Lo Springsteen Della Domenica: Un Boss In Tono Minore, Più Folksinger Che Rocker. Bruce Springsteen – Stockholm 2005

bruce springsteen stockholm 2005

*NDB Causa problemi tecnici di connessione, ovviamente non dipendenti dalla mia volontà, ma generalizzati nella zona di Milano, da cui opero con il Blog, per un paio di giorni non è stato possibile inserire aggiornamenti con nuovi Post. In extremis, visto il titolo, aggiorno con questo nuovo articolo scritto da Marco, sulla serie dei concerti ufficiali del Boss. Poi da domani, sperando che il problema sia risolto in modo definitivo, provvederò a recuperare i Post mancanti. Per il momento buona lettura, e scusate il titardo.

Bruce Springsteen – Stockholm 2005 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Sono pronto a scommettere che se doveste chiedere a cento fans di Bruce Springsteen quale tournée tra quelle intreprese dal loro idolo sia la preferita, nessuno sceglierà i due tour acustici rispettivamente del 1995-1997 e del 2005: questo non perché in quelle due serie di spettacoli in solitaria il Boss abbia deluso, ma non si può ignorare che la fama di più grande intrattenitore dal vivo al mondo il nostro se la sia fatta come rocker a capo della E Street Band. Io stesso, che ho visto Bruce una decina di volte, pur avendone la possibilità non ho mai preso i biglietti per i due tour di cui sopra, in quanto a mio parere anche per un fuoriclasse come lui è dura mantenere desta l’attenzione per due ore e mezza da solo sul palco. Questo cappello serve per introdurre la penultima uscita della serie live tratta dagli archivi del Boss, che documenta appunto una serata presa dalla tournée del 2005 seguita alla pubblicazione dell’album Devils And Dust, e per l’esattezza uno show del 25 giugno all’Hovet, un impianto polisportivo che sorge a Stoccolma (comincio a pensare che tra i curatori di questa serie ci sia qualche scandinavo, dato che è la quinta uscita a riguardare un concerto tenuto nella penisola nordica, tre in Svezia e due in Finlandia).

Bruce come ho già detto in altre occasioni si presenta da solo (c’è però una tastiera “off-stage”, suonata da Alan Fitzgerald), ma a differenza del tour di The Ghost Of Tom Joad in cui si limitava a strimpellare la chitarra acustica ed a soffiare nell’armonica, qui si cimenta con chitarre sia acustiche che elettriche, ovviamente ancora armonica, ukulele, piano ed organo a pompa. Il pubblico svedese è caldo e partecipe, ed il Boss si presenta in buona forma anche se, come ho già accennato, lo Springsteen rocker è tutt’altra cosa rispetto alla versione folksinger: la classe però è la stessa e lo show è comunque godibile anche se qualche momento meno riuscito c’è, soprattutto a causa della decisione del nostro di stravolgere l’arrangiamento di alcuni pezzi con risultati alterni. I brani di Devils And Dust la fanno prevedibilmente da padroni, con ben otto selezioni (ed un cenno speciale lo meritano Long Time Comin’, Black Cowboys, Jesus Was An Only Son e Matamoros Banks), mentre stranamente da Tom Joad viene suonata solo la peraltro bellissima Across The River e da Nebraska (che poi è l’unico album di studio di Bruce veramente acustico) una Reason To Believe solo per armonica e voce filtrata, uno stravolgimento che reputo poco riuscito e difficilmente digeribile.

Ci sono altri arrangiamenti particolari, come l’opening track Downbound Train molto rallentata per voce ed organo, una The River pianistica (non male) ed una Point Blank in cui il Boss si accompagna al piano elettrico togliendole un pizzico di pathos; per contro, la My Hometown eseguita anch’essa al piano (acustico) è forse addirittura meglio di quella “lavorata” di Born In The U.S.A. Non mancano le rarità in scaletta, sia rispetto alle setlist abituali di questo tour (la discreta Empty Sky e la sempre stupenda Lucky Town) che in assoluto, come la b-side Part Man, Part Monkey e la pochissimo eseguita Walk Like A Man (tratta da Tunnel Of Love). E poi, visto che siamo pur sempre parlando di un concerto di Springsteen, ci sono anche diversi “magic moments” come la pianistica e toccante The Promise, un’intensa The Rising, convincente anche in questa veste spoglia, e la folkeggiante This Hard Land. La parte finale dello show inizia benissimo, con una coinvolgente Ramrod arrangiata quasi cajun, un’ottima Bobby Jean molto folk ed una pimpante ed energica Blinded By The Light, ma poi a mio parere si sgonfia negli ultimi due brani (cosa inaudita per un live del Boss, che è abituato a dare il meglio proprio nei bis), cioè una The Promised Land rallentatissima ed irriconoscibile (e francamente noiosa) ed una rilettura per voce ed organo di Dream Baby Dream dei Suicide, ripetitiva e troppo lunga.

Gli estimatori dello Springsteen elettrico (cioè tutti) si potranno ampiamente rifare con la prossima uscita, che documenterà una delle serate considerate migliori del famoso Reunion Tour del 1999 con la E Street Band.

Marco Verdi

Dal Canada Una Ventata Di Freschezza Per La Nostra Calda Estate. Frazey Ford – U Kin B The Sun

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Frazey Ford – U Kin B The Sun – Arts & Crafts/Caroline International

E’ un vero piacere recensire personaggi come la bella e giunonica Frazey Ford, perchè conferma la teoria secondo cui chi sa cercare tra la spazzatura del pop attuale che ti viene propinata dai mass-media e dalle major stesse, trova ancora musica ben suonata e prodotta, con l’intento di raggiungere il grande pubblico, ma attraverso un intelligente rivisitazione in chiave moderna dei classici del passato. Nel caso della Ford, dopo il positivo esordio nel trio folk rock delle Be Good Tanyas, insieme alle colleghe ed amiche Trish Klein e Samantha Parton (oltre alla brava Jolie Holland che se ne andò dopo breve tempo per la carriera solistica), deve essere capitato qualcosa di simile alla celeberrima scena del raggio di luce che colpisce in fronte John Belushi e Dan Aykroyd nella chiesa del reverendo James Brown, giacchè l’amore per la soul music sbocciò in lei violento e inarrestabile, se non in modo così evidente nel bell’esordio da solista Obadiah, datato 2010 https://discoclub.myblog.it/2010/08/18/e-se-prima-eravamo-in-tre-frazey-ford-obadiah/ , di fatto nel successivo Indian Ocean, registrato nel 2014 presso i Royal Recording Studios di Memphis con la prestigiosa Hi Rhythm Section di Al Green.

