Cosa Si Suona Nei Peggiori Bar Del Texas? Casey Donahew – All Night Party

casey donahew all night party

Casey Donahew – All Night Party – Almost Country Rec./Thirty Tigers CD

Casey Donahew, texano di Burleson, è in giro ormai da dieci anni, ed in ambito country-rock è oggi uno degli acts più quotati dal vivo, sia in Texas che negli stati limitrofi. La sua miscela di country e rock’n’roll ad alto tasso elettrico e chitarristico può diventare letteralmente esplosiva on stage (come testimonia il suo unico live album, Raw-Real In The Ville, del 2008), e ciò si riflette anche nei suoi precedenti cinque album di studio, vere e proprie espressioni di puro Texas country’n’roll http://discoclub.myblog.it/2013/07/24/lassu-sulle-montagne-puro-texas-country-casey-donahew-band-s/ . All Night Party, già tutto un programma nel titolo, è il suo nuovissimo lavoro, e non sfugge certo alla regola: musica elettrica, diretta, senza passaggi a vuoto o momenti sdolcinati, con la ritmica quasi sempre a palla, un perfetto disco da bar band, da suonare a volume alto e magari in compagnia di una birra ghiacciata. I musicisti coinvolti non sono molti, meno di una decina, ma suonano forte ed in maniera tosta (tra di loro spiccano le chitarre di Kenny Greenberg e Rob McNelly e la sezione ritmica formata da Steve Mackey al basso e Nir Z alla batteria), il tutto con la produzione curata di Josh Leo, uno che ha già lavorato con Lynyrd Skynyrd, Restless Hearts, Alabama e Jo-El Sonnier.

Non c’è molto altro da aggiungere se non esaminare i dieci pezzi che compongono All Night Party: se siete abituali lettori di queste pagine virtuali avrete capito perfettamente di che tipo di musica sto parlando. Kiss Me si apre con un arpeggio di banjo, poi entra il resto della band (ed il ritmo è subito alto), un brano molto elettrico con il nostro che srotola una melodia diretta ed uno di quei ritornelli che non fanno prigionieri (e c’è anche un pregevole assolo chitarristico). Country Song aggiunge una buona dose di rock al titolo, c’è anche un violino, oltre ad un refrain forse un po’ ruffiano ma di indubbia efficacia https://www.youtube.com/watch?v=9Ygi4VwmD08 ; College Years è introdotta da un riff alquanto duretto e da una ritmica possente, una rock song a tutto tondo con un’anima southern, chitarre ruspanti e stacchi che di country hanno poco, mentre What Cowboys Do è la prima ballata, ma non aspettatevi niente di languido, il drumming rimane tosto e l’accompagnamento molto ricco, anche se il motivo centrale è abbastanza canonico.

La roboante Feels This Right dimostra che Casey dà il suo meglio nei pezzi più mossi, e ancora meglio fa con la trascinante That’s Why We Ride, un rockin’ country perfetto e dal ritmo acceso, con un ritornello vibrante ed un gustoso doppio assolo delle due chitarre soliste: se dovessi scegliere io, il singolo sarebbe questo. That Got The Girl è più pacata e cantata in maniera distesa, anche se il sapore del Sud è molto presente, mentre Josie Escalido è uno strepitoso tex-mex tune, con una melodia di primissima qualità ed una base strumentale che sa di border lontano un miglio, completo di fisa e fiati mariachi ben in evidenza: un pezzo di bravura davvero brillante, che varrebbe da solo mezza stelletta in un ipotetico giudizio https://www.youtube.com/watch?v=XAEH_uVrfh4 . Il CD si chiude con le roccate e vigorose White Trash Bay e Going Down Tonight, con la seconda che risulta la più sudista del disco (il botta e risposta voce solista-coro femminile è molto Skynyrd), anche se la prima è a mio parere più riuscita e coinvolgente. All Night Party mantiene quello che promette nel titolo, vero country’n’roll texano just for fun, con la sorpresa di Josie Escalido che rivela che Casey Donahew non è solo bravo a mostrare i muscoli ma sa essere anche un bravo songwriter: ora secondo me sono maturi i tempi per un altro disco dal vivo, magari registrato al Billy Bob’s Texas.

Marco Verdi

Il Supplemento Della Domenica: Anteprima Beth Hart – Fire On The Floor, Il Disco Della Completa Maturità!

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Beth Hart – Fire On The Floor – Mascot/Provogue – 14-10-2016

Al sottoscritto il precedente album di Beth Hart Better Than Home era piaciuto parecchio http://discoclub.myblog.it/2015/04/24/bel-disco-forse-troppe-ballate-dal-vivo-beth-hart-better-than-home/ , forse inferiore ai due album con Joe Bonamassa, che però contenevano solo cover, ma superiore a Bang Bang Boom Boom, che pure era prodotto da Kevin Shirley e vedeva la partecipazione in fase di registrazione della band dello stesso Joe, ma le cui canzoni erano meno compiute e varie di quelle di Better Than Home. Che era comunque un album più intimista, ricco nell’ambito della ballate e di brani più bui e malinconici: poi si è scoperto, come ha confidato la stessa Beth, che durante la registrazione di quel disco, uno dei due produttori, Michael Stevens, era gravemente malato, nelle fasi terminali di un cancro che poi se lo sarebbe portato via da lì a poco. Quindi l’atmosfera in studio era decisamente tesa, ricca di emozioni particolari, anche se poi il risultato era stato più che buono, per quanto difficile per i partecipanti, con un suono comunque ben bilanciato e la partecipazione di alcuni musicisti di pregio, come Larry Campbell alle chitarre e Charlie Drayton alla batteria, oltre all’altro produttore Rob Mathes che suonava tastiere, chitarre e curava tutti gli arrangiamenti. Alcune delle canzoni sono diventate dei piccoli classici del repertorio live della nostra amica, anche se proprio dal lato concertistico, che pure è uno dei punti fermi di Beth Hart, una performer formidabile https://www.youtube.com/watch?v=XPyeqLRNoc4 (degna di tutte le grandi del passato, da Janis Joplin e Grace Slick, passando per Etta James, Aretha Franklin, Tina Turner, Bonnie Bramlett di Delaney & Bonnie)  https://www.youtube.com/watch?v=QTWxXG2NoKQ risiede anche uno dei piccoli punti deboli della sua musica: insomma, detto papale papale, la touring band che Beth Hart utilizza, non so se per fedeltà o per motivi economici, formata comunque da buoni professionisti https://www.youtube.com/watch?v=UNk2lMu2cuI , non è paragonabile ai musicisti che suonano nei dischi, la band di Bonamassa, quelli appena citati, oppure ancora quelli che suonano nel nuovo disco, Michael Landau e Waddy Wachtel alle chitarre, Rick Marotta alla batteria, Brian Allen al basso, Jim Cox al piano, Dean Parks all’acustica, Ivan Neville all’organo (più una sezione fiati).

