Il Suo Album Precedente Era Così Così, Questo E’ Davvero Bello! Joy Williams – Front Porch

joy williams front porch

Joy Williams – Front Porch – Sensibility/Thirty Tigers CD

Oltre ad essere una donna estremamente attraente, Joy Williams è anche una cantante ed autrice seria e preparata. In attività come solista dal 2001, è famosa principalmente per aver fatto parte insieme a John Paul White del duo folk-rock e Americana The Civil Wars, dal 2009 al 2014. Da sola Joy ha inciso quattro album e diversi EP: il suo ultimo lavoro, Venus (2015), aveva fatto storcere parecchio il naso ai suoi estimatori, in quanto segnava un distacco dalle sue abituali sonorità per uno stile più moderno tra il pop e il danzereccio; la stessa Williams non deve essere stata molto convinta del risultato, in quanto appena un anno dopo ha fatto uscire lo stesso album ma in versione acustica, con esiti artistici decisamente migliori. La stessa aria si respira in questo suo nuovissimo album, Front Porch, nel quale Joy dimostra fortunatamente che il suo amore per il pop era solo una sbandata temporanea: il disco infatti è composto da dodici brani originali di ottimo livello, affrontati davvero come se la protagonista fosse idealmente seduta nel portico di casa sua (come da titolo del CD).

Quindi atmosfere acustiche ed intime, con brani lenti e meditati in cui Joy si fa accompagnare al massimo da un paio di chitarre, una steel, un violino, un mandolino e un dobro (ma mai tutti insieme), e senza l’aiuto della batteria. Buona parte del merito va alla produzione di Kenneth Pattengale (ovvero metà del duo folk-rock The Milk Carton Kids), il quale si occupa anche della maggior parte degli strumenti, lasciando la steel nelle sapienti mani di Russ Pahl ed il violino e mandolino in quelle di John Mailander. Pochi strumenti quindi, ma dosati con gusto e misura e, soprattutto, un’attitudine da folksinger da parte della Williams che fa di Front Porch il disco migliore della sua carriera solista. Il CD è bello fin da subito: Canary è una canzone di chiaro stampo folk, dal sapore decisamente tradizionale, con chitarra, violino e poco altro, ed una prestazione vocale notevole da parte di Joy. La struttura musicale è la stessa in tutti i brani, e predominano le atmosfere lente e pacate, come la delicata title track, una ballata pura e cristallina dal motivo toccante, con la bella Joy che riesce ad emozionare anche con solo due chitarre ed un violino.

When Does A Heart Move On è soffusa, quasi sussurrata, ma di grande impatto emotivo, All I Need è molto simile, con l’aggiunta del mandolino e di una languida steel, mentre The Trouble With Wanting è strumentata in maniera ancora più spoglia, solo una chitarra e qualche backing vocals, ma il feeling se possibile aumenta, e vedo similitudini con l’ultima Emmylou Harris, meno country e più cantautrice. Il CD prosegue con lo stesso mood, ma non ci si annoia neppure per un momento in quanto la Williams è brava a tenere desta l’attenzione con una serie di canzoni molto ben scritte ed interpretate in maniera raffinata: meritano una citazione la struggente No Place Like You, solo voce e chitarra ma pathos notevole, la splendida One And Only, con un sapore d’altri tempi ed un sentore di Messico dato da una chitarra flamenco (uno di pezzi migliori), la vibrante When Creation Was Young, puro folk, la lenta e nostalgica Be With You e la conclusiva Look How Far We’ve Come, limpida e deliziosa nonostante la brevità.

Dopo le incertezze di Venus Joy Williams è tornata tra noi, dimostrando che è ancora perfettamente in grado di fare ottima musica e di regalare emozioni.

Marco Verdi

Il Titolo E’ Interminabile, Il Disco Purtroppo No! The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do

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The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do – Anti CD

Il duo californiano dei Milk Carton Kids, formato da Kenneth Pattengale e Joey Ryan, dopo tre album salutati positivamente da quasi tutta la critica mondiale, al quarto lavoro ha deciso di compiere il grande salto. Fautori di un folk-rock cantautorale chiaramente influenzato da Everly Brothers, Simon & Garfunkel, e dal duo Gillian Welch/David Rawlings, i MKC non hanno cambiato stile, ma hanno migliorato decisamente il loro songwriting e per la produzione si sono rivolti nientemeno che a Joe Henry, con il quale avevano già collaborato nel recente passato ma mai al punto di affidargli le chiavi di un loro album. E Henry non è uno che si muove per tutti, conosce il due ragazzi e li apprezza (li ha avuti anche in tour con lui), e la sua mano in questo All The Things That I Did And All The Things That I Didnt’t Do (un titolo non proprio facile da memorizzare) si sente eccome. Joe è ormai un maestro nel dosare i suoni, nel dare una veste sonora adatta a qualsiasi cosa su cui mette le mani, e quasi sempre per sottrazione, ma c’è da dire che in questo caso gran parte del merito va alle canzoni scritte da Pattengale e Ryan, due che non hanno certo bisogno di sonorità ridondanti per emozionare.

Oltre alle chitarre dei due leader, grande protagonista del disco è la splendida steel guitar di Russ Pahl, ma non bisogna scordare la sezione ritmica discreta ma di gran classe formata da Dennis Crouch (uno che ha suonato con un sacco di grandi, da Gregg Allman a Johnny Cash) e dall’ormai indispensabile Jay Bellerose, oltre alle tastiere di Pat Sansone, membro dei Wilco, ed anche ai fiati (clarinetto e sax) nelle mani di Levon Henry, figlio di Joe. Ballate fluide, lente e distese, suoni centellinati al millimetro, mai una nota fuori posto, con in più alcune tra le migliori canzoni del duo: All The Things (abbrevio per fare prima) è il classico disco che cresce ascolto dopo ascolto, ma piace già dalla prima volta che si mette nel lettore. Il centerpiece dell’album è senza dubbio la straordinaria One More For The Road, un brano che supera i dieci minuti e che definire epico non è esagerazione: una canzone che inizia come una ballata fluida e rilassata, con le due voci, un paio di chitarre e la steel sullo sfondo, un suono molto anni settanta con elementi che rimandano ai gloriosi giorni del Laurel Canyon, e che poi si tramuta in un melting pot di suoni tra folk, jazz ed un tocco di psichedelia in un crescendo strumentale magnifico e di grande pathos, per tornare nel finale al tema principale.

