Era Già Bellissimo, Ora Lo E’ Ancor Di Più! Willie Nelson – Teatro

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Willie Nelson – Teatro – Light In The Attic/Universal CD/DVD

Il 2017 è stato un bell’anno per i fans di Willie Nelson, dato che hanno potuto godere dell’ottimo God’s Problem Child, uscito ad Aprile, del recente Willie & The Boys, ed ora della ristampa potenziata dello splendido album del 1998, Teatro (che quindi “festeggia” i 19 anni, ma che anniversario è?), all’unanimità uno dei lavori più belli della carriera del texano. Per il sottoscritto questo disco potrebbe addirittura rientrare nella Top 3 di Willie, insieme a Red Headed Stranger e Across The Borderline, ma rispetto a questi due titoli, che propongono il classico suono del nostro, Teatro è un episodio particolare ed unico nel suo genere. Infatti l’album vide l’incontro tra Nelson ed il grande produttore Daniel Lanois, un connubio difficile da immaginare negli anni ottanta, allorquando il canadese era dietro ai dischi di U2 e Peter Gabriel, oltre ad essere impegnato a rilanciare la carriera di Bob Dylan con Oh, Mercy! (operazione ripetuta nel 1997 con Time Out Of Mind), ma non così strano in quel periodo, dato che Lanois veniva dalla riuscita esperienza con Emmylou Harris, il cui bellissimo Wrecking Ball aveva riportato la cantante dai capelli d’argento agli onori della cronaca.

E Teatro, inciso in un vecchio cinema di Oxnard in California (lo stesso nel quale Neil Young ha registrato The Monsanto Years), è un disco splendido ancora oggi, con lo stile tipico di Willie che si sposa alla perfezione con le atmosfere rarefatte di Lanois, grazie anche ad una serie di musicisti da sogno: oltre agli habitué nei dischi di Nelson (la sorella Bobbie, l’armonicista Mickey Raphael), abbiamo lo stesso Lanois al basso e alle chitarre, Cyril Neville alle percussioni (strumento fondamentale nell’economia del suono del produttore canadese),Jeffrey Green, Victor Indrizzo Tony Mangurian alla batteria,Tony Hall al basso, Malcolm Burn all’organo, Brian Griffiths alla chitarra, slide e mandolino, il noto pianista jazz Brad Meldhau anche al vibrafono e, dulcis in fundo, la stessa Emmylou Harris alla seconda voce praticamente in tutti i brani (dieci su quattordici), una partecipazione talmente importante al punto che anche in copertina troviamo una foto della cantante. L’album è incentrato più che altro su vecchi classici di Willie, alcuni molto noti ed altri meno (ci sono solo tre canzoni nuove, più tre cover), che vengono completamente rivoluzionati dai nuovi arrangiamenti: la presenza di Lanois è inoltre di ulteriore stimolo per il nostro, che si trova a suonare la chitarra ancora meglio del solito, donando un feeling messicano a molte canzoni, che contrasta con il mood quasi jazzato della sezione ritmica e del pianoforte, al punto che sarebbe parecchio riduttivo definire country questo disco, talmente tante sono le sfaccettature del suono.

Il capolavoro dell’album è sicuramente The Maker, cover di un brano di Lanois tratto dal suo primo disco come solista, Acadie, una canzone straordinaria, impreziosita da un arrangiamento caldo, vibrante, decisamente musicale e cantata alla perfezione da Willie: anche meglio dell’originale di Daniel. Di alto livello anche lo strumentale che apre l’album, Ou Est-Tu, Mon Amour? (dal repertorio di Django Reinhardt), solo Willie alla chitarra e Bobbie al vibrafono, ma dall’intensità incredibile, o la classica I Never Cared For You, che da brano western diventa quasi una bossa nova, o Everywhere I Go, dall’intro rarefatto e tipico di Lanois, ma che Willie riesce a far sua non appena apre bocca (questa sì degna di stare in un western moderno), o ancora la struggente My Own Peculiar Way, che Nelson negli anni ha inciso più volte ma mai con questa intensità, centellinando ogni nota ed ogni parola. Ma poi ci sono anche la vivace These Lonely Nights, quasi caraibica, l’intensa Home Motel, solo voce e piano (Meldhau), classe pura, la strepitosa I’ve Just Destroyed The World, un honky-tonk che il “trattamento Lanois” rende ancora più scintillante, e l’emozionante Somebody Pick Up My Pieces, con Emmylou protagonista alla pari di Willie.