Ca…spiterina, perché come ricorda lei stessa in una intervista, e lo lascio in inglese, perché rende perfettamente l’idea “If you don’t have great musicians, you’re not gonna have a very good record, are you?! Concordo del tutto ed è questo il motivo per cui mi ostino sempre a segnalare i nomi dei musicisti nelle recensioni. E a proposito della affermazione appena riportata, questo è un buon disco, a tratti ottimo. Anche il produttore Oliver Leiber (pure lui un nome che ricorda qualcosa, infatti è il figlio di Jerry Leiber,  di Leiber & Stoller, una delle coppie strategiche del periodo aureo del R&R, del R&B e del primo pop https://www.youtube.com/watch?v=kdWc-rtnHUE ) fa un ottimo lavoro: dodici brani che la stessa Beth dice essere tra i migliori scritti nella sua carriera, e poi da lei messi in una sequenza che ci porta ad una sorta di crescendo qualitativo. Mi sono sentito l’album più volte, visto che lo sto ascoltando due mesi prima dell’uscita e devo dire che è veramente ottimo: dall’abbrivio jazz e raffinato di una Jazzman che tiene fede al titolo, swing-jump anni ’40-‘50, con piano, contrabbasso, fiati, un assolo di chitarra in punta di dita e la voce felpata, ma che prende fuoco all’occorrenza. Love Gangster è un blues con licenza blue-eyed soul, ricco di melodia e di ritmo, con le improvvise fiammate della Hart, che con quella voce può fare ciò che vuole, e un notevole assolo di chitarra in chiusura, Coca Cola viceversa è cantata con la voce vulnerabile e miagolante che Beth sfodera quando vuole rendere omaggio a Billie Holiday, uno dei suoi miti, sexy e panterona, subito pronta a graffiare in questo intenso blues.

Let’s Get Together è una delle canzoni che mi piacciono di più, un soul/R&B fiatistico solare, molto sixties, tipo quelli che scrivevano proprio Leiber & Stoller, delizioso. Love Is A Lie è uno di quei pezzi potenti tra blues e rock in cui Beth Hart eccelle con la voce che sale e scende a comando e la band, soprattutto le chitarre, che suona alla grande, mentre Fat Man, un brano scritto con Glen Burtnik e poi accantonato per essere completato in tempi recenti, è uno dei pezzi più rock, tipico del suo lato più scatenato, Anche Fire On The Floor dovrebbe fare sfracelli dal vivo, una ballata blues potente ed intensa, di grande impatto emotivo, Woman You’ve Been Dreamig Of è un’altra delle sue tipiche ballate pianistiche, intima e raccolta, sempre ricca di pathos ma anche di melodia, quella che si chiama di solito una bella canzone; Baby Shot Me Down rialza i ritmi, un tocco latino qui, un waw-wah malandrino là, un’aria divertita e la solita voce splendida. Che poi raggiunge il suo vertice interpretativo in Good Day To Cry, una superlativa ballata soul degna di quelle che si ascoltavano in Pearl di Janis Joplin  https://www.youtube.com/watch?v=rZuGz2pNc5s, interpretazione da brividi, con picchi e vallate che si alternano nel corpo della canzone, e pure la successiva Picture In A Frame, inizialmente concepita come una testimonianza del suo amore per il marito, ma che poi si è trasformata in un omaggio allo scomparso Michael Stevens, praticamente quasi solo piano e voce all’inizio, ma poi entra la band e diventa un’altra meravigliosa ballata, come pure la splendida conclusiva No Place Like Home, che pur predicando il concetto opposto di Better Than Home, propone semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia.

Sempre più brava, probabilmente il disco più bello della sua carriera, una voce come ormai se ne trovano poche in giro, esce venerdì 14 ottobre.

Bruno Conti

Dal Rock Al Blues E Oltre! Jonah Tolchin – Thousand Mile Night

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Jonah Tolchin – Thousand Mile Night – Yep Roc CD

Jonah Tolchin, musicista originario del New Jersey, pur solo con due dischi alle spalle si può definire un artista completo. Il suo primo amore di gioventù è stato il blues, complice anche un’esperienza indimenticabile allorquando il grande Ronnie Earl lo vide esibirsi in un negozio di dischi e lo invitò con lui on stage, ma nei suoi primi due album (e tre EP) Jonah ha palesato anche influenze folk, rock e country, attirando l’attenzione anche di un esperto come Marvin Etzioni (ex bassista dei Lone Justice), che gli ha prodotto nel 2014 il secondo album, quel Clover Lane che ha incontrato i favori un po’ di tutti, e che vedeva ospiti del calibro di Steve Berlin, Mickey Raphael e John McCauley (leader dei Deer Tick). Thousand Mile Night, che vede ancora Etzioni in consolle, è il terzo e nuovo lavoro di Tolchin, e devo dire che le promesse fatte con Clover Lane sono state mantenute: Jonah ha messo infatti a punto un album molto coeso, con nove canzoni di buon valore ed una cover eccellente, un disco che, pure senza ospiti famosi (oltre ad Etzioni, solo Joachim Cooder, figlio di Ry, alla batteria in alcuni brani), fonde mirabilmente rock, folk ed anche un pizzico di blues, il tutto all’insegna di una strumentazione molto classica, con chitarre e organo spesso in primo piano, e della voce particolare del leader.

Un album serio e ben costruito, ma nello stesso tempo diretto e godibile, che prosegue in maniera logica e senza strattoni il percorso iniziato dal ragazzo nel 2011 con il suo primo EP, Eldawise. L’album tra l’altro è stato inciso ai mitici FAME Studios di Muscle Shoals, in Alabama, un luogo che fa tremare le gambe solo a nominarlo, ma Jonah ha assorbito bene tutte le vibrazioni positive della leggendaria  Beauty In The Ugliest Days dà il via, una ballata intensa e cantata con buon pathos da Jonah, che rivela una voce molto caratteristica: l’accompagnamento è classico, con Danny Roaman ottimo alla solista. La title track è invece un boogie elettroacustico un po’ stralunato ma assolutamente diretto, con il nostro che si dimostra bravo anche alla slide, mentre I Wonder è uno spedito e limpido folk-rock dylaniano di stampo tradizionale, un brano bello, godibile e vibrante: tre canzoni, tre stili diversi, il tutto senza risultare minimamente dispersivo. Completely è una ballata gentile, con un malinconico violino sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=qHApGo1-SH0 , un intermezzo bucolico che prelude alla fluida Paint My Love, altro slow intenso, suonato con pochi strumenti (ma non ne servivano di più): un bell’esempio di cantautorato puro.

Bella anche Song About Home, ancora lenta, guidata da chitarra acustica, piano ed una leggera percussione, un arrangiamento che ricorda il Paul Simon meno contaminato, mentre Unless You Got Faith è più rock, con l’organo che le dona un sapore d’altri tempi. Niente male anche Where The Hell Are All Of My Friends, ancora tra folk e rock, un motivo denso e ben costruito, con Tolchin che se la cava ottimamente anche alla solista; Working Man Blues # 22 è invece un rock-blues elettrico e vigoroso, molto diverso da quanto proposto finora, ma di sicuro tra le tracce più riuscite. Il CD si chiude ancora all’insegna del blues, con la cover di Hard Time Killing Floor Blues di Skip James, ripresa da Jonah in maniera rigorosa, solo voce e chitarra, ma con il piglio del vero bluesman (come la farebbe uno del calibro di David Bromberg la cui voce ha tra l’altro dei punti in comune con quella di Tolchin). Se avete già Clover Lane e vi è piaciuto, questo Thousand Mile Night non potrà che confermare le vostre buone impressioni; se viceversa non avete ancora nulla di Jonah Tolchin, è il momento giusto per cominciare.