Ma chiaramente il disco è anche altro, a partire dall’iniziale Just Look At Us Now, brano tenue ed interiore, molto discorsivo e con un accompagnamento discreto, una percussione leggera ed un delizioso contorno di strumenti a corda. Il pianoforte introduce la lenta Nothing Is Real, un pezzo raffinato ed ottimo veicolo per le armonie vocali di Kenneth e Joey, con un arrangiamento tra folk e pop d’altri tempi, nel quale si sente lo zampino di Henry; la squisita Younger Years ha molti contatti con la scrittura di Paul Simon, e la sua veste leggermente country & western, con la bella steel di Pahl in sottofondo, la rende una delle più riuscite. Mourning In America, pianistica e con una leggera orchestrazione alle spalle, è lenta e decisamente intensa: musica pura, senza pretese commerciali ma in grado di toccare le corde giuste; You Break My Heart è ancora spoglia nei suoni, voce, chitarra, steel e sezione ritmica appena sfiorata, con uno stile molto vicino all’ultimo Dylan che fa Sinatra, così come Blindness, se possibile ancora più cupa, quasi tetra, con le voci angeliche dei due che contrastano apertamente con il mood triste del brano. Big Time è decisamente più vivace, una canzone limpida ed ariosa tra folk e country, caratterizzata da un bel violino ed una melodia diretta, A Sea Of Roses è ancora puro folk moderno, gentile e raffinato, di nuovo con Simon dietro il pentagramma, mentre Unwinnable War è una ballatona di ampio respiro, con il solito ottimo lavoro di steel alla quale si aggiunge un organo ed il consueto pickin’ chitarristico di gran classe. Chiudono il CD la languida I’ve Been Loving You, molto Everly Brothers, e la delicata title track, tre strumenti in croce ma grande intensità.

Al quarto disco i Milk Carton Kids hanno fatto centro: canzoni come One More For The Road non si scrivono certo per caso, ed il resto non è sicuramente da meno.

Marco Verdi

Il Secondo Capitolo Di Un Narratore “Affascinante”. Ed Romanoff – The Orphan King

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Ed Romanoff – The Orphan King – Pinerock Records

Questo signore Ed Romanoff, si era fatto conoscere sei anni fa con lo splendido album omonimo d’esordio, pubblicato all’età di 53 anni, disco puntualmente come sempre passato quasi inosservato. La storia artistica di Romanoff (origini irlandesi e adottato da una famiglia russa), inizia sul finire degli anni ’90 ma poi deve la svolta della sua carriera anche all’amicizia con Mary Gauthier, che lo porta a scrivere a quattro mani con la stessa proprio il brano The Orphan King, apparso sul disco The Foundling, scoprendo quindi tardivamente di volersi reinventare “songwriter”.

Il risultato di questi ulteriori anni passati dopo il primo lavoro è il nuovo album, registrato a Palenville (NY), nello studio fienile del produttore Simone Felice (Felice Brothers, Lumineers), dove Ed voce e chitarra si porta appresso validi collaboratori come lo stesso Felice alla batteria, il fratello James Felice alle tastiere e fisarmonica, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell alle chitarre, basso, mandolino, cetra e violino, Lee Nadel al basso, Cindy Cashdollar alla steel guitar e lap steel, Kenneth Pattengale del duo Milk Carton Kids alle chitarre, e come coriste la sue colleghe Rachael Yamagata, Cindy Mizelle, e la moglie di Campbell, Teresa Williams, tutti einsieme danno vita a tredici canzoni piene di suggestioni, ma nello stesso tempo estremamente vive.

Fin dalla prima canzone Miss Worby’s Ghost, si percepisce l’abilità narrativa di Ed, bissata poi nella seguente Elephant Man (uno dei sei brani composti con Crit Harmon), una romanza musicata e cantata quasi alla Kris Kristofferson, dove spiccano sublimi armonie vocali, per poi passare al country-rock arioso di una A Golden Crown, dove si riconosce benissimo il violino di Campbell, e la pedal-steel della Cashdollar, priam di proporre la sua versione della citata pianistica title-track The Orphan King, con in sottofondo una intrigante tromba e Teresa Williams alle armonie vocali, mentre il moderno e delizioso “bluegrass” di Without You, vede brillare Kenneth Pattengale alla voce, chitarra e mandolino. Le narrazioni diventano ancora più briose con la melodia vivace di Leavin’ With Somebody Else, cantata in falsetto in stile Roy Orbison, mentre nella seguente Less Broken Now, le armonie femminile sono a carico di Cindy Mizelle, per poi passare alla “perla” del disco, la meravigliosa The Ballad Of Willie Sutton (una intensa storia alla Bonnie & Clyde), interpretata con trasporto dalla voce baritonale dall’autore, che poi si ripete nella tranquillità di ballate come l’acustica I’ll Remember You, e la riflessiva e notturna The Night Is A Woman (con le brave Yamagata e Mizelle alle armonie). Ci si avvia (purtroppo) alla parte conclusiva del lavoro con un’altra ballata di spessore (che pare evocare lo spirito di Cohen) come l’incantevole Blue Boulevard (Na Na Na), dove giganteggiano ancora una volta il violino celtico e il mandolino di Larry Campbell, ancora una intrigante e quasi recitativa “ode” come Lost And Gone, e infine a chiudere, come coronamento finale di un eccellente lavoro,  il “soul-blues” elettrico di una grintosa e narrativa Coronation Blues, dove spiccano le vari voci femminili in un nostalgico stile che rievoca il classico stile Stax.

Come già ricordato in altre occasioni, molto spesso capita di scoprire musicisti che, per una ragione o per l’altra, non hanno la giusta considerazione di tante altre acclamate “stars”, un tipo che dopo tutto il vagabondare per gli stati americani, si è impegnato a scrivere canzoni sulla in tarda età, avendo come “mentori” artisti del calibro di Darrell Scott, Beth Nielsen Chapman, Josh Ritter, e come la già citata grande Mary Gauthier. Ed Romanoff vive e lavora a Woodstock, nello stato di New York, e con questo The Orphan King merita ancora una volta segnalazione in virtù del suo (in)consueto stile narrativo, in cui ascoltando con attenzione il disco si possono scorgere punti di contatto con personaggi del livello di John Prine e Eric Taylor (di cui peraltro sembrano essersi perse le tracce), sicuramente un “cantautore-narratore” che vale la pena di conoscere https://www.youtube.com/watch?v=v-B1rrh6v0A , e spero che, prendendosi i suoi giusti tempi, continuerà a comporre canzoni e produrre album per gli anni a venire: in fondo come diceva il famoso Maestro Manzi, non è mai troppo tardi. Nel frattempo, fin d’ora, a parere di chi scrive, sicuramente una delle sorprese, e la canzone, dell’anno!

Tino Montanari

Tre Album Belli Di Fila Non Sono Un Caso, Ormai E’ Uno Dei “Nostri”! Tom Jones – Long Lost Suitcase

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Tom Jones – Long Lost Suitcase – Virgin/EMI CD

Thomas Jones Woodward, meglio conosciuto come Tom Jones, a settant’anni suonati (75, per la precisione) si è finalmente deciso a fare musica come si deve. Per più di cinque decenni infatti il cantante gallese ha messo la sua formidabile voce al servizio di canzonette pop di poco conto ( non sempre), che hanno sicuramente contribuito a portare il suo conto in banca a livelli notevoli, ma lo hanno sempre reso indigesto ai veri music lovers, perdendo poi anche una buona parte di dignità a inizio secolo con il suo comeback nelle classifiche grazie allo strepitoso successo della pessima Sex Bomb, dopo che ormai buona parte del pubblico lo riteneva artisticamente sepolto in quel cimitero degli elefanti che può essere per certi artisti Las Vegas. Poi, nel 2010, il clamoroso colpo di coda con l’ottimo Praise & Blame, un bellissimo disco nel quale Tom esplorava le sue radici folk, blues e gospel con un suono spoglio ed in gran parte acustico, con Ethan Johns (figlio del grande Glyn) in cabina di regia: un disco in cui il nostro dava nuova linfa a brani della tradizione più profonda, ai quali affiancava covers (Tom è sempre stato un interprete più che un autore) di gente come Bob Dylan, Billy Joe Shaver e Pops Staples.