Avendo alle spalle un apparato sonoro di tale qualità, Frazey ha saputo evidenziare nelle undici tracce di quel album le enormi potenzialità della sua calda e sensuale voce, dotata di un particolarissimo vibrato, realizzando quindi un vero gioiello di moderno rhythm & blues, che vi invito a ricercare se già non lo possedete https://www.youtube.com/watch?v=0GwAE1UatCg . Dopo una pausa di cinque anni in cui si è concessa anche qualche piccola esperienza in campo recitativo, la Ford è rientrata in studio la scorsa estate a Vancouver, dove risiede, per registrare nuove canzoni con l’apporto dei fidati Darren Parris e Leon Power, bassista e batterista, e del produttore John Raham, a cui si sono uniti il tastierista Paul Cook, il chitarrista Craig McCaul e la corista Caroline Ballhorn. Già dalle prime note di Azad, che apre il disco, si nota un deciso cambiamento sonoro: non più una robusta sezione fiati sullo sfondo a pennellare atmosfere di classico r&b, ma un moderno groove percussivo che richiama il funk alla Isaac Hayes o Curtis Mayfield. La stentorea voce di Frazey si eleva a note alte e drammatiche, raccontando nel testo la vicenda del padre, obiettore di coscienza fuggito in Canada per sottrarsi ai pedinamenti degli agenti dell’FBI.

U And Me vuol essere un compromesso tra la nuova strada intrapresa e le origini folk della Ford, una ballata suadente e romantica che stacca parecchio dal brano precedente. Prezioso il lavoro di Paul Cook all’hammond, che esegue deliziosi contrappunti dietro gli svolazzi vocali della protagonista. Money Can’t Buy e Let’s Start Again, ipnotica e ripetitiva la prima, lenta e passionale la seconda, ci mostrano quanto l’anima di Frazey sia vicina a quella di illustri colleghe del passato come Ann Peebles o Roberta Flack da cui ha ereditato eleganza e forza espressiva, presenti anche nella successiva Holdin’ It Down, scelta come primo singolo. Far muovere il corpo proponendo argomenti seri, inerenti agli attuali contrasti sociali presenti in America e non solo, questo appare l’intento delle canzoni della vocalist canadese, come emerge nel notevole trittico che segue: Purple And Brown è quasi trascendente nella sua purezza, un brano che rimanda ai gioielli luminosi che sapeva regalarci l’indimenticabile Laura Nyro.

The Kids Are Having None Of It è la denuncia di una situazione sociale malata, dove la forbice tra chi ha troppo e chi invece poco o niente si allarga sempre più. Frazey canta con voce cupa e dolente, sopra un tappeto percussivo che si ripete come un mantra e le chitarre, acustica ed elettrica, che ricamano sulla melodia. E’ invece il piano lo strumento dominante in Motherfucker, splendida ballad che ondeggia tra jazz e blues, un accorato lamento che prende spunto da conflitti generazionali irrisolti. Golden ci rimanda alle atmosfere del penultimo album, in puro stile Al Green degli anni settanta, e la tentazione di unirci al ritmo con il classico battimani si fa irresistibile. Everywhere è un’oasi di pace, carezzevole e distensiva come un refolo di aria fresca nella calura, prima di giungere alla conclusiva title track, l’ultimo episodio vincente di un lavoro decisamente positivo. U Kin B The Sun (scritto alla maniera di Prince) è imbevuta di piacevole psichedelia, un vortice emotivo in cui la voce di Frazey risponde a quella della brava Caroline Ballhorn in un crescendo avvolgente e sensuale https://www.youtube.com/watch?v=J49hrKbBjHM , mentre l’intera band è libera di esprimersi al meglio.

Sempre più matura e consapevole del suo progetto musicale, Frazey Ford è destinata a un luminoso futuro, forse distante dalle vette delle classifiche di vendita, ma vicina al gusto di chi ascolta musica di qualità.

Marco Frosi

Il Piano Non Sarà Davvero Perfetto, Ma E’ Comunque Interessante. The Lowest Pair – The Perfect Plan

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The Lowest Pair – The Perfect Plan – Delicata/Thirty Tigers CD

Confesso che non avevo mai sentito parlare dei Lowest Pair, duo di banjoisti/chitarristi/cantanti formato da Palmer T. Lee, di Minneapolis, e da Kendl Winter, originaria di Olympia nello stato di Washington. I due hanno iniziato ognuno per conto proprio una carriera come folksinger all’inizio del millennio, conoscendosi per caso nel 2013 ad un festival musicale in Mississippi: avendo constatato di condividere gli stessi gusti e le stesse visioni hanno dunque deciso di formare un duo, e da quel momento hanno pubblicato ben cinque album (inutile dire senza il benché minimo riscontro di vendite, anche se le critiche sono state ovunque positive). The Perfect Plan è quindi il lavoro di due musicisti che hanno già una bella gavetta alle spalle, e che hanno maturato una certa esperienza per quanto riguarda il lavoro in coppia: la loro musica è abbastanza particolare, in quanto parte dall’influenza delle vecchie folk songs appalachiane per ciò riguarda il suono di base, ma poi i due hanno una scrittura moderna ed attuale e quindi riescono a creare un bel contrasto tra le due diverse anime, quella del musicista e quella del songwriter.

In The Perfect Plan il suono è principalmente acustico, con le chitarre ed i banjo dei due leader come protagonisti, ma dietro di loro c’è comunque una band che si occupa di dare più spessore alle canzoni: il disco è prodotto da Mike Mogis dei Bright Eyes (che suona anche steel guitar e mellotron) ed è strumentato da un ristretto gruppo di sessionmen assolutamente sconosciuti ma che non fanno di certo mancare il loro valido supporto. Un delicato arpeggio di due chitarre acustiche introduce How far Would I Go, poi entra la voce della Winter (un timbro particolare, quasi adolescenziale) doppiata nel ritornello da Lee (che invece possiede una voce da cantautore tipico), per una folk ballad pura. Too Late Babe ha più brio, un pezzo a metà tra folk d’altri tempi e bluegrass ma con uno script moderno ed il ritmo scandito, oltre che dalla batteria, da un pimpante banjo; Wild Animals scava ancor più nel profondo per quanto riguarda i suoni tradizionali, ma il brano è assolutamente moderno sia per quanto riguarda la struttura melodica che per quella ritmica (e Palmer nel controcanto mi ricorda Michael Stipe), un contrasto stimolante e creativo tra le due anime del suo, quella antica e quella contemporanea.