Marco Verdi

La Classe Non Manca: Una Piacevole Sorpresa “Acustica”! Eric Johnson – ej

eric johnson EJ

Eric Johnson – EJ – Mascot/Provogue

Nel 2014 erano usciti Europe Live http://discoclub.myblog.it/2014/06/17/prossimo-disco-dal-vivo-eric-johnson-europe-live/  e Eclectic, il disco registrato in coppia con Mike Stern http://discoclub.myblog.it/2015/02/11/rock-blues-jazz-eric-johnson-and-mike-stern-eclectic/ , ora, quasi a smentire le voci di scarsa prolificità che sono sempre state accostate a Eric Johnson (anche da chi scrive), esce già un nuovo album, EJ, il primo completamente acustico della sua carriera, diciamo meglio unplugged, perché non tutti i brani sono stati realizzati in solitaria. E volete sapere una cosa? Mi sembra decisamente bello, uno dei migliori della sua discografia, forse alla pari con Tones, con  Eric che si divide tra diversi tipi di chitarra acustica e il pianoforte: nove composizioni originali e quattro cover. Se vogliamo ulteriormente approfondire, contrariamente alle sue abitudini, il disco è stato registrato in presa diretta, con pochissime sovraincisioni, nel suo studio Texas Saucer Sound di Austin, con l’aiuto di alcuni musicisti, l’altro chitarrista Doyle Dykes, la violinista Molly Emerman, John Hagen al cello, e gli abituali accompagnatori di Johnson, la doppia sezione ritmica, a seconda dei pezzi, Tommy Taylor e Wayne Salzmann alla batteria e Roscoe Beck e Chris Maresh al contrabbasso.

Partiamo dalle cover: Mrs. Robinson di Simon And Garfunkel è la prima, una versione strumentale per sola chitarra acustica, molto bella, con un approccio sonoro che ricorda molto quello dei dischi della Windham Hill, pensate a William Ackermann, Alex De Grassi, ma anche Michael Hedges, tra fingerpicking e quei tocchi più moderni che hanno caratterizzato l’etichetta fondata da Ackermann. Eric Johnson è da sempre considerato un vero virtuoso della chitarra elettrica (tra i suoi fans più insospettabili c’era anche il conterraneo Stevie Ray Vaughan che lo considerava uno dei solisti più eclettici in circolazione e ne ammirava la tecnica e la dedizione allo strumento). Tutti elementi che risaltano in questo EJ, proprio a partire dalla appena citata rilettura del classico di Simon, un vero turbine di corde acustiche, accarezzate, pizzicate e percosse con vigore dal nostro amico, che pare quasi moltiplicarsi in questa dimostrazione di tecnica, ma anche di gusto squisito, al pari con i grandi virtuosi del passato. La seconda cover, sorprendente, è l’omaggio a Jimi Hendrix (da sempre tra i  miti di Johnson) qui ripreso con una versione di One Rainy Wish, uno dei brani di Axis: Bold As Love che secondo gli appassionati del mancino di Seattle evidenziava le influenze di chitarristi jazz come Jim Hall e Wes Montgomery (altri punti fermi di Johnson) rivisti nell’ottica unica di Hendrix, e pure nella rilettura del texano ritornano e si evidenziano quegli elementi jazz, tra chitarre acustiche, piano, una sezione ritmica agile ed inventiva e il cantato caldo e partecipe del nostro amico, non sempre vocalist di grande pregio, che però nel brano in questione e in generale in tutto l’album dimostra di essere a proprio agio in questa atmosfera più intima e raccolta.

Il terzo brano non originale è una vorticosa cover, accelerata allo spasimo, quasi a tempo tra bluegrass e ragtime, del classico di Les Paul e Mary Ford (ma era nata come canzone popolare americana degli anni ’20, la facevano anche Stanlio e Olio), The Word Is Waiting For The Sunrise, un duetto con Doyle Dykes che rievoca quelli dei virtuosi della chitarra degli anni ’70. Ancora Simon & Garfunkel per Scarborough Fair, anche se la canzone è in effetti  un traditional imparato da Simon da Martin Carthy, che include la famosa lirica Parsley, Sage, Rosemary And Thyme, titolo di uno dei loro dischi più belli: nell’interpretazione di Eric Johnson diviene una fluente ballata per solo piano e voce dove vengono alla luce anche i lati più melodici del musicista di Austin.

Il resto del disco è tutto farina del suo sacco: dalla delicata e deliziosa canzone Water Under The Bridge, ancora solo piano e voce, passando per Wonder, altro esempio di approccio folk che potrebbe ricordare musicisti inglesi come Carthy, Jansch e Renbourn, e ancora Wrapped In A Cloud, splendido esempio di brano soft-rock (un termine forse desueto ma efficace) con piano, cello, sezione ritmica e voce femminile di supporto, che rimanda ai migliori brani di Elton John, ma anche di vecchi datori di lavoro di Johnson come Carole King e Cat Stevens. Once Upon A Time In Texas è un eccellente strumentale che si rifà a gente come Leo Kottke, con le corde d’acciaio della chitarra di Eric sollecitate al meglio, e anche Serinidad è uno splendido strumentale, questa volta più malinconico, con le mani che scivolano delicate sul nylon delle corde. In Fatherly Downs si accompagna con una Martin D-45 in un’altra bella ballata cantata di stampo folk e svolazzi virtuosistici di chitarra. Mentre November, dove appare anche uno struggente violino, è una ulteriore bella ballata pianistica con tutto il gruppo che lo accompagna e All The Things You Are, solo voce e acustica, se non fosse per la voce più sottile di Johnson, potrebbe rimandare di nuovo ai brani in fingerpicking di Leo Kottke. A chiudere Song For Irene, altro complesso strumentale dove suona la steel string guitar. Veramente tutto bello!