Una metamorfosi che aveva dell’incredibile, con Johns nei panni di quello che Rick Rubin è stato per Johnny Cash nell’ultimo periodo della carriera dell’Uomo in Nero (che però non aveva mai smesso di fare buona musica, ma veniva soltanto da uno sfortunatissimo periodo alla Mercury, dopo essere stato lasciato a casa negli anni ottanta dalla Columbia) e, in parte, per Neil Diamond (gli album 12 Songs e Home Before Dark), che invece non aveva mai avuto un problema di vendite o di bontà nel songwriting, ma semmai di arrangiamenti gonfi e ridondanti e attitudine da superstar (del tipo “Io sono Neil Diamond e voi non siete un c****!”). La reazione a Praise & Blame fu tale che Tom nel 2012 bissò con l’altrettanto valido Spirit In The Room, che con lo stesso tipo di arrangiamenti essenziali prendeva in considerazione più che altro autori contemporanei (ancora Dylan, Tom Waits, Leonard Cohen, Paul McCartney, Paul Simon, Richard Thompson) ed anche talenti più recenti del calibro di Joe Henry e dei bravi Low Anthem. Ora Tom completa quella che può sembrare una trilogia con l’eccellente Long Lost Suitcase (che viene proposto come il CD di accompagnamento alla nuovissima autobiografia del gallese), un nuovo, bellissimo lavoro che dopo appena un paio di ascolti si rivela perfino superiore ai due precedenti.

Sempre prodotto da Johns Jr., Long Lost Suitcase vede il solito schema, cioè Jones che riprende classici del presente e del passato che hanno avuto una qualche influenza su di lui, ma stavolta con una maggiore propensione elettrica e diversi omaggi al blues (ma folk e anche qualcosa di country non mancano). Tom ha sempre una voce straordinaria nonostante i 75 anni (e l’età gli ha conferito anche un feeling che, repertorio commerciale a parte, in passato non aveva mai palesato), ha ormai trovato la sua dimensione ideale in queste interpretazioni, e Johns è il suo perfetto alter ego: in questo CD c’è molto blues come ho già accennato, ma anche più chitarre ed una sezione ritmica che si fa sentire in misura maggiore rispetto ai due album precedenti, decisamente più folk oriented. I musicisti presenti nel disco non sono molti: a parte Johns, che suona un po’ di tutto, abbiamo l’ottimo Fiachra Cunningham al violino, il noto chitarrista Andy Fairweather-Low (Eric Clapton, Roger Waters, ecc.) alla ritmica, Jeremy Stacey alla batteria, mentre al basso si alternano Ian Jennings e Dave Bronze.

L’album si apre con un pezzo poco noto di Willie Nelson, Opportunity To Cry (era su Pancho & Lefty, il disco del 1983 con Merle Haggard): la melodia è tipica del barbuto countryman texano, e l’arrangiamento spartano non fa che rendere giustizia al brano, con Tom che vocalmente si allinea alle performance da brivido di Willie. Honey Honey è la prima scelta sorprendente, un brano dei Milk Carton Kids, riproposto come se fosse un bluegrass di quando Tom aveva sì e no dieci anni, con banjo e violino a dettare legge e la brava irlandese Imelda May alla seconda voce; Take My Love (I Want To Give It) è il primo blues del CD (di Little Willie John), un giro classico, cantato in maniera potente dal gallese e la band che lo accompagna in maniera tesa ed elettrica, con un bel assolo centrale di Ethan. La nota Bring It On Home (Sonny Boy Williamson, ma anche Led Zeppelin) mantiene il disco in territori blues, con il gruppo che qui è molto più discreto e lascia campo libero alla voce di Tom, il quale si comporta come il più consumato dei bluesman; Everybody Loves A Train è un’altra bella scelta trasversale, un brano poco noto dei Los Lobos (era su Colossal Head, forse il disco più ermetico dei Lupi): Tom con la voce fa ciò che vuole, inizia parlando, quasi gigioneggia, poi nel refrain si lascia andare in tutta la sua potenza, mentre la band commenta in maniera quasi sporca, in pieno stile Lobos.

Nella sua biografia Jones darà sicuramente spazio anche ad Elvis Presley (nel booklet del CD è ritratto insieme a lui e Priscilla), ma invece di scegliere un brano del King opta per Elvis Presley Blues di Gillian Welch, offrendone un’interpretazione sofferta, drammatica, quasi alla Odetta, con Johns che lo circonda con una chitarra vibrata al limite della distorsione: quasi impensabile pensare che stiamo parlando dello stesso personaggio che cantava Delilah. Ed eccoci all’high point del disco (a mio parere): He Was A Friend Of Mine è un pezzo inciso da molti in passato, soprattutto in ambito folk (di Dave Van Ronk la versione più nota, ma anche Dylan la cantava spesso nelle coffeehouses del Village), e qui troviamo solo Tom ed Ehtan con la slide acustica, con il nostro che tira fuori una performance da pelle d’oca, al limite della commozione, sentire per credere. Factory Girl è proprio quella dei Rolling Stones, e qui Jones rispetta la melodia originale (ma che voce) e Johns la riveste di sonorità decisamente bucoliche, mentre con I Wish You Would (Billy Boy Arnold) si torna al blues ruspante, con una versione spedita e roccata, molto anni sessanta, ed una serie di assoli quasi ipnotici.

‘Til My Back Ain’t Got No Bone (di Eddie Floyd, l’ha fatta anche Albert King) rimane in zona blues, ma in maniera più tranquilla, con la solita voce che si staglia imperiosa; Why Don’ You Love Me Like You Used To Do? è un noto brano di Hank Williams, che vede Tom divertirsi con una interpretazione gioiosa e solare, in linea con l’originale, dandoci una delle prove più godibili del disco, quasi non avesse fatto altro che country nella sua carriera. L’album si chiude con la famosa Tomorrow Night (Lonnie Johnson, ma anche Elvis e Dylan), qui in veste jazz afterhours, molto raffinata, e con la deliziosa e countreggiante Raise A Ruckus, un traditional che hanno rifatto in mille, da Jesse Fuller a Uncle Earl, passando per Bill Kirchen e gli Old Crow Medicine Show.

Tom Jones è definitivamente rinsavito (meglio tardi che mai), e Long Lost Suitcase è indubbiamente uno dei dischi più belli del 2015.

Marco Verdi

Novità Di Maggio Parte I. Yes, E L & P, Karen Dalton Tribute, Milk Carton Kids, Giant Sand, Dar Williams, Eilen Jewell, Thea Gilmore, Romi Mayes

yes progeny shows E L & P Once Upon a Time Live in south america

Siamo a fine mese, solita panoramica sulle uscite più interessanti di Maggio, titoli che non hanno già avuto o avranno (alcuni anche di quelli che leggerete fra poco) uno spazio specifico sul Blog. Alcuni titoli sono in lavorazione e li leggerete nei prossimi giorni.

