Un Altro Live Delle Aquile, Ma Almeno Questo E’ Completo! Eagles – Live From The Forum MMXVIII

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Eagles – Live From The Forum MMXVIII – Rhino/Warner 2CD – 2CD/DVD – 2CD/BluRay – 4LP

Quando nel gennaio del 2016 è mancato prematuramente Glenn Frey, membro fondatore e co-leader degli Eagles insieme a Don Henley, ho immediatamente pensato che la storia dello storico gruppo californiano fosse finita per sempre. Inizialmente questo era stato anche il pensiero dei suoi ex compagni (Henley, Timothy B. Schmit e Joe Walsh), ma poi evidentemente il profumo della pecunia è stato talmente forte da far loro cambiare presto idea; siccome però la loro attività principale ormai era circoscritta ai tour e di dischi nuovi non se ne parlava neanche, era sorto il problema di sostituire l’amico scomparso, ed i tre hanno optato per due nomi anziché uno. La decisione di andare avanti è già moralmente discutibile di suo (ma se i Queen trovano legittimo proseguire con un ex vincitore di talent show al posto di Freddie Mercury allora vale tutto), ma la scelta di rimpiazzare Frey con ben due musicisti è oltremodo bizzarra: il primo è Vince Gill, notissimo countryman titolare di una lunga carriera di tutto rispetto, ma che non ha nulla da spartire con il passato delle Aquile (se non il fatto di esserne sicuramente stato ispirato), mentre l’altro è il figlio di Glenn, Deacon Frey, che ha dovuto in fretta e furia “inventarsi” musicista per rispondere alla chiamata di Henley e soci, che con questa mossa pensavano di legittimare l’operazione.

Personalmente giudico abbastanza triste il fatto che Frey Jr. debba girare l’America riproponendo le canzoni del padre e non possa tentare di costruirsi una carriera sua, dato che ormai ha 27 anni, un’età comunque giovane ma non proprio da pischello. Dopo due anni di concerti ora i nostri hanno dato alle stampe la prima pubblicazione ufficiale con la nuova formazione a cinque, un album dal vivo intitolato Live From The Forum MMXVIII, registrato nel corso di tre serate di settembre del 2018 al The Forum di Inglewood, Los Angeles (disponibile in varie configurazioni audio e video, e con le immagini girate con la tecnologia 4K): a monte di tutto avere un nuovo disco degli Eagles, seppur live, è un piccolo evento dato che stiamo parlando di una delle band più popolari del pianeta, e siccome alla maggior parte degli ascoltatori non importa poi molto dei discorsi fatti prima sul buon gusto di continuare o meno senza Frey, prevedo vendite cospicue soprattutto nell’imminente periodo natalizio.

E poi non dimentichiamo che l’unico live della loro storia che forniva l’esperienza di un concerto completo era il Live From Melbourne del 2005, tra l’altro uscito solo in video. I nostri sul palco sono sempre stati impeccabili e continuano ad esserlo: Henley ha ancora una gran voce, Schmit armonizza sempre alla grande con il suo timbro angelico, Walsh non sarà un genio ma è un ottimo chitarrista ed un vero animale da palcoscenico, Gill è un professionista serissimo ed anche il giovane Frey mostra di cavarsela egregiamente; in più il suono è davvero spettacolare, ed i vari brani sono eseguiti con una precisione svizzera grazie anche all’aiuto di una notevole backing band alle spalle formata da due tastieristi, un batterista, un chitarrista (l’ottimo Steuart Smith), una sezione archi di cinque elementi ed altrettanti fiati. E poi, dulcis in fundo, ci sono le canzoni, veri e propri classici il cui ascolto è in grado di mettere d’accordo tutti, titoli famosissimi come Take It Easy, One Of These Nights, Take It To The Limit, Tequila Sunrise, I Can’t Tell You Why, New Kid In Town, Peaceful Easy Feeling, Love Will Keep Us Alive, Lyin’ Eyes, Already Gone, Heartache Tonight, Life In The Fast Lane, fino alla conclusione del concerto con le mitiche Hotel California, ancora oggi uno dei più bei pezzi in circolazione, e la ballata pianistica Desperado, che normalmente rappresenta la fine dello show ma qui c’è ancora tempo per una potente e coinvolgente resa di The Long Run: alla fine quasi non vi accorgerete che i brani di Frey sono cantati da altri due musicisti.

In scaletta però troviamo anche qualche canzone meno suonata, come l’iniziale cover di Seven Bridges Road (Steve Young), con i cinque che armonizzano alla grande, la roccata In The City che è il miglior contributo di sempre alle Aquile da parte di Walsh, la splendida versione di Ol’ 55 di Tom Waits, il pimpante country-rock di How Long (unico pezzo tratto dall’altalenante comeback album del 2007 Long Road Out Of Eden), e purtroppo anche la pessima Those Shoes. Infine c’è anche spazio per qualche brano dei vari repertori solisti, e se The Boys Of Summer di Henley è sempre molto piacevole (ma perché non suonano mai The End Of The Innocence?), Walsh passa dalle trascinanti Walk Away e Life’s Been Good al rock potente ma nulla più di Rocky Mountain Way per finire con la bruttarella Funk # 49, mentre pure Gill ha un momento tutto per sé con Don’t Let Our Love Start Slippin’ Away, uno dei suoi successi più noti.

Quindi, indipendentemente dal fatto che gli Eagles con Glenn Frey erano un’altra cosa, questo Live From The Forum MMXVIII si ascolta con grande piacere e può stare dignitosamente nella discografia del gruppo californiano, anche se gira e rigira sono sempre le stesse canzoni.

Marco Verdi

Magari E’ Un Casinista, Ma Se Parliamo Di Musica Ha Pochi Eguali! Neil Young – Archives Vol. II: 1972-1976

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Neil Young – Archives Vol II: 1972-1976 – Reprise/Warner 10 CD Box Set

E finalmente è arrivato il momento: ho infatti tra le mani da pochi giorni il pluri-rimandato secondo box degli archivi di Neil Young a ben undici anni dal primo volume (che a sua volta aveva subito numerosi rinvii), una pubblicazione che ormai era diventata talmente aleatoria da attirare su di sé le ironie degli addetti ai lavori. In realtà le polemiche sono continuate anche a causa delle modalità di commercializzazione, inizialmente prevista solo sul sito dell’artista in quantità limitata a tremila copie e ad un costo molto alto (circa 250 dollari più spese di spedizione). In pratica il 16 ottobre scorso, giorno scelto per la messa in vendita online, il box ha continuato ad apparire e sparire dal sito, fino al momento in cui è stato dichiarato esaurito per la “gioia” delle migliaia di fans rimasti con un palmo di naso (ritengo quasi miracoloso il fatto che io sia riuscito ad accaparrarmene una copia, ma praticamente ho passato la serata su internet dalle 18 a mezzanotte, interrompendomi solo per la cena…).

Dopo aver dato la colpa alla Reprise, Neil ha incasinato ancora di più le cose, prima lasciando intendere che non ci sarebbero state ristampe, poi annunciando che nel 2021 sarebbe uscita una versione “povera” solo con i CD ma senza libro (che comunque costerà 150 dollari, quindi povera un par di ciufoli) e che l’edizione diciamo “super deluxe” non sarebbe stata ristampata per rispetto ai tremila che sono riusciti a prenderla, mentre pochi giorni dopo il nostro ha fatto una giravolta degna di un democristiano della Prima Repubblica annunciando una seconda uscita anche del box “a parallelepipedo”, sempre a 250 testoni e con l’unica differenza che la scritta “II” sarà in rosso anziché in nero (entrambe le versioni sono previste per il 5 marzo 2021). A parte ogni giudizio di carattere morale, il cofanetto è comunque una goduria: dieci CD (non ci sono questa volta edizioni in DVD o Blu-Ray) che vanno dal 1972 al 1976, ricoprendo quindi un lasso di tempo molto più breve rispetto al primo volume, cosa comprensibile dato che stiamo parlando di un periodo tra i più fertili artisticamente per Young. Il libro è uno spettacolo (ancora meglio del primo), 252 pagine ricche di foto mai viste, cronologia delle sessions del periodo interessato e crediti brano per brano, ma ancora più imperdibile ovviamente è la parte musicale, con ben 131 canzoni di cui circa la metà inedite tra versioni dal vivo, alternate e brani mai sentiti prima, ed un titolo diverso per ogni singolo CD.

Come nel primo volume ci sono parecchi pezzi nella loro versione originale che danno al progetto una valenza semi-antologica, ma purtroppo Neil ha confermato l’antipatica scelta di inserire nel box anche album già usciti in precedenza, con il risultato che uno si trova a possedere due dischi uguali: in questo caso abbiamo due live (Tuscaloosa https://discoclub.myblog.it/2019/06/18/ecco-il-disco-dal-vivo-che-aspettavamo-da-46-anni-neil-young-stray-gators-tuscaloosa/  e Roxy: Tonight’s The Night Live https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/nessun-paradosso-solo-grande-musica-neil-young-roxy-tonights-the-night-live/ , che però ha come bonus track un’ottima rilettura di The Losing End, uno dei pezzi meno conosciuti di Everybody Knows This Is Nowhere) ed il mitico Homegrown, che a questo punto mi chiedo perché Neil abbia pubblicato non più tardi di cinque mesi fa https://discoclub.myblog.it/2020/06/20/non-avrei-mai-pensato-che-un-giorno-lo-avrei-recensito-neil-young-homegrown/ . E poi capisco che non si possano inserire tutti gli inediti (ci vorrebbero venti volumi), ma forse un paio di dischetti in più sì. Polemiche a parte, ecco una disamina disco per disco, nella quale mi limiterò agli inediti: non troverete citati i CD n. 2, 4 e 7, che sono le tre ripetizioni citate poc’anzi, e per le quali vi rimando alle mie recensioni originali.

CD1: Everybody’s Alone (1972-1973). Il primo dischetto inizia dove finiva il precedente box, e cioè da dopo le sessions di Harvest. A parte Yonder Stands The Sinner tratta da Time Fades Away ed una rarissima Last Trip To Tulsa dal vivo proveniente da una b-side, tutto il resto è inedito, tra pezzi in studio con Neil da solo o con gli Stray Gators (nell’abortito seguito di Harvest) e dal vivo durante il tour da cui è stato tratto Time Fades Away. Tra le canzoni inedite abbiamo la delicata ballata Letter From ‘Nam (che negli anni 80 ritroveremo sull’album Life con il titolo di Long Walk Home), Come Along And Say You Will, bella country song in stile Harvest, l’elettroacustica e leggermente blues Goodbye Christians On The Shore e Sweet Joni, registrata dal vivo a Bakersfield e dedicata ovviamente alla Mitchell, in una performance molto intima al pianoforte. Le versioni alternate vedono un abbozzo dell’intensa Monday Morning, che si evolverà in Last Dance, e finalmente le due takes di studio di The Bridge (pianistica e struggente, davvero splendida) ed una Time Fades Away elettrica e decisamente trascinante, quasi country-punk. Gli altri pezzi dal vivo sono la classica The Loner, con il piano di Jack Nitzsche in evidenza, ed una L.A. diversa da quella apparsa sul live del 1973, Per finire una delle chicche del box, cioè una bella prima versione acustica di Human Highway insieme a CSN, per quello che sarebbe dovuto essere il seguito di Deja Vu (ci riproveranno come vedremo nel 1976 con lo stesso risultato).

CD3: Tonight’s The Night (1973). Le sessions con i Santa Monica Flyers per il famoso album del titolo, che uscirà però due anni dopo. L’album originale è presente con nove pezzi su dodici, anche perché gli altri tre erano uno dal vivo nel 1970, uno era una outtake di Harvest ed il terzo sarebbe stato inciso insieme al materiale di On The Beach. Gli inediti qui sono solo tre: una interessante jam improvvisata dai toni blues basata su Speakin’ Out, la bella Everybody’s Alone, canzone elettrica e vibrante dalla melodia solare che contrasta con il mood del resto delle sessions (ed infatti rimarrà fuori dal disco), e soprattutto una fantastica rock’n’roll version di Raised On Robbery di Joni Mitchell, proprio con la bionda cantautrice canadese alla voce solista e Neil che si limita alle armonie ed a suonare l’elettrica. Uno dei brani di punta del box.

CD5: Walk On (1973-1974). Le sessions di On The Beach, che è presente con sette brani, mentre Borrowed Tune finirà su Tonight’s The Night e Winterlong su Decade (ma che bella che è). Questo è il CD più avaro di inediti, solo tre per un totale complessivo di appena sei minuti: le prime versioni acustiche del traditional Greensleeves e di Traces (ripresa poi dal vivo da CSN&Y, è anche sul box CSN&Y 1974), ed una rilettura elettrica con i Crazy Horse della bellissima Bad Fog Of Loneliness, qui nella sua prima versione ufficiale in studio.

CD6: The Old Homestead (1974). Questo invece è il dischetto più lungo e più ricco di inediti: le uniche canzoni già note sono la title track, che finirà nel 1980 su Hawks & Doves, e Deep Forbidden Lake che andrà su Decade. Il resto si divide tra pezzi acustici ed elettrici, con alcune chicche strepitose come brani mai sentiti prima ed altri suonati solo dal vivo, tra cui ben tre versioni dell’honky-tonk Love/Art Blues, una acustica e due con la band alle spalle (l’ultima è la migliore). Poi c’è la take originale di Through My Sails, solo Neil voce e chitarra e senza le sovraincisioni di CSN, le prime versioni di Pardon My Heart, Vacancy (che verrà rifatta per Homegrown) e Give Me Strength, oltre ad inediti assoluti come Homefires, LA Girls And Ocean Boys e Frozen Man, tutte acustiche, la deliziosa country ballad Daughters, con Levon Helm alla batteria e Nicolette Larson alla seconda voce, la prima take di Changing Highways coi Crazy Horse (verrà reincisa addirittura nel 1996 per Broken Arrow) e Bad News Comes To Town che invece sarà ripresa dal vivo nel 1988 con i Bluenotes. Come ciliegina finale ci sono due imperdibili brani dal vivo a Chicago con CSN, ovvero la fluida Push It Over The End ed una On The Beach semplicemente grandiosa, entrambe ben al di sopra dei sette minuti ciascuna.

CD8: Dume (1975). Ed ecco le sessions con i Crazy Horse per Zuma, che infatti viene incluso nella sua interezza (a parte Through My Sails che come abbiamo visto è dell’anno prima). Ci sono comunque otto inediti, a partire dalle prime versioni di brani che poi finiranno su Rust Never Sleeps ma già bellissimi (Ride My Llama, una Powderfinger più lenta ed una strepitosa Pocahontas elettrica). Poi troviamo un rifacimento sempre elettrico di Kansas, che era stata provata in veste acustica per Homegrown, le rare Hawaii e No One Seems To Know, la splendida Too Far Gone (che non vedrà la luce fino al 1989 quando verrà reincisa per Freedom) e, come inedito assoluto, Born To Run (il Boss non c’entra), brano rock potente ma non particolarmente originale.

CD9: Look Out For My Love (1975-1976). Dopo i primi tre pezzi, comunque già editi (Like A Hurricane, Lotta Love e Look Out For My Love), il fulcro del CD sono le sessions per il poco fortunato Long May You Run della Stills/Young Band, che come non tutti forse sanno sarebbe dovuto essere il nuovo album di CSN&Y, ma a causa dei dissapori con Crosby e Nash Young cancellerà le parti vocali dei due. Ebbene, la sorpresa di questo dischetto sono proprio i tre brani finali, Ocean Girl, Midnight On The Bay ed un’altra Human Highway, nei quali sono state “ripristinate” le voci di David e Graham diventando a tutti gli effetti tre canzoni inedite del quartetto (che quindi assumono subito un altro fascino). Dalle stesse sessions abbiamo una versione alternata di Let It Shine e due ottime takes mai sentite di Traces (ancora) e di Separate Ways, che era già stata registrata per Homegrown. Completano il quadro tre unreleased songs dal vivo con Neil da solo sul palco: Mellow My Mind, Midnight On The Bay e la rara Stringman, canzone che non vedrà la luce fino al 1993 quando Young deciderà di includerla nella setlist del suo Unplugged.

CD10: Odeon Budokan (1976). Il cofanetto si conclude con un live album strepitoso, dieci canzoni equamente divise tra performance acustiche ed elettriche (coi Crazy Horse) registrate nel marzo 1976. La metà acustica vede Neil esibirsi all’Hammersmith Odeon di Londra, e comprende classici del calibro di The Old Laughing Lady, After The Gold Rush e Old Man, oltre alla poc’anzi citata Stringman ed alla bellissima Too Far Gone. La parte elettrica, proveniente dal mitico Nippon Budokan di Tokyo, propone superbe riletture di Don’t Cry No Tears, Cowgirl In The Sand (più corta del solito ma sempre splendida), Lotta Love, Drive Back e Cortez The Killer.

In conclusione, a parte le continue contraddizioni tipiche del personaggio Neil Young, questo Archives Vol. II: 1972-1976 conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che come musicista è uno dei più grandi di tutti i tempi. Ed ora speriamo solo di non dover attendere il terzo volume per altri undici anni.

Marco Verdi

Qui Di “X-Pensive” Non Ci Sono Solo I Winos! Keith Richards & The X-Pensive Winos – Live At The Hollywood Palladium

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Keith Richards & The X-Pensive Winos – Live At The Hollywood Palladium, December 15, 1988 – Mindless/BMG CD – 2LP – CD/DVD/10” Vinyl Box Set

L’industria musicale lamenta una crisi che va avanti da anni specie per quanto riguarda i supporti “fisici”, ma bisogna dire che in molti casi i problemi le varie case discografiche se li vanno a cercare con politiche dei prezzi che definire discutibili è far loro un complimento. In particolare, mi sembra che sia un po’ sfuggita di mano la situazione inerente alle edizioni deluxe e super deluxe di album storici e meno storici del passato: io stesso sono spesso vittima di questo meccanismo, disposto ad investire piccole fortune nell’acquisto di pubblicazioni lussuose (e costose) per poter godere di musica inedita dei miei artisti preferiti, ma lo sono molto meno quando la differenza di prezzo riguarda solo la confezione e non il contenuto. Per esempio, ho speso volentieri quei cento euro in più per la recente versione esclusiva del box di Tom Petty Wildflowers And All The Rest, che includeva un CD in più rispetto all’edizione quadrupla (e che CD!), ma non ho mai voluto farmi fregare con le ristampe “super deluxe” dei Led Zeppelin, di Hotel California degli Eagles ed anche, l’anno scorso, del primo album solista di Keith Richards Talk Is Cheap, tutti casi in cui non c’era neppure un minuto di musica in più rispetto alle versioni in doppio CD.

keith richards live at the hollywood palladium box

Non ho citato Richards a caso, in quanto il leggendario chitarrista dei Rolling Stones è il protagonista del post di oggi, ed anche di un’iniziativa che definire ridicola è riduttivo: infatti è da poco uscita la ristampa del suo noto disco dal vivo Live At The Hollywood Palladium, registrato con i suoi X-Pensive Winos il 15 dicembre del 1988 ma pubblicato solo tre anni dopo (pare per fermare il proliferare di bootleg dell’evento), un lavoro eccellente che però viene rimesso in commercio con delle modalità assurde. Infatti, oltre alla riedizione del disco originale in singolo CD senza bonus tracks (ma rimasterizzato a dovere dal grande Greg Calbi e con una bella confezione in digipack con copertina dura, tipo libro rilegato) ed in doppio LP (sia in vinile nero che rosso), è stato pubblicato l’ormai immancabile cofanetto che, all’incredibile prezzo di circa 160-170 euro, presenta sia CD che doppio LP, e tre-canzoni-tre in più su un altro dischetto in vinile da 10 pollici, oltre al solito bel librone ed una sfilza di gadgets inutili. In effetti ci sarebbe anche il DVD del concerto, disponibile per la prima volta in assoluto, ma stiamo pur sempre parlando di circa 150 euro di differenza rispetto al CD normale, il tutto per avere la miseria di tre canzoni esclusive e neppure come bonus tracks del dischetto digitale, ma solo su un vinile a parte! Inutile dire che questa volta ho soprasseduto…

Dal punto di vista musicale Live At The Hollywood Palladium è un lavoro ottimo, che vede Richards cavarsela alla grande nell’insolita veste di frontman, spalleggiato da una band formidabile che poi è quella con cui aveva registrato Talk Is Cheap: Waddy Wachtel alla chitarra, Steve Jordan alla batteria, Ivan Neville alle tastiere, Charley Drayton al basso, Bobby Keys al sax e Sarah Dash ai cori. Un gruppo con le contropalle quindi, ed una performance eccellente favorita anche dal crescente affiatamento cementatosi on stage tra i vari membri: infatti quella serata ad Hollywood era la penultima di un breve tour che aveva toccato dodici città americane, una sorta di toccata e fuga dato che Keith avrebbe poi dovuto raggiungere in studio gli altri Stones per registrare Steel Wheels. Un’ora abbondante di grande rock’n’roll, sporco e ruvido, eseguito con maestria da un gruppo magnifico, e con Richards che, nonostante un timbro di voce neanche paragonabile a quello del suo compare Mick Jagger, tiene la scena con grande sicurezza ed indubbio carisma. Degli undici brani totali di Talk Is Cheap, Keith ed i suoi “Beoni Costosi” ne suonano ben nove, allungando talvolta il minutaggio originale e fornendo performance grintose e trascinanti, con il rock’n’roll di matrice stonesiana che la fa chiaramente da padrone in pezzi come la riffatissima Take It So Hard, la potente How I Wish, Struggle, I Could Have Stood You Up, molto Chuck Berry, e Whip It Up (che con il gran lavoro di Keys al sassofono sembra quasi una outtake di Sticky Fingers).

Non manca il Richards in modalità vizioso, sudato ed appiccicaticcio, che si manifesta nella funkeggiante Big Enough, decisamente meglio della sua controparte in studio, nel caldo errebi Make No Mistake, cantata in duetto con la Dash, nella cadenzata ed annerita Rockawhile e soprattutto nella splendida e strascicata Locked Away, la migliore ballata di Talk Is Cheap ed in generale un brano che sarebbe stato bene su qualsiasi album delle Pietre Rotolanti. A proposito di Stones, ovviamente Keith omaggia anche il gruppo che gli ha dato la fama, con le classiche Happy (in una torrida rilettura di sette minuti) e Connection (molto più sintetica ed essenziale), la splendida ed inattesa Time Is On My Side (scritta da Jerry Ragovoy sotto lo pseudonimo di Norman Meade ma resa popolare nei sixties proprio da Jagger e soci), affidata alla voce solista della Dash e proposta in uno scintillante adattamento blues, e l’allora recente cover di Too Rude del musicista giamaicano Half Pint, un solare reggae-rock che era uno dei due pezzi cantati da Richards su Dirty Work, qui in una versione dilatata a quasi otto minuti. I tre brani extra esclusivi del cofanetto sono You Don’t Move Me, altra rock’n’roll song proveniente da Talk Is Cheap, la stonesiana Little T&A (era su Tattoo You), e la cover di I Wanna Be Your Man dei Beatles, che nei primi anni 60 fu ceduta dai Fab Four ai cinque ragazzi londinesi.

Per concludere, una ristampa da non perdere solo se non possedete l’album originale (o se come me avete solo il vinile), ma questa volta vi conviene lasciar perdere il box ed accontentarvi della versione in singolo CD.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Il Broadcast “Perso”…E Ritrovato! Bruce Springsteen & The E Street Band – Atlanta, September 30 1978

bruce springsteen fox theater 1978

Bruce Springsteen & The E Street Band – Fox Theatre, Atlanta, GA 9/30/78 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

L’escalation di Bruce Springsteen come performer dal vivo si può riassumere brutalmente come segue: nel 1975 comincia a farsi notare come uno degli acts più coinvolgenti in circolazione, nel 1978 si crea la leggenda, che viene consolidata nel tour 1980-81 (forse il suo migliore di sempre), mentre nel 1984-85 il Boss “passa alla cassa” per riscuotere una popolarità ormai allargata a livello mondiale. E’ indubbio però che l’anno chiave della carriera live di Bruce sia il 1978, quello del tour di Darkness On The Edge Of Town, che vede il nostro e la sua E Street Band letteralmente, come avrebbe detto il grande Gianni Brera, in “erezione agonistica” durante tutto l’anno. La serie mensile di CD e download live del Boss finora ha dato parecchio spazio a questo fantastico tour con ben sette pubblicazioni, alle quali si aggiunge ora lo show del 30 settembre al Fox Theatre di Atlanta, che va anche a completare un’ideale collezione dei broadcast radiofonici usciti all’epoca, cinque in tutto (insieme ai mitici Roxy Theatre di Hollywood, Agora Ballroom di Cleveland e Capitol Theatre di Passaic, ed al leggermente meno noto show al Winterland di San Francisco).

Questa serata nel capoluogo della Georgia è abbastanza particolare, in quanto per anni è stata considerata come “the lost broadcast”, non perché i nastri fossero andati persi ma per uno stranamente scarso utilizzo e diffusione come bootleg, sia in vinile prima che in CD dopo. E’ quindi con particolare piacere che mi occupo oggi di questo show, dal momento che pure essendo meno famoso di quelli a Cleveland e Passaic non ha nulla da invidiare a loro in termini di intensità della performance, coinvolgimento di chi ascolta e perfezione nel suono (ed anche il missaggio, all’epoca affidato per il broadcast al noto produttore Jimmy Iovine, è perfetto). Quasi tre ore di grandissimo rock’n’roll e ballate sontuose quindi, come spesso è capitato in questa benemerita serie i cui responsabili vanno a scegliere i concerti migliori del Boss già negli anni meno “leggendari”, figuriamoci quando tocca al 1978 o 1980-81, che da qualunque parte scegli non sbagli. L’uno-due iniziale, formato da due travolgenti versioni del classico rock’n’roll Good Rockin’ Tonight e di Badlands, ci fa subito capire che la serata è di quelle giuste, ma Bruce mantiene alta la tensione con una vibrante Spirit In The Night di nove minuti e due ottime riletture di Darkness On The Edge Of Town e The Promised Land, inframezzate dall’allora inedita Independence Day in anticipo di due anni su The River ma già profonda e toccante.

A questo punto c’è forse la sequenza migliore della serata, formata da Prove It All Night (dodici minuti fantastici, con la strepitosa introduzione per piano e chitarra esclusiva di questo tour), Racing In The Street, Thunder Road e Jungleland, quattro canzoni magnifiche ulteriormente nobilitate dallo straordinario pianoforte di Roy Bittan, il cui tocco inconfondibile è in grado di innalzare qualsiasi brano e che quella sera è in particolare stato di grazia. Dopo un’inattesa Santa Claus Is Coming To Town (al 30 settembre…) i nostri improvvisano una breve e decisamente swingata, cover di Night Train di James Brown (figlio “adottivo” di Atlanta), qui nell’unica esecuzione della loro carriera; Fire è più sintetica e con meno cazzeggio del solito, Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire (ma è un mio problema), ma Because The Night è proposta in una maniera che definire trascinante è dire poco.

Dopo un’altra anteprima da The River, la drammatica Point Blank, Bruce improvvisa un notevole medley fra Not Fade Away di Buddy Holly, Gloria di Van Morrison e la sua She’s The One, ed a seguire ci delizia con un altro uno-due micidiale formato dalla sempre maestosa Backstreets e da una roboante Rosalita di 16 minuti. I bis di Born To Run e Tenth Avenue Freeze-Out sono preparatori al gran finale, con un Detroit Medley da favola, altri dieci minuti che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il triplo CD; a chiudere abbiamo Raise Your Hand (Eddie Floyd), suonata quasi in souplesse dal momento che il pubblico non si è ancora ripreso dal medley precedente. Con la prossima uscita faremo un salto in avanti di ben trent’anni, uno Springsteen più maturo e forse appagato, ma sul palco sempre un numero uno.

Marco Verdi

Terza Uscita Annuale Del “Bisonte”, In Attesa Dei Botti Finali! Neil Young & Crazy Horse – Return To Greendale

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Neil Young & Crazy Horse – Return To Greendale – Reprise/Warner 2CD – 2LP – Deluxe 2CD/2LP/BluRay/DVD Box Set

Da artista che annuncia mille progetti per poi rimandarne più della metà, quest’anno Neil Young è diventato quasi affidabile (ho detto quasi). Sarà perché si è reso conto di non essere più un giovincello (ha compiuto 75 anni proprio in questi giorni), fatto sta che il rocker canadese nel corso del 2020 ha pubblicato finalmente il leggendario album inedito Homegrown, l’instant-EP acustico The Times, il disco dal vivo di cui mi accingo a parlare, e tra pochi giorni sarà la volta del tanto atteso secondo volume degli archivi a ben undici anni dal primo, sulle cui discutibili modalità di commercializzazione tornerò a tempo debito.

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Non solo, perché a dicembre uscirà una deluxe edition per i 50 anni di After The Gold Rush (invero piuttosto magra), e per l’anno prossimo sono già in programma un altro live per febbraio (Way Down In The Rust Bucket, registrato nel 1990) e più avanti un concerto acustico del 1971 intitolato Young Shakespeare, la ristampa del rarissimo EP El Dorado del 1989 e, pare, un altro disco dal vivo con i Promise Of The Real (per non parlare dell’annunciato progetto Bootleg Series che dovrebbe riguardare altri concerti del passato, con la copertina originale dell’edizione pirata dell’epoca ma con il suono potenziato). Oggi mi occupo del nuovo episodio delle “Performance Series” di Young, ovvero del live Return To Greendale, registrato il 4 settembre del 2003 all’Air Canada Center di Toronto insieme ai Crazy Horse, durante il tour in supporto all’album Greendale, un concept ambizioso che narrava le vicende degli abitanti di un’immaginaria cittadina sulla costa della California, una storia con risvolti ambientali ed ecologisti che però attirò su Neil parecchie critiche: il nostro fu infatti accusato di aver pubblicato un disco noioso, pretenzioso, prolisso e poco ispirato, ed alcuni arrivarono anche a definirlo il suo peggior lavoro con i Crazy Horse (dimenticandosi forse dell’esistenza di Re-ac-tor e Life), provocando la sua profonda delusione in quanto si trattava di un progetto al quale teneva particolarmente.

A me Greendale era invece piaciuto, al punto che lo avevo addirittura messo tra i dieci migliori album del 2003 (ammetto però che non è tra i dischi di Neil che ascolto più di frequente), e quindi ho accolto con favore anche la pubblicazione di questo doppio CD dal vivo, che esce anche come doppio LP ed in formato box set con entrambe le configurazioni audio, un BluRay con le immagini dello stesso concerto ed un DVD con il “making of” del Greendale originale (già uscito nel 2003): questa volta ho optato per la versione “semplice” in CD, dal momento che il box non offre granché in più e costa pure caro (circa 100 euro). Return To Greendale presenta le stesse dieci canzoni del disco in studio, che veniva suonato per intero tutte le sere nella prima parte dello show, e devo dire che i vari brani ne escono addirittura migliorati: d’altronde sappiamo che i Crazy Horse hanno sempre suonato meglio dal vivo (e molto spesso le loro incisioni in studio sono comunque in presa diretta), ma lo stesso Neil appare più convinto e concentrato, cosa che si riflette nelle canzoni che ne escono arricchite e nel suono che appare più grintoso e coinvolgente.

E non è una questione di improvvisazione, dal momento che i vari pezzi sono riproposti abbastanza in linea con le loro versioni originali (infatti Greendale durava 78 minuti e questo live 81, che è la ragione per cui è doppio). Neil è accompagnato come al solito da Frank “Poncho” Sampedro (però al piano elettrico e non alla chitarra ritmica, e d’altronde sul Greendale originale il buon Poncho manco c’era) e dalla sezione ritmica di Billy Talbot e Ralph Molina, con l’aggiunta ai cori delle Mountainettes, ovvero l’ex moglie di Neil Pegi Young, Twink Brewer, Nancy Hall e Susan Hall; durante lo show tra un brano e l’altro c’erano anche gli interventi di un gruppo di attori che recitavano parti della trama di Greendale, ma per fortuna qui ce li hanno risparmiati. (NDM: siccome non sono mai contento, e dato che sul doppio CD di spazio ne avanzava a iosa, non mi sarebbe dispiaciuto ascoltare il concerto completo. Nella fattispecie la serata in questione si era chiusa con una sequenza formata da Hey Hey, My My, Sedan Delivery, Down By The River, Powderfinger, Prisoners Of Rock’n’Roll, Cinnamon Girl e Fuckin’ Up).

L’inizio dello show è molto piacevole con la cadenzata Falling From Above, un country-rock ruspante nello stile di pezzi leggendari come appunto Powderfinger, melodia diretta ed orecchiabile, Neil che soffia dentro all’armonica e la sua chitarra che vola libera nel vento per quasi otto minuti. Double E è un rock-blues decisamente sanguigno e coinvolgente dal ritmo sostenuto, un riff insistito ed il nostro che inizia a maltrattare la sua Old Black come da prassi, mentre Devil’s Sidewalk è rock’n’roll alla maniera del Cavallo Pazzo, chitarra in primo piano con il tipico botta e risposta tra la voce di Young ed i suoi riff per uno dei pezzi più trascinanti del progetto (e sinceramente non ricordavo un avvio così roccato e potente sul Greendale originale). Leave The Driving è cadenzata e distesa, con un’armonica bluesy ed uno sviluppo strumentale molto discorsivo, e precede Carmichael, primo di tre brani che superano i dieci minuti: questa è una fulgida rock ballad con una parte chitarristica tutta da godere, grazie a Neil che svolge un lavoro splendido suonando con il suo abituale feeling che sopperisce ad una tecnica un po’ grezza.

L’acustica e delicata Bandit, che vede Young da solo sul palco per un momento di quiete fra cantato e talkin’ (ma la chitarra sembra quasi scordata), porta ad un altro dei brani centrali del doppio: Grandpa’s Interview, altra rock song intensa e profonda con un lirismo chitarristico ed un tocco che si riconoscono dopo due note, tredici minuti di puro godimento musicale, non importa che il brano non abbia una melodia ben definita. La breve e toccante ballata Bringin’ Down Dinner, con Neil all’organo, prelude ai dodici minuti di Sun Green, vibrante rock song dal motivo forse già sentito ma con un approccio decisamente trascinante, che ad un certo punto diventa quasi un boogie. A conclusione del doppio CD abbiamo la straordinaria Be The Rain, una di quelle cavalcate elettriche travolgenti che hanno fatto la fortuna del connubio Neil Young/Crazy Horse, corredata da un ritornello irresistibile: un brano che ha le stimmate del classico. Un ottimo live quindi, che rivaluta un album, Greendale, secondo me ingiustamente bistrattato e che prepara il palato al volume due degli archivi younghiani.

Che, almeno per il momento, saranno un privilegio per pochi.

Marco Verdi

Un Album Che E’ Di Nuovo Un Capolavoro (Con L’Aggiunta Del “Solito” Disco Dal Vivo). Grateful Dead – American Beauty 50th Anniversary

grateful dead american beauty 50th anniversary

Grateful Dead – American Beauty 50th Anniversary – Rhino/Warner 3CD Deluxe – LP Picture Disc

Com’era prevedibile, a pochi mesi dalla ristampa deluxe di Workingman’s Dead, seminale album del 1970 dei Grateful Dead che sancisce la fine del periodo psichedelico a favore di sonorità più roots https://discoclub.myblog.it/2020/07/25/da-gruppo-leader-del-rock-psichedelico-a-paladini-del-suono-americana-grateful-dead-workingmans-dead-50th-anniversary/ , le edizioni per i cinquantesimi anniversari degli LP di studio della storica band californiana proseguono con American Beauty, che viene quasi all’unanimità considerato il loro capolavoro. Stiamo infatti parlando di un album nel quale i Dead consolidano la loro posizione preminente di paladini del crescente sound country-rock, un genere che in America in quel periodo sta prendendo sempre più piede grazie al lavoro di gruppi come Byrds, Flying Burrito Brothers e New Riders Of The Purple Sage (che devono ancora esordire su disco ma sono già in giro da un paio d’anni, e partecipano anche ad American Beauty nelle persone di David Nelson e Dave Torbert).

Ma il disco non si fa notare solo per il suono roots (già ampiamente nelle corde di Jerry Garcia, basta guardare i suoi esordi), ma soprattutto per il fatto che contiene una serie di canzoni formidabili che vanno a formare una tracklist pazzesca, che lo fanno sembrare più un’antologia di successi che un disco nuovo e che da lì in poi costituiranno gran parte dell’ossatura dei loro concerti. L’album contiene la miglior canzone di Phil Lesh (l’iniziale Box Of Rain, splendida nonostante Phil non sia un granché come cantante) e la miglior canzone di Bob Weir (l’irresistibile Sugar Magnolia), ma anche Garcia non è da meno con la straordinaria e toccante Ripple (che vede l’amico David Grisman al mandolino), che se non è il suo brano più bello di sempre rientra di sicuro tra i primi cinque. Poi c’è una delle loro rock’n’roll songs più trascinanti (Truckin’, rara collaborazione tra Weir e Garcia in sede di scrittura), l’ultima testimonianza in studio del tastierista Ron “Pigpen” McKernan (che morirà all’inizio del 1973) che per una volta non ricorre alle sue influenze blues ma propone un gradevole country-rock intitolato Operator, mentre un Garcia in stato di grazia contribuisce con altri cinque pezzi, la mitica Friend Of The Devil, due sontuose country ballads (Candyman e Brokedown Palace), la coinvolgente ‘Till The Morning Comes ed il bellissimo slow Attics Of My Life, contraddistinto da una impeccabile armonia a tre voci tra Jerry, Bob e Phil.

Un disco ancora da cinque stelle a 50 anni dall’uscita originale, e che oggi viene ripubblicato in una confezione tripla con aggiunto l’ennesimo concerto inedito del gruppo, mentre come per Workingman’s Dead le sessions di studio sono state messe a disposizione solo online sotto il nome di The Angel’s Share. La (parziale) delusione per la poca fantasia di chi gestisce l’eredità della band ha lasciato però spazio alla soddisfazione nell’ascolto del secondo e terzo CD, in quanto stiamo parlando di uno degli show a lungo invocati dai “Deadheads”, che lo hanno sempre considerato uno dei migliori del periodo, vale a dire quello tenutosi il 18 febbraio del 1971 al Capitol Theatre di Port Chester, nello stato di New York (cosa ancor più degna di nota dal momento che il biennio 1971-72 è forse il migliore di sempre dei Dead dal vivo). Un concerto potente, suonato alla grande e cantato senza sbavature, con parecchie canzoni all’epoca recenti (e di alcune ancora oggi non esiste la versione in studio), qualche omaggio agli anni 60 ed una serie di cover molto interessanti.

Apertura tipica di quel periodo con la coinvolgente Bertha, seguita subito dai nove minuti di una Truckin’ tiratissima e con Garcia e la sua chitarra che mostrano di essere in serata; una solida It Hurts Me Too di Elmore James (canta Pigpen) precede Loser, deliziosa ballata di Jerry, e la breve Greatest Story Ever Told di Weir, che a sua volta confluisce in un trittico di cover che vanno dal rock’n’roll (Johnny B. Goode di Chuck Berry) al country (Mama Tried di Merle Haggard) all’errebi (Hard To Handle, Otis Redding). La mitica Dark Star, con un Jerry stellare, viene divisa in due da Wharf Rat, altro slow tra i più apprezzati di Garcia, ed a chiudere il primo CD c’è la consueta rilettura di Me And My Uncle di John Phillips. La seconda parte si apre con Casey Jones, altro classico senza tempo, e prosegue con l’interlocutoria Playing In The Band ed una bella versione di Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson; dopo due estratti da American Beauty (una notevole Candyman di otto minuti e la sempre travolgente Sugar Magnolia) ed un viscerale omaggio di McKernan a Willie Dixon con Big Boss Man, i Dead entrano nel finale del concerto con un lucido omaggio al loro periodo psichedelico (St. Stephen) e la rilettura rielaborata alla loro maniera di Not Fade Away di Buddy Holly, anch’essa divisa in due dalla splendida Goin’ Down The Road Feeling Bad. Una serata quasi perfetta non può che chiudersi con la più bella canzone di sempre dei Dead, ovvero l’inimitabile Uncle John’s Band, degno finale di un concerto più che adeguato ad impreziosire un disco come American Beauty.

La prossima celebrazione di un cinquantennale dei Grateful Dead arriverà solo nel 2023 (il sottovalutato Wake Of The Flood), ma credo proprio che nei prossimi due anni le pubblicazioni d’archivio del gruppo non mancheranno di certo.

Marco Verdi

Due Concerti Storici Finalmente Disponibili…Ma Perché Niente CD E DVD? John Lee Hooker – Live At Montreux 1983 & 1990

john lee hooker live at montreux

John Lee Hooker – Live At Montreux 1983 & 1990 – Eagle Rock/Universal 2LP – Digital Download

Tra gli innumerevoli concerti che negli anni si sono svolti presso il mitico Montreux Jazz Festival, particolarmente ricercati dai fans (e più volte bootlegati) sono i due show che il grande John Lee Hooker tenne nella località svizzera nel 1983 e 1990: oggi la Eagle Rock rende finalmente ufficiali quelle serate seppur con una modalità discutibile, e cioè solo in doppio LP e niente CD come supporto audio “fisico” (e fin qui ci può stare), ma senza nessuna pubblicazione tangibile per la controparte video, che è pertanto disponibile solo come download digitale. Scelte bizzarre a parte, Live At Montreux 1983 & 1990 testimonia in maniera esauriente due serate in stato di grazia per il leggendario bluesman del Mississippi, accompagnato in entrambi i casi dalla Coast To Coast Blues Band, un gruppo che in quegli anni era la sua abituale backing band e che aveva come punte di diamante il talentuoso chitarrista Michael Osborn e l’eccellente Melvin Jones alle tastiere. Ma il vero protagonista è naturalmente il vecchio Hook, che fornisce due prestazioni formidabili con il suo tipico stile quasi laidback, riuscendo a sprizzare carisma pur restando seduto durante tutta la performance e muovendosi il meno possibile: il resto lo fanno le canzoni, veri e propri classici del blues che non hanno bisogno di grandi presentazioni.

Lo show del 1983, che occupa il primo LP, vede il nostro salire sul palco con un improbabile completo rosa e cappello scuro, e piazzare subito una It Serves Me Right To Suffer da antologia, sinuosa ed elegante, con la band che suona con precisione svizzera (d’altronde siamo a Montreux) ed il vecchio Uncino che dosa da par suo silenzi, pause e momenti in cui “maltratta” la chitarra. Il ritmo si alza con I Didn’t Know, un boogie-blues incalzante con John Lee che non si scompone più di tanto ma guida il gruppo con piglio da vero leader (ottimo l’assolo di Osborn), prima di una versione tosta e sanguigna di Hi-Heel Sneakers, in cui la band si fa notare per compattezza e feeling, e di una strepitosa If You Take Care Of Me, I’ll Take Care Of You, slow blues sensuale ed appiccicoso in cui Hook gigioneggia alla sua maniera e Jones rilascia un notevole assolo d’organo. La temperatura sale ancora con la classica ed applauditissima Boom Boom e con una calda e fluida rilettura dello standard Worried Life Blues (in America la definirebbero “steamy”), seguite dalla frenetica I’m Jealous e dalla lenta e sulfurea Crawlin’ King Snake, altro slow blues coi controfiocchi. La saltellante Little Girl Go Back To School (presente solo nella parte video) prelude allo straordinario finale con una monumentale e strepitosa jam session basata sul superclassico Boogie Chillen, durante la quale salgono sul palco altri musicisti tra cui il chitarrista Luther Allison e l’armonicista Sugar Blue.

Esecuzione letteralmente epica in cui perfino Hooker lascia la sedia ed accenna addirittura il passo dell’oca, mentre tutti on stage sorridono compiaciuti, per più di 25 minuti di grandissimo blues che valgono da soli l’acquisto del doppio album. E veniamo al 1990, in cui un John Lee stavolta vestito di scuro e con occhiali neri si presenta con una vigorosa e coinvolgente jam strumentale senza titolo durante la quale improvvisa il testo sul momento, e prosegue con la soffusa ed attendista Mabel, un blues lento di gran classe: la Coast To Coast Blues Band mostra qualche cambiamento di formazione (ci sono anche un chitarrista ed un sassofonista in più), ma sia Osborn che Jones sono ancora ben saldi al loro posto. Rispetto allo show del 1983 ci sono quattro ripetizioni (Crawlin’ King Snake, in cui Hook duetta con l’affascinante vocalist Vala Cupp https://www.youtube.com/watch?v=PRm54WNNnmQ , It Serves Me Right To Suffer, Boom Boom e la sempre fantastica Boogie Chillen), mentre le novità sono I’m In The Mood, splendido e lussurioso blues dal tempo cadenzato e decisamente coinvolgente, una rilassata Baby Lee e, come bis, una languida e quasi ipnotica rilettura dell’allora recente The Healer (title track dell’album del 1989 che aveva avuto un notevole successo riportando in auge il nome del nostro), in cui Osborn si cala nei panni di Carlos Santana che suonava nella versione in studio.

Un doppio album dunque imperdibile per i fans di John Lee Hooker e del blues in generale, anche se per ascoltarlo dovrete fare ricorso al caro vecchio giradischi o al “moderno” download.

Marco Verdi

Lassù Qualcuno Lo Ama! Ronnie Wood – Somebody Up There Likes Me

ronnie wood somebody up there likes me

Ronnie Wood – Somebody Up There Likes Me – Eagle Vision/Universal DVD – Blu-Ray

Lassù Qualcuno Mi Ama era un grande film del 1956, vincitore di 3 premi Oscar, regia di Robert Wise, con Paul Newman nei panni di Rocky Graziano. Ma è quanto esclamò anche Ronnie Wood in una conversazione che appare nel film: “Quando mi hanno operato il cancro, mi hanno tolto l’enfisema. Hanno detto che i miei polmoni erano come se non avessi mai fumato. Ho pensato che fosse un jolly piovuto dal cielo: lassù qualcuno mi ama, e anche qualcuno quaggiù”. A parte che spesso è difficile capire il suo cockney stretto da londinese purosangue, senza sottotitoli, il docufilm è estremamente interessante. Regia di Mike Figgis, anche lui inglese, candidato all’Oscar per Via Da Las Vegas, la presentazione del DVD recita: un film che ripercorre 50 anni di un tour non solo musicale, una storia onesta e R&R, poi a ben vedere, gli anni, almeno nel percorso musica, sono ben più di 50, visto che già nel 1964 Wood era nei Birds, a fine ‘67 entra nel Jeff Beck Group come bassista, poi dopo due anni, con l’amico Rod Stewart, a seguito della dissoluzione degli Small Faces, torna alla chitarra e fonda i Faces, con i quali rimarrà fin quasi al 1975, anno nel quale entra negli Stones, sodalizio che prosegue a tutt’oggi.

Nel documentario c’è tutto questo, come pure la sua passione per disegno e pittura, i suoi lunghi anni tra droga e alcol, l’amore per il blues e il Rock’n’Roll, soprattutto per le 12 battute, estrinsecato anche da diversi di interventi di Ronnie impegnato a chitarra ed armonica. In sequenza anche interviste inedite realizzate per l’occasione con la sua collega Imelda May, la moglie Sally Wood, i suoi “soci” Mick Jagger, Keith Richards e Charlie Watts, oltre al vecchio amico Rod Stewart. Ricordi della storia della sua famiglia, raccolti dal regista, intervallati da brani musicali, per esempio la sua band alle prese con una sanguigna In The Wee Wee Hours cantata dalla May, con grande lavoro della solista di Ron, ovviamente anche il suo amore per l’arte riceve un giusto spazio, con una intervista, diciamo più un colloquio a due voci con l’amico artista Damien Hirst, dove si parla anche degli Stones, in b/n d’epoca e pure di problemi di rehab. Un breve vecchio filmato a colori dei Birds nel 1964 alle prese con That’s All I Need You For, con Wood che dimostra già 40 anni, scherzo, un altro b/n del Jeff Beck Group in Plynth, con Rod che ricorda quando lui e Woody aprirono al Fillmore peri Grateful Dead.

C’è anche una intervista di Malcolm McLaren con il manager Peter Grant dei “nemici” del punk, i Led Zeppelin, che parla anche di Gene Vincent, e cerca di introdurre l’argomento dei risvolti gangsteristici dei vecchi manager di quell’epoca. Non manca una bella ed intima performance di “Breathe On Me” dal suo album solista del 1975 New Look e un filmato del 1971 dei grandi Faces con Stay With Me, la rivalità con Keith di quel periodo, e qui appare Richards, mentre scorrono altre immagini dei Faces e un grande filmato di Ronnie impegnato alla lap steel con bottleneck, mentre arriva sulla scena anche Mick Jagger e a questo punto non manca un filmatino degli Stones alle prese con When The Whip Comes Down… Comunque non ve lo racconto tutto, se volete l’8 ottobre sono usciti sia il DVD che il Blu-Ray e ve lo comprate, perché c’è anche altro, soprattutto negli extra di DVD e Blu-Ray, che però non ho visto neppure io. Avviso per i naviganti, niente sottotitoli in italiano: portoghese, olandese e spagnolo, ma nulla per noi.

Comunque rimane un gran bel documentario.

Bruno Conti

Chiamarla “Ristampa” Mi Sembra Un Tantino Riduttivo! Tom Petty – Wildflowers & All The Rest

tom petty wildflowers and all the rest

Tom Petty – Wildflowers & All The Rest – Warner 2CD – 3LP – 4CD Deluxe – 7LP – 5CD Super Deluxe – 9LP

Sia prima che dopo la sua improvvisa e dolorosa scomparsa avvenuta il 2 ottobre 2017, quando si è trattato di dedicare un cofanetto alla musica di Tom Petty è sempre stato fatto un lavoro eccellente, a partire dal box set antologico Playback del 1995 (tre CD di greatest hits, uno di rarità e b-sides e due di inediti), passando per la spettacolare Live Anthology del 2009, cinque CD dal vivo completamente unreleased, per finire con il bellissimo An American Treasure del 2018, box quadruplo che, vicino a qualche pezzo già conosciuto, presentava diverse canzoni mai sentite prima, oppure altre note ma in versioni alternate https://discoclub.myblog.it/2018/10/14/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-2-un-box-strepitoso-che-dona-gioia-e-tristezza-nello-stesso-tempo-tom-petty-an-american-treasure/ . Da qualche anno si parlava della possibile ristampa di Wildflowers, album del 1994 del biondo rocker della Florida giustamente considerato uno dei suoi più belli (è nella mia Top 3 dopo Full Moon Fever e Damn The Torpedos), ristampa che inizialmente sembrava dover ricalcare la sequenza pensata in origine, con diversi brani scartati che nelle intenzioni di Tom avrebbero dovuto formare un album doppio.

tom petty wildlowers and all the rest

Quest’anno si è finalmente deciso di rendere pubblico il tutto con l’uscita di Wildflowers & All The Rest, ma oltre alla versione con due dischetti (o tre LP) si è scelto di fare le cose in grande ed allargare il progetto ad un box quadruplo (o con sette vinili) e, se volete spendere parecchio di più, solo sul sito di Tom è disponibile una splendida edizione Super Deluxe quintupla, o con nove LP, che è quella di cui vado a parlare tra poco (in realtà c’è anche una edizione “Ultra Deluxe” che costa 500 dollari ma non offre nulla di aggiuntivo dal punto di vista sonoro, ma solo una confezione più elegante ed una serie di gadgets abbastanza inutili). La confezione del box quintuplo è splendida, con all’interno la riproduzione dei testi originali con la calligrafia di Tom, un certificato di autenticità numerato e soprattutto un bellissimo libro con copertina dura che vede all’interno parecchie foto inedite, un saggio del “solito” David Fricke, i testi di tutte le canzoni (anche quelle inedite), tutte le indicazioni su chi ha suonato cosa e, dulcis in fundo, un esauriente commento track-by-track con le testimonianze dei protagonisti, tra cui il produttore Rick Rubin, gli storici tecnici del suono di Tom Ryan Ulyate e Jim Scott ed alcuni dei musicisti coinvolti).

Wildflowers già al momento della sua uscita aveva colpito per la sua bellezza e per la profondità delle canzoni scritte da Tom, sia musicalmente che dal punto di vista dei testi, un album da vero e maturo songwriter rock che infatti era stato pubblicato come disco solista (il secondo dopo Full Moon Fever), dal momento che molte delle canzoni avevano uno stile che non veniva ritenuto adatto al sound prettamente rock degli Heartbreakers. Comunque i componenti del gruppo storico di Petty erano presenti al completo in session, soprattutto Mike Campbell e Benmont Tench che anche qui costituivano la spina dorsale del suono, mentre Howie Epstein non suonava il basso ma si limitava alle armonie vocali ed il batterista Steve Ferrone non era ancora entrato ufficialmente nella band ma lo avrebbe fatto subito dopo; tra gli altri musicisti presenti meritano una citazione il noto percussionista Lenny Castro, lo steel guitarist Marty Rifkin, Jim Horn al sax in un brano, il famoso arrangiatore Michael Kamen, responsabile delle orchestrazioni in una manciata di pezzi, e soprattutto Ringo Starr alla batteria ed il Beach Boy Carl Wilson alla voce in una canzone ciascuno.

Ma veniamo ad una disamina dettagliata del cofanetto, il cui ascolto si è rivelato un magnifico scrigno pieno di sorprese (ma non avevo dubbi in proposito). Il primo CD è il Wildflowers originale, un disco ancora oggi bellissimo ed attuale, pieno di deliziosi esempi di cantautorato maturo ed intimo come la splendida title track, il country-rock crepuscolare di Time To Move On, il puro folk-blues Don’t Fade On Me, una voce e due chitarre acustiche, la limpida e folkeggiante To Find A Friend e la ballata pianistica Wake Up Time. Ma la presenza degli Heartbreakers fa sì che il vecchio suono non sia certo messo in soffitta: così abbiamo il potente rock’n’roll di You Wreck Me, la bluesata ed elettrica Honey Bee, la creedenciana e “swampy” Cabin Down Below ed il notevole rock-blues quasi psichedelico House In The Woods, pieno di accordi discendenti; non mancano neppure i tipici pezzi midtempo del nostro, come la popolare You Don’t Know How It Feels, pare ispirata a The Joker della Steve Miller Band, la straordinaria It’s Good To Be King, che dal vivo diventerà uno dei momenti salienti dello show, e la younghiana Hard On Me. Infine troviamo dell’ottimo folk-rock d’autore come la cristallina Only A Broken Heart, con il suo feeling alla George Harrison, la sixties-oriented A Higher Place e l’elegante Crawling Back To You.

Come ho accennato poc’anzi, il secondo dischetto presenta dieci brani esclusi dalla tracklist del 1994 (a parte Girl On LSD che era uscita come lato B di un singolo, e che qui ritroviamo nel quinto CD), quattro dei quali finiranno in versione diversa sulla colonna sonora di She’s The One nel 1996. Il bello è che non stiamo parlando di dieci pezzi di livello inferiore, ma di canzoni che avrebbero potuto benissimo uscire e fare la loro ottima figura, in alcuni casi elevando addirittura il livello già alto di Wildflowers. Something Could Happen è una suggestiva ballata elettroacustica leggermente tinta di pop, con una melodia di prima qualità ed un gran lavoro di Tench, un pezzo inciso nel 1993 ancora con Stan Lynch in formazione e che sarebbe potuto diventare un classico. Ancora più incomprensibile l’esclusione di Leave Viginia Alone, stupendo uptempo folk-rock dal mood coinvolgente ed un motivo irresistibile, una delle migliori canzoni scritte da Tom negli ultimi 25 anni: poteva essere uno dei pezzi centrali di Wildflowers (e verrà invece registrata da Rod Stewart nel 1995 e pubblicata su A Spanner In The Works).

Climb That Hill Blues vede il solo Petty alla voce e chitarra acustica, un brano bluesato come da titolo che ritroveremo tra poco in una versione diversa e full band, ma questa take “unplugged” è davvero affascinante; Confusion Wheel è una limpida ballata dal passo lento e con un bel crescendo, influenzata in parte dalle folk songs tradizionali britanniche ed in parte dai Byrds “acustici”, mentre per California vale quasi lo stesso discorso fatto per Leave Virginia Alone, in quanto ci troviamo di fronte ad una deliziosa e solare canzone pop-rock dal motivo accattivante, che fortunatamente è stata poi reincisa per She’s The One (ma qui è migliore). Harry Green vede ancora Petty da solo, ma se Climb That Hill era un blues, qui siamo dalle parti del più puro e cristallino folk di stampo tradizionale, a differenza di Hope You Never che è un incalzante ed intrigante rock song chitarristica dal passo cadenzato, con un organo molto sixties ed un suono potente: altro pezzo che poteva tranquillamente finire su Wildflowers.

Somewhere Under Heaven è una rock ballad classica, molto anni 70, con un retrogusto psichedelico e Campbell che suona tutti gli strumenti, brano che precede la versione elettrica di Climb That Hill, solida rock song contraddistinta da un riff insistente ed un drumming martellante; chiusura con Hung Up And Overdue, ballata eterea dal gusto pop simile a certe cose del “periodo Jeff Lynne” di Tom, ancora con il pianoforte protagonista e la presenza simultanea di Ringo e Carl Wilson. Molto interessante il terzo CD, che si occupa degli “home recordings” precedenti alle sessions dell’album, registrati da Tom nel suo studio casalingo: non ci troviamo però davanti ai soliti demo per voce e chitarra acustica (e qualche volta armonica), ma a vere e proprie canzoni quasi complete, con sovraincisioni di chitarra elettrica, basso, piano, organo e percussioni. Ci sono anche tre inediti assoluti: There Goes Angela (Dream Away), una soave e delicata ballata impreziosita da una squisita melodia, A Feeling Of Peace, che se sviluppata maggiormente avrebbe potuto diventare una rock ballad di spessore (e parte delle liriche verranno utilizzate su It’s Good To Be King), e There’s A Break In The Rain, uno slow lento ed intenso che rispunterà con qualche modifica su The Last DJ con il titolo Have Love, Will Travel.

Le altre canzoni, alcune delle quali con qualche differenza testuale e strumentale, sono già bellissime così, in particolare You Don’t Know How It Feels, California, Leave Virginia Alone, Crawling Back To You, A Higher Place, To Find A Friend, Only A Broken Heart e Wildflowers. Quindi non la solita collezione di demo, magari un po’ noiosa, ma un disco che sta in piedi con le sue gambe. Il quarto dischetto è una delle ragioni per cui questo box era da me tanto atteso, dato che presenta 11 dei 15 brani di Wildflowers (più tre “aggiunte”) in versioni inedite dal vivo registrate da Tom ed i suoi Spezzacuori tra il 1995 ed il 2017, un CD strepitoso dal momento che stiamo parlando di una delle migliori rock’n’roll band di sempre, in grado di fornire la rilettura definitiva di qualsiasi brano suonato live (e se, per fare un esempio, nel 2003 con Live At The Olympic i nostri erano riusciti a trasformare un album deludente come The Last DJ in un disco da quattro stelle vi lascio immaginare cosa potessero fare con un lavoro del calibro di Wildflowers).

Tanto per cominciare abbiamo una monumentale It’s Good To Be King che da sola vale il CD, undici minuti di rock sublime con una prestazione monstre da parte di Campbell ed un crescendo irresistibile a cui partecipa attivamente anche Tench. Poi vanno segnalate una strepitosa You Don’t Know How It Feels, con Petty che arringa la folla da consumato showman, un trio di rock’n’roll songs formato da Honey Bee, Cabin Down Below e You Wreck Me, che dal vivo sono letteralmente esplosive, una limpida e countreggiante To Find A Friend acustica eseguita allo School Bridge Benefit di Neil Young nel 2000, la sempre bella Crawling Back To You, registrata a fine luglio 2017 (e quindi una delle ultime testimonianze dal vivo di Tom), puro vintage Heartbreakers, una versione molto più rock e diretta di House In The Woods ed una decisamente intima di Time To Move On, per chiudere con la sempre magnifica Wildflowers, qui in versione full band comprensiva di sezione ritmica.

Dicevo dei tre pezzi non appartenenti al disco originale, che iniziano con una deliziosa rilettura stripped-down di Walls (singolo portante di She’s The One), la vigorosa jam chitarristica Drivin’ Down To Georgia, brano che i nostri suonavano dal vivo già dal 1992 (ma questa è del 2010) e che abbiamo già sentito in un’altra versione su The Live Anthology, per chiudere con una rara Girl On LSD, un pezzo folle e divertente, musicalmente molto Johnny Cash, con Tom che mentre la canta fa fatica a rimanere serio. E veniamo al quinto dischetto, quello esclusivo dell’edizione Super Deluxe: sottointitolato Finding Wildflowers, presenta sedici versioni alternate prese dalle sessions dell’album, alcune simili ai brani ufficiali ed altre abbastanza diverse. Non tutto è inedito, ma piuttosto raro sì: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (molto Jeff Lynne) uscite su B-sides, e poi la Girl On LSD originale, sempre spassosa e dall’arrangiamento più rockabilly di quella live.

Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo) e, tra le altre, segnalerei una A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country, ancora con Ringo ai tamburi. Anche qui c’è spazio per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto che mette la parola fine ad un cofanetto che definire splendido è poco, e che si batterà certamente per il titolo di ristampa dell’anno.

Tom Petty ci manca maledettamente, ogni anno di più.

Marco Verdi

Anche Questo Disco Compie 50 Anni, Facciamolo Di Nuovo! Cat Stevens/Yusuf – Tea For The Tillerman2

cat stevens tea for the tillerman2

Cat Stevens/Yusuf – Tea For The Tillerman2 – Decca/UMC/Universal

Nel novembre del 1970, quando esce Tea For The Tillerman, Cat Stevens ventiduenne cantautore di belle speranze, nato a Londra, ma di chiare origini greche, aveva già pubblicato tre album, due ancora da teenager nel 1967 per la Deram, dischi che avevano avuto un certo successo, Matthew And Son era entrato nella Top 10 britannica, e il secondo New Masters conteneva una canzone, The First Cut Is The Deepest, venduta per 30 sterline a P.P. Arnold, e negli anni a venire una hit per Rod Stewart, anche se il suo repertorio veniva considerato leggero e disimpegnato. Poi nel 1969 contrae la tubercolosi, e nel lungo periodo di convalescenza ha tempo per meditare e ripensare a come impostare la sua carriera. Intanto un nuovo contratto per la Island, poi la scelta di un nuovo produttore, nella persona dell’ex Yardbirds Paul Samwell-Smith, e infine la scelta di uno stile musicale, diciamo folk rock, che gira attorno al suono delle chitarre di Cat e Alun Davies. Già ad aprile esce un primo disco molto bello Mona Bone Jakon (che sarà mai? Il suo pene), con il giovane Peter Gabriel, anche lui in rampa di lancio, al flauto in Katmandu, ma contiene anche Lady D’Arbanville e Trouble: discreto successo, ma niente di più.

Il nostro insiste e appunto a novembre esce Tea For The Tillerman, copertina suggestiva ed una serie di canzoni splendide, che non citiamo perché ne parliamo fra un attimo. A 50 anni dal disco originale Stevens, poi diventato Yusuf, e di nuovo Cat, decide, su sollecitazione anche del figlio, di riprendere in mano il vecchio album e inciderlo ex novo: nella copertina Tillerman (Il Timoniere) indossa un casco spaziale, e i due bambini ascoltano musica con le cuffiette e si scambiamo messaggi via cellulare. Il mondo è diventato più scuro e burrascoso, ma Stevens cerca di renderlo migliore riproponendoci temi universali di speranza, amore e condivisione, che erano alla base del progetto originale. Per farlo richiama in Francia, nell’estate pre-Covid del 2019, il produttore originario Samwell-Smith, Alun Davies, ed una serie di musicisti della live band di Yusuf: il bassista Bruce Lynch, membro della band dalla metà degli anni ‘70, il chitarrista Eric Appapoulay e il polistrumentista Kwame Yeboah, oltre al chitarrista Jim Cregan, (ex Family e Rod Stewart). Il disco si chiama Tea For The Tillerman2, anzi, al cubo, e ripropone la stessa sequenza dell’album originale, con la sola variazione della canzone Wild World, un enorme successo anche per Jimmy Cliff, che diventa Wild World Rag.

Anche il suono e gli arrangiamenti sono molto simili, e la voce di Cat Stevens/Yusuf non ha perso un briciolo del suo fascino, sempre profonda e risonante, ovviamente più vissuta e matura. Quindi niente ricerche di nuove strade sonore, solo un “aggiornamento” alle moderne tecnologie di registrazione: si parte con Where Do The Children The Play?, sempre di estrema attualità, un piano elettrico e le chitarre acustiche ci riconducono alla splendida melodia, poi entra quella voce inconfondibile, tra nuovi intrecci vocali e orchestrali, e parte il viaggio di riscoperta, si spera, anche per le nuove generazioni, magari munite di cuffiette. L’album lo conosciamo, e quindi ecco arrivare Hard Headed Woman, in un florilegio di acustiche arpeggiate, tastiere accarezzate e una elettrica che rafforza la coralità della musica, Wild World Rag è rallentata in un inconsueto tempo di ragtime con un clarinetto e una fisarmonica, oltre al piano, che virano verso atmosfere old time jazz. Sad Lisa è sempre malinconica, tenue ed intima, la voce che naviga sul piano elettrico è più fragile; Miles From Nowhere viceversa ha la forza della versione originale, sempre irrorata da sapori gospel ben evidenziati dai cori di contrappunto e anche un bel piglio elettrico, mentre But I Might Die Tonight con una chitarrina tintinnante ha un bel nuovo complesso arrangiamento orchestrale con retrogusti quasi orientaleggianti.

Into The White propone di nuovo l’interscambio delizioso tra le acustiche di Stevens e Davies, e la voce raddoppiata di Cat. On The Road To Find Out, tra percussioni, elettriche insinuanti e tastiere immanenti suona più moderna e lavorata, quasi inquietante e sembra una di quelle più cambiate rispetto alla versione del 1970, a mio parere molto più bella; a seguire il capolavoro assoluto del disco, quella Father And Son che rimane uno dei più affascinanti inni intergenerazionali di sempre, oggi come ieri, con un nuova breve intro con uso di lap steel, poi vieni preso da quella sublime melodia che si insinua sottopelle e ti trasporta. Chiude la breve e pianistica Tea For The Tillerman, un riassunto in meno di un minuto dei temi dell’album. Se volete un parere personale, meno bello dell’originale, ma comunque sempre un buon album, non solo per fan.

Bruno Conti