Bruno Conti

Finalmente E’ Arrivato Anche Il Suo Momento! E Che Disco! Bob Weir – Blue Mountain

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Bob Weir – Blue Mountain – Columbia Legacy/Sony CD

Era una vita che Bob Weir, 69 anni tra pochi giorni, non faceva un disco da solista: dopo la scomparsa nel 1995 di Jerry Garcia, Bob si è caricato sulle spalle la responsabilità di portare avanti l’eredità dei Grateful Dead, con le ristampe, i dischi dal vivo, come leader dei The Other Ones prima e dei The Dead dopo e, nell’ultimo periodo, è stato il promotore della tournée di addio dello scorso anno e del concerto tributo a Jerry (che uscirà tra un paio di settimane), oltre a girare ancora gli States con i Dead & Company. Il suo ultimo album di studio risaliva a ben sedici anni fa (Evening Moods, pubblicato con i Ratdog), ma se ci limitiamo ai dischi accreditati a lui da solo, senza quindi le sue varie bands come Kingfish e Bobby & The Midnites, dobbiamo andare indietro fino addirittura al 1978, allorquando usci il non eccelso Heaven Help The Fool. Per questo, ma non solo per questo, Bob non è mai stato considerato per quanto avrebbe meritato, in quanto è sempre stato visto un po’ nell’ombra di Garcia, obiettivamente più dotato di lui come compositore e chitarrista (ma come cantante non so), quasi come se fosse un miracolato: eppure, a ben vedere, di belle canzoni dentro e fuori dai Dead ne ha scritte molte anche lui, ed alcune sono diventati comunque dei classici (qualche titolo sparso: Sugar Magnolia, Cassidy, Jack Straw, Playing In The Band, Estimated Prophet, One More Saturday Night, Feel Like A Stranger). Ma un grande disco non lo aveva mai fatto, con la sola possibile eccezione di Ace del 1972: ma se quell’album era infarcito dalla prima all’ultima nota di puro Dead-sound (anzi, il gruppo era proprio usato come backing band, Garcia compreso), questo nuovo Blue Mountain è diverso da qualsiasi cosa mai fatta prima da Weir.

Infatti le dodici canzoni del CD, scritte tutte da Bob con l’aiuto del noto musicista Josh Ritter (che sostituisce il suo abituale partner John Barlow) hanno sì elementi rock, ma un rock classico, americano, con decisi elementi western e persino qualcosa di country e folk; Weir predilige le ballate, che vengono suonate con arrangiamenti ariosi, profondi, a volte quasi crepuscolari: suoni che fanno venire in mente spazi aperti, praterie infinite sferzate dal vento, paesaggi al tramonto. Weir (che appare invecchiatissimo sulla copertina, ma secondo me se si tagliasse barba e baffi qualche anno se lo toglierebbe) si accompagna solo alla chitarra acustica, mentre il resto è nelle sapienti mani, tra i tanti musicisti presenti, di Josh Kaufman, che suona alla grande il pianoforte e produce anche il disco, Sam Cohen alle chitarre, Joe Russo e Ray Rizzo alla batteria, oltre ai due leader dei National, Aaron e Bryce Dessner, che in atmosfere come in quelle di questo disco ci sguazzano, presenti in parecchi brani. Indicativa del sound del disco la canzone d’apertura, Only A River, una ballata dal tono epico (pare che Bob avesse iniziato a scriverla più di 50 anni fa!), strumentata con misura e caratterizzata dal timbro profondo del nostro (in ottima forma vocale), un brano quasi rarefatto ma di grande fascino, che nel ritornello ripropone il testo e la melodia della mitica Shenandoah: splendido l’uso del piano da parte di Kaufman ed il crescendo progressivo. Già da questo pezzo si capisce che i Dead sono lontani anni luce. Cottonwood Lullaby è splendida, una western song moderna, profonda, notturna, con un suggestivo coro tra una strofa e l’altra ed ancora la voce di Bob, vera sorpresa del disco, al centro di tutto: canzone perfetta per un cowboy movie girato oggi, ma in bianco e nero; Gonesville è più spedita, una godibilissima miscela tra country, western e rockabilly, con Weir che nel cantato, parole sue, si è ispirato ad Elvis: incredibile che sia lo stesso Bob Weir che suonava con il Morto Riconoscente.

Lay My Lily Down è leggermente più elettrica e roccata, tendente al blues, con un mood annerito ed un’anima quasi southern, mentre Gallop On The Run, ancora lenta e rarefatta, rimanda alle atmosfere tipiche di Daniel Lanois, con una melodia che va dritta al cuore e la voce di Bob senza la minima sbavatura. Anche Whatever Happened To Rose è lenta e riflessiva, con un altro splendido coro alle spalle ed una melodia di stampo quasi tradizionale: è possibile che la frequentazione da parte di Weir dei National abbia avuto qualche influenza su di lui, qui c’è molto delle atmosfere dei fratelli Dessner. Ghost Towns è più elettrica e cadenzata, e possiede un’andatura proprio da musica per film western: Bob canta con sicurezza un motivo fluido, che sfocia in un affascinante ritornello corale. Darkest Hour è ancora splendida, una turgida ballata dalla melodia quasi country, poco strumentata (ma che bel pianoforte), ma eseguita con un feeling incredibile; bellissima anche la folkeggiante Ki-Yi Bossie, seppur eseguita dal solo Bob con la sua chitarra, ma con la partecipazione straordinaria del leggendario Ramblin’ Jack Elliott e di un coro alle backing vocals (e yodel): alla fine vi troverete senza accorgervene a canticchiare il ritornello assieme a Bob. La maestosa Storm Country ha tracce di psichedelia, ma non nel senso dei Dead, ma piuttosto somiglia al genere molto Laurel Canyon di uno come Jonathan Wilson, con quelle sonorità sospese e circolari; il CD si chiude con la title track, ancora con Bob in perfetta solitudine, e con l’intensa One More River To Cross (si finisce come si è iniziato, con una canzone che parla di un fiume), nella quale il nostro trova un’altra melodia vincente, l’ennesima di un disco che definire sorprendente è riduttivo.

E’ finalmente giunto il momento che il mondo si accorga di Bob Weir: anche se non siete mai stati dei fans dei Grateful Dead, Blue Mountain è un disco da tenere in forte considerazione. Perfetto per le prossime serate autunnali, da alternare magari con l’ultimo Van Morrison ed il prossimo Leonard Cohen.

Marco Verdi

E Chi Li Ferma Più! Il 2 Dicembre Un Nuovo Album Di Cover Dei Rolling Stones – Blue And Lonesome

Rolling Stones - Blue & Lonesome cd Rolling Stines - Blue&Lonesome

Rolling Stones – Blue And Lonesome – CD – 2 LP – Deluxe Edition con mini libro di 75 pagine e cartoline – Polydor/Universal – 02-12-2016

Grandi movimenti di mercato per gli Stones, il 30 settembre è uscito il Box The Rolling Stones In Mono, per l’11 novembre è prevista l’uscita di Havana Moon, il film sul concerto a Cuba dello scorso, previsto in vari formati

E adesso (ma se me parlava da tempo) è stato annunciato che il 2 Dicembre uscirà Blue And Lonesome, un disco tutto dedicato a cover di pezzi blues, il loro primo album di studio da oltre dieci anni a questa parte, dedicato al mai dimenticato amore per le classiche 12 battute. E in due pezzi sarà presente Eric Clapton alla chitarra: Everybody Knows About My Good Thing I Can’t Quit You Baby.