Partiamo con due cofanetti. La Atlantic del gruppo Warner ha pubblicato un paio di giorni fa questo cofanetto da 14 CD dedicato agli Yes, si intitola Progeny : Seven Shows From Seventy-Two e come dice il titolo raccoglie 7 concerti completi registrati nel 1972, queste le date:

  • October 31, 1972 Toronto, Canada
  • November 1, 1972 Ottawa, Canada
  • November 11, 1972 Durham, NC
  • November 12, 1972 Greensboro, NC
  • November 14, 1972 Athens, GA
  • November 15, 1972 Knoxville, TN
  • November 20, 1972 Uniondale, NY

E questa la formazione del tour: Jon Anderson (vocals), Steve Howe (guitar), Chris Squire (bass),Rick Wakeman (keyboards), Alan White (drums). Se non siete fans sfegatati o maniaci degli Yes (e anche se lo siete) il “problema” risiede nel fatto che i brani sono gli stessi per tutti i sette concerti, ovvero:

Opening (Excerpt From Firebird Suite)
Siberian Khatru

I’ve Seen All Good People
a. Your Move
b. All Good People

Heart Of The Sunrise

Clap/Mood For A Day

And You And I
i. Cord Of Life
ii. Eclipse
iii. The Preacher The Teacher
iv. Apocalypse

Close To The Edge
i. The Solid Time Of Change
ii. Total Mass Retain
iii. I Get Up I Get Down
iv. Seasons Of Man

Excerpts From “The Six Wives Of Henry VIII”

Roundabout

Yours Is No Disgrace
Per risolvere il problema è uscito anche un doppio CD che si chiama Progeny – Highlights From Seventy-Two  che contiene la stessa sequenza di brani, ma con le versioni “migliori” estratte dalle singole date, che sarebbe questa:

Opening (Excerpt From Firebird Suite)
Siberian Khatru
Nassau Coliseum, Uniondale, New York, November 20, 1972

I’ve Seen All Good People
a. Your Move
b. All Good People
20 Nov 1972: Nassau Veterans Memorial Coliseum, Uniondale, New York, USA

Heart Of The Sunrise
15 Nov 1972: Knoxville Civic Coliseum, Knoxville, Tennessee, USA

Clap/Mood For A Day
12 Nov 1972: Greensboro Coliseum, Greensboro, North Carolina, USA

And You And I
i. Cord Of Life
ii. Eclipse
iii. The Preacher The Teacher
iv. Apocalypse
11 Nov 1972: Duke University, Durham, North Carolina, USA

Close To The Edge
i. The Solid Time Of Change
ii. Total Mass Retain
iii. I Get Up I Get Down
iv. Seasons Of Man
11 Nov 1972: Duke University, Durham, North Carolina, USA

Excerpts From “The Six Wives Of Henry VIII”
12 Nov 1972: Greensboro Coliseum, Greensboro, North Carolina, USA

Roundabout
31 Oct 1972: Maple Leaf Gardens, Toronto, Ontario, Canada

Yours Is No Disgrace
12 Nov 1972: Greensboro Coliseum, Greensboro, North Carolina, USA
Il Box si presenta così…

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Veniamo agli Emerson, Lake & Palmer: oltre alla ristampa “potenziata” di Trilogy, uscita ad inizio aprile per la Sony, che però nella tripla confezione, 2 CD + DVDA, presentava di inedito solo un alternate mix di From The Beginning e nuove versioni stereo e 5.1 Dolby surround nel DVD audio,  esce anche questo Once Upon A Time Live In South America, etichetta Code 7 Rockbeat, 4 CD con tre concerti registrati nei reunion tours sudamericani degli anni ’90 Estadio Chile, Santiago, April 1, 1993; Obras Stadium, Buenos Aires, Argentina, April 5, 1993;  Metropolitan Theater, Rio de Janeiro, Brazil on August 16, 1997, queste le tracce contenute nei quattro dischetti: Disc 1 1.Introduction Fanfare 2.Tarkus 3.Knife Edge 4.Paper Blood 5.Black Moon 6.Close To Home 7.Creole Dance 8.Still You Turn Me On 9.C’est La Vie 10.Lucky Man 11.Honky Tonk Woman 12.Touch And Go 13.Pirates Disc 2 1.Hoedown 2.Pictures At An Exhibition 3.Fanfare For The Common Man 4.Introductory Fanfare 5.Tarkus 6.Knife Edge 7.Paper Blood 8.Black Moon 9.Emerson Piano Solo Disc 3 1.Creole Dance 2.From The Beginning 3.Cest La Vie 4.Lucky Man 5.Honky Tonk Train Blues 6.Touch And Go 7.Pirates 8.Hoedown 9.Instrumental Jam 10.Pictures At An Exhibition Disc 4 1.Fanfare For The Common Man 2.Karn Evil 4.Touch and Go 5.From the Beginning 6.Knife Edge 7.Lucky Man 8.Tarkus 9.Pictures at an Exhibition 10.21st Century Schizoid Man 11.America
remembering mountains unheard songs karen dalton
In questi giorni la benemerita Tompkins Square pubblica questo Remembering Mountains: Unheard Songs From Karen Dalton, un progetto curato dal chitarrista americano Peter Walker, che è il curatore dell’eredità musicale della sfortunata e dalla vita tormentata cantautrice Karen Dalton, uno dei “tesori perduti” della musica anni ’60 e ’70, che ha affidato ad una pattuglia di voci femminili alcune canzoni inedite trovate negli archivi.
Ovviamente se ne parlerà sul Blog, per il momento questo è l’interessante contenuto:
1. Remembering Mountains – Sharon Van Etten
2. All That Shines Is Not Truth – Patty Griffin
3. This Is Our Love – Diane Cluck
4. My Love, My Love – Julia Holter
5. Met An Old Friend – Lucinda Williams
6. So Long Ago And Far Away – Marissa Nadler
7. Blue Notion – Laurel Halo
8. For The Love I’m In – Larkin Grimm
9. Don’t Make It Easy – Isobel Campbell
10. At Last The Night Has Ended – Tara Jane O’Neil
11. Met An Old Friend – Josephine Foster
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Un paio di settimane fa è uscito anche il secondo (se non contiamo un paio di progetti indipendenti) album dei Milk Carton Kids , Monterey, il duo folk acustico che sostiene di non ispirarsi ai primi Simon & Garfunkel, e ci crediamo, ma comunque li ricorda moltissimo. Anche per l’occasione, solo voci e chitarre acustiche, Kenneth Pattengale e Joey Ryan, sono molto amati da Joe Henry, che per il momento firma solo le note di copertina dei loro dischi, in attesa magari di una futura produzione, l’etichetta è sempre la Epitaph/Anti e il disco è molto buono, come il precedente, ne parleremo più diffusamente, sempre tempo permettendo, appena possibile https://www.youtube.com/watch?v=ih-ym3EWH2w .
giant sand heartbreak pass
Howe Gelb ha ripristinato la sigla Giant Sand per questo nuovo Heartbreak Pass che festeggia il 30° anniversario della nascita del gruppo Alt-County-Rock americano, uno dei pionieri del genere (ma tuttora in attività come Giant Giant Sand, vedi l’ottimo Tucson del 2012), la cui sezione ritmica storica vedeva John Convertino e Joey Burns, che poi avrebbero fondato i Calexico. Per questo nuovo album, uscito il 5 maggio su New West, Gelb oltre ad essere una sorta di one man band ha invitato moltissimi ospiti: Vinicio Capossela, voce recitante in un brano, Steve Shelley, ex Sonic Youth, alla batteria, John Parish, Maggie Bjorklund alla pedal steel, Grant-Lee Phillips, Jason Lytle dei Grandaddy, Winston Watson, il primo batterista, poi anche con Dylan, ma pure Chris Cacavas & Ed Abbiati, recentemente. Il CD più che vecchie canzoni rivisita i vari stili che hanno segnato la storia del gruppo e mi pare molto buono. https://www.youtube.com/watch?v=z3j522N_NNY e https://www.youtube.com/watch?v=UWnBrw_h2Ig
Per concludere vi segnalo in breve, perché verranno recensiti per esteso tutti e quattro, i nuovi album di alcune eccellenti cantautrici, tra le preferite del Blog.
dar williams emeraldeilen jewell sundown over
Il nuovo album di Dar Williams http://discoclub.myblog.it/2012/05/03/difficilmente-ne-sbaglia-uno-dar-williams-in-the-time-of-god/ si chiama Emerald, esce per una piccola etichetta etichetta inglese, la Bread And Butter Music, come al solito molto buono https://www.youtube.com/watch?v=pBJV9bP4h3Y. Quello nuovo di Eilen Jewell, sentita l’ultima volta con i Sacred Shakers http://discoclub.myblog.it/2014/02/11/che-genere-fanno-the-sacred-shakers-live/ si intitola Sundown Over Ghost Town e viene pubblicato dalla Signature Sounds, nell’attesa della recensione completa vogliate gradire https://www.youtube.com/watch?v=k1mlxZvui0w
romi mayes devil on both shoulders thea gilmore ghost and graffiti
Nuovi album anche per Romy Mayes http://discoclub.myblog.it/2011/06/30/ci-vuole-coraggio-romy-mayes-lucky-tonight/, titolo Devil On Both Shoulders, è il suo sesto album, esce a livello indipendente, la cantante canadese ha come sempre un bel sound elettrico  https://www.youtube.com/watch?v=bIDdLy9bO4w
Il CD nuovo di Thea Gilmore, l’unica inglese del quartetto, bellissima voce,  http://discoclub.myblog.it/2013/06/08/la-piu-americana-folk-singer-inglese-thea-gilmore-regardless/ e http://discoclub.myblog.it/2011/11/20/forse-non-come-l-originale-ma-sempre-un-ottima-cantautrice-m/ pubblica il suo nuovo album Ghosts And Graffiti, etichetta Full Fill, che è una sorta di retrospettiva sulla sua carriera, ma nei 20 brani che lo compongono (25 nel doppio LP) ci sono quattro nuove canzoni, sei versioni re-incise di vecchi brani e duetti con Joan Baez, Billy Bragg, i Waterboys, Glistening Bay, un duetto cantato con Mike Scott e altre chicche. Anche questo prossimamente sul Blog, nell’attesa https://www.youtube.com/watch?v=WDZe7AX1uP0
Per oggi è tutto, domani o dopo il seguito, con le ristampe più valide del mese e una anticipazione delle uscite di lunedì, un paio veramente interessanti.