Shot Down The Sky è una tenue ed intensa ballata dai toni crepuscolari con una languida steel sullo sfondo e la voce di Kendl che qui ricorda Lucinda Williams con trent’anni di meno: bella l’apertura melodica a due voci nel ritornello https://www.youtube.com/watch?v=JZUfhHjFewk . Castaway è scarna nei suoni e decisamente folk (domina sempre il banjo), Morning Light è più varia nei suoni anche se mantiene l’andatura lenta, con l’elemento suggestivo dato dalle due voci all’unisono e dal costante crescendo strumentale (spunta anche una chitarra elettrica), mentre We Are Bleeding è un coinvolgente bluegrass che contrappone nuovamente un accompagnamento da folk song anni trenta ad una scrittura quasi rock. La tersa e cristallina Enemy Of Ease, autentica e piacevole country song elettroacustica con Palmer alla voce solista, precede le conclusive Take What You Can Get, altra ballata di stampo country dal motivo toccante e bel lavoro di steel, e la title track, che vede l’album chiudersi nello stesso tono soave con cui si era aperto.

Marco Verdi

Replay: Prima Del Previsto Ora Disponibile Anche In CD, Rimane Comunque Un “Album” Veramente Molto Bello! Laura Marling – Song For Our Daughter

laura marling song for our daughter

Laura Marling – Song For Our Daughter – Chrysalis Download – CD/LP dal 17-07

Ormai si è capito che se non puoi “combattere” il download, per certi versi ti devi alleare con il “nemico”. Giornalmente si moltiplicano le uscite discografiche, termine che potrebbe diventare in parte desueto, visto che non escono con un supporto fisico, CD o LP che sia, oppure vengono rimandate più in là le date di uscita di continuo, spesso anche di mesi: anche il nuovo album di Laura Marling Song For Our Daughter, sull’onda della situazione che stiamo vivendo, è stato addirittura anticipato, nella sua versione digitale, di circa cinque mesi rispetto alla data iniziale di uscita, che doveva essere per la tarda estate, a settembre, che rimane comunque valida, al momento, per i supporti tradizionali (*NDB Invece da metà luglio, diversamente da quanto annunciato, un po’ a macchia di leopardo e a seconda dei paesi, sta “già” uscendo la versione fisica). Quindi anche per chi, come in questo Blog, non ama troppo questo tipo di pubblicazioni virtuali, peraltro comunque a pagamento, se non ci si affida allo streaming sulle piattaforme atte all’uopo, si deve adattare alla nuova situazione che si va creando, in attesa di tempi migliori. Fine della concione e bando alla ciance, passiamo a parlare di questo album, il settimo della discografia della bionda cantante inglese.

Ancora una volta Laura colpisce nel segno con un “disco” (forse il suo migliore in assoluto) che la conferma come una delle migliori cantautrici attualmente in circolazione: all’inizio Song For Our Daughter doveva essere prodotto insieme a Blake Mills, che invece è rimasto solo come co-autore di una canzone The End Of The Affair, mentre alla fine la Marling è tornata ad affidarsi alle sapienti mani di Ethan Johns, che aveva prodotto il suo secondo, terzo e quarto album, mentre per il successivo Short Movie, dopo il trasferimento a Los Angeles tra il 2013 e 2014, prima di tornare a Londra, aveva optato per un suono più elettrico, “lavorato” e moderno, per quanto sempre affascinante, ma in modo diverso, tendenza poi confermata anche per il successivo Semper Femina, prodotto dal citato Blake Mills, anche lui orientato verso un tipo di sound più eclettico e complesso. Per il nuovo album la nostra amica ha deciso di registrare il materiale in parte nel suo nuovo studio casalingo londinese, e in parte al Monnow Valley Studio di Rockfield in Galles, dove si erano tenute molte sessions gloriose del rock e pop britannico (e non solo), spesso sotto l’egida di Dave Edmunds e soci. Come ci ricorda il titolo il disco si rivolge ad una sorta di figlia immaginaria, anche se in alcune recensioni, soprattutto italiane, si parla della figlia della Marling come destinataria di questi dispacci, peccato però, che se non è nata nel frattempo per intervento dello Spirito Santo, questa figlia non esiste.

Probabilmente alla complessità dei testi, che riguardano la crescita della consapevolezza, il ruolo degli affetti, della famiglia, dell’esempio consapevole, della nuova situazione di un mondo che sta cambiando, non per il meglio, ha contribuito anche la decisione di nuovi interessi come lo studio della psicanalisi, mentre un’altra ispirazione è stata il libro di Maya Angelou, Letter To My Daughter, dove la scrittrice americana si rivolge sempre ad una figlia immaginata, alla quale manda una serie di lettere, mentre Laura Marling invia delle missive musicali, delle canzoni, che sono il campo in cui eccelle. Come si diceva c’è un ritorno ad un suono più raccolto, più intimo, non scarno, ma che si inserisce nella grande onda della tradizione folk, con la presenza come stella polare, magari anche incosciamente, di Joni Mitchell, alla quale la musicista inglese è stata spesso, giustamente, accostata, sia per il tipo di vocalità, quanto per la capacità di costruire brani che nella loro semplicità raccolgono tanti spunti di assoluta eccellenza.

Alcuni hanno parlato del periodo di Hejira, ma forse ancora di più mi sembra di cogliere una vicinanza con il periodo californiano di Laurel Canyon, quello di Blue, ma anche di For The Roses Court And Spark, album più “gioiosi” a tratti. In questo senso il trittico di canzoni che aprono questo Letter To My Daughter è veramente splendido, una sequenza di brani da 5 stellette, con Ethan Johns e Laura che suonano quasi tutti gli strumenti, lasciando alla sezione ritmica di Nick Pini al basso e contrabbasso e Dan See alla batteria, discreti ma essenziali alla riuscita, alla pedal steel di Chris Hillman (omonimo?) e al piano di Anna Corcoran ulteriori coloriture, mentre la Marling canta in modo ispirato e “moltiplica” la sua voce per delle armonie vocali veramente deliziose, che nella iniziale Alexandra, ispirata da un brano di Leonard Cohen, raggiungono una preziosa e brillante leggiadria folk-rock.