Ecco la lista completa dei brani e la fonte originale delle canzoni:

1) Just Your Fool (Originally written and recorded in 1960 by Little Walter)
2) Commit a Crime (Originally written and recorded in 1966 by Howlin’ Wolf – Chester Burnett)
3) Blue and Lonesome (Originally written and recorded in 1959 by Little Walter)
4) All of Your Love (Originally written and recorded in 1967 by Magic Sam – Samuel Maghett)
5) I Gotta Go (Originally written and recorded in 1955 by Little Walter)
6) Everybody Knows About My Good Thing (Originally recorded in 1971 by Little Johnny Taylor, composed by Miles Grayson & Lermon Horton)
7) Ride ‘Em On Down (Originally written and recorded in 1955 by Eddie Taylor)
8) Hate To See You Go (Originally written and recorded in 1955 by Little Walter)
9) Hoo Doo Blues (Originally recorded in 1958 by Lightnin’ Slim, composed by Otis Hicks & Jerry West)
10) Little Rain (Originally recorded in 1957 by Jimmy Reed, composed by Ewart.G.Abner Jr. and Jimmy Reed)
11) Just Like I Treat You (Originally written by Willie Dixon and recorded by Howlin’ Wolf in December 1961)
12) I Can’t Quit You Baby (Originally written by Willie Dixon and recorded by Otis Rush in 1956)

Più avanti, quando sarà il momento, ci torneremo con calma, per il momento è tutto.

Bruno Conti

Non Sempre Si Debbono Soffrire Le Pene D’Amor Perduto, Ma Se Il Risultato E’ Questo… Luke Winslow-King – I’m Glad Trouble Don’t Last Always

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Luke Winslow-King – I’m Glad Trouble Don’t Last Always – Bloodshot Records/Ird

La tradizione dei cosiddetti “divorce album” ha ormai una lunga lista di dischi che vertono sulle pene d’amore di coppie che giungono al capolinea delle loro storie: i più fini poi la suddividono ulteriormente tra le “semplici” rotture e separazioni e i divorzi veri e propri. Alcuni esempi eclatanti, andando indietro nel tempo, ci parlano di dischi come D-I-V-O-R-C-E di Tammy Wynette e Memories Of Us di George Jones, usciti a distanza di parecchi anni uno dall’altro, in tempi più recente Rosanne Cash con Interiors e The Wheel e la “risposta” di Rodney Crowell con Life Is Messy. L’album più celebre ed importante (non a caso uno dei suoi più belli) è Blood On The Tracks di Bob Dylan, ma anche Here My Dear di Marvin Gaye, i cui proventi sarebbero dovuti andare alla ex moglie Anna Gordy, Tunnel Of Love di Springsteen, Blood And Chocolate di Costello, nella categoria dei break-up album, addirittura incrociati, con più coppie coinvolte, Rumours dei Fleetwood Mac. E quello più eclatante, in quanto inciso e portato in giro in tour quando erano ancora insieme, lo splendido Shoot Out The Lights di Richard e Linda Thompson. Ce ne sono molti altri, insieme anche a singole canzoni, ma era per rendere il concetto: come ci ha insegnato anche il blues l’artista deve soffrire per arricchire la sua ispirazione.

L’ultimo in ordine di tempo è Luke Winslow-King con questo I’m Glad Trouble Don’t Last Always (titolo quanto mai esplicativo) che narra in queste canzoni della sua separazione, e conseguente divorzio, verso la fine del 2015, con la compagna Esther Rose, che era, ad aggravare la situazione, anche stretta collaboratrice a livello musicale. Il musicista di Cadillac nel Michigan, ma da lunghi anni residente in quel di New Orleans, spesso collegato a quel cosiddetto movimento di neo-tradizionalisti (che poi non esiste) a cui vengono ascritti anche Pokey LaLarge, Meschiya Lake, gli Old Crow Medicine Show, i Carolina Chocolate Drops, ma, ripeto, un filone non mi pare ci sia e questi musicisti sono accomunati solo dal fatto che amano molto le sonorità e gli stili del passato cercando di modernizzarli, ma rimanendo all’interno della tradizione. Winslow-King ha già registrato quattro album (questo è il quinto), gli ultimi due, molto belli, per la Bloodshot, accolti con ottime recensioni, anche sul Buscadero, e che man mano spostano l’asse del sound verso un suono più elettrico. In effetti, al primo ascolto, ma anche a quelli successivi, mi sono chiesto: chi è stato a togliermi il CD dal lettore e infilarne uno di Ry Cooder degli anni ’70? Ma poi non avendo il dischetto (lo stavo ascoltando in streaming) mi sono detto, non può essere lui, la voce in effetti è diversa, ma il sound, l’approccio e anche la qualità è quella dei dischi dell’artista californiano. Entrambi sono virtuosi della slide, Winslow-King soprattutto all’acustica con il corpo di acciaio ma se la cava egregiamente pure all’elettrica, e quando non ci arriva lui c’è un fantastico musicista italiano, ebbene sì, Roberto Luti,  livornese trapiantato a New Orleans (la cui storia meriterebbe un capitolo a parte, fino alla sua “deportazione” dagli Stati Uniti, sarebbe espulsione), considerato una piccola leggenda dagli artisti locali, chiamato “il maestro Italian” della slide, che suona nel disco, insieme agli ottimi Benji Bohannon, batterista, al bassista Brennan Andes, e al tastierista Mike Lynch, tutti tesi alla creazione di quello che risulta essere un piccolo gioiellino, questo I’m Glad Trouble Don’t Last Always, album eclettico e di notevole spessore.

Luke Winslow-King non ha una voce straordinaria (neppure Ry l’aveva) ma molto espressiva, scrive belle storie che diventano splendide canzoni sulla sua recente vicenda: dall’iniziale On My Way, che anche se posta all’inizio, è un brano che racconta della conclusione della vicenda amorosa, “I’m on my way/ Across the golden valley”,  a tempo di gospel-rock, con un grandioso lavoro della slide e della band al completo, un brano sereno ed avvolgente, mentre la successiva title-track è una sorta di furiosa rilettura “bianca” della Voodoo Chile Hendrixiana, un brano che risente anche dell’influenza dei brani di Anders Osborne, altro “oriundo” trapiantato a New Orleans, che Luke conosce ed ammira, con una selvaggia chiusura a tempo di rock-blues dove Luti e Winslow-King scatenano le loro slide, per un finale sulfureo, bellissima, se mai Jimi si fosse dato con impegno al bottleneck style, e pure con un testo amaro: “When I had you/ I thought that you’d always be true/ Now look here, pretty baby/ Look what you made me do.”.

Change Your Mind è un bel mid-tempo arioso con uso di armonica, quasi pettyano nel suo sviluppo, un disperato grido di amore e sofferenza come la successiva Heartsick Blues, un folk blues rurale con il violino di Matt Rhody aggiunto, che nel testo cita pezzi di autori celebri “She’s singing ‘Please Release Me’ ( Ray Price), and ‘I’m So Lonesome I Could Cry’ [Hank Williams]/ It’s thinking about her ‘Cold, Cold Heart (ancora Hank)/ That makes me want to die”, e diventa addirittura personale in Esther Please, una disperata richiesta all’amata a tempo di blues, sempre con slide in azione.

Ma anche rassegnata in Watch Me Go, altro brano bellissimo, una sorta di Memphis sound meets The Band, ballata sopraffina. O indignato come in Act Like You Love Me, una sorta di R&R bluesato, furioso e scatenato, quasi incazzato. Louisiana Blues si aggiunge alla lunga lista di canzoni sullo stato al Sud degli States, un poderoso rock-blues, tra Little Feat e Radiators, con la slide sinistra e sinuosa di Winslow-King (o è Luti? O tutti e due)  che ci dà dentro alla grande, manco ci fosse Ry Cooder o Lowell George. A concludere la vicenda arriva No More Crying Today, una sorta di accettazione della fine della storia, altra splendida ballata avvolgente che conclude su una nota lieta, la slide raddoppiata, questa volta sognante e incalzante; un disco veramente bello, che conferma il talento di questo musicista a cui auguriamo di non dover soffrire in futuro di nuovo per fare un altro album così bello!