Bruno Conti

Come Quei Bei Doppi Dischi Dal Vivo Di Una Volta! Another Day, Another Time: Celebrating The Music Of Inside Llewyn Davis

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Another Day, Another Time: Inside The Music Of Llewyn David – 2 CD Nonesuch/Warner

Tutto partiva all’incirca un abbondante anno e mezzo fa, con la presentazione del film dei fratelli Coen Inside Llewyn Davis ( A Proposito Di Davis in italiano) al Festival del Cinema di Cannes del 2013. IL film era una sorta di versione riveduta e corretta della storia di Dave Van Ronk, Ramblin’ Jack Elliott e dei loro amici (qualcuno ha detto Dylan?), nella New York di inizio anni ’60, nella zona del Greenwhich Village, dove il boom della musica folk stava per esplodere in tutta la sua dirompente carica. Ma noi ovviamente non parliamo della pellicola cinematografica ma della sua bellissima colonna sonora: sul finire di quell’anno, circa tre mesi prima dell’uscita nelle sale, nel settembre del 2013, i fratelli Coen e il produtttore della musica della soundtrack, T-Bone Burnett, decidono di riunire i musicisti presenti nella colonna sonora ed altri validi alfieri, vecchi e nuovi, del filone folk, per uno storico concerto tenuto alla Town Hall di New York, il 29 settembre per la precisione, nel corso delle manifestazioni promozionali legate al lancio del film. Il tutto viene debitamente filmato (e prima al cinema e poi in DVD è uscito una sorta di documentario relativo all’avvenimento https://www.youtube.com/watch?v=-hQZyeMLMag ) e anche registrato, per la parte audio, e ora vede la luce in questo gennaio 2015 con un doppio CD pubblicato dalla Nonesuch Records di cui ora andiamo a parlare (purtroppo, come detto in altre occasioni, per questioni di diritti, essendo stati pubblicati da diverse case di produzione, non esiste una bella confezione che raggruppa i due formati). E comunque il doppio album basta e avanza.

Marcus Mumford, Oscar Isaac Another Day, Another Time the Music of "Inside Llewyn Davis"

La qualità musicale della colonna sonora era già di per sé molto elevata, ma i contenuti del doppio live, anche grazie alla partecipazione dei numerosi ospiti non presenti nella soundtrack stessa, sono ancora più eclatanti, in questa cavalcata nelle radici della musica popolare americana, ma anche nel repertorio di alcuni dei più grandi cantautori che la scena folk abbia saputo proporre, rivisitati in nuove scintillanti versioni. I primi a presentarsi sul palco sono i Punch Brothers, la strepitosa band di Chris Thile (che proprio in questi giorni presenta il nuovo album The Phosphorescent Blues), giovane talento dell’area folk-bluegrass, che, pur non avendo ancora compiuto 35 anni, ha già una discografia copiosa, con decine di album, prima a nome Nickel Creek, poi come solista e incollaborazioni varie, oltre a quelli con i Punch Brothers (dal 2006), tutti pubblicati negli ultimi venti anni: cantante, oltre che virtuoso del mandolino, Thile & Co. prima ci propongono una malinconica Tumbling Tumbleweeds, scritta da Bob Nolan dei Sons Of The Pioneers, prima di aprire le danze con la loro mossa versione di un celebre traditional come Rye Whiskey, con Thile, il violinista Gabe Witcher, il banjoista Noam Pikelny, il chitarrista Chris Eldridge e il contrabbassista Paul Kowert (tutti anche ottimi cantanti) impegnati a riversare il loro virtuosismo sul pubblico presente. Per il terzo brano, uno dei super classici della canzone americana, Will The Circle Be Unbroken, scritta negli anni ’30 da A.P. Carter della celebre famiglia, sul palco sale anche la coppia Gillian Welch e David Rawlings, per una ottima versione corale del celebre brano. In questa alternanza di classici e brani contemporanei, ma sempre inseriti nel grande filone della folk music, i due poi eseguono una loro composizione, The Way It Goes, bellissima, presente nell’album del 2011 The Harrow And The Harvest, tutt’ora l’ultimo della succinta discografia della coppia.