Anche in Held Down il lavoro degli intrecci vocali è strepitoso, il cantato a tratti celestiale, il lavoro strumentale superbo, con chitarre acustiche ed elettriche, suonate dalla stessa Laura, e le tastiere di Johns, che si incrociano e si sovrappongono in modo perfetto, creando un substrato sonoro complesso ma godibilissimo. Strange Girl, probabilmente dedicata a questa figlia immaginaria, che in sede di presentazione dell’album aveva definito “The Girl”, anche una sorta di proiezione di sé stessa; è una canzone ancora più mossa e vivace, tra percussioni incombenti, il contrabbasso che detta i tempi, la voce cristallina ma “ombrosa” della ragazza, sempre moltiplicata, a sostenere le chitarre acustiche che caratterizzano questo brano. Only The Strong, nata in parte come colonna sonora di un’opera teatrale su Maria Stuarda, è giocata sul fingerpicking dell’acustica, mentre la voce è più profonda e ridondante, per quanto sempre arricchita da queste armonie vocali affascinanti, delle percussioni accennate e dal cello di Gabriela Cabezadas.

Un pianoforte solitario accarezzato introduce il tema di Blow By Blow, uno dei due brani ispirati da Paul McCartney, con questo brano suggestivo in cui la madre è “on the phone already talking to the press”, mentre gli archi arrangiati da Rob Moose (Bon Iver), sottolineano questa ballata più solenne e malinconica, una rarità nella sua discografia, omaggio a Paul, seguita dalla title track, influenzata dai suoi recenti studi sulla psicanalisi, che inaugura quella che sarebbe stata la seconda facciata di un vecchio disco (e magari lo sarà quando uscirà), una canzone solenne ed avvolgente, ancora con piano e sezione archi che ne accrescono la maestosità, in un lento ma inesorabile crescendo di una bellezza struggente, sempre con la voce comunque protagonista assoluta.

In Fortune, Alexandra, perché lei sembra essere sempre il personaggio ricorrente di tutte le canzoni, ruba dei soldi alla madre, quelli che erano i suoi risparmi, in un brano giocato su una solitaria chitarra acustica arpeggiata che forse rimanda anche al sontuoso folk orchestrale (che è di nuovo presente) del miglior Nick Drake, con la voce partecipe ma fuori scena della narratrice Laura; The End Of The Affair è il brano scritto con Blake Mills, con il moog di Ethan Johns che incombe sullo sfondo, mentre la Marling intona le pene d’amore di un amore che finisce con sempre delicati e preziosi arabeschi vocali, fragili ma comunque incantevoli, il tutto ispirato, pare, da un romanzo di Graham Greene. Salvo poi, in Hope We Meet Again, non chiudere alla speranza di un futuro incontro, ancora una volta in un brano intimista dove la chitarra acustica arpeggiata e gli archi sono i protagonisti assoluti, anche se la pedal steel sottolinea con precisione i passaggi salienti del brano, che poi si anima nel finale grazie all’intervento della sezione ritmica, in una ennesima bellissima canzone, cantata con aromi mitchelliani dalla Marling. Che ci congeda, dopo poco più di 36 intensi minuti, con For You, una canzone d’amore, ispirata nuovamente da Paul McCartney, dove lo spirito musicale e melodico dell’ex Beatles è evidente nel fraseggio della parte cantata e in alcuni accorgimenti sonori tipici del Macca, vedi le armonie vocali maschili a bocca chiusa, qualche delizioso falsetto di Laura, l’intervento di una chitarra elettrica e altri “piccoli” soavi particolari che lo ricordano.

In attesa dell’album fisico la cui uscita, come ricordato, è prevista per fine estate, inizio autunno, un altro ottimo album rilasciato in questo difficile periodo, comunque ricco di felici intuizioni di alcuni musicisti che ci alleviano durante questa  lunga pandemia.

Bruno Conti

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Anche Se Per Il CD Bisognerà Aspettare. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone

Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony Records Download

Lo scorso 10 luglio, pochi giorni fa, la bravissima folksinger Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) e per ora disponibile solo come download, anche se i pre-ordini per la versione in CD e vinile sono già aperti (mentre la data di pubblicazione è ancora incerta, si parla di fine settembre-inizio ottobre). Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (benché comunque Gillian è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti https://discoclub.myblog.it/2017/08/22/altre-buone-notizie-da-nashville-david-rawlings-poor-davids-almanack/ ).

Il dubbio che la Welch soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto: a parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti da Gillian, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita, e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura.

Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solista e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale, pur con l’uso parco della strumentazione, e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos, mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso.

Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD (anzi, download…almeno per ora) in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine).

Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo quanto inatteso, anche se per gustarmelo meglio attendo l’uscita del supporto fisico.

Marco Verdi

Sempre Raffinata E Di Gran Classe! Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor

norah jones pick me up off the floor

Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor – Blue Note/Virgin/EMI CD Deluxe

Sono passati ormai 18 anni dal clamoroso successo del disco di esordio Come Away With Me e Norah Jones con questo Pick Me Up Off The Floor arriva ora al suo ottavo album da solista (senza contare il mini Begin Again, di cui tra un attimo). L’artista newyorchese (ma come è noto il padre è Ravi Shankar), a marzo ha compiuto 41 anni (sempre dire l’età delle signore), e quindi questo album potrebbe essere quello della maturità raggiunta, visto che la consacrazione l’ha ormai conquistata da anni, anche se nella sua discografia, tra molti alti e poche “delusioni”, ha comunque intrapreso anche parecchi percorsi alternativi, deviazioni dal suo stile abituale che comunque denotano una certa irrequietezza artistica, e che l’hanno portata a diverse collaborazioni: il disco con Billy Joe Armstrong dei Green Day, la band country collaterale dei Little Willies, quella country alternative delle Puss’N’Boots che hanno pubblicato un secondo disco Sister, uscito a metà febbraio agli albori della pandemia, e quindi passato abbastanza sotto silenzio, oltre ad avere avuto decine, forse centinaia di partecipazioni a dischi altrui.