Bruno Conti

Un’Altra Splendida (Quasi) Settantenne! Marianne Faithfull – No Exit

marianne faithfull no exit

Marianne Faithfull – No Exit – EarMusic DVD – BluRay – DVD + CD – BluRay + CD

Ormai quasi tutti i musicisti per i quali vibriamo stanno celebrando, o hanno già celebrato da qualche anno, i cinquanta anni di carriera. Anche Marianne Faithfull, cantante londinese musa nei sixties di Mick Jagger e Keith Richards (con Mick ha avuto anche una lunga e burrascosa relazione), oggi sessantanovenne (ne fa settanta a Dicembre), ha tagliato il traguardo due anni orsono, e ha festeggiato l’evento con una tournée che sulla carta doveva promuovere il suo ultimo disco di studio, l’ottimo Give My Love To London (uno dei suoi migliori, ma è già da diversi anni che la bionda Marianne fa solo dischi belli), ma in pratica è diventata un pretesto per rileggere pagine più o meno note del suo percorso d’artista. Molto famosa negli anni sessanta, anche per la sua maliziosa bellezza, Marianne ha avuto un crollo di popolarità nei seventies, anche in conseguenza di uno stile di vita non proprio da monaca: è arrivata fino a conoscere l’inferno, ma ha saputo risalire e reinventarsi, più o meno dall’album Broken English del 1979, come raffinata chanteuse ed interprete sopraffina (ma continua anche oggi a scrivere diverse canzoni di suo pugno), complice anche una metamorfosi vocale, causata da sigarette e stravizi, che ha aggiunto ancora più fascino alle sue canzoni, una voce quasi “brechtiana”; d’altronde la Faithfull ha origini mitteleuropee, essendo discendente da parte di madre della nobile dinastia dei Von Sacher – Masoch (un nome che solo a sentirlo fa venire in mente giarrettiere, guepières e frustini di pelle nera).

Oggi Marianne è una signora invecchiata e con qualche problema fisico (nel BluRay di cui mi accingo a parlare cammina accompagnata da un bastone e ha chiari problemi di movimento), ma il viso reca ancora tracce di quando faceva girare la testa a mezza Londra, e quando apre bocca, sia per introdurre in maniera pacata le canzoni sia per cantarle, rivela una classe immensa ed immutata, ad un livello che recentemente ho riscontrato solamente in Joan Baez e, parlando di uomini, in Leonard Cohen. No Exit è il suo nuovo DVD dal vivo (o BluRay, filmato in una splendida definizione), registrato a Budapest (quindi non lontano da dove discende), che mette in fila in un’ora e mezza precisa sedici brani scelti tra più o meno famosi con, nella versione doppia, una selezione di dieci pezzi dallo stesso concerto (due-tre in più ci stavano, se proprio non si voleva fare un CD doppio). Marianne sopperisce la scarsa forma fisica con una capacità interpretativa formidabile, con la sua voce figlia di mille battaglie che si staglia carismatica e fragile nello stesso tempo, una voce che è uno strumento in più aggiunto a quelli presenti sul palco: la band è ridotta, solo quattro elementi, ma suonano in maniera davvero sopraffina, specialmente lo straordinario pianista Ed Harcourt (che è anche un artista in proprio avendo già pubblicato sette album), dotato di un tocco e di una liquidità scintillante (e comunque gli altri tre non sono di molto inferiori: Rob McVey, chitarrista misurato e sempre funzionale alla canzone, mai una nota fuori posto, e la superba sezione ritmica formata da Jonny Bridgewood al basso e Rob Ellis alla batteria).

Il concerto si apre con la saltellante title track del disco di due anni fa, scritta insieme a Steve Earle, un brano dalla melodia immediata anche se ripetitiva, alla quale la voce di Marianne dona profondità; Falling Back (scritta con la cantautrice Anna Calvi) ha una splendida introduzione full band, con un suggestivo riff di pianoforte, ed il brano fa venire la pelle d’oca tanto è bello, grazie anche all’interpretazione da brividi di Marianne e la formidabile performance di Harcourt. Broken English non ha bisogno di presentazioni, è uno dei classici della Faithfull, e questa versione decisamente elettrica e pulsante le rende giustizia, una rinfrescata ad un brano che ha dato una svolta alla sua carriera; Witches Song, che Marianne dice di aver composto dopo aver visto Il Sabba Delle Streghe di Goya al Prado di Madrid, è un pezzo ritmato, vivace e più solare dei precedenti, con una chitarra acustica a scandire il ritmo ed il solito bel piano liquido, mentre Price Of  Love, una cover di un brano degli Everly Brothers, ha un arrangiamento “cattivo” e dai toni rock-blues. Marathon Kiss è invece stata scritta da Daniel Lanois (che aveva prodotto per Marianne il bellissimo Vagabond Ways), e presenta le tipiche sonorità rarefatte del musicista canadese, un gran bel pezzo che la Faithfull ci propone con un feeling enorme: si sente la fragilità della voce, ma proprio per questo il tutto risulta più vero e spontaneo. L’acustica ed intensa Love More Or Less (se non vi emozionate all’ascolto di brani come questo non siete umani) precede la classica As Tears Go By, il noto brano dei Rolling Stones che all’epoca Marianne fece sua, la canzone non perde un’oncia della sua bellezza, e la voce matura e profonda della leader ne offre la versione forse definitiva: brividi lungo la schiena.

Splendida anche la mossa Come And Stay With Me , un pezzo scritto per lei nel 1965 da Jackie DeShannon, caratterizzata da una melodia pop diretta e godibile; Mother Wolf ha invece una ritmica cupa e minacciosa, ed è meno immediata delle precedenti, ma poi è la volta della celeberrima Sister Morphine, il pezzo scritto dagli Stones pensando a lei (che è anche co-autrice), un brano ancora oggi drammatico e di una potenza emotiva incredibile, punteggiata dai lancinanti riff di chitarra di McVey (nell’originale degli Stones la suonava Ry Cooder). Bella ed intensa anche Late Victorian Holocaust di Nick Cave, un autore molto amato da Marianne; Sparrows Will Sing è invece stata donata alla Faithfull da Roger Waters, e ha una melodia tipica del suo autore, con un arrangiamento forte e molto rock ed una sezione ritmica pulsante, mentre The Ballad Of Lucy Jordan, del noto autore Shel Silverstein, è una grande canzone, una delle migliori del concerto, che dà il meglio di sé in questa resa acustica ma full band ed è ulteriormente valorizzata dalla voce incredibile di Marianne: una meraviglia. Il concerto si chiude con la rara Who Will Take My Dreams Away, ancora drammatica (ma che intensità!), e con Last Song, scritta con Damon Albarn dei Blur (una sera, dice Marianne, nella quale erano tutti e due ubriachi fradici), bellissima anche questa: applausi scroscianti e sipario. Come bonus, quattro pezzi tratti dalla performance alla Roundhouse di Londra, tre dei quali in comune con la serata di Budapest (Give My Love To London, Late Victorian Holocaust e Sister Morphine) ed una intima rilettura di It’s All Over Now, Baby Blue di Bob Dylan.