gillian welch old crow Another Day, Another Time the Music of "Inside Llewyn Davis"

Che rimane sul palcoscenico per unirsi all’ex Old Crow Medicine Show Willie Watson, per una superba versione di un altro capolavoro come The Midnight Special, altro brano tradizionale che molti attribuiscono a Leadbelly, ma che è stato eseguito negli anni da centinaia di musicisti, non ultimi i Creedence, la cui versione, peraltro molto bella, è forse la più conosciuta dal grande pubblico. David Rawlings esegue  un medley di I Hear Them All, brano scritto con Ketch Secor, sempre degli Old Crow, accoppiato con l’inno non ufficiale dei musicisti folk (e non) americani, This Land Is Your Land, la celeberrima canzone di Woody Guthrie che è anche l’occasione per far cantare tutto il pubblico presente (Rawlings non è un gran cantante, ma le armonie della Welch e la bontà della canzone fanno il resto). Le voci sono invece il grande pregio di un’altra coppia che si affaccia sulla scena americana, i Milk Carton Kids ci regalano una bella versione del brano New York tratta dal primo disco Prologue, impreziosita anche dagli intricati giri delle due chitarre acustiche. Ancora una coppia, le protette del produttore T-Bone Burnett, le Secret Sisters, con la dolce cantilena di Tomorrow Will Be Kinder e a seguire un altro nuovo gruppo come i Lake Street Dive, che, anche se forse perdono qualcosa nella versione acustica di Go Down Smooth, ci permettono di gustare comunque la bellissima voce della  cantante Rachael Price (e anche gli altri non scherzano http://discoclub.myblog.it/2014/03/12/raffinato-quartetto-che-voce-la-ragazza-lake-street-dive-bad-self-portraits/).

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Please Mr. Kennedy è una canzone del film, un bravo divertente interpretato da Elvis Costello, aiutato da Punch Brothers, Oscar Isaac e Adam Driver, mentre Conor Oberst (Bright Eyes) ci regala una ottima versione di un altro dei classici degli anni gloriosi del folk, Four Strong Winds che viene dal periodo ’60’s del duo canadese Ian & Sylvia (Tyson): canzone bellissima con le armonie vocali e l’accompagnamento musicale nuovamente di Gillian Welch David Rawlings, che rimangono anche per il brano scritto da Oberst, Man Named Thruth, molto nello spirito della musica di quel periodo. Colin Meloy dei Decemberists, in versione solitaria, come si confà alla serata, rilegge uno dei brani culto dell’epoca, quella Blues Run The Game, unica canzone “celebre” dello sfortunato Jackson C. Frank, uno dei “beautiful losers” per eccellenza. Meloy poi invita sul palco Gillian Welch e Joan Baez, la madrina del folk movement dell’epoca, per interpretare uno dei brani più noti della Baez stessa, Joe Hill, una delle grandi canzoni di protesta, resa in una versione emozionante a tre voci con la fisarmonica di Dirk Powell aggiunta per colorire il suono. Fine della prima parte del concerto (e del primo CD) con tre brani eseguiti dagli Avett Brothers: All My Mistakes è uno dei loro cavalli di battaglia, un brano dolcissimo e delizioso anche in versione acustica, molto bella pure la versione di un classico del country, scritta da Tom T. Hall come That’s How I Got To Memphis, con un bel crescendo coinvolgente e per finire un medley di altri due brani che confermano l’eccellenza di questa band americana che in pochi anni è diventata una delle migliori realtà in circolazione, Head Full Of Doubt/Road Full Of Promises si incastrano alla perfezione una nell’altra e il pubblico apprezza alla grande.

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La seconda parte del concerto riparte con ben tre brani cantati da Jack White, che in versione cantante folk fa un figurone: accompagnato da Lillie Mae Rische, violino e seconda voce, Fats Kaplin, banjo e chitarra, e Dominic Davis, basso, propone prima un brano della tradizione come Mama’s Angel Child, poi un brano di uno dei protagonisti del folk anni ’60 Tom Paxton, di cui riprende Did You Hear John Hurt?, un gioiellino, grazie anche alla deliziosa voce della Rische, per finire con un suo brano, We’re Going To Be Friends (così è scritto sul CD, ma mi sembra che il brano sia I Can Tell https://www.youtube.com/watch?v=nb70f4DtHdw) , molto sulla lunghezza d’onda della serata e accolto da un boato del pubblico. E’ poi il turno di Rhiannon Giddens (la multistrumentista e cantante dei Carolina Chocolate Drops, di cui sta per uscire il 10 febbraio per la Nonesuch il disco d’esordio da solista, prodotto guarda caso da T-Bone Burnett), reduce nel 2014 dalle partecipazioni ai New Basement Tapes e al tributo al Bitter Tears di Johnny Cash, ma per la serata alle prese, con la sua voce stentorea e potente, con il gospel-folk di una intensa Waterboys e poi con le derive celtiche delle impronunciabili (ma molto belle) Siomadh rud tha dhith orm/Ciamar a ni mi ‘n dannsa direach. Oscar Isaac è l’attore principale del film, ma si è scoperto anche ottimo cantante, qui, accompagnato dalle Secret Sisters e dai Punch Brothers, interpreta ottimamente Hang Me, Oh Hang Me, altro celebre brano tradizionale e uno dei migliori presenti nella colonnna sonora originale https://www.youtube.com/watch?v=X672aJ3iytY , nonché Green, Green Rocky Road una delle canzoni più note proprio di Dave Van Ronk, intorno alla cui figura è incentrata tutta le vicenda. Il primo brano di Dylan della serata Tomorrow Is A Long Time è affidato alla voce ed alla chitarra di Keb’ Mo’, a seguire, in una delle sue rarissime apparizioni live, uno dei vecchi amici di Bob, quel Bob Neuwirth tra gli interpreti principali di Renaldo & Clara, qui alla prese con un piccolo classico di Utah Phillips, Rock Salt And Nails, che molti ricordano nella versione di Steve Young, la voce è molto “vissuta”, ma la versione è decisamente bella.

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Per eseguire un altro dei classici della canzone folk delle isole britanniche Auld Triangle (anche questa presente nella soundtrack del film), molto irish (anche se tra l’ilarità del pubblico, precisano che nessuno di loro è irlandese), si presenta Marcus Mumford con tutti i Punch Brothers, in versione rigorosamente accappella, solo voci https://www.youtube.com/watch?v=9vi14x4nCpQ ; formato che prosegue anche nella successiva Didn’t Leave Nobody But The Baby, cantata dal trio Gillian Welch, Rhiannon Giddens, Carey Mulligan. Nell’ultima parte del concerto altra accoppiata inconsueta per uno dei brani più celebri del repertorio di Pete Seeger, Which Side Are You On, cantata con passione dalla strana coppia Elvis Costello e Joan Baez, con un congruo e sostanzioso accompagnamento strumentale guidato dal mandolino di Chris Thile. Baez che rimane ancora per la ripresa di un ennesimo super classico come The House Of The Rising Sun, che tutti ricordiamo per la versione meravigliosa degli Animals, ma che è sempre stata nel repertorio di tutti i grandi folksingers, da Dylan in giù, la voce non difetta certo alla nostra amica Giovanna, come dimostra in un altro bel duetto con il “giovane” Marcus Mumford, alle prese con un enesimo traditional come Give Me Conbread When I’m Hungry. Gli ultimi tre brani sono affidati proprio al leader dei Mumford And Sons, e non a caso sono tutti e tre di Bob Dylan: la prima è I Was Young When I Left Home, cantata benissimo da Marcus, che si conferma un ottimo talento, a dispetto dei tanti detrattori che si sono manifestati dopo l’enorme successo planetario e transgenerazionale (secondo l’assioma che se vende, fa musica commerciale e quindi risaputa). Fare Thee Well, cantata con Oscar Isaac, è il brano tradizionale a cui Dylan si è ispirato per scrivere proprio Farewell, la canzone che chiude il film (nella versione di Bob Dylan), mentre in questa serata speciale Mumford è accompagnato ancora una volta dai Punch Brothers https://www.youtube.com/watch?v=QyVo_AT-DYM , veri co-protagonisti del concerto. Scusate se mi sono dilungato un po’, ma il disco vale assolutamente tutti i complimenti utilizzati.