Stabilito che lo stile musicale di Norah non è facilmente etichettabile, si è parlato di jazz-folk-pop, che potrebbe essere corretto, io azzarderei anche un genere che era molto in uso negli anni ‘70, soft rock, oppure, forse ancora più calzante, cantautrice con piano, così la mettiamo proprio sul didascalico spinto. Si diceva di Begin Again, un mini CD con 7 brani, estrapolati da una serie di brani che la Jones aveva iniziato ad incidere dal 2016, subito dopo il termine del tour di Day Breaks https://discoclub.myblog.it/2017/11/14/per-la-serie-e-io-pago-norah-jones-day-breaks-deluxe-edition/ , in quello che doveva essere un periodo di pausa e riposo, aveva deciso periodicamente di entrare in studio di registrazione per incidere dei nuovi pezzi, da pubblicare solo in formato digitale, frutto anche di collaborazioni (con Mavis Staples, Rodrigo Amarante, Thomas Bartlett, Tarriona Tank Ball e altri) ed alla fine raccolte in Begin Again: nelle stesse sessions però Norah aveva inciso vari altri brani, ulteriori canzoni sotto forma di demo, di cui riascoltando sul telefonino i mix non definitivi mentre passeggiava col cane, si era accorta delle potenzialità e deciso di portarle a compimento in sette diversi studi di registrazione, per arrivare a questo Pick Me Up Off The Floor, che alla fine si rivela uno dei suoi dischi migliori, al solito molto eclettico nei risultati.

Prodotto dalla stessa Jones, a parte i due brani con Jeff Tweedy, nel disco suonano moltissimi musicisti, anche se una delle figure centrali può essere individuata nel bravissimo batterista Brian Blade, presente in sei brani su undici (del CD esiste anche una versione Deluxe con 13 canzoni, sempre singola e pure “costosa,” considerando solo le due tracce extra, però bella, come vedete sopra, ma sono i soliti misteri della discografia). L’album si apre con How I Weep, una sorta di poesia, la prima scritta dalla nostra amica per l’occasione, How I weep for the loss/And it creeps down my chin/For the heart and the hair/ For the skin and the air/That swirls itself around the bare/How I Weep”, meditabonda e malinconica, su uno sfondo di viola, violino ed archi, che accompagnano il piano, e sul quale piange per alcune perdite. In Flame Twin troviamo Pete Remm a chitarra elettrica, organo e synth, oltre a Blade e John Patitucci al basso, un brano bluesato e raffinato che ricorda certe colleghe anni ‘70 come Carole King e Laura Nyro, mentre Hurts To Be Alone vira su territori soul jazz, a tempo di valzer, con Norah anche a piano elettrico e organo, doppiato da Remm, Christopher Thomas che affianca Blade al contrabbasso elettrico, e le voci suadenti di Ruby Amanfu e Sam Ashworth, per un brano felpato e sinuoso.

Heartbroken, Day After replica la stessa formazione per una canzone dall’afflato notturno, al quale comunque la pedal steel di Dan Lead contrappone al cantato quasi birichino della Jones un piccolo tratto da ballata country, una delle canzoni migliori del CD, molto bella anche la più mossa e brillante Say No More, con l’aggiunta del sax tenore di Lee Michaels e la tromba di Dave Guy, che accentuano nuovamente lo spirito jazzy, evidenziato anche dall’ottimo lavoro del piano. This Life, registrata in trio con Blade e Jesse Murphy al contrabbasso elettrico, già presente nel brano precedente, mi ha ricordato a tratti certi brani inquietanti tipici di Rickie Lee Jones, mitigato dalle angeliche armonie vocali.

To Live è una canzone gospel-soul, tra New Orleans e Mavis Staples, con fiati sommessi e di nuovo eccellenti intrecci vocali, I’m Alive è uno dei due brani con la famiglia Tweedy, Spencer alla batteria, e Jeff all’elettrica e al basso, che pur rimanendo nell’ambito della musica della nostra amica, aggiunge quel tipico tocco melodico del leader dei Wilco, nelle sue ballate migliori. Where You Watching, con il testo dell’amica poetessa Emily Fiskio, è una nuovamente inquietante e misteriosa nenia attraversata dal violino incombente di Mazz Swift, dai florilegi del pianoforte e da un cantato quasi piano e dolente.

Stumble On My Way è una di quelle ballatone soffuse e malinconiche delle quali la musicista di Brooklyn è maestra , di nuovo con la weeping pedal steel di Lead ad impreziosirla. A chiudere la versione standard l’altro brano con e di Jeff Tweedy, Heaven Above, un duetto soffuso, quasi flebile con la Jones a piano e celesta e il musicista di Chicago alla chitarra acustica. Le bonus sono Street Strangers, un altro brano in linea con le atmosfere solenni e ricercate dell’album e la deliziosa Trying To Keep It Together, una strana scelta come singolo estratto dall’album, un pezzo solo voce e piano che illustra il lato più delicato e riposto del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=IcjVoPRbKKY .

Bruno Conti

Ancora Prima Di Esordire, Sapeva Già Stare Sul Palco. Steve Goodman – Live ’69

steve goodman live '69

Steve Goodman – Live ’69 – Omnivore CD

Continua da parte della Omnivore la meritoria opera di recupero della figura di Steve Goodman, talentuoso quanto sfortunato cantautore di Chicago grande amico di John Prine, scomparso nel 1984 a causa di una subdola forma di leucemia contro la quale combatteva da anni: dopo le ristampe dell’anno scorso che riguardavano gli ultimi due lavori pubblicati in vita da Steve (Affordable Art ed il live Artistic Hair) ed i primi due postumi (Santa Ana Winds e Unfinished Businesshttps://discoclub.myblog.it/2019/09/18/un-piccolo-grande-cantautore-e-quattro-ristampe-per-ricordarlo-steve-goodman-artistic-hairaffordable-artsanta-ana-windsunfinished-business/ , l’etichetta indipendente di Los Angeles mette sul mercato un album dal vivo inedito che, come suggerisce il titolo Live ’69, prende in esame un concerto che Goodman tenne due anni prima del suo esordio discografico. Nel 1969 Rich Warren (autore delle liner notes di questo CD) era un giovane studente della University of Illinois a Champaign ma anche un appassionato di musica folk, ed ebbe quindi l’idea di creare e condurre un programma radiofonico da mandare in onda sulle frequenze universitarie, il cui titolo era Changes e lo scopo quello di presentare giovani talenti locali in esibizioni dal vivo, ispirandosi alla leggendaria trasmissione degli anni cinquanta The Midnight Special.

