Il Nome Fa Abbastanza Schifo, Ma La Musica No! The Brothers Comatose – City Painted Gold

brothers comatose city painted gold

The Brothers Comatose – City Painted Gold – Swamp Jam CD

La storia del rock è piena di gruppi dai nomi strani, particolari o addirittura poco invitanti: in questa terza categoria farei ricadere i Brothers Comatose, anche se gli elementi funerei si limitano al nome. Due fratelli a capo della band ci sono, ma si chiamano Morrison (Ben alla voce e chitarre, Alex alla voce, banjo e mandolino), e sono aiutati dal bassista Gio Benedetti, dal violinista Philip Brezina (bravissimo, una forza della natura) e da Ryan Avellone alle chitarre e mandolino. I cinque, che hanno già due album alle spalle (Songs From The Stoop del 2010 e Respect The Van del 2012) vengono da San Francisco, ma come avrete intuito dagli strumenti non fanno né rock psichedelico, né pop californiano, e neppure musica cosmica influenzata dal Laurel Canyon Sound, bensì si possono far ricadere in quel filone dei nuovi tradizionalisti dominato da band come Old Crow Medicine Show, Avett Brothers (che però sono molto più rock) e Trampled By Turtles.

I Comatose sono però ancora più legati ad un suono old time, non usano strumenti elettrici e neppure la batteria, anche se le loro canzoni sono comunque intense e piene di ritmo, grazie agli ottimi impasti sia vocali che strumentali. Una struttura profondamente tradizionale quindi, con elementi country, bluegrass e folk: City Painted Gold raggruppa mirabilmente tutte queste caratteristiche, coniugandole con una scrittura invece più attuale e meno legata a stilemi tipici delle canzoni popolari di sessanta/settanta anni fa. Un buon disco, coinvolgente, ritmato ed ottimamente cantato, forse non al livello dei gruppi che ho citato prima ma neppure lontano anni luce. Brothers apre l’album, un country-folk dall’accompagnamento classico ma con una melodia dal sapore moderno: domina il violino di Brezina, suonato splendidamente, vero strumento solista; Angeline è un bluegrass dal ritmo velocissimo, un refrain decisamente orecchiabile ed altra prestazione maiuscola del fiddle (ma tutta la band è un treno in corsa, altro che comatosi). La title track, dedicata a San Francisco, è una delicata ballata con un suggestivo coro femminile in sottofondo, ed un ritmo che cresce man mano, Tops Of The Trees è una canzone dalla struttura moderna, ma suonata con strumenti tradizionali https://www.youtube.com/watch?v=N7Im9kFGUug , mentre Knoxville Foxhole ha un sapore più antico, una bella armonica, intrecci chitarristici di valore ed una coinvolgente melodia corale.

She’s A Hurricane è puro country, The Way The West Was Won, ancora dal ritmo frenetico, è un altro bluegrass di chiara ispirazione western (come da titolo), con le chitarre che incalzano ed il violino scatenato: una delle più riuscite del CD; la gradevole Black Lightmoon è un blues acustico vivace e suonato alla grande, che piace nonostante la voce leggermente filtrata del leader, mentre Dance Upon Your Grave torna al folk d’altri tempi, una bella canzone, limpida e dallo script molto solido, anche questa la metterei tra le migliori (e gli stop & go strumentali sono da applausi). Chiudono l’album, un’iniezione di freschezza da parte di un gruppo di cui sentiremo ancora parlare, la fluida e rilassata Valerie e Yohio, caratterizzata da una melodia scintillante ed anche toccante, grazie anche ad un bel coro: un finale decisamente positivo per un bel dischetto.

Comatosi a chi?

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: L’Ultimo Atto Di Una Straordinaria Carriera! Pentangle – Finale

pentangle finale

Pentangle – Finale An Evening With Pentangle – 2 CD Topic Records

Credo sia noto a tutti (e a quelli che non ne sono edotti, per ragioni varie, immagino per lo più anagrafiche, lo stiamo dicendo adesso) che i Pentangle siano stati una delle formazioni chiave del filone del cosiddetto folk-rock britannico, insieme a Fairport Convention, Steeleye Span, e per certi versi anche Albion Band e Incredible String Band, oltre a molte altre definite minori, ma non per questo meno importanti. Il revival del folk nelle isole britanniche nasce, più o meno, all’inizio degli anni ’60 – e qui certo non ne tracceremo la lunga storia – grazie alla spinta di personaggi come Davy Graham, Ewan MacColl, Martin Carthy, Shirley Collins, i Watersons, oltre a moltissimi altri, tra cui spiccano certamente Bert Jansch e John Renbourn. Proprio questi ultimi due, unendosi ad altri musicisti, dopo alcune prove come solisti ed in coppia, diedero vita nel 1967 ai Pentangle, che furono gli iniziatori di una sorta di sotto filone unico, il folk jazz, dove oltre al folk della tradizione, rappresentato dalla splendida e cristallina voce di Jacqui McShee, anziché il rock, confluivano elementi jazz rappresentati da Terry Cox alla batteria e dallo straordinario Danny Thompson al contrabbasso. Poi naturalmente nel corso degli anni e dei dischi, sarebbero entrate anche le infiltrazioni etniche, portate dal sitar di John Renbourn, e gli elementi blues che si univano al folk, nel lavoro di entrambi i chitarristi, Bert Jansch, anche voce solista insieme alla McShee e il citato Renbourn.