In questa nuova ristampa deluxe, oltre ad una nuova intervista a Nelson e Lanois inclusa nel booklet ed un DVD allegato con il film-concerto live in studio uscito all’epoca e diretto da Wim Wenders (che non ho ancora visto), abbiamo sette canzoni inedite tratte dalle stesse sessions: il bellissimo valzer lento It Should Be Easier Now, la saltellante One Step Beyond, molto bella (perché era stata esclusa all’epoca?), la dolce Send Me The Pillow You Dream On (di Hank Locklin, Willie l’ha ripresa anche sul recentissimo Willie & The Boys), o la superba Have I Told You Lately That I Love You (non è quella di Van Morrison, bensì di Scott Wiseman), malinconica ma tra le più belle del CD. Per finire con il classico di Rodney Crowell ‘Til I Gain Control Again, la toccante Lonely Little Mansion e la tonica Things To Remember, in bilico tra jazz e musica d’autore.

Ricordo che nel 1998 avevo votato Teatro come disco dell’anno, ed anche a distanza di quasi vent’anni non posso che confermare la mia scelta.

Marco Verdi

Doppio Omaggio Ad Uno Dei Più Grandi Songwriters! Parte 2: Il Concerto-Tributo. Various Artists – The Life And Songs Of Kris Kristofferson

life and songs of kris kristofferson

Various Artists – The Life And Songs Of Kris Kristofferson – Blackbird CD – 2CD/DVD

Ecco la seconda parte del mio personale omaggio al grande Kris Kristofferson, dopo il post dedicato alla serata al Bottom Line del 1994 con Lou Reed: quello di cui parlo oggi è un vero e proprio tributo, un concerto tenutosi alla Bridgestone Arena di Nashville nel Marzo del 2016, durante il quale una nutrita serie di artisti perlopiù country ha omaggiato la figura del cantautore texano (ed i suoi 80 anni) attraverso alcune tra le sue più belle canzoni, un omaggio ad alto livello sia per la qualità dei brani (ovviamente), che per le varie performance. E’ dunque da poco uscito un resoconto della serata, The Life And Songs Of Kris Kristofferson, sia su singolo CD che su doppio dischetto con DVD aggiunto: la mia recensione si basa sul supporto singolo, che propone 14 dei 21 brani totali (lo show completo è sul doppio): mi piacerebbe poter dire che è stata una mia scelta, ma in realtà sono rimasto in un certo senso “fregato” dal fatto che non fosse chiarissimo che la parte senza il DVD fosse su un solo CD e con il concerto incompleto: per fortuna che le performance che fanno la differenza ci sono tutte, anche se tra le assenze ci sono l’apertura della serata a cura di Buddy Miller, l’apparizione di Jessi Colter ed il duetto tra Emmylou Harris e Rodney Crowell.

Tracklist
[CD1]
1. Please Don’t Tell Me How The Story Ends – Buddy Miller
2. Kristofferson – Jessi Alexander, Jon Randall & Larry Gatlin
3. Here Comes That Rainbow Again – Martina McBride
4. The Taker – Ryan Bingham
5. The Captive – Jessi Colter
6. Nobody Wins – Lee Ann Womack
7. Jesus Was A Capricorn (Owed To John Prine) – Jack Ingram
8. Worth Fighting For – Jennifer Nettles
9. Loving Her Was Easier (Than Anything I’ll Ever Do Again) – Rosanne Cash
10. Chase The Feeling – Emmylou Harris & Rodney Crowell
11. The Pilgrim, Chapter 33 – Emmylou Harris & Kris Kristofferson

[CD2]
1. From The Bottle To The Bottom – Dierks Bentley & The Travelin’ McCourys
2. Help Me Make It Through The Night – Lady Antebellum
3. Under The Gun – Darius Rucker
4. For The Good Times – Jamey Johnson & Alison Krauss
5. Casey’s Last Ride – Alison Krauss
6. If You Don’t Like Hank Williams – Hank Williams Jr.
7. To Beat The Devil – Eric Church
8. Me And Bobby McGee – Reba McEntire
9. Sunday Mornin’ Comin’ Down – Willie Nelson & Kris Kristofferson
10. Encore: Why Me – Kris Kristofferson & Full Ensemble