Una sera, durante lo show della folksinger Bonnie Koloc, Warren ascoltò una canzone intitolata Song For David che gli piacque molto, ed alla domanda su chi l’avesse scritta la Koloc face il nome di un ventunenne songwriter chiamato Steve Goodman che purtroppo stava soccombendo alla leucemia. Dopo la pausa estiva, una sera Warren si trovava in un locale di Chicago famoso per ospitare musica folk dal vivo, The Earl Of Old Town, e sul palco c’era un piccolo artista che ad un certo punto intonò proprio Song For David: quando poi Rich apprese che la persona davanti a lui era proprio Goodman (che stava sperimentando con successo una nuova cura per la sua malattia), lo scritturò immediatamente per il suo show radiofonico, impressionato dalla capacità di Steve di stare sul palco e di tenere in pugno il pubblico nonostante una figura non proprio imponente e carismatica. Live ’69 documenta proprio la partecipazione di Goodman allo spettacolo di Warren, un’esibizione tenutasi il 10 novembre presso il campus dell’Università dell’Illinois che vede Steve alla chitarra acustica accompagnato solo da Bob Hoban al basso, violino ed occasionalmente seconda voce.

Il concerto (inciso molto bene) ha la particolarità di presentare soltanto cover: evidentemente Steve non era ancora sicuro del suo materiale e preferiva affidarsi a canzoni che la gente conosceva bene, anche se qua e là ci sono delle scelte decisamente personali. Ma quello che colpisce all’ascolto è la capacità e la padronanza del palcoscenico che il nostro aveva già due anni prima del suo debutto ufficiale, sia quando suonava e cantava sia quando intratteneva il pubblico con l’umorismo e l’ironia che in futuro sarebbero diventati due dei suoi punti di forza. Lo show si apre con la nota You Can’t Judge A Book By Its Cover di Willie Dixon, che Steve spoglia delle originarie caratteristiche blues e fa diventare una pimpante folk song; subito dopo abbiamo la splendida Ballad Of Spiro Agnew di Tom Paxton, purtroppo solo accennata, ed i nove minuti di Bullfrog Blues, brano che verrà poi ripreso anche da Rory Gallagher. A seguire abbiamo un trio di folk songs, a partire dall’evocativa Fast Freight (in questo caso la versione famosa è quella del Kingston Trio), suonata con molta forza e decisione, e continuando con i traditional Byker Bill e John Barleycorn, entrambi eseguiti a cappella.

Steve affronta anche autori affermati come Bob Dylan (Country Pie, scelta insolita), Merle Haggard (la classica Mama Tried), e Lennon/McCartney con Eleanor Rigby che fa parte di un torrenziale medley di ben 19 minuti nel quale il nostro mescola anche i Jefferson Airplane di Somebody To Love, il brano tradizionale Where Are You Going e la nota I’m A Drifter di Travis Edmonson, intrattenendo il pubblico con apprezzati intermezzi quasi cabarettistici. Da citare anche una coinvolgente rilettura del classico country Truck Drivin’ Man, la scherzosa Wonderful World Of Sex di Mike Smith (che rimarrà nelle sue setlist anche in futuro) ed una esuberante The Auctioneer di LeRoy Van Dyke, che chiude la serata. Se siete dei neofiti per quanto riguarda Steve Goodman forse questo Live ’69 non è l’album da cui cominciare (mi rivolgerei piuttosto, se non siete tipi da antologie, ai suoi due primi lavori o alle quattro ristampe dello scorso anno), ma rimane comunque un’interessante testimonianza del talento in erba di un artista che ci ha lasciato troppo presto.

Marco Verdi

A Volte, Fortunatamente, Ritornano Come Un Tempo! Ray LaMontagne – Monovision

ray lamontagne monovision

Ray Lamontagne – Monovision – Rca Records

I primi quattro album di Ray LaMontagne, da Trouble del 2004 a God Willin’ & The Creek Don’t Rise del 2010, mi erano piaciuti moltissimo, e non solo a me, perché erano dischi veramente bellissimi e furono anche di grande successo, perché complessivamente avevano venduto quasi 2 milioni di copie solo negli Usa, gli ultimi due arrivando fino al 3° posto delle classifiche, tanto che Ray (dopo una vita in cui aveva girovagato dal nativo New Hampshire, poi nello Utah e nel Maine) si era potuto permettere di comprare una fattoria di 103 acri a Ashfield, Massachusetts, per oltre un milione di dollari, dove vive tuttora e ci ha costruito anche uno studio di registrazione casalingo. Brani in serie televisive, colonne sonore, VH1 Storytellers, un duetto con Lisa Hannigan nel disco Passenger del 2011, Insomma lo volevano tutti: poi nel 2014 esce il disco Supernova, prodotto da Dan Auerbach, un disco dove il suono a tratti vira verso la psichedelia, un suono molto più “lavorato” e con derive pop barocche, non brutto nell’insieme, tanto che molte critiche sono ancora eccellenti e il disco arriva nuovamente al terzo posto delle classifiche di Billboard, alcuni brani ricordano il suo suono classico, ma nel complesso è “diverso”. Nel 2016 ingaggia Jim James dei My Morning Jacket per Ouroboros dove il pedale viene schacciato ulteriormente verso una psichedelia ancora più spinta, chitarre elettriche distorte, rimandi al suono dei Pink Floyd in lunghi brani con improvvisazoni strumentali, voce filtrata o utilizzata in un ardito falsetto, per chi scrive anche un po’ irritante, benché ci siano dei passaggi quasi bucolici e sereni che si lasciano apprezzare, sempre se non avesse fatto i primi quattro album.

Il disco va ancora abbastanza bene, per cui si ritira per la prima volta nel suo studio The Big Room e decide di proseguire con la sua svolta “cosmica” pubblicando nel 2018 Part Of The Light, che però cerca di coniugare lo spirito rock dei dischi precedenti ad altri momenti più intimi e ricercati che rimandano al folk astrale dei primi album, un ritorno alle sonorità più amate della prima decade. Che giungono a compimento in questo nuovo Monovision dove, come ricordo nel titolo, LaMontagne ritorna, per citare altre frasi celebri e modi di dire, sulla diritta via e lo fa tutto da solo (d’altronde “chi fa da sé fa per tre”) suonando tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, sezione ritmica e componendo una serie di brani ispirati a sonorità più morbide, rustiche e “campagnole”, l’amato Van Morrison e il suo celtic soul, il primo Cat Stevens, mai passato di moda, la West Coast californiana e il Neil Young degli inizi, il tutto ovviamente rivisto nell’ottica di Ray che prende ispirazione da tutto quanto citato ma poi, quando l’ispirazione lo sorregge, come in questo disco, è in grado di emozionare l’ascoltatore anche con la sua voce particolare ed evocativa.