Domani ripartiamo proprio da Bob Dylan, quello nuovo, e non aggiungo altro.

Bruno Conti

Cantautore O Produttore? Joe Henry – Invisible Hour

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Joe Henry – Invisible Hour – Work Song/ Ear Music/Edel Records

Lo ammetto, sono un “fan” di lunga data di Joe Henry (cognato di Madonna, ha sposato la sorella Michelle, ma non è una colpa), dai tempi dell’esordio con Talk Of Heaven (86), e l’ho seguito negli anni, mentre uscivano Murder Of Crows (con Mick Taylor e Chuck Leavell) (89), lo splendido ma poco considerato Shuffletown (90) (andatevi a risentire la traccia iniziale Helena By The Avenue https://www.youtube.com/watch?v=l2nDnE4LQS8 ),  e poi ancora Short Man’s Room (92) accompagnato dai Jayhwaks, e Kindness Of The World (93), i due lavori più influenzati dal suono americana, la trilogia Trampoline (96), Fuse (99) e Scar (01); poi Joe ha firmato per la Anti Records e le cose sono cambiate, con un disco dal suono molto personale come il geniale Tiny Voices (03), e le raffinate incisioni dell’ultimo periodo con Civilians (07) con Bill Frisell e  Van Dyke Parks, Blood From The Stars (09), e infine le sfumature blues di Reverie (11). Nel contempo Joseph Lee Henry (il suo vero nome) ha imparato a fare il produttore iniziando con Bruce Cockburn (insieme a T-Bone Burnett), Teddy Thompson (figlio di Richard & Linda) , proseguendo con Solomon Burke (con cui ha vinto un grammy nel 2003), Ani DiFranco, Bonnie Raitt, Bettye Lavette, il suo amico Loudon Wainwright III e ultimamente, con uno dei miei gruppi preferiti, gli Over The Rhine, e  mille altri (anche Lisa Hannigan, che troviamo sotto, tra i collaboratori di questo album)…

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Mi viene da pensare che l’occasione di stare a contatto con musicisti di diverso genere ed estrazione musicale gli ha fatto certamente bene, lo ha stimolato ad apprendere tutte le mille sfumature che la musica offre, e ora tutto quello che ha appreso si certifica in questo nuovo Invisible Hour (che esce in questi giorni) uno dei suoi dischi migliori in assoluto, un lavoro intenso e maturo, musicalmente ineccepibile, curato sia negli arrangiamenti che nella stesura delle canzoni.  Registrato in una settimana nel suo studio di Pasadena, Joe come sempre si avvale di musicisti di grande qualità, tra i quali ricordiamo Greg Leisz e John Smith alle chitarre, David Piltch o Jennifer Condos al basso, Jay Bellerose alla batteria, il figlio Levon ai fiati, e tra gli ospiti la brava Lisa Hannigan (cantante e musicista irlandese, a sua volta, già collaboratrice di Damien Rice) e i Milk Carton Kids alle armonie vocali, e direi anche non trascurabile l’apporto del noto romanziere Colum McCann per la stesura dei testi.

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Pur non essendo un “concept album”, le canzoni di Invisible Hour girano attorno al concetto del matrimonio, come ha ricordato in alcune interviste lo stesso Henry, a partire dal trittico iniziale, con la magnifica Sparrow https://www.youtube.com/watch?v=f5nAIX1aM6w , Grave Angels https://www.youtube.com/watch?v=XSneRuPlN3I  e i nove minuti di una Sign dove è la voce di Joe a farla da padrona (tra Van Morrison e il miglior Dirk Hamilton), dialogando con il suono minimale degli strumenti https://www.youtube.com/watch?v=cRp1w8Zqr4g . Un tocco dolce di chitarra introduce la title track, Invisible Hour, composizione intensa e struggente https://www.youtube.com/watch?v=MTl25EQ9Zls , per poi passare alle trame più ricche e complesse di Swayed  e ai suoni quasi gospel di Plainspeak, con largo uso del sax da parte del figlio Levon, mentre nell’ottima Lead Me On troviamo Lisa Hannigan al controcanto.

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Lo spirito di Tom Waits aleggia nell’acustica Alice, mentre il ritmo si innalza con Every Sorrow, la canzone più “roots” dell’album, andando poi a chiudere con Water Between Us, una solida ballata melodica, introdotta dalle note del piano e accompagnata nello sviluppo da sax e clarinetto (ha tutte le qualità per entrare nel novero delle sue canzoni più belle), e nella conclusiva, lunga e intensa Slide, una di quelle composizioni che rimangono impresse nella memoria per lungo tempo.

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Anche se il suo “status” attuale di produttore supera quello dell’autore e cantante (ma non per chi scrive), Henry non rinuncia a pubblicare dischi, e dopo una lunga e importante carriera quasi trentennale https://www.youtube.com/watch?v=567GTsSgNtw , esce con questo lavoro raffinato e delicato, percorso da avvolgenti trame, acustiche e non, supportate dalla sua abituale voce calda e sinuosa, rendendo l’ascolto un esercizio di gusto e delicatezza. Per i pochi che ancora non lo conoscono, Joe Henry è un amante della musica, di quella vera, e Invisible Hour conferma la sua bravura di musicista e produttore, e quindi di essere ampiamente in grado di portare avanti entrambe le professioni. Tra i dischi dell’anno!

Tino Montanari

Novità Di Aprile Parte Ib. Leisure Society, Rilo Kiley, Crystal Bowersox, Webb Sisters, Milk Carton Kids, Evie Sands

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Ecco gli altri titoli “interessanti” in uscita il 2 aprile: le date sono quelle “ufficiali”, poi non sempre vengono rispettate, alcune volte escono prima, altre dopo, usatele a livello indicativo, visto che si tratta di materiale che esce in giro per il mondo. Anche le date dei Post non sono assolute, alcune volte li preparo prima e poi li pubblico anche in base alle “creazioni” dei collaboratori (oggi è già andato in rete Stephen Stills). In ogni caso partiamo con il primo terzetto.