Ma anche questa versione “monca” ha il suo perché, dato che i vari interpreti sono tutti in forma e rispettosi della figura di Kris, e poi le canzoni sono già strepitose di loro, e quindi non ci vuole molto di più per fare un gran bel disco. La house band è quella che ultimamente viene usata spesso per questo genere di tributi: il già citato Buddy Miller alla chitarra (doppiato da Audley Freed), Fred Eltringham alla batteria, Matt Rollings al piano e fisarmonica, Mickey Raphael all’armonica, Greg Leisz alla steel e mandolino e Don Was al basso e direzione musicale, oltre alle McCrary Sisters ai cori. Una band da sogno che si fa sentire subito con una solida Here Comes That Rainbow Again, cantata in maniera emozionante dalla brava Martina McBride e suonata alla grande (con Rollings in grande evidenza), e poi la canzone è splendida. Ryan Bingham non lo scopriamo certo oggi, e la sua The Taker è giusto a metà tra country e rock, in puro stile outlaw: voce roca, ritmo spedito e chitarre in palla; Jennifer Nettles non è forse famosissima, ma ha una gran voce, molto soulful e quasi nera (mentre lei è in realtà biondissima), e Worth Fighting For le si adatta alla perfezione, con le tre McCrary che “controcantano” alla loro maniera, con un leggero tocco gospel. Loving Her Was Easier è tra le canzoni più belle del songbook di Kris, e sono contento che l’abbia presa Rosanne Cash, sempre più brava ogni anno che passa: versione toccante, fluida, in una parola bellissima (e poi mi piace questa cosa che gli americani non cambiano le parole delle canzoni dal maschile al femminile e viceversa a seconda se a cantarla è un uomo o una donna).

Kristofferson sale sul palco una prima volta insieme ad Emmylou Harris, un duetto favoloso con la splendida The Pilgrim: Chapter 33, una delle mie preferite in assoluto (pare ispirata dalla figura di Bob Dylan), con Kris che sprizza carisma appena apre bocca, mentre Dierks Bentley ha la sfortuna di arrivare dopo il padrone di casa, ma se la cava molto bene con una vibrante From The Bottle To The Bottom, che i Travelin’ McCourys colorano di bluegrass. Quando ho visto che la mitica Help Me Make It Through The Night era stata affidata ai Lady Antebellum, tragico gruppo di pop travestito da country, ho avuto un brivido di paura, ma per la serata i tre fanno le persone serie e ripropongono il classico brano in maniera languida e romantica, anche se avrei comunque preferito una interpretazione più energica da parte di chiunque altro, mentre l’ex frontman degli Hootie & The Blowfish, Darius Rucker (da tempo reinventatosi come artista country), rilascia una tonica e roccata Under The Gun, che Kris aveva scritto con Guy Clark, prima di cedere il palco alla strana coppia Alison Krauss/Jamey Johnson, gentilezza e rudezza in un colpo solo, che però si intendono alla grande con la suadente For The Good Times, riproposta con classe e più nei territori della bionda Alison che in quelli del barbuto Jamey.

Hank Williams Jr. è un altro che quando vuole sa il fatto suo, e stasera è nel suo ambiente naturale con la ruvida e coinvolgente If You Don’t Like Hank Williams, da anni nel suo repertorio; Eric Church è ormai un prezzemolo in questo genere di tributi, ma la sua To Beat The Devil è ben fatta e non priva di feeling. Per Reba McEntire vale il discorso fatto per gli Antebellum, io non l’avrei invitata (troppo annacquata di solito la sua proposta musicale), ma lei non è certo una stupida e ha dalla sua una certa esperienza: la leggendaria Me And Bobby McGee, forse la canzone simbolo di Kris, ne esce dunque alla grandissima, probabilmente una delle migliori dello show, con un arrangiamento addirittura rock’n’roll (e Reba ha comunque una gran voce). E’ l’ora del gran finale, con Kris che ritorna stavolta insieme a Willie Nelson, un duetto tra due leggende sulle note della mitica Sunday Morning Coming Down (peccato non abbiano fatto anche Highwayman, magari con Hank Jr. e Johnson al posto di Johnny Cash e Waylon Jennings), e poi tutti insieme sul palco con la magnifica Why Me, con il “festeggiato” che ha una presenza vocale ancora notevole nonostante l’età.