Prendiamo l’iniziale Roll Me Mama, Roll Me, una chitarra acustica arpeggiata, la voce sussurata che diventa roca e granulosa, un giro di basso palpitante che contrasta con l’atmosfera più intima ed improvvise aperture bluesy, che qualcuno ha voluto accostare, non sbagliando, ai Led Zeppelin più rustici e fok de terzo album. I Was Born To Love You è una di quelle ballate meravigliose in cui il nostro amico eccelle, un incipit acustico alla Cat Stevens che si trasforma all’impronta in una lirica melodia westcoastiana, con fraseggi deliziosi dell’elettrica e il cantato solenne di un ispirato LaMontagne che fa una serenata alla sua amata. Strong Enough è la canzone più mossa e ottimista del disco, un ritmo che prende spunto dalla soul music miscelato con il groove del rock classico dei Creedence, la voce di Ray che si fa “nera”, sfruttando al massimo la sua potenza di emissione.

Summer Clouds torna al suono di una solitaria acustica arpeggiata, alla quale il nostro amico aggiunge una tastiera che riproduce il suono degli archi, un cantato quieto ed avvolgente, uguale e diverso al contempo da quello malinconico di Nick Drake e dei folksingers britannici dei primi anni ’70, ma anche di un Don McLean; We’ll Make It Through, il brano più lungo con i suoi sei minuti, si avvale del suono dolcissimo di una armonica soffiata quasi con pudore, senza volere disturbare, un omaggio al soft rock delle ballate dolci e pacatamente malinconiche dei cantautori californiani dei primi anni ’70.

Misty Morning Rain ci riporta al suono dell’esordio Trouble, quando LaMontagne veniva giustamente presentato come un epigono del Van Morrison più mistico, con il suo celtic soul, dove la forza impetuosa del cantato solenne di Ray e la musica incalzante convergono in un tutt’uno assolutamente radioso ed affascinante, mentre Rocky Mountain Healin’ sembra uscire dai solchi di After The Gold Rush o di Harvest di Neil Young, LaMontagne armato di armonica, questa volta fa la serenata alle Montagne Rocciose, che anche il sottovalutato John Denver aveva cantato in una delle sue composizioni più belle e il nostro amico non è da meno in un altro brano di qualità eccellente. In Weeping Willow LaMontagne si sdoppia alla voce in una canzone che rende omaggio a gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel in un adorabile quadretto sonoro demodé, ma ricco di affettuose sfumature. Delicata ed avvolgente anche la bucolica Morning Comes Wearing Diamonds è un piccolo gioiellino acustico di puro folk pastorale con Ray che ci regala ancora squisite armonie vocali di superba fattura. E nella conclusiva Highway To The Sun il buon Ray si avventura anche nelle languide atmosfere country-rock che avremo sentito mille volte ma quando sono suonate e cantate con questa passione e trasporto ti scaldano sempre il cuore. Semplicemente bentornato!

Bruno Conti

Una Splendida Celebrazione Di Un Grande Cantautore. Eric Andersen – Woodstock Under The Stars

eric andersen woodstock under the stars

Eric Andersen – Woodstock Under The Stars – Y&T 3CD

La storia della letteratura è piena di opere che narrano storie di personaggi il cui obiettivo ultimo è il ritorno a casa, dall’Odissea di Omero al Fu Mattia Pascal di Pirandello; anche un filosofo del calibro di Georg Friedrich von Hardenberg, più conosciuto come Novalis, scrisse una volta che “la filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque”, citando non a caso la parola “nostalgia” che deriva dalle parole greche “nostos”, ritorno a casa, e “algos”, dolore. L’album di cui mi occupo oggi nasce in parte anche da questa nostalgia di casa e dall’obiettivo, più o meno inconscio, del farvi ritorno. Durante la sua lunga carriera iniziata negli anni sessanta Eric Andersen ha girovagato parecchio, arrivando per un certo periodo a vivere anche in Olanda, e solo in tempi recenti è tornato ad abitare a Woodstock, un posto da lui giudicato magico e fonte di continua ispirazione, con un’atmosfera capace di favorire la palingenesi artistica di chiunque, nonostante la scena musicale odierna della cittadina che sorge nello stato di New York non sia ceramente paragonabile a quella della seconda metà dei sixties.

Andersen ha dunque pensato di omaggiare il suo luogo di residenza pubblicando questo splendido triplo CD intitolato Woodstock Under The Stars, contenente una lunga serie di brani registrati perlopiù dal vivo nel periodo dal 2001 al 2011 in vari locali appunto di Woodstock, con l’aggiunta di due tracce risalenti al 1991 che sono anche le uniche che provengono da un’altra location. Un triplo album bellissimo, che oltre ad omaggiare la famosa cittadina del titolo è anche un regalo ai fans del grande cantautore di Pittsburgh (regalo si fa per dire, dato che il costo si aggira sui 40 euro), in quanto il 98% del materiale incluso è assolutamente inedito pur riguardando canzoni già note del songbook di Eric. Se aggiungiamo il fatto che l’incisione è praticamente perfetta, che le performance sono contraddistinte da un feeling molto alto e che tra i musicisti coinvolti abbiamo Garth Hudson e Rick Danko della Band, John Sebastian (ex leader dei Lovin’ Spoonful), i fratelli Happy ed Artie Traum e l’ex Hooters Eric Bazilian (oltre al fatto che le canzoni tendono dal bello allo splendido), l’acquisto di Woodstock Under The Stars è praticamente obbligatorio. Il primo CD comprende brani incisi live tra il 2001, 2003, 2004 e 2006, quindici canzoni tra le quali non mancano classici del grande folksinger (Wind And Sand, Violets Of Dawn, Blue River) uniti a pezzi magari meno noti ma di uguale bellezza, come la strepitosa Rain Falls Down In Amsterdam, la toccante Sudden Love, il puro folk della fulgida Lie With Me, la splendida Belgian Bar e la dylaniana Salt On Your Skin, ballata di notevole intensità. Ma potrei tranquillamente citarle tutte.

Ci sono anche due brani incisi in studio: una raffinata e limpida versione aggiornata di Liza Light The Candle, originariamente del 1975, ed una cover del classico di Fred Neil The Dolphins, uno dei soli tre pezzi già pubblicati ufficialmente essendo uscito nel 2018 all’interno di un album tributo allo stesso Neil; come bonus abbiamo le altre due canzoni già uscite in passato (nell’album One More Shot), e cioè due straordinarie riletture di Blue River e Come Runnin’ Like A Friend con Andersen insieme a Danko e Jonas Fjeld, registrate live in Norvegia nel 1991. Il secondo e terzo dischetto presentano 21 canzoni provenienti da un concerto (ovviamente ancora a Woodstock) del 2011 mandato in webcast, con Eric accompagnato da una band che comprende i già citati Happy Traum (chitarra e banjo) e John Sebastian (armonica), Joe Flood (violino e mandolino) e la moglie Inge Andersen alle armonie vocali. Ci sono tre pezzi in cui non è Eric a cantare, ma rispettivamente Traum (Buckets Of Rain, di Bob Dylan), Flood (Niagara) ed Inge (Betrayal, canzone decisamente bella scritta da lei), il resto è tutta farina del suo sacco: non mancano ovviamente brani che erano presenti anche nel primo CD (ma chiaramente in versione diversa dato che provengono da un altro concerto), specie nel finale, ma molte altre canzoni di grande bellezza come Dance Of Love And Death, Singin’ Man, Mary I’m Comin’ Back Home (uno splendore), Woman She Was Gentle e le trascinanti Before Everything Changed e Close The Door Lightly, per concludere con una struggente rilettura del superclassico Thirsty Boots.

Woodstock Under The Stars è quindi un’opera praticamente irrinunciabile per gli estimatori di Eric Andersen e nondimeno allettante per chiunque abbia a cuore qualunque espressione di songwriting di classe.

Marco Verdi

Non Solo Una Faccia Tra La Folla: Questo E’ Un Grande Disco! Ben Bostick – Among The Faceless Crowd

ben bostick among the faceless crowd

Ben Bostick – Among The Faceless Crowd – Simply Fantastic Music

Ben Bostick non è soltanto uno dei classici cantautori che popolano il sottobosco della musica a stelle e strisce, è un vero talento: country, folk, Americana, roots? Decidete voi, forse nella sua musica c’è un po’ di tutto questo. Nativo della South Carolina, dopo essere passato dalla California, ora vive ad Atlanta, Georgia, dove lavora e fa musica. Per il momento si arrangia con eventi One Man Band, visto che suona, bene, un po’ di tutto ed è anche la modalità con cui ha inciso in parte questo Among The Faceless Crowd, che ha ricevuto eccellenti riscontri critici, con paragoni allo Springsteen di Nebraska, anche a livello concettuale, ma che tra le sue influenze cita, oltre a Bruce, Johnny Cash, Otis Redding e il chitarrista australiano Tommy Emanuel, dato che è anche un ottimo picker. In effetti nel disco appaiono anche Luke Miller alle tastiere, il bassista Cory Tramontelli e il suo chitarrista abituale, Kyle LaLone alla elettrica nella bellissima The Last Coast, un brano quasi epico, una splendida ballata corale, con un sound dove organo, chitarre arpeggiate e sezione ritmica fanno da apripista all’assolo di LaLone, questo a smentire parzialmente il suono crudo e spoglio di Nebraska, a favore di una musicalità più compiuta, dove la voce di Bostick si eleva maestosa.

Se devo azzardare un paragone personale il tipo di voce di Ben, più che il Boss, mi ricorda moltissimo quella di Eric Andersen, epoca Blue River e seguenti: prendiamo l’iniziale Absolutely Emily, che se vogliamo mantenere il paragone con Springsteen sembra un pezzo di Tunnel Of Love o comunque uno di quelli più intimi e dolci, cantato però con la voce di Andersen, più gentile e carezzevole, sostenuto sempre dall’organo, l’acustica arpeggiata e un supporto ritmico contenuto, il tutto che permette di gustare l’elegante finezza della melodia innato in Bostick. Che non è al primo album, questo è il terzo (oltre ad un mini uscito nel 2016). Le sue canzoni hanno un legame con il sociale, la vita quotidiana non facile del lavoratore comune, negletto e triste, nella quasi desolata Wasting Gas, che timbro vocale a parte, insisto, mi ricorda moltissimo il buon Eric, ci rimanda anche al citato Cash e a Bruce, con l’intervento di un glockenspiel, dell’organo e di una elettrica discreta ma efficace, che poi sfocia in un assolo di armonica quasi commovente, grande musica, date retta.

La scandita, disperata e cruda Working For A Living è la più springsteeniana del lotto… “Something ’bout this math just don’t add up/I’m working for a living, and it’s turning me cold”Sir, don’t make me look like a loser in my baby’s eyes”, su un tappeto sonoro vibrante, con basso, percussioni, organo ed armonica a scandire quella che sembra una sentenza senza appello, e anche I Just Can’t Seem To Get Ahead, con il suo accompagnamento folksy nobilitato da un organo gospel, non sembra voler regalare consolazioni o infondere fiducia nel futuro, perché anche questa è l’America dei nostri tempi, già nell’era pre-covid e oggi ancor di più.

Anche The Thief, di nuovo con glockenspiel ed organo in evidenza, è un grande brano, approccio Johnny Cash via Eric Andersen, con una melodia superba e un testo splendido “I’m a Christian, and I don’t believe it’s right for someone to steal But I’m a man with a family to provide for, that’s the deal…”, molto bella anche Central Valley che racconta della California lontani dalle luci abbaglianti di LA, attraverso solo la voce partecipe ed una acustica arpeggiata. Too Dark To Tell si spinge ancora più a fondo nell’abisso, con accenti alla Woody Guthrie dell’epoca della Grande Depressione, sempre con il picking della acustica danzante di Bostick che tratteggia un acquerello folk di rara efficacia, Untroubled Mind ha un sottofondo religioso con le sue citazioni di Abramo e un accompagnamento meno scarno ed austero, anzi a tratti avvolgente e rigoglioso, nonostante l’argomento, risultando una ennesima canzone sopra la media in un album che ci consegna un grande Cantautore con la C maiuscola. E anche la conclusiva If I Were In A Novel non è per nulla consolatoria, scandita da lunghe note del piano, dall’organo e dal solito glockenspiel, con finale solo voce a cappella che scandisce il verdetto finale di un grande album Not a soul would notice/And none would shed a tear…No witness to the void”.

L’unica nota dolente, al solito, è la scarsa reperibilità del disco, che si può acquistare solo sul sito personale dell’artista (dove si può ascoltarlo) oppure su https://benbostick.bandcamp.com/album/among-the-faceless-crowd , peccato che le spese di spedizione dagli Usa siano comunque proibitive per noi europei: però vale la pena di cercarlò

Bruno Conti