Assieme al settantacinquesimo di Joan Baez ed al Live In San Diego di Eric Clapton (ma di interessanti ne devono ancora uscire), questo No Exit è uno dei dischi dal vivo dell’anno.

Marco Verdi

Forse L’Ultima Occasione Per Un “Cantante Vero”! Frankie Miller’s Double Take

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Frankie Miller – Frankie Miller’s Double Take – Universal CD – CD+DVD

Per chi non lo sapesse, e purtroppo temo siano in molti, soprattutto tra i più giovani, Frankie Miller è stato uno dei più grandi cantanti inglesi della storia del rock (e pure del soul, non solo quello blue eyed, ma in generale), un interprete ed autore assolutamente alla pari, anche superiore per certi versi, a gente come Rod Stewart o Paul Rodgers, ma anche andando a ritroso, Eric Burdon, Joe Cocker, Chris Farlowe, Steve Marriott, uno in grado di interpretare brani di Otis Redding e Marvin Gaye, infondendo nelle canzoni il fuoco dell’interprete sublime o del rocker selvaggio, ma anche autore di splendide canzoni, che se non hanno infiammato le classifiche nel suo periodo aureo, sono state apprezzate da tutti gli amanti della musica più genuina, grazie a una potenza vocale inaudita, un phrasing perfetto ed una grinta incredibile, soprattutto nei concerti dal vivo (andatevi a recuperare il triplo CD o doppio DVD del Rockpalast, è fenomenale), ma anche i dischi in studio, soprattutto i sette incisi tra il 1973e il 1980, e raccolti nello splendido cofanetto That’s Who: Complete Chrysalis Recordings 1973-1980, sono tra le migliori cose di sempre prodotte dal rock britannico (anzi scozzese, perché il nostro viene da Glasgow).

Tra le sue collaborazioni sono famose quelle con Phil Lynott dei Thin Lizzy per Still In Love With You e quelle dal vivo con Rory Gallagher, un altro genuino e istintivo come lui  https://www.youtube.com/watch?v=OUAM66Oc-ck. Un paio di brani nei top 10 inglesi, alcune canzoni in film e serie televisive, i suoi pezzi sono stati incisi anche da Ray Charles, Rod Stewart, Etta James, Johnny Cash, Roy Orbison e i Traveling Wilburys, qualche apprezzata esperienza come attore, poi i suoi brani hanno cominciato ad avere successo in ambito country, ma dal 1985 non riusciva più ad incidere un album nuovo. Nel 1994 si era trasferito a New York per formare un nuovo gruppo, con Joe Walsh alla chitarra, Nicky Hopkins al piano e Ian Wallace alla batteria, quando improvvisamente una notte, il 25 agosto del 1994, la luce si è spenta, Miller ha avuto una emorragia cerebrale per cui ha rischiato di morire, è rimasto molti mesi in coma, ma caparbiamente, anche se dicevano che non avrebbe più camminato e recuperato l’uso delle sue funzioni vitali, ha ripreso la vita per i capelli, e anche se non ha più potuto cantare e scrivere canzoni, come racconta l’ottimo documentario della BBC Stubborn Kinda Fella https://www.youtube.com/watch?v=DI24jV1AxwE , comunque si è impegnato per riavere quello che era possibile.

E ora, dopo molti anni e molti tributi, tramite l’interessamento di Rod Stewart, suo grande ammiratore, che lo ha definito l’unico cantante bianco “in grado di portare una lacrima al mio occhio”, e che ha contattato il produttore australiano David Mackay chiedendogli se era a conoscenza di materiale inedito di Frankie Miller, il quale a sua volta lo ha chiesto alla moglie di Miller Annette, sempre rimasta al suo fianco in questi anni difficili, che gli ha spedito due sacchettoni pieni di demos, dal quale sono emersi i diciannove pezzi che compongono questo Frankie Miller’s Double Take. Come direbbe Fantozzi, paventavo “una cagata pazzesca” e invece l’album, che ho sentito ripetutamente in streaming prima dell’uscita e di nuovo in questi giorni, è decisamente buono, non un capolavoro, ma assolutamente degno delle glorie passate di Frankie. Canzoni interpretate nell’album sotto forma di duetto con ospiti illustri: dal rock iniziale di Blackmail, con l’amico Joe Walsh alle chitarre, anche slide, passando per Where Do The Guilty Go, che sembra una canzone perduta del Elton John anni ’70, con Steve Cropper alla chitarra. Way Past Midnight, un poderoso rock’n’soul faitistico con Huey Lewis, True Love, una bella ballata con Bonnie Tyler, seconda voce meno “pomposa! del solito, perché comunque la protagonista assoluta del disco è la voce di Miller, forte e potente come sempre, e il contorno musicale creato è assolutamente all’altezza. In Kiss Her For Me, il duetto con Rod Stewart, è difficile distinguere le voci dei due, stesso timbro, stesso phrasing, ottima canzone, Gold Shoes, il pezzo con Francis Rossi, sembra uno di quelli belli degli Status Quo, deliziosa anche la canzone con Kiki Dee e Jose Antonio Rodriguez (?), e persino Kid Rock fa un figurone in Jezebel Jones, un pezzo che ricorda moltissimo Bob Seger (che ha ammesso le influenze di Miller nella sua musica).

Grande tiro in When It’s Rockin’, il duetto con Steve Dickson, che rievoca le vecchie glorie dei Full House, la sua band dell’epoca, tra fiati e slide a manetta. Frankie Miller e Delbert McClinton sono due gemelli separati alla nascita nella tirata Beginner At The Blues, e Kim Carnes ha lampi del vecchio splendore nella ballata To Be With You Again; Willie Nelson aggiunge la sua classe e un assolo di Trigger nello splendido country-soul che risponde al nome di I Want To Spend My Life With You. Se il disco si fosse limitato a queste dodici canzoni sarebbe stato un album da tre stellette e mezzo, delle altre sette aggiunte, con vecchie glorie perlopiù bollite, si salvano ancora i duetti con Paul Carrack e quello con Lenny Zakatek, della band inglese funky anni ’70 Gonzalez, oltre alla conclusiva I Do, in solitaria e un’altra ballata The Ghost, con Tomoyasu Hotel (?!?), che a tratti sembra Purple Rain di Prince. A dispetto delle premesse, un vero disco per un cantante “vero”.