Un tributo da avere quindi (magari nella versione con DVD), ed ennesimo gran bel disco dal vivo di questo ricco 2016.

Marco Verdi

Due Ottimi Lavori Nel Segno Del Padre Della Musica Country. Doug Seegers – Sings Hank Williams/Willie Nelson – Willie’s Stash Vol. 2: Willie & The Boys

doug seegers sings hank williams

Doug Seegers – Sings Hank Williams – Capitol CD

Willie Nelson – Willie’s Stash Vol. 2: Willie & The Boys – Legacy/Sony CD

Credo che non ci sia bisogno di ricordare chi fosse Hank Williams, “inventore” della moderna country music e sicuramente nella Top 10 dei personaggi più influenti della musica popolare del secolo scorso, una figura che ancora oggi è considerata di fondamentale importanza nonostante la sua scomparsa prematura all’età di 29 anni. E’ indicativo il fatto che nel 2017 Williams venga ancora omaggiato da artisti più o meno famosi, ed oggi mi occupo di due di loro: il primo è un tributo in tutto e per tutto (fin dal titolo), mentre il secondo se proprio non nelle intenzioni lo è nei fatti, essendo ben 7 brani su 12 presi dal songbook del grande Hank. Quella di Doug Seegers è una delle più belle storie a lieto fine della nostra musica: musicista di strada che faceva una vita da homeless a Nashville, è stato scoperto alla tenera età di 60 anni dalla nota (in patria) cantante svedese Jill Johnson nell’ambito di un programma TV da lei condotto che si prefiggeva di esplorare il mondo nascosto della capitale del country americano.

Per farla breve, oggi Doug è definitivamente uscito dall’anonimato (in Svezia è una star), grazie a tre pregevoli album, di cui uno in duo con la Johnson, di ottima musica country classica, nei quali il nostro si è dimostrato anche un dotato songwriter: il suo disco dello scorso anno, l’ottimo Walking On The Edge Of The World, è finito anche su questo blog http://discoclub.myblog.it/2016/11/20/dalle-strade-nashville-agli-studi-capitol-il-passo-breve-doug-seegers-walking-on-the-edge-of-the-world/ . Oggi Doug decide di mettere da parte per un attimo le sue canzoni ed omaggia la figura di Williams, che sicuramente ha esercitato anche su di lui un’influenza determinante: Sings Hank Williams è un bel dischetto di country music eseguita nel modo più tradizionale possibile, un sound davvero d’altri tempi, molto meno elettrico di quando Doug canta le sue canzoni, ma con la purezza del suono odierna. Il disco è stato inciso in Svezia con musicisti locali (basta leggere i nomi: Erik Janson, che è anche il produttore, Martin Bjorklund, Simon Wilhelmsson, Carl Flemsten), con l’aggiunta di una vera leggenda come lo steel guitarist Al Perkins. E poi c’è Seegers, che conosce queste canzoni a menadito (chissà quante volte le ha cantate per le strade di Nashville) e ha la voce giusta per cantarle, sia che “yodelizzi” in Long Gone Lonesome Blues, sia che si lasci trasportare dalla ritmica honky-tonk della saltellante Hey Good Lookin’, sia che affronti atmosfere western come nella leggendaria (e bellissima) Kaw-Liga. I titoli sono famosissimi, Doug non è andato a ricercare i cosiddetti “deep cuts”, cioè i pezzi più oscuri del songbook di Williams, ma è in un certo senso andato sul sicuro, sommando la sua bravura alla bellezza delle canzoni ed ottenendo un risultato quasi perfetto: la malinconica I’m So Lonesome I Could Cry, la splendida Cold Cold Heart, una delle più belle country songs di tutti i tempi, la mossa Settin’ The Woods On Fire o l’irresistibile Jambalaya (On The Bayou), solo per citarne alcune.