Non tracciavano forse la storia completa neppure dei Pentangle, ma i sei album pubblicati dalla formazione originale tra il 1967 e il 1973 sono essenziali per ogni appassionato della buona musica, a prescindere dal genere. In alternativa (o in aggiunta) potreste anche rivolgervi allo splendido cofanetto The Time Has Come, un box di 4 CD, pubblicato nel 2007 in occasione del 40° anniversario, e che raccoglie il meglio del repertorio della formazione originale, arricchito da materiale vario, raro ed inedito. Poi esistono molti dischi anche delle varie formazioni che si sono susseguite nel corso degli anni e tuttora circola una formazione definita Jacqui McShee’s Pentangle, che la vede unica sopravvissuta del quintetto iniziale. Ma nel 2007, prima per ricevere il BBC Radio 2 Lifetime Achievement Award, eseguendo per l’evento anche due brani, per la prima volta insieme dopo 25 anni, e soprattutto l’anno successivo, con un tour di 12 date, preceduto da due apparizioni al programma televisivo di Jools Holland, il gruppo fu ancora una volta in grado di riproporre quella magica miscela musicale definita “folk-jazz”, ma che in fondo non era categorizzabile, diciamo Musica con la M maiuscola.

Il risultato di quei concerti ha avuto una lunga gestazione: Bert Jansch che stava seguendo il mixaggio e la messa in sequenza dei brani, scompare nel 2011, mentre John Renbourn che aveva preparato i masters originali ci ha lasciato a sua volta nel 2015. Ma alla fine la Topic, l’etichetta degli album originali, ce l’ha fatta, e abbiamo tra le mani questo Finale, un doppio CD splendido, con 21 brani estratti da otto dei dodici concerti, ma che all’ascolto non palesano differenze, dando l’impressione di ascoltare il risultato di “Una Serata Con i Pentangle”. Il suono è splendido, e le canzoni ancora di più, la chimica tra i vari componenti della formazione è rimasta inalterata, e Jansch e Renbourn, anche se non più giovani e malandati in salute, sono in grado di mandare più di un brivido nella schiena degli ascoltatori, e pure gli altri non scherzano, soprattutto la McShee, ancora in possesso di una voce splendida. Diciamo che questo doppio è un documento pressoché perfetto del loro repertorio Live, sfiorato nella parte dal vivo di Sweet Child e nel Live 1994 dove c’erano solo Jansch e McShee. Il concerto, nella ricostruzione discografica, si apre con Let No Man Steal Your Thyme, che era proprio il brano che apriva la prima facciata del debutto The Pentangle, subito con la splendida fusione delle chitarre di Renbourn e Jansch, svolazzanti ed imprendibili, sostenute dal finissimo lavoro della sezione ritmica, dove giganteggia Thompson e con Jacqui McShee splendida.

Il primo classico è Light Fight, tratta da Basket Of Light,  con complessi intrecci strumentali e vocali, per una versione ai limiti della perfezione. Mirage, di nuovo dal primo album, si avvale di alcune improvvisazioni dell’elettrica di Renbourn ed è di nuovo magnifica. Da Basket…viene Hunting Song una composizione corale, uno dei brani più lunghi del concerto (pezzi che raramente superano i sette minuti, optando per versioni concise ma di rara efficacia, quindi, purtroppo, come potete intuire, niente Jack Orion), con Cox che si esibisce al classico glockenspiel, per un brano dove il lato folk della band è più in evidenza, sognante ed etereo, come la voce di Jacqui, qui doppiata per la prima volta da quella di Jansch. Come nella dolcissima Once I Had A Sweetheart, sempre dal terzo album, uno dei più saccheggiati, mentre Market Song, la prima dove la voce solista è quella di Jansch, segnata dal tempo, ma ancora inconfondibile, viene dalla parte Live del seminale Sweet Child, altra versione deliziosa. E ancora da quel disco, la parte di studio, viene il magnifico (sono a corto di aggettivi) strumentale In Time, dove il brano viene propulso dal contrabbasso di Thompson e Danny Cox si concede un breve assolo di batteria; People On The Highway era sull’ultimo album Solomon’s Seal (a dimostrazione che tutto il repertorio viene rivisitato), una delle canzoni più “americane” tra quelle scritte da Bert Jansch per il gruppo. Jansch che imbraccia il banjo per la successiva House Carpenter (di nuovo da Basket Of Light), mentre Renbourn passa al sitar, e Bert divide la parte vocale con Jacqui, mentre la musica, come si può immaginare assume derive orientaleggianti.

Cruel Sister come la vogliamo definire? Incantevole, superba, mirabile, fate voi: una delle loro canzoni più belle, era sull’album omonimo e il sitar di Renbourn aggiunge un tocco magico alla splendida interpretazione vocale della McShee. The Time Has Come (un brano di Annie Briggs, un’altra delle “eroine” del folk revival inglese) era nella parte dal vivo di Sweet Child, e permette ancora una volta di gustare la squisita vocalità della McShee. Bruton Town era sia nel live come nel primo disco, un traditional corale, arrangiato da tutta band, A Maid That’s Deep In Love, di nuovo da Cruel Sister, con Jansch al dulcimer,  ancora più apprezzabile nei particolari grazie al perfetto sound dell’album, è seguita da I’ve Got A Feeling, la loro interpretazione blues di un brano di Miles Davis. The Snows, di nuovo da Solomon’s Seal, è un altro brano immerso nella tradizione folk più profonda, cantato da Bert, nel suo stile conciso e scarno, ma efficace. Non poteva mancare un altro omaggio al grande jazz, con la loro versione unica di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, dove Danny Thompson fa i numeri al contrabbasso, ma anche tutti gli altri non scherzano, soprattutto Renbourn. Di nuovo un traditional da Sweet Child, No More My Lord, prima di un’altra perla da Solomon’s Seal, Sally Free And Easy, anche questa dalla tradizione del folk britannico. Wedding Dress è una delle due proposte estratte da Reflection, insieme alla traccia conclusiva che vediamo tra un attimo, in mezzo c’è una versione stupenda e scintillante della incredibile Pentangling, uno dei loro cavalli di battaglia assoluti. E a suggellare questo concerto rimane la loro versione, dal lato Atlantico della Manica, di Will The Circle Be Unbroken, che però purtroppo chiude il cerchio della loro carriera in modo definitivo ed inequivocabile, anche se nel 2011 si esibirono ancora in alcune date dal vivo e si dice abbiamo registrato del materiale inedito in studio, quindi mai dire mai. Lo devo dire, mi dispiace: imperdibile!

Bruno Conti     

Divertimento Puro…Cosa Volete Di Più? Jesse Dayton – The Revealer

jesse dayton the revealer

Jesse Dayton – The Revealer – Blue Elan CD

Lasciando da parte il discorso dell’intrattenimento, i cantanti o le band pubblicano dischi per un insieme di ragioni differenti: c’è chi lo fa perché ha qualcosa da comunicare, chi per far riflettere su determinati argomenti, chi per protestare, chi per commuovere, chi per far ballare, altri semplicemente con l’unico intento di vendere tanto, o talvolta solo per adempiere ad un obbligo contrattuale. C’è poi una categoria di album che nascono con il preciso intento di far divertire (just for fun dicono in America), e questo The Revealer, nuovo CD ad opera del texano Jesse Dayton, è un fulgido esempio in tal senso. Dayton non è un novellino, è in giro da più di vent’anni e ha già alle spalle una mezza dozzina di album a suo nome, ma è forse più noto, se non al grande pubblico almeno nell’ambiente, per essere un chitarrista molto richiesto in ambito country-rock: nel suo curriculum infatti troviamo partecipazioni nei dischi di tutti e quattro gli Highwaymen, cioè Willie Nelson, Johnny Cash, Waylon Jennings e Kris Kristofferson (non però nei loro tre lavori insieme), oltre ad aver suonato per la cowpunk band Supersuckers ed essere andato in tour con John Doe ed i suoi X. Devo essere sincero, non conosco i precedenti album di Jesse, lo avevo sentito nominare, avevo letto il suo nome da qualche parte (probabilmente all’interno dei lavori dei signori citati poc’anzi), ma quando ho messo nel lettore The Revealer confesso di essere sobbalzato più di una volta sul divano, in quanto mi sono trovato ad ascoltare quello che semplicemente (e non esagero) è uno migliori, più ritmati, roccati, coinvolgenti e divertenti dischi di country-rock del 2016.

Jesse, che è in possesso anche di un’ottima voce, è una forza della natura, sa scrivere canzoni di prima qualità, è perfettamente in grado di differenziare il suo stile senza risultare dispersivo, ha ritmo e feeling da vendere e riesce ad entusiasmare in diversi momenti. Mi rendo conto che sto usando termini altisonanti, ma provate a darmi fiducia (se vi piace il genere, è ovvio), date un ascolto ai brani di The Revealer e non ve ne pentirete. Aiutato da un manipolo di gente con le contropalle (tra cui Mike Stinson alla batteria, Riley Osbourne al piano e Beth Chrisman al violino), Dayton mette a punto dodici brani di cui farete fatica a fare a meno, a partire dall’iniziale Daddy Was A Badass, gustosissima e saltellante country song dal suono maschio, in perfetto Waylon-style, il modo migliore per aprire il CD, seguita a ruota dalla scatenata Holy Ghost Rock’n’Roller, un irresistibile, appunto, rock’n’roll, con un pianoforte suonato alla Jerry Lee Lewis, dal ritmo frenetico, impossibile stare fermi (*NDB O i Blasters!). Bellissima anche The Way We Are, anch’essa figlia di Jennings Sr. (voce compresa), ritmo al solito sostenuto, chitarre ruspanti e melodia immediata; Eatin’ Crow And Drinkin’ Sand è tosta ed elettrica, con elementi southern appena stemperati da un limpido violino, un country-rock scintillante: Jesse sta dimostrando, canzone dopo canzone, di essere uno che fa sul serio.

Possum Ran Over My Grave è dedicata a George Jones, uno dei suoi eroi di gioventù, ed il brano, un vibrante slow di stampo classico (ma sempre elettrico) è il miglior omaggio possibile al grande countryman scomparso; di bene in meglio con la strepitosa Take Out The Trash, un rockin’ country dal refrain irresistibile, ritmo alto e chitarre in gran spolvero, mentre Mrs. Victoria (Beautiful Thing) è un’oasi acustica, ma il nostro dimostra di saper tenere la guardia alta, ed il pezzo ha un delizioso sapore folk-blues, simile alle incisioni recenti di Tom Jones, con ottimi intrecci di chitarre. Pecker Goat, scritta con Hayes Carll, è un travolgente cajun elettrico, altro brano a cui è difficile resistere, Match Made In Heaven è invece il più classico degli honky-tonk, pulito, terso, cristallino, con la doppia voce di Brennan Leigh a rinfrescare la tradizione dei duetti country tra uomo e donna, mentre I’m At Home Gettin’ Hammered (While She’s Out Gettin’ Nailed), divertente già dal titolo, porta il nostro in territori bluegrass, solito ritmo ultra-sostenuto, assoli a raffica e godimento assicurato. Il CD si chiude con Never Started Livin’, una classica ballata elettroacustica, fluida e distesa, e con Big State Motel, altro folk tune polveroso, sudista e sfiorato dal blues, finale in solitario e momento di relax per un disco che è una bomba innescata.

In tre parole: da non perdere.

Marco Verdi

Anche Questo Potrebbe Il Disco Blues Del Mese! Duke Robillard And His All-Star Combo – Blues Full Circle

duke robillard full circle

Duke Robillard and his all-star combo – Blues Full Circle – Stony Plain/Dixiefrog/Ird

Non per citarmi, ma così concludevo la mia recensione dello scorso anno di The Acoustic Blues & Roots of Duke Robillard: “Come sapete lo preferisco elettrico, ma questo dischetto è veramente piacevolissimo!” ( qui la potete leggere tuttahttp://discoclub.myblog.it/2015/10/31/disco-acustico-elettrizzante-duke-robillard-the-acoustic-blues-roots-of/)  Ed infatti, quasi mi avesse sentito, a distanza di circa un anno dal precedente, ecco Duke Robillard presentarsi di nuovo con un album, questa volta elettrico, e anche tra i suoi migliori in assoluto, intitolato Blues Full Ciircle. Come ha raccontato lo stesso chitarrista americano, il nostro amico era reduce da un intero anno di inattività in seguito ad un intervento chirurgico, e dopo la riabilitazione si è presentato più in forma ed agguerrito che mai. Nel disco, oltre al suo all-star combo, ovvero Bruce Bears (piano, Hammond organ), Brad Hallen (acoustic and electric bass) e Mark Teixeira (drums), ci sono alcuni ospiti di pregio come Kelley Hunt, piano e voce, Jimmie Vaughan alla chitarra, Sugar Ray Norcia alla voce in un brano e Gordon Beadle e Doug James, ciascuno al sax in due diverse canzoni. L’album ha poi la particolarità di presentare tre pezzi scritti oltre 30 anni fa, quando Robillard era il leader dei Roomful Of Blues, ma che per vari motivi non erano mai state incisi.

Ovviamente non dobbiamo aspettarci niente di nuovo, dal numero di volte che la parola Blues appare nei titoli dei suoi dischi sappiamo cosa aspettarci nei CD di Duke da un bel po’ di tempo a questa parte, ma nel disco in questione il musicista del Rhode Island sembra particolarmente ispirato e voglioso di deliziarci con la sua sopraffina tecnica chitarristica. Si parte con una tosta Lay A Little Lovin’ On Me dove il blues è sanguigno e tirato come non capitava da tempo, la solista di Robillard, dal classico sound pieno e ricco di tonalità, è subito in evidenza con un assolo dove il nostro tira la note alle grande. Anche nella successiva Rain Keeps Falling si torna alle origini del miglior blues elettrico del nostro amico, e anche la voce appare in grande spolvero, mentre la chitarra inanella un assolo dietro l’altro con grande libidine. E pure in Mourning Dove, uno slow blues introdotto dal piano di Bears, sembra quasi di ascoltare il Mike Bloomfield più ispirato, con la chitarra che ci regala un assolo di quelli importanti, fluido, lancinante e tirato, come prevede il manuale del perfetto bluesman, con continui rilanci, mentre No More Tears è il tipico shuffle Chicago-style, pimpante e vivace come ai bei tempi (che non erano secoli fa, basta tornare a pochi anni or sono).

In Last Night troviamo Gordon Beadle che poi sarebbe Sax Gordon e Sugar Ray Norcia alla voce solista, per un jump blues ricco di ritmo, dove Duke Robillard si prende ancora le sue soddisfazioni, veramente voglioso di strapazzare di gusto la sua solista. Senza soluzioni di continuità troviamo una “cattiva” Fool About My Money, dove tra la voce del Duke e il piano di Bruce Bears sembra quasi di ascoltare un brano del Randy Newman più elettrico; eccellente anche The Mood Room, uno dei brani ripescati dal passato, dove il boogie la fa da padrone, grazie al pianino scatenato e alla voce splendida di Kelley Hunt, una delle blues woman più brave della scena americana, più volte incensata dal sottoscritto su queste pagine, e anche Robillard e Bears si scatenano ai rispettivi strumenti. I’ve Got A Feelin’ That You’re Foolin’, con un titolo tipico dei brani blues, è un altro lentone di quelli duri e puri, con la chitarra di nuovo protagonista assoluta. E anche nella successiva Shufflin’ And Scufflin’ non si scherza, un brano strumentale dove Jimmie Vaughan e Duke Robillard si scambiano fendenti a colpa di chitarra, in un brano raffinato e di classe, dove ancora l’organo di Bruce Bears e il sax baritono dell’ospite Doug James (anche lui uno dei membri fondatori dei Roomful Of Blues) hanno i loro giusti spazi. Blues For Eddie Jones è un sentito omaggio a Guitar Slim, la cui storia tragica, culminata con la morte a soli 32 anni, Robillard rivisita in questo intenso lento: molto buona anche la swingante You Used To Be Sugar https://www.youtube.com/watch?v=UndSnxzqzRY , ma non c’è un brano scarso in questo Blues Full Circle, sempre con la chitarra in primo piano. Come nella splendida soul ballad che risponde al nome di Worth Waitin’ On, dove anche la parte vocale è perfetta e sfocia in un assolo ricco di feeling come solo i grandi sanno fare. La conclusione è affidata ad un altro classico slow blues intitolato Come With Me Baby, che conferma lo stato di grazia ritrovata sfoderato per questo album da uno dei maestri contemporanei dello strumento e dello stile.

Bruno Conti

Un’Altra Triste Notizia, Se Ne E’ Andato Anche Bap Kennedy, Aveva Solo 54 Anni! Ci Lascia Un Ultimo Disco, Reckless Heart.

bap kennedy photo bap kennedy reckless heart

Devo dire che la notizia mi ha colto un po’ di sorpresa: martedì scorso, 1° novembre, ci ha lasciato anche Martin Christopher Kennedy, conosciuto da tutti come Bap Kennedy, uno dei più bravi cantautori irlandesi delle ultime generazioni, nato a Belfast (quindi Irlanda del Nord) il 17 giugno del 1962 e morto nella stessa città, alla clinica Marie Curie, appunto il 1° di novembre, dopo una breve battaglia (la malattia era stata diagnosticata solo a maggio) per un tumore al colon, complicato da una pancreatite. Il musicista aveva coraggiosamente tentato di combattere la malattia e aveva persino tenuto una sorta di diario sul divenire della malattia, le cure che riceveva e altre informazioni relative alla sua vita, con l’aiuto della moglie, in uno spazio apposito del suo sito, definito “Health Blog” http://www.bapkennedy.com/. Prima che la malattia lo colpisse Bap stava completando un nuovo album Reckless Heart, che nel frattempo è stato completato con l’aiuto di vari amici musicisti sparsi per il mondo, e la cui uscita era già stata fissata per il 18 novembre.

Qui sopra potete vedere una delle ultime apparizioni in concerto di Bap, avvenuta proprio in Italia, a Morbegno, il 23 gennaio del 2016. E visto che sul Blog siamo stati sempre sostenitori ed appassionati della sua musica, un tributo ai suoi due ultimi dischi e alla sua carriera lo potete leggere nei Post che gli avevamo dedicato (uno a firma Tino Montanari e uno del sottoscritto) e che potete leggere di seguito:

http://discoclub.myblog.it/2012/02/14/dall-energia-del-frutteto-alla-vendetta-del-marinaio-bap-ken/

http://discoclub.myblog.it/2014/02/03/ricominciamo-pure-irlandesi-malati-damerica-bap-kennedy-lets-start-again/

Quindi per non chi non lo conoscesse, come diceva il maestro Manzi, non è mai troppo tardi. Riposa in pace Bap, ci “vediamo” ancora nei prossimi giorni per parlare del tuo nuovo album.

Bruno Conti

Disco Di Blues Del Mese? Colin James – Blue Highways

colin james blue highways

Colin James – Blue Highways – True North/Ird

Colin James è un veterano della scena musicale canadese, cantautore, chitarrista e bluesman, in pista dalla metà degli anni ’80 dello scorso secolo: questo Blue Highways di cui stiamo per occuparci è il suo 18° album; in passato mi era già capitato di occuparmi dei suoi dischi sul Buscadero, anche se ultimamente avevo perso un po’ le sue tracce, forse perché i suoi dischi non erano di facile reperibilità, e comunque lui, indifferente alle difficoltà del vostro umile recensore, continuava a pubblicarli lo stesso, alcuni anche piuttosto belli, come la serie ricorrente con la Little Big Band, giunta a quattro capitoli. A seguito dell’ultimo tour per promuovere l’album Hearts On Fire del 2015, Colin James si era trovato molto bene con i musicisti che lo avevano accompagnato in quella fatica e ha deciso di  realizzare con loro un progetto che aveva in mente da tempo: un album dedicato ad alcuni dei pezzi blues che più lo hanno influenzato nel corso degli anni. E questo è il risultato, registrato nei Warehouse Studio di Vancouver, con la produzione affidata allo stesso James con l’aiuto di Dave Meszaros e il supporto della sua ottima touring band, formata da Craig Northley alla chitarra ritmica, Jesse O’Brien al piano, Steve Pelletier al basso e Geoff Hicks alla batteria, con l’aggiunta di Simon Kendall all’organo e Steve Marriner all’armonica.

Un disco fresco e pimpante, rispettoso delle radici, con ampi innesti anche del sound che fece grande il british blues a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, virtuosismo e grinta rock usate con la giusta misura e unite ad alcuni brani veramente splendidi, non sempre celeberrimi ma di sicuro impatto. Meglio un “usato sicuro” come questo, ennesima riproposizione di temi e generi musicali che se ben fatti come in questo caso suonano più freschi ed “innovativi” di molti presunti “nuovi esperimenti”, sempre e solo a parere di chi scrive, è ovvio, poi ognuno ascolta quello che gli pare. In tutto sono tredici brani: la partenza è fulminante, con una versione di Boogie Funk di Freddie King, che la prima volta che mi è capitato di sentirla ho pensato fosse qualche traccia inedita registrata da Rory Gallagher ad inizio anni ’70, uno strumentale ricco di grinta e ritmo, una scarica di adrenalina poderosa, con il gruppo che gira a mille, mentre la solista di James e l’armonica di Marriner si sfidano a colpi di riff e a tempo di boogie, oltre a Gallagher pensate anche al miglior Thorogood. Per amore di verità non tutto l’album è a questi livelli, ma anche la successiva Watch Out, un pezzo del mio amato Peter Green, che si trovava su The Original Fleetwood Mac e poi nuovamente su Fleetwood Mac In Chicago, è una piccola perla, una ennesima dimostrazione del fatto che i bianchi potevano suonare il blues (e come sosteneva BB King, Peter Green era uno dei più grandi nel farlo), versione sontuosa e felpata, ricca di feeling e con la chitarra di James misurata ma ficcante, ben sostenuta, come nel brano precedente, anche dal lavoro dell’organo di Kendall. Big Road Blues, un brano di Tommy Johnson, il primo Johnson del blues, quello che ha ispirato per intenderci On The Road Again dei Canned Heat, è l’occasione per ascoltare l’ottimo lavoro di Colin James anche quando è impegnato alla slide, ben sostenuto nel caso dal piano di O’Brien.

Big Bad Whiskey, a firma Thomas Davis, è una variazione sul tema dei brani dedicati all’alcol, dove cambiano titoli e qualche verso ma l’argomento, e anche i temi musicali, sono quelli, per l’occasione James passa all’acustica con bottleneck e la seconda voce di supporto è quella di una vecchia conoscenza, la brava Colleen Rennison (http://discoclub.myblog.it/2016/05/17/anteprima-dal-canada-band-solida-cantante-esagerata-sinner-old-habits-die-hard/). Poi si torna al blues-rock di una potente Going Down, con chitarre a manetta e l’ottima voce di Colin in evidenza. Segue un Muddy Waters “minore” (se esiste) con una perfetta versione di Gypsy Woman, classico slow blues elettrico di pregevole fattura, seguito da Goin’ Away, un brano di James A.Lane, per gli amici delle 12 battute Jimmy Rogers, la faceva anche Clapton su From The Cradle, qui in versione a trazione slide, eccellente, di nuovo con la Rennison voce di supporto. Lonesome di Peter Chatman inceramente non me la ricordavo, forse perché è il vero nome di Memphis Slim, versione elettrica e brillante, di nuovo tra Green e Gallagher, come pure Hoodoo Man Man di Amos Blakemore, che per il gioco degli indovini è il vero nome di Junior Wells, altro potente Chicago Blues elettrico con l’armonica di Marriner di nuovo a spalleggiare James. Riding In The Moonlight/Mr.Luck è un medley acustico, solo chitarra e armonica, dedicato a Howlin’ Wolf e Jimmy Reed, seguita dall’unica concessione alla grande musica soul con una splendida versione di You Don’t Miss Your Water di William Bell https://www.youtube.com/watch?v=8p21Ze7h9Qg , vero deep soul, con fiati, la faceva anche Otis Redding! Ain’t Long For A Day, di Blind Willie McTell, è di nuovo l’occasione per lavorare di fino con la slide https://www.youtube.com/watch?v=AED3nA8Kcno  e Last Fair Deal è l’immancabile omaggio acustico a Robert Johnson. Disco di Blues del mese?

Bruno Conti

Un Altro Talento In Azione, Giovane Di Nome E Di Fatto! Austin Young Band – Not So Simple

austin young band not so simple

Austin Young Band – Not So Simple – VizzTone Label Group

Il nostro amico Austin, oltre che di cognome, è giovane anche di fatto: quando usciva il suo primo album Blues As Can Be del 2013, come Austin Young & No Difference, di anni ne aveva addirittura 17, ma anche oggi non è che sia particolarmente anziano. Guardando le foto, si direbbe che il bassista Alex Goldberg, di quella che nel frattempo è diventata la Austin Young Band, di anni ne abbia ancora meno, e pure il batterista Forrest Raup, per quanto già insegni “drumming” quando non è impegnato con il gruppo, non sembra particolarmente anziano. Nella prima versione della band il batterista era Tim Young, il babbo di Austin, genitore e mentore, scomparso all’inizio dell’anno a 57 anni, sono un poco quelle storie da libro Cuore che riscaldano i sentimenti. Vengono dal Colorado, non il primo stato a cui si pensa parlando di blues, ma l’etichetta che pubblica i loro lavori è la VizzTone di Chicago, quella di Bob Margolin, Cathy Lemons, Debbie Davies, in passato dei Trampled Under Foot e della James Montgomery Band, quindi i nostri sono portatori sani delle 12 battute classiche e nello stesso tempo un nome nuovo che si affaccia sulle scene: lui cita tra le sue influenze Albert King e Hubert Sumlin, ma anche Gary Clark Jr., Eric Gales e Joe Bonamassa, e nel primo album c’era un brano Miss You Moore che era dedicato a Gary Moore.

Quindi Austin potrebbe aggiungersi alla lista degli artisti che si sono fatti un nome da molto giovani, oltre al citato Bonamassa, Monster Mike Welch, Johnny Lang, Kenny Wayne Shepherd, Eric Steckel e molti altri: poi vedremo se manterrà le promesse, per il momento questo Not To Simple è un ottimo biglietto da visita. Tutti i brani sono firmati dalla band e dimostrano che la guida spirituale affidata al babbo scomparso (a cui è dedicata la conclusiva struggente Angel Flying Home) e a Stevie Ray Vaughan (non lo avevamo ancora citato), è ben riposta. Le tracce sono dodici in tutto ed il sound, a differenza di quello abituale della Vizztone, è bello tosto e tirato, un rock-blues vigoroso da power trio, che si apprezza subito fin dall’iniziale Take Me Away, dove Young comincia subito a strapazzare la sua solista, con uno stile da consumato performer, suoni pieni ed atmosfere gagliarde anche per l’insieme della band, con la chitarra, ma anche la voce, sicure e degne di nota, ricche di tecnica ma dal tocco elegante e con continue dimostrazioni del suo virtuosismo nell’ambito rock-blues dell’album, come dimostrato  nella successiva Barren Road Blues, che rimanda anche al sound di Robben Ford o Jeff Healey, come pure di gruppi di classico 70’s hard rock, ben coadiuvati da un organista non citato nelle note, sentite come rilanciano il groove del brano di continuo. Non manca anche un sapore sudista, come nella brillante Something More, dove entra in scena anche una sezione fiati, e la lezione di Albert King sembra più evidente, con il suono rotondo del basso e l’agile lavoro della batteria molto godibili, mentre accompagnano le eleganti evoluzioni della chitarra, insomma forse niente di nuovo, potremmo rientrare nella sezione inventori dell’acqua calda, ma il suono, anche per questo, ti scalda.

La voce è ancora a tratti acerba, specie quando si cimenta con ballate come la title track Not So Simple, dove comunque la chitarra scorre fluida e gentile, ma, ripeto, la stoffa c’è, se amate il genere ovviamente, se no passate oltre. Sets Me Free, Heal My Heart, Letting Me Go, nella loro varietà di stili, confermano che c’è un talento in azione, da costruire, ma dal notevole potenziale, se non altro godibile per l’indubbia freschezza dell’approccio. Non mancano il classico shuffle, Moving On, con uso di slide e lo slow blues intenso e lancinante, ma anche ricco di melodia, di Mountains On Fire e di nuovo il suono rock 70’s della mossa Free, poi replicato in un potente strumentale come Whirlwind (forse il pezzo migliore), che dimostra che nella discoteca del nostro amico ci deve essere anche qualche disco degli Zeppelin, o in difetto di Joe Bonamassa. A concludere la delicata Angel Flying Home dedicata al padre, un brano solo voce e chitarra acustica arpeggiata, poi arricchita da un assolo di elettrica toccante e molto sentito. Se insisterà possiamo aspettarci buone cose anche per il futuro.

Bruno Conti

Non E’ Nuovo, Ma E’ Come Se Lo Fosse! American Aquarium – The Bible & The Bottle

american aquarium the bible and the bottle

American Aquarium – The Bible & The Bottle – American Aquarium CD

Gli American Aquarium sono una delle band più prolifiche in ambito alternative country, in quanto hanno pubblicato ben otto album (incluso un live) in dieci anni di carriera. Formatisi nel 2006 a Raleigh, North Carolina (città con una bella scena musicale, si pensi ai grandi Whiskeytown di Ryan Adams, ma anche ai Backsliders ed ai Connells, e pure gli Avett Brothers non distano molto dalla capitale dello stato) su iniziativa del cantante e chitarrista BJ Barham: The Bible & The Bottle non è però il loro nuovo disco, bensì la ristampa del secondo CD, uscito nel 2008 e da tempo introvabile, ma devo dire che suona fresco e piacevole come se fosse stato registrato pochi mesi fa. All’epoca di queste incisioni gli Aquarium erano diversi da come sono oggi, infatti oltre a Barham l’unico membro ancora presente è il bassista Bill Corbin: nella formazione del 2008 c’erano poi Chris Hibbard alla batteria, Jeremy Haycock alla chitarra solista, ed i bravissimi Sarah Mann e Jay Shirley, rispettivamente al violino e pianoforte, e con la ciliegina di Caitlin Cary (parlando di Whiskeytown) ospite ai cori.

The Bible & The Bottle presenta un gruppo ancora alle prime armi, ma con già una sua identità ed un suo suono: diciamo che non si sono ancora palesate alcune tendenze future, che hanno visto i nostri aggiungere elementi southern ed anche funk, ma abbiamo comunque undici canzoni (tutte di Barham) di pura Americana, con dentro tanto country unito a massicce dosi di rock, con il folk a fare da tramite tra i due generi; se si può fare un paragone, il suono non è troppo distante da quello dei primi Uncle Tupelo, ma anche del già citato ex gruppo di Ryan AdamsDown Under è una country song limpida e tersa, con grande uso di steel e piano, un brano davvero godibile: country vero, non come quello prodotto a Nashville, ma molto vicino all ex band di Jeff Tweedy e Jay Farrar. California è più rock che country, il violino stempera un po’ l’atmosfera, ma la sezione ritmica picchia sodo, anche se il tutto è molto equilibrato, con echi dello Steve Earle degli esordi; Road To Nowhere è un lento di chiaro stampo cantautorale, che riesce ad emozionare solo con l’uso della voce, una steel sullo sfondo ed il notevole piano di Shirley, un brano toccante che dimostra che il gruppo c’era già, eccome.

Tellin’ A Lie è un folk rock suonato e cantato con vigore quasi punk, con un uso dell’organo come negli anni sessanta, e l’influenza dei Rolling Stones  neanche troppo nascosta, anche se il violino dona al pezzo un sapore rurale; Bible Black October è una deliziosa ballata bucolica, con BJ che canta con voce leggermente filtrata, piano e violino guidano la melodia, che ricorda ancora il gruppo di Jagger e Richards quando si cimenta con il country. Manhattan è uno slow dall’arrangiamento classico, molto anni settanta, con Gram Parsons in mente ed un motivo fresco e piacevole, mentre la mossa e saltellante Come Around This Town è quasi uno swing un po’ obliquo, tra country e rock; niente male anche Monsters, altra ballad dallo script lucido e dal mood crepuscolare, dotata di un bel crescendo ed uno sviluppo molto creativo. La folkeggiante Stars And Scars assume toni quasi Irish, complice l’uso in tal senso del violino e la struttura melodica che la fa sembrare quasi un traditional, Lover Too Late è un’altra fulgida ballata, degna di gruppi molto più maturi di quanto non fossero i nostri all’epoca, mentre Clark Ave., che chiude il CD, è un rock’n’roll sciolto e trascinante, un finale in cui i ragazzi si lasciano andare e suonano con il preciso intento di divertirsi.

Non fate caso al fatto che The Bible & The Bottle sia un disco di otto ani fa: ancora oggi è molto meglio dell’80% delle nuove uscite di artisti cosiddetti cool.

Marco Verdi