Bruno Conti

Una Piacevole Riscoperta! Fleetwood Mac – Mirage

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Fleetwood Mac – Mirage – Warner CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD + DVD + LP

Quando, all’incirca una ventina di anni fa, l’industria discografica ha cominciato un’opera massiccia di riedizione di vecchi dischi in versione espansa (le cosiddette “deluxe editions”), inizialmente le pubblicazioni riguardavano solo gli album degni di entrare nella categoria “imperdibili”: oggi non è più così, si celebra e si ripubblica un po’ di tutto, ed ogni anniversario è buono per creare una ristampa ad hoc. Il caso in esame oggi, Mirage, album del 1982 dei Fleetwood Mac, è esemplare: da sempre questo è stato il disco meno considerato del periodo d’oro della formazione a cinque Fleetwood – McVie (John) – McVie (Christine) – Buckingham – Nicks del gruppo anglo-californiano, che aveva il torto di arrivare dopo il pluripremiato Rumours, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, e l’ambizioso Tusk, sottovalutato all’epoca (ma vendette comunque la rispettabile cifra di quattro milioni di copie) e giustamente guardato oggi come un grande disco di pop-rock d’autore. Perfino Tango In The Night del 1987, nonostante (o forse proprio per questo) fosse pieno di sonorità tipiche del periodo ed infarcito di sintetizzatori e canzoncine pop innocue, vendette uno sproposito, ed è oggi il disco più famoso della band dopo Rumours. In tutto ciò, quindi, Mirage venne visto all’epoca come l’anello debole della catena (The Chain, una delle canzoni più famose dei Mac), mentre era semplicemente, nelle intenzioni dei nostri, un tentativo di staccarsi dalle complesse architetture pop di Tusk e di tornare ad un formato più immediato sullo stile di Rumours, che però aveva dalla sua il fatto di contenere una serie tale di successi da farlo quasi sembrare un greatest hits.

Risentito oggi, Mirage suona come un riuscito album di puro Mac-sound, con una bella serie di canzoni orecchiabili ma mai banali, in perfetto equilibrio tra pop e rock ed una produzione scintillante (ad opera di Lindsey Buckingham con il fido Richard Dashut), un album che in poche parole avrebbe meritato maggior fortuna. Questa ristampa esce in vari formati come è successo con Rumours e Tusk (ma allora perché non anche con il loro “esordio” Fleetwood Mac, forse il loro miglior album dopo il bestseller del 1977?), ed è paradossalmente la più interessante fino ad oggi, in quanto contiene un intero CD di outtakes mai sentite prima d’ora (negli altri due casi molte erano già uscite in precedenti ristampe) e, nella versione a cofanetto, oltre all’album in LP e ad un DVD audio con il disco in surround sound, un terzo CD con parte di un concerto del 1982 al Los Angeles Forum. Come ho già detto, Mirage è un disco da riscoprire: la hit più famosa del disco è Gypsy, una delle migliori composizioni di Stevie Nicks, un pop-rock di gran classe, con un testo autobiografico e la voce carismatica della bionda cantante a dominare su tutto. Il CD si apre con Love In Store della McVie, una perfetta pop song in cui i nostri erano maestri, fresca, ritmata, orecchiabile ma non banale, con un delizioso refrain ed ottimi cori; Can’t Go Back è una tipica canzone alla Buckingham, con chitarre dappertutto, soluzioni ritmiche particolari ed  un’altra melodia accattivante.

Molto buona anche That’s Alright che vede la Nicks alle prese con un brano saltellante e vagamente country, con uno squisito ritornello corale (in quel periodo Stevie era in gran forma, l’anno prima aveva pubblicato Bella Donna, ancora oggi il suo miglior disco da solista). Book Of Love, di Lindsay, è un moderno rock-soul, davvero godibile e con il solito eccellente gioco di voci, di Gypsy ho già detto, Only Over You è un tantino troppo levigata e “poppettara” (Christine ogni tanto si faceva prendere la mano), mentre Empire State è un altro contributo di Buckingham, mai banale nemmeno in brani minori come questo; Straight Back è una buona canzone, anche se forse qui Stevie ricicla un po’ sé stessa, Hold Me è ottima, un vivace pop-rock pianistico che ci presenta la miglior McVie (è l’altro hit single del disco), Eyes Of The World è un folk-rock fresco e spedito, mentre la conclusiva Wish You Were Here, di certo la sua prova migliore del disco, con un bellissimo finale dominato da piano e chitarra. Ho volutamente lasciato per ultima quella che reputo il capolavoro di Mirage, cioè la splendida Oh Diane, un delizioso pezzo dal sapore anni sessanta, con un motivo irresistibile ed arrangiamento perfetto, una zampata da vero fuoriclasse da parte di Lindsay.

Il secondo dischetto comprende ben venti brani, di cui solo due già noti (una versione acustica di Cool Water, un vecchio pezzo di Bob Nolan inciso, tra gli altri, da Hank Williams, Johnny Cash e Joni Mitchell, che era sul lato B di Gypsy, ed una variante extended della stessa Gypsy all’epoca usata per il videoclip ufficiale), mentre il resto sono prime versioni e takes alternate di tutti i dodici brani del disco, oltre a veri e propri inediti. Tra le alternate takes segnalerei una Love In Store alla quale mancano le rifiniture (ma era già un’ottima canzone), lo squisito strumentale chitarristico Suma’s Walk (che con l’aggiunta delle parole diventerà Can’t Go Back), una eccellente That’s Alright elettroacustica, ancora più country e persino migliore di quella pubblicata, una Gypsy meno lavorata e più spontanea, una Empire State decisamente più rock ed una Wish You Were Here con un finale completamente diverso (e curiosamente simile allo stile della ELO). Gli inediti: If You Were My Love è uno slow pianistico della Nicks (pare scritto pensando a Tom Petty), un pezzo fluido con un deciso crescendo (ripreso di recente dalla cantante nel suo 24 Carats Gold); ancora lei, ed ancora meglio con Smile At You, una rock ballad potente e cantata alla grande, un brano che avrebbe a mio parere dovuto finire sul Mirage originale, e che Stevie ha giustamente voluto riprendere in Say You Will del 2003, ad oggi ultimo album di studio dei Mac. La sinuosa e melodica Goodbye Angel di Buckingham è un gustoso brano nello stesso mood di Oh Diane. Teen Beat è elettrica e roccata e con una lunga coda strumentale, mentre Blue Monday è un’interessante jam improvvisata in studio attorno al noto successo di Fats Domino, che purtroppo si interrompe dopo meno di due minuti.

Il CD dal vivo, che comprende tredici brani, è come al solito molto interessante, in quanto ci fa sentire un gruppo in ottima forma, guidato come al solito da un Buckingham in stato di grazia (Lindsay è uno dei chitarristi più creativi e più sottovalutati in circolazione): oltre a tre tra i migliori pezzi di Mirage (Gypsy, Love In Store e Eyes Of The World) il live propone una selezione di alcuni degli hit del gruppo, tra cui le ottime The Chain e You Make Loving Fun, le coinvolgenti Rhiannon e Tusk, la straordinaria Go Your Own Way, uno dei brani migliori degli anni settanta, il finale in tono minore con la delicata Songbird e la formidabile I’m So Afraid, da sempre punto centrale dei loro concerti e pretesto per le trascinanti evoluzioni chitarristiche di Lindsay. Un’ottima ristampa quindi, che riesce a far diventare quasi indispensabile anche un disco “minore” come Mirage: la prossima riguarderà Tango In The Night, e voglio proprio vedere cosa si inventeranno.

Marco Verdi