willie nelson willie's stash vol. 2

Willie & The Boys è invece il secondo capitolo della serie Willie’s Stash, nella quale il grande Willie Nelson si dedica alla pubblicazione dei suoi archivi: se il primo volume, December Day (2014) era accreditato al texano ed a sua sorella Bobbie, questo seguito è ancora un affare di famiglia, in quanto con Willie ci sono i figli Lukas e Micah, già noti per essere il primo il leader dei Promise Of The Real, gruppo che con anche Micah al suo interno è stato in ordine di tempo l’ultima backing band di Neil Young. Quando sono state incise queste canzoni, i due figli di Willie non erano però ancora famosi: stiamo parlando infatti di sessions avvenute nel 2011 e prodotte dall’ormai imprescindibile Buddy Cannon, e con musicisti del calibro di Bobby Terry, Jim “Moose” Brown, Mike Johnson, oltre all’inseparabile armonicista Mickey Raphael. Non è certamente la prima volta che Willie interpreta canzoni di Hank Williams, ma non ne aveva mai messe così tante su un solo disco: ben 7 su 12 come ho detto prima, e la personalità del nostro è tale che riesce in pratica a farle sembrare quasi scritte da lui. La particolarità del disco è data dal fatto che Lukas e Micah non si limitano ad accompagnare il padre, ma duettano in tutti i pezzi anche vocalmente, dando loro ulteriore linfa, anche se è indubbio che la temperatura sale di più quando al microfono si avvicina Willie.

Ci sono tre brani in comune con l’album di Seegers (una swingatissima Mind Your Own Business, I’m So Lonesome I Could Cry, la sempre grande Cold Cold Heart) ed altri classici di Williams come la vivace e coinvolgente Move It On Over, che apre il CD, la mitica Your Cheatin’ Heart, la meno nota Mansion On The Hill e la strepitosa Why Don’t You Love Me. Ma c’è anche altro: Willie riprende anche un suo vecchio classico degli anni sessanta, Healing Hands Of Time (versione pura e cristallina), ed omaggia altri tre “Hanks”, e cioè Hank Cochran con la splendida Can I Sleep In Your Arms, una country song che più classica non si può, il meno noto Hank Locklin con il limpido honky-tonk Send Me The Pillow You Dream On, per finire con Hank Snow, del quale viene ripresa la notissima I’m Movin’ On con classe purissima. Per finire con la fluida My Tears Fall, unico pezzo ad essere stato inciso non nel 2011 ma nell’inverno del 2016 (e scritta dalla supermodella Alyssa Miller, fidanzata di Lukas, al quale vanno i miei complimenti, andate su Google a cercare le foto della ragazza e capirete) ed anche una gran bella canzone.

Due album simili ma diversi, e comunque entrambi da tenere in grande considerazione se amate la vera country music.

Marco Verdi

Ma Lo Sapete Che E’ Pure Brava?!? Carla Bruni – French Touch

carla bruni french touch

*NDB Una breve premessa del titolare del Blog: come dice Marco alla fine della recensione, il “personaggio” non gode delle simpatie musicali del sottoscritto (per il resto nulla da dire, anche se il suo appoggio, più volte espresso, per Cesare Battisti, non me la rende ancora più attraente anche sul lato umano). Comunque come diceva, non Voltaire, a cui è stata attribuita la frase, ma una delle sue biografe, tale Evelyn Beatrice Hall: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Oddio, magari proprio la vita no, ma una pagina del Blog sì, e aggiungo che non condivido quasi nulla di quanto detto nel Post anche sui contenuti musicali, ma concludo con una seconda citazione colta “de gustibus non disputandum est”, quindi buona lettura (ammetto di avere aggiunto un punto di domanda ed uno esclamativo al titolo).

Carla Bruni – Franch Touch – Verve/Universal CD – CD/DVD

Quel “pure” nel titolo del post è riferito al fatto che ci troviamo di fronte indiscutibilmente ad una delle donne più belle del mondo, e che per qualche anno, cioè quando l’attuale marito Nicolas Sarkozy era presidente della repubblica francese, anche delle più potenti. Carla Bruni (nata Bruni Tedeschi) era già famosissima prima di sposare l’ormai ex presidente transalpino, non tanto per la sua carriera di musicista, quanto per il fatto che è stata per anni una delle più importanti modelle in circolazione, ed anche in secondo luogo per aver frequentato di sfuggita il mondo del rock sotto forma di flirt amorosi, si dice, con Eric Clapton e Mick Jagger. Nel nostro paese non riscuote molte simpatie, più che altro per il fatto di aver preferito la nazionalità francese a quella italiana (è infatti originaria di Torino), ma chi lo dice forse non sa che Carla vive in Francia da quando ha sette anni, e quindi ha tutto il diritto di sentirsi appartenente al paese d’oltralpe (e, bisogna riconoscerlo, non ha mai rinnegato le sue radici italiche). Appassionata di musica, la Bruni ha esordito nel 2002 con Quelqu’Un M’A Dit, un album che ha avuto un buon successo, soprattutto nei paesi francofoni, anche se l’attenzione su di sé come cantante (anche del sottoscritto) l’ha attirata cinque anni dopo con No Promises, un bel disco in lingua inglese con una serie di adattamenti in musica di testi di vari poeti (Yeats, Emily Dickinson, ecc.) in uno stile pacato, raffinato e melodico che qua e là poteva ricordare anche Leonard Cohen.