Leisure Society sono una interessante band britannica, già nominata all’Ivor Novello, un premio della critica inglese, questo Alone Aboard The Ark è il loro terzo album, esce per la Full Time Hobby, è stato registrato negli studi Konk di proprietà di Ray Davies dei Kinks, e qualche similitudine con la band inglese nel loro periodo pop più raffinato c’è, insieme a un certo baroque sound, al sound del giro Mumford And Sons (a cui sono stati accostati anche perché hanno fatto un tour delle cattedrali con Laura Marling). Si citano pure Belle And Sebastian e Decemberists (tutta musica buona quindi) e nel 2009 erano stati cooptati dalla rivista Mojo per una delle loro compilations esclusive, registrando Something dei Beatles. Fiati e una elettronica umana convivono con il loro pop tipicamente british ed elementi più acustici, mi sembrano interessanti e bravi, date un piccolo ascolto.

I Rilo Kiley a livello discografico non danno segni di vita dal 2007, e anche la loro frontwoman Jenny Lewis non pubblica nulla dal 2010, anno di Jenny & Johnny, salvo una breve apparizione quest’anno nel disco dei surf punk-rocker Wavves dove canta i coretti nella title-track di Afraid Of Heights. Quindi immaginate la mia sorpresa quando ho visto annunciato un nuovo disco del gruppo, Rkives, per una piccola etichetta di proprietà del bassista, la Little Record Company. Vi confesso che non avevo afferrato subito il titolo del CD, Ar-chives, quindi “Archivi”, si tratta di una compilation di materiale raro ed inedito, meglio di niente, comunque:

01 Let Me Back In *
02 It’ll Get You There *
03 Runnin’ Around *
04 All the Drugs *
05 Bury, Bury, Bury Another *
06 Well, You Left *
07 Draggin’ Around
08 I Remember You
09 Dejalo (Zondo remix ft. Too $hort)
10 A Town Called Luckey
11 Emotional
12 American Wife
13 Patiently
14 Rest of My Life (demo) *
15 About the Moon
16 The Frug

* previously unreleased

A proposito di gentili donzelle, Crystal Bowersox nel 2010 si è piazzata al secondo posto nel talent show American idol, e in questo blog non sarebbe una nota di merito. La Jive del gruppo Sony/BMG/Rca lo stesso anno ha pubblicato il suo debutto Farmer’s Daughter, che pur non avendo un sound memorabile lasciava intravedere delle possibilità soprattutto in una interessante cover di For What’s Is Worth dei Buffalo Springfield di Stephen Stills. E tutto poteva finire lì. Invece sul finire del 2012, dopo essere stata mollata dalla Sony (quindi tutto come al solito), è stata messa sotto contratto dalla Shanachie che l’ha affidata al produttore Steve Berlin (proprio quello dei Los Lobos, non un omonimo) e il nuovo disco, che contiene anche un duetto con Jakob Dylan, Stitches, si chiama All That For This ed è uscito la scorsa settimana negli Stati Uniti. E non è per niente male, c’è anche Joel Guzman alla fisarmonica, lei ha una bella voce, senza usare eufemismi, non per fulla è stata scelta per rappresentare Patsy Cline in una prossima commedia musicale a Broadway. Una piacevole sorpresa degna di essere investigata, nel secondo video guardate bene nella descrizione.

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Altre voci femminili ed una interessante uscita di un nuovo gruppo.

Le Webb Sisters, Webb & Hattie, sono le due fedeli coriste (con Sharon Robinson), che da cinque anni a questa parte accompagnano Mastro Leonardo in giro per il mondo. Dal 2006 a oggi hanno anche trovato il tempo per pubblicare due album a nome loro (oltre ad uno pubblicato nel lontano 2000 in quel di Nashville) oltre ad alcuni EP, l’ultimo dei quali, esce proprio in questi giorni. Si intitola When Will You Come Home, su etichetta Proper Records, e contiene ben due diverse versioni di Show Me The Place (una con orchestra) di Mister Leonard Cohen, tratte da Old Ideas e che dal vivo è uno dei momenti in cui il grande canadese lascia loro “ampio” spazio.

Il dischetto è molto piacevole, costa molto poco e contiene anche una bella cover di Always On My Mind reso celebre prima da Elvis Presley e poi da Willie Nelson (e anche dai Pet Shop Boys). Ci sono anche due brani nuovi che non erano sul disco del 2011 Savages: Missing Person e la profetica It May Be Spring But I Still Need A Coat.

Any Way That You Want Me di Evie Sands non è proprio nuovo, la Rev-ola lo aveva già pubblicato in CD nel 2005 (ma ora è di nuovo disponibile) e il disco all’origine uscì nel lontano 1969. Questa signora è quella che ha registrato le prime versioni di Take Me For A Little While, I Can’t Let Go, Angel Of The Morning, Any Way That You Want, gli originali sono tutti suoi, anche se poi sono diventate famose nelle versioni di Dusty Springfield, Hollies, Troggs, Juice Newton e tanti altri. Se vi piacciono appunto la Springfield o la prima Laura Nyro, ma anche Linda Ronstadt o Karen Carpenter che hanno inciso i suoi brani qui c’è trippa per gatti. Nel disco in questione ci sono Any Way… e Take me for a little while, oltre a belle versioni di Carolina On My Mind di James Taylor, anni prima che diventasse un successo, Maybe Tomorrow, Until It’s Time For You To Go di Buffy Sainte-Marie e tanti brani firmati da Chip Taylor (di cui, in un certo senso, è stata la musa) e Al Gorgoni che erano anche i produttori del tutto. E nel disco suona anche gente come Eddie Hinton e Paul Griffin, il pianista dei primi dischi di Dionne Warwick (ma ha suonato anche con Dylan). Se amate il genere cantanti e autrici (scrive anche lei qualche brano) sconosciute, ma brave, potreste avere una bella sorpresa.

A proposito di anni a cavallo tra i ’60 e i ’70 i Milk Carton Kids sono stati presentati come i figli illegittimi di Simon & Garfunkel e degli Everly Brothers. E un grosso fondo di verità c’è, non si può negare, si sente, ma in The Ash And Clay, che esce in questi giorni per la Epitaph/Anti,  c’è anche altro. Duo folk, quindi i nomi son quelli, non ci sarebbe nulla di male, fossero così bravi. Altri hanno scomodato, per il tipo di suono, anche Gillian Welch e David Rawlings, senza dimenticare un signore semisconosciuto ma bravissimo come Joe Purdy, con cui hanno condiviso il palco e del quale sono stati la backing band nel tour dove presentavano l’album precedente, Prologue del 2011. Hanno suonato dal vivo anche con Old Crow Medicine Show e Lumineers, insomma il filone si è capito, quel new folk con mille sfaccettature, ma una per loro con una patina tipicamente acustica. Uno dei loro fans è Joe Henry che ha scritto le note del libretto. Per gradire un paio di brani.

Di altri dischi, appena trovo il tempo, vorrei occuparmi nello specifico, ad esempio, Poco, Hiss Golden Messenger, Last Bison, JJ Grey & Mofro. Dico i nomi, così mi prendo l’impegno. E Marco Verdi si occuperà dell’ultimo dei nuovi Dylan, Thom Chacon, mentre a Tino Montanari tocca il nuovo Elliott Murphy. Ebbene sì, sono uno schiavista!

Alla prossima.

Bruno Conti