuarsi di amori musicali, ed è quello che è  successo al sottoscritto nell’ascoltare l’album di debutto dei Delines, Colfax, una splendida collezione di canzoni notturne e desolate. I Delines sono un side project di Willy Vlautin, il leader dei Richmond Fontaine (anche autore di fortunate opere letterarie, come il romanzo The Motel Life), che, conquistato dalla voce della cantante dei Damnations (oscura band texana), Amy Boone, ha pensato bene di formare una sorta di mini supergruppo, se mi passate l’ossimoro, chiamando a raccolta il suo “pard” nei Richmond Fontaine il polistrumentista Sean Oldham, la tastierista Jenny Conlee dei Decemberists e Tucker Jackson dei Minus 5 alla pedal steel, che affiancati da  Freddy Trujillo al basso e dal produttore John Askew, in trasferta allo Studio Flora Recording di Portland, Oregon, nel giro di poche settimane, hanno dato vita a questa piccola meraviglia.

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Musicalmente, queste sono tra le canzoni più “ricche” mai scritte da Vlautin, e la Boone è la sua “musa”; a partire dall’iniziale dolente Calling In (si viaggia dalle parti dei primi Cowboy Junkies), passando per le atmosfere soul di Colfax Avenue (la più lunga strada americana, situata a Denver, citata più volte da Jack Kerouac in On The Road) e The Oil Rigs At Night https://www.youtube.com/watch?v=pW3zEkWfjkw , alle pennellate di pedal steel nella dolce Wichita Ain’t So Far Away e alla melodica I Won’t Slip Up https://www.youtube.com/watch?v=1gu0Q8MkRmo . L’intro di pianoforte di Sandman’s Coming sembra rubato da un brano di Randy Newman, una sorta di ninna nanna in chiave jazz, mentre in State Line la voce di Amy si manifesta in tutta la sua intima bellezza, come pure nella meravigliosa e languida Flight 31,nell’ammaliante He Told Her The City Was Killing Him, per approdare, alla fine di un innamoramento musicale, a una ballata avvolgente come I Got My Shadows (Roberta Flack ne sarebbe andata fiera), e all’arrangiamento ovattato e vagamente psichedelico di una intrigante 82nd Street.

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Per chi conosce il suono dei Richmond Fontaine ne troverà molto in questo gruppo (ma non poteva essere altrimenti), anche se è la poliedrica voce della Boone che caratterizza il disco, una voce che spazia dal soul al jazz, dal blues al folk, accomunando idealmente Memphis a Nashville.

Per dare un indirizzo d’ascolto si possono azzardare paragoni con i Walkabouts più intimi (quando canta Carla Torgerson), i Cowboy Junkies di Margo Timmins, gli Spain di Josh Haden e volendo, direi anche due gruppi minori (ma non meno bravi), come Hem e Trespassers William, depositari di una musica dai suoni notturni, da ascoltare dopo la mezzanotte, possibilmente in dolce compagnia.

Tino Montanari

Nuovo Batterista, Vecchio Rock-Blues! Mount Carmel – Get Pure

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Mount Carmel – Get Pure – Alive Naturalsounds Records

Terzo disco per il terzetto dei fratelli Reed (scusate il bisticcio), Matthew, chitarra e voce, Patrick, basso, con un nuovo batterista, James McCain,  a sostituire l’ottimo Kevin Skutback, che sedeva dietro ai tamburi nelle due precedenti prove http://discoclub.myblog.it/2012/04/15/un-poderoso-terzetto-di-rock-blues-mount-carmel-real-women/ . Ma il risultato parrebbe non cambiare di molto, il “solito” power trio, inserito fino in fondo nel proprio rock-blues dalle venature profondamente 70’s, con le “solite” leggere spennellature di psichedelico abbandono della decade precedente. Undici brani, firmati dai due fratelli nativi dell’Ohio, 35 minuti e spiccioli dove il sound volutamente anacronistico della band sembrerebbe fare a pugni con i dettami delle ultime mode musicali, ma il suono “puro” e naturale del gruppo conquista sia l’ascoltatore di vecchia data quanto i novizi del vecchio rock https://www.youtube.com/watch?v=yUSwcf-xmdM .

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Se ai primi nomi come Bad Company, Free (gli uni la prosecuzione degli altri), Humble Pie, Cream e quant’altri non dicono molto, ai novizi potrebbe non interessare più di tanto (ma forse sì, se volessero investigare le radici di questo suono): si potrebbe anche dire che il sound non è derivativo, ma sarebbe una palla di dimensioni quasi epiche, anche se, qui e là, in altre recensioni passate, mi è parso di leggerlo. Comunque se volete inserirli in un contesto più “moderno” e chiamare il loro genere stoner rock, lo stile non è che poi cambi di molto, sotto i cappellini esibiti sulla copertina “abitano” tre giovanotti che sembrano catapultati in un mondo dove la loro visione sonora fa a pugni con quella che passa sulle radio commerciali o di cui si legge nelle riviste di tendenza, ma il talento non manca e se l’originalità non c’è, ce ne faremo una ragione.

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Così, con molto groove, tanti assoli e, forse, poca melodia, scorrono episodi rocciosi come l’iniziale Gold, riffatissima e cattiva, con la chitarra che inizia a disegnare le sue linee soliste veloci e acide, mentre la sezione ritmica picchia di brutto. Back On It potrebbe provenire da un disco dei citati Bad Company e Humble Pie, anche se Reed non ha la voce né di Paul Rodgers, né di Steve Marriott, ma l’impegno e la grinta non mancano, la chitarra comincia a ingranare e gli amanti del genere hanno di che compiacersi https://www.youtube.com/watch?v=7Zv7hB0qtoY . Anche Whisper, con un bel giro di basso di Patrick Reed, che ancora il brano, ha una certa vivacità che sfocia negli assolo brevi e, anche se già sentiti mille volte, piacevoli di fratel Matthew. No Pot To Piss vira il sound verso un attitudine più marcatamente blues, anche se il rock’n’roll rimane il principale ingrediente del menu, semplice ed immediato, forse anche troppo, ma la chitarra comincia a dilatare la sua presenza e le jam iniziano ad estendersi, anche se dal vivo, come dimostra il primo album, forse sono più nel loro elemento.

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Shallow Me Up, tanto per non fare altre citazioni, potrebbe venire da Led Zeppelin II o da Paranoid, potrebbe, se non li avessero fatti, e meglio, già altri, prima di loro, comunque i tre suonare suonano, i Cream li abbiamo già nominati, vero? Bridge To Nowhere è un breve strumentale, neanche due minuti, dove chitarra, basso e batteria, se le danno di santa ragione prima di cedere la scena a One More Morning, uno dei rari lenti, cadenzati e sempre intrisi di blues (rock) con la chitarra che disegna linee sinuose sul groove sempre energico, anziché no, della sezione ritmica. Will I è quanto di più vicino ad una ballata possiamo aspettarci da un disco di questo tipo, una love song dall’andatura gentile per quanto sempre pronta a sfociare nel rock, con un bel assolo del buon Matthew, niente di memorabile ma stempera l’atmosfera più cupa del disco. Hangin’ On è un altro “bluesaccio” di quelli cattivi, sempre uscito dai solchi di vecchi dischi dei bei tempi che furono, con il basso che si avventura anche in qualche giro armonico. Fear Me Now, a 4’51” il brano più lungo del disco, torna su tematiche heavy più dark e vagamente psych,  rispetto allo spirito maggiormente blues-rock del resto del disco, senza essere una svolta epocale nella storia del rock si lascia ascoltare. Tornano i Cream (ma Clapton, Bruce e Baker erano di un’altra classe) o i Taste (e anche Rory Gallagher era di un’altra categoria) per la conclusiva Yeah You Mama, ancora power trio blues-rock di buona fattura, niente di nuovo sotto il Monte Carmelo!

Bruno Conti      

Nonostante Il Titolo Più Rock e Southern! The Janeys – Get Down With The Blues

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The Janeys – Get Down With The Blues – Grooveyard Records

  1. Beginnings
  2. Led Balloon
  3. The Good Love
  4. Get Down With The Blues
  5. The Rose
  6. It’s A Guitar Thing
  7. Mind Bender
  8. Hoochie Coochie Man
  9. When The Devil Comes Out T Play
  10. It’s Not My Cross To Bear
  11. Third Stone From The Sun

Il motto della Grooveyard Records, l’etichetta che stampa questo CD, è “The Sound Of Guitar Rock – Keep On Swingin’ That Axe & Keep The Rock Alive” (una sorta di composito dei vari motti), che poi questo album dei Janeys si chiami Get Down With The Blues è del tutto incidentale, in quanto scorrendo i nomi di alcuni loro compagni di etichetta troviamo gente come la Blindside Blues Band (i più famosi), Craig Erickson, Tony Spinner, Gwyn Ashton, Guitar Pete, Randy Hansen, tutta gente che il blues lo suona abbastanza energico, per usare un eufemismo. Gli stessi Billylee e Bryce Janey sono due che nei rispettivi dischi solisti ci hanno sempre dato dentro di brutto e anche in questo album certo non si trattengono, anzi, essendo in due, “l’energia”  del rock è ancor più soverchiante https://www.youtube.com/watch?v=gtVi_PX5lqU .

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Se conoscete le coordinate sonore degli artisti dell’etichetta sapete cosa aspettarvi, un rock-blues dove Hendrix e gli altri grandi chitarristi della storia, sono le divinità che vengono venerate: non è poi detto che questi obiettivi vengano raggiunti, ma si punta in alto come ispirazione. In questo album i due brani posti in apertura e chiusura del programma portano la firma  di Hendrix, ma mentre la conclusiva Third Stone From The Sun è uno dei brani portanti del Jimi più innovativo e futuribile (e la coppia padre-figlio, perché questo sono, se la cava egregiamente con una versione rispettosa dell’originale e non troppo caciarona, con la doppia solista suonata spesso all’unisono e la variazioni di tempo ed atmosfera che il brano richiede, anche se l’originale è un’altra cosa, ma questo lo sappiamo tutti), l’altro pezzo, Beginnings, francamente mi sfuggiva nella discografia di Hendrix. Poi, frugando nei dischi postumi, è saltato fuori uno strumentale che si trovava alla fine di Midnight Landing, un’altra jam strumentale, che per la precisione portava la firma di Mitch Mitchell, comunque anche nella versione dei Janeys, un onesto brano di rock-blues.

bryce janey

In mezzo ci sono molti brani che esplorano le varie anime di questo tipo di musica: Led Balloon è un sanguigno funky-rock con le due soliste ad inseguirsi e il vocione di Bricey (che è il cantante della band) impegnato nei clichès classici del genere. Good Love porta la firma Collins, ma non mi pare un brano del buon Albert, quanto una canzone che avrebbe fatto la sua figura nei dischi più rock degli ZZ Top, un bel boogie riffato con le chitarre sempre in grande evidenza, che è in fondo quello che ci si aspetta da un CD di questo tipo. Get Down With The Blues tiene fede al suo nome e avrebbe potuto apparire in qualche disco di hard blues rock di inizio anni ’70, ma anche nei primi dischi degli Allman Brothers o della Marshall Tucker Band, con l’organo Hammond di Tommy T-Bone Giblin che alimenta la quota southern del brano. The Rose viaggia sempre su queste coordinate sudiste, anche per merito della voce di Bricey che fa molto Gregg Allman o Doug Gray, anche Charlie Daniels se volete, oltre alle due soliste che suonano alla grande, perché, per onestà, i due sono bravi, non solo dei fracassoni ripetitivi ma dotati di ottima tecnica entrambi, anche alla slide, che non saprei dirvi di chi sia (penso il babbo), ma suona, caspiterina se suona https://www.youtube.com/watch?v=q6AiGWL6Unc !

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It’s A Guitar Thing vira verso ritmi più funky ed è più scontata, ma non manca di grinta, mentre Mind Bender, che porta la firma Buie/Walker era sul disco omonimo degli Stillwater, una delle band che vengono considerate tra i Sacri Graal della Capricorn e del southern rock tutto, anche se da avere sarebbe forse I reserve the right, quello con l’uomo nudo che corre in copertina https://www.youtube.com/watch?v=B-L_hRJZ0JA , tre chitarre soliste che impazzano nel miglior rock sudista al di qua di Allman, Lynyrd, Marshall e un pizzico di Outlaws, comunque tornando al brano in questione è l’occasione di sentire di nuovo, dopo secoli, il famoso effetto talk-box https://www.youtube.com/watch?v=CsWA9G5LYNM . Sempre rimanendo nel genere, non male anche una grintosa versione di Hoochie Coochie Man https://www.youtube.com/watch?v=WOSaTKOIzhE  e una puntata diretta nel repertorio dell’Allman Brothers Band con il super blues tiratissimo di It’s Not My Cross To Bear, suonata e cantata con passione invidiabile e con l’apporto fondamentale dell’organo di Giblin https://www.youtube.com/watch?v=8PyEb71vfco , bella versione, molto misurata, con “rispettosa” citazione finale! E tirando le conclusioni bisogna dire che questi Janeys il loro blues, ma soprattutto il loro rock, in definitiva, lo conoscono e lo suonano decisamente bene, se amate il genere, da aggiungere alla lista di quelli bravi.

Bruno Conti

Una Veterana Del Folk-Rock, Non Solo Sogni Ma Anche Realtà! Catie Curtis – Flying Dream

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Catie Curtis – Flying Dream – Catie Curtis Records

Questa veterana della scena folk di Boston è in giro già da vari anni (venticinque per la precisione), e nonostante una bella voce, un’ottima scrittura e il plauso della stampa locale e americana, dalle nostre parti, purtroppo, non è mai riuscita veramente ad imporsi come merita. Catie ha iniziato la sua carriera sul finire degli anni ’80 con Dandelion (89), per poi proseguire con From Years To Yours (91), sino a farsi notare definitivamente con Truth From Lies (95) e con l’omonimo Catie Curtis (97), prima di approdare allo Rykodisc Records con, forse, il suo lavoro più riuscito Crash Course In Roses (99).

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Dopo due dischi interlocutori My Shirt Looks Good On You (01) e Acoustic Valentine (03), incide un album intimo e profondo come Dreaming In Romance Languages (04), per poi passare alla Compass Records dove negli anni seguenti pubblica Long Night Moon (06), Sweet Life (08), Hello, Stranger (09), Stretch Limousine On Fire (11) http://discoclub.myblog.it/2011/11/08/un-disco-autunnale-per-una-grande-cantautrice-americana-cati/ , tutti lavori gradevoli e interessanti, prima di uscire in piena autonomia con questo Flying Dream, prodotto dalla collega e co-autrice Kristen Hall (grande cantante in proprio, poi fondatrice dei Sugarland, dai quali fu fatta fuori in modo, diciamo, non elegante). Per le sessioni di registrazione (al Woolly Mammoth Sound Studio di Boston), Catie Curtis è stata aiutata dai più noti musicisti dell’area, a partire dal polistrumentista Duke Levine (già collaboratore di Suzanne Vega e Mary Chapin Carpenter) alle chitarre, mandolino e banjo, Jamie Edwards organo, pianoforte e tastiere (anche con Sarah McLachlan, Aimee Mann, Ron Sexsmith e molti altri), Richard Gates al basso, Jim Gwin batteria e la stessa Hall ai cori, il tutto ha prodotto un lavoro interessante ma, per chi scrive, leggermente inferiore ai precedenti.

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Flying Dream è totalmente composto da canzoni che esplorano le molte sfumature dell’amore, a partire dalla title-track dall’incedere sognante https://www.youtube.com/watch?v=Q-jZZiBrBkc , ballate delicate dal sapore malinconico come Four Walls, Maybe Tomorrow e If  I’m Right, brani dalle belle armonie vocali tipo The Queen e Live Laugh Love, una filastrocca country con il banjo in evidenza. When You Find Love è un colpo al cuore, una stupenda ballata acustica che (purtroppo, o forse no, dipende dai gusti) nel ritornello ricorda It Must Have Been Love dei Roxette, mentre Orion è un motivo dal ritmo gioioso, passando per il brano meno riuscito del disco, una versione quasi imbarazzante di This Girl’s In Love With you di Burt Bacharach, rivisitata con un arrangiamento lievemente “dub”(la migliore probabilmente rimane quella di Herb Alpert & Tijuana Brass), chiudendo in bellezza con la toccante The Voyager https://www.youtube.com/watch?v=CwD3f731iZU .

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Catie Curtis appartiene a quel gruppo di cantautrici indipendenti di cui la scena di Boston è sempre stata molto generosa, a partire dalla grande Mary Gauthier, passando per Patty Larkin, Dar Williams e altre di spessore come Eliza Gylkison e Carrie Newcomer per citarne solo alcune, e anche se questo lavoro, come detto, è un po’ sottotono, Catie è una folksinger brava e credibile, dotata di una voce limpida e intensa, scrive testi toccanti e non banali, creando un perfetto equilibrio tra voce e musica.

Tino Montanari

Crociati, Ladri O Rockers Da Chicago? The Great Crusades – Thieves Of Chicago

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The Great Crusades – Thieves Of Chicago – Blue Rose Records/Ird

Tengo in considerazione questo quartetto di Chicago da parecchio tempo, e l’occasione per parlarne è data dall’uscita di questo ultimo lavoro Thieves Of Chicago, i precedenti, purtroppo, sono passati quasi del tutto inosservati. Il disco d’esordio, The First Spilled Drink Of The Evening (99) aveva raccolto ottime critiche dagli addetti ai lavori, e i seguenti Damaged Goods (00) e Never Go Home (02) non fecero altro che confermare la bravura della band. Con Welcome To The Hiawatha Inn (04) e Four Thirty (06) la formazione compì un’ulteriore balzo in avanti, sempre con il loro solido rock di impianto chitarristico, certificato anche nei seguenti Keep Them Entertained (07), Fiction To Shame (10) e lo splendido Who’s Afraid Of Being Lonely? (11) https://www.youtube.com/watch?v=8vF38UpKzi4 , tutti distribuiti dalla meritoria Glitterhouse Records. Per chi non li conoscesse i quattro “gangsters” sono, Brian Krumm voce e chitarra (e autore di tutti i testi), Brian Leach alle chitarre, Brian Hunt al basso, Christian Moder alla batteria, con l’apporto delle coriste Katie Scantom e Laura Thompson, in questa formazione il gruppo si è rifugiato nel “covo” dei JoyRide Studios di Chicago per registrare brani robusti ed energici, intervallati da ballate dalle atmosfere quasi “waitsiane”.

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L’apertura dei “Ladri di Chicago” è senza compromessi, con una potente This City Is A Shambles Tonigjht, a cui fa seguito una inquietante The Devil And All His Relations, dove il suono dei grandi Calexico incontra quello di Tito & Tarantula con trombe, nacchere e chitarre spagnole, mentre l’intro di una chitarra “hawaiana” accompagna la splendida Sometimes On Sundays Too. L’avventura riparte con la narrazione folk di Another Song About You, una Naked Arms cantata in stile Nick Cave dalla voce di catrame di Krumm, passando per il brano più tosto del disco, con un sound “garage”, The Right Way To Be Wrong, e dopo una sparatoria, arrivano due classici brani da Whiskey Bar, Why Did You Make Me Care? e la title track Thieves Of Chicago dove si respira l’aria e lo spirito delle canzoni di Tom Waits, mentre Vandalia è un omaggio alla città di St.Louis. Prima di dividersi il bottino, la band snocciola una Time Capsule vagamente anni ’60, l’acustica e recitativa Cruel Joke, l’aggressivo rock di Til The Needle On The Record Goes To Bed, lasciando scorrere i titoli di coda con il romanticismo di Old Lovers, Old Friends, uno slow country-rock tipico dei “gangsters” che hanno anche un’anima.

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Brian Krumm è sicuramente un personaggio da seguire e la sua band viaggia alla grande, le tredici tracce filano come un treno senza momenti di stanca, con il leader che fa la differenza, con una voce rauca che racconta storie di disillusione e voglia di dimenticare, su un tessuto fatto di un rock’n’roll notturno e sensuale, tra sfumature blues e jazzy, e fulminee impennate elettriche https://www.youtube.com/watch?v=8vF38UpKzi4 .I Great Crusades sono una formazione in continua crescita, fanno, per chi scrive, grandi canzoni, degne di attenzione, e non hanno nulla da invidiare ad altri gruppi sicuramente meno dotati, ma che sanno sfruttare i nomi eccellenti dei propri componenti, per nascondere le carenze a livello compositivo e  musicale. Da scoprire!

Tino Montanari

Tra Soul E Blues, E Che Qualità! John Nemeth – Memphis Grease

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John Nemeth – Memphis Grease – Blue Corn Music

Sempre per il famoso assioma che sapere i nomi dei musicisti che suonano in un disco non sia importante, vediamo chi appare in questo Memphis Grease, il nuovo eccellente (e qui mi scopro subito) album di John Nemeth. Si fanno chiamare The Bo-Keys, in onore dei vecchi Bar-Kays (captata l’assonanza?) e come lascia intuire il titolo del disco vengono da Memphis; Tennessee, sono bianchi e neri, come è sempre il caso in queste formidabili formazioni e sono guidati da Scott Bomar, che è il bassista e anche il produttore, nonché quello che li ha assemblati per accompagnare Sir Mack Rice (un degno epigono Stax di Wilson Pickett, basti dire che ha scritto Respect Yourself e Mustang Sally), poi il gruppo ha proseguito registrando alcune colonne sonore tipo Hustle & Flow e Soul Men, oltre all’ottimo disco di Cyndi Lauper Memphis Blues. 

Gli altri sono anche meglio: Howard Grimes, il batterista, suonava nei dischi della Hi Records con Al Green e Ann Peebles, Mark Franklin, Kirk Smothers e Art Edmaiston erano con Rufus Thomas, Bobby “Blue” Bland e sempre Al Green, Joe Restivo e Al Gamble, sono più giovani, come Bomar, ma hanno già un pedigree notevole. Tra i vocalist coinvolti c’è anche l’ottima Susan Marshall. Se Nemeth, nativo dei dintorni di Boise nell’Idaho, ma da molti anni residente nella calda California si è trasferito a Memphis un motivo ci sarà, qualcosa che si respira nell’aria, per le vie, negli studi di registrazione. Il nostro amico, cantante ed armonicista, era già bravo di suo, come dimostrano i precedenti otto album, tra cui il notevole Name The Day, uscito nel 2010 per la Blind Pig, ma in questo album fa un ulteriore salto di qualità.

La quota blues è sempre presente, ma arricchita da una abbondante dose di soul e R&B di grande qualità, originali e cover indifferentemente, se vi sono piaciuti i dischi recenti di Boz Scaggs e Paul Rodgers, o amate gente come James Hunter, Shirley Jones, Eli “Paperboy” Reed (bravissimo, peccato lo conoscano in pochi), e quindi sia blue-eyed soul che veri soulmen di colore, non abbiate problemi, questo è il disco che fa per voi. Three Times A Fool, il brano che apre il disco, è una canzone scritta da Otis Rush, ma da come i musicisti la prendono di petto, infarcita di fiati e con ritmi errebì carnali, avreste potuto trovarla su un disco d’epoca di Albert King, magari su Stax, con l’armonica al posto della proverbiale chitarra e una voce nera come il carbone. Saranno anche “revivalisti” questi musicisti, ma viva il revival se è così bello, Joe Restivo, per non sbagliare, ci piazza comunque un assolo di chitarra di quelli tosti e tirati https://www.youtube.com/watch?v=09X2TtizZLo .

Sooner Or Later è un delizioso mid-tempo soul, con fiati sincopati e la voce vellutata di Nemeth che titilla i vostri padiglioni auricolari https://www.youtube.com/watch?v=OccUNl4EHSM , mentre Her Good Lovin’ è un funky-blues di quelli duri e puri con la chitarrina di Restivo e l’organo di Gamble che spingono la voce di John verso le vette dei grandi neri del passato, senza dimenticare di soffiare con gusto nella sua armonica. Stop, il pezzo di Mort Shuman e Jerry Ragovoy, avrebbe potuto, come Piece Of My Heart, Try, Cry Baby, Get It While You Can, far parte del fantastico repertorio di Janis Joplin, invece la cantò “solo” Howard Tate e apparve in Supersession di Al Kooper & Mike Bloomfield , Nemeth la interpreta alla grande e Restivo ci piazza pure un bel assolo di chitarra, di quelli fulminanti. If It Ain’t Broke è una ballata deep soul, di quelle da tagliarsi le vene, con il nostro John che canta come fosse Al Green reincarnato in un corpo bianco, falsetto incluso, una meraviglia.

 

I Can’t Help Myself torna verso tematiche più errebi, grinta della ritmica e dei fiati, organo e chitarra d’ordinanza e vai! Poi c’è una cosa meravigliosa: una versione di Crying, proprio quella di Roy Orbison, trasformata come solo Otis Redding o qualche altro genio dei tempi, avrebbe potuto farla ai Muscle Shoals, sul finire degli anni ’60, da brividi, sentire le liriche classiche in un ambito soul è una delizia assoluta! Anche solo per questo brano il disco varrebbe il prezzo di acquisto, ma pure il resto non scherza, My Baby’s Gone sta ancora tra blues e R&B sanguigno, con l’armonica che pennella, Testify My Love addirittura va verso il gospel più celestiale, Bad Luck Is My Name è un altro funky-blues fiatistico e sanguigno, mentre Keep The Love A Comin’, è solo un bel pezzo di blues, fatto come Dio comanda e anche Elbows On The Wheel è su queste coordinate, ritmi funky e suoni blues, con corettini immancabili, anche se siamo nelle normalità, in confronto ad alcune perle di questo Memphis Grease. Che però ha un ultimo colpo di coda, con un’altra ballata languida come I Wish I Was Home dove si gusta ancora una volta il perfetto phrasing della voce di John Nemeth, l’intonazione impeccabile, se preferite in italiano. Se vi piacciono il soul e il blues, meglio se insieme, ultimamente di dischi così belli ne escono pochi.

Bruno Conti