Dopo altri due dischi meno interessanti ed ancora in lingua francese, Carla torna tra noi con questo French Touch, nel quale reinterpreta alcuni famosissimi brani contemporanei di stampo pop, country ed anche rock, ma arrangiando il tutto con uno stile ancora raffinato, quasi jazz, e decisamente piacevole. Quando ho visto che il produttore era David Foster ho avuto qualche brivido di paura, dato che stiamo parlando di uno che è abituato a lavorare con Celine Dion, Whitney Houston, Madonna, Mariah Carey ed anche i nostri Andrea Bocelli e Laura Pausini, quindi uno che di solito ha la mano pesante: in French Touch però è tutto il contrario, e riveste le canzoni con lo stretto necessario, una chitarra acustica, percussioni, pianoforte, fiati ed archi quanto basta, ed al centro la voce di Carla, che è uno strumento a sé. Infatti non stiamo parlando di una voce bella nel senso puro del termine, non è Janis JoplinLiza Minnelli né tantomeno Edith Piaf (per restare in Francia), a volte è più un sussurro che un canto vero e proprio, ma l’intonazione c’è e poi, cosa che a noi maschietti suscita scosse telluriche nelle parti intime, una bella dose di sensualità. Alcuni pezzi di French Touch sono stati incisi a Parigi con musicisti locali, ma altri ai Capitol Studios di Hollywood e con dentro vere e proprie icone come il grande Jim Keltner alla batteria e il formidabile chitarrista Dean Parks. L’album dura solo 34 minuti, ma c’è anche una versione con DVD allegato, con dentro un paio di videoclip ed alcune canzoni suonate in acustico durante uno special televisivo francese.

Apre il disco Enjoy The Silence, uno dei brani più noti dei Depeche Mode: la melodia è molto conosciuta, e qua l’attacco è dato da una chitarra acustica e da malinconici rintocchi di piano, poi entra la voce sexy di Carla ed il resto della band che avvolge il brano in maniera emozionante, con archi non invadenti ed un breve assolo di slide. Un ottimo avvio. Jimmy Jazz è proprio quella dei Clash (nel booklet interno Carla spiega canzone per canzone le sue scelte), e qui l’arrangiamento la fa diventare un delizioso pop afterhours di classe, jazzato come da titolo e godibilissimo, con uno splendido pianoforte ed uno squisito intervento di fiati in puro stile dixieland. Love Letters (l’ha fatta anche Elvis) ricorda certe cose di Rickie Lee Jones quando vuole jazzare, altra bella versione, fluida e distesa, con una chitarrina che fa capolino ogni tanto; Miss You è la prima sorpresa, con la Bruni che spoglia il brano degli Stones del ritmo da discoteca lasciando intatta la melodia, e trasformandolo in una bossa nova davvero raffinatissima e con un feeling ispanico (*NDB Scusate se mi intrometto ancora, ma a proposito di voci femminili, Etta James ai tempi ne aveva fatta una versione leggerissamente migliore, a mio parere https://www.youtube.com/watch?v=ZMT4mwvAIWQ), mentre The Winner Takes It All, proprio il successo degli ABBA, è in versione rallentata, con la voce particolare di Carla in primo piano, una chitarra arpeggiata ed un violoncello, un pezzo che, spogliato delle frequenti sonorità pacchiane del quartetto svedese, risulta malinconico e struggente.

Crazy era già raffinata nella versione del suo autore Willie Nelson (o di Patsy Cline, che fu colei che la portò al successo), qui Carla la movimenta un pochino, ancora con un leggero tocco pop-jazz e, sorpresa sorpresa, compare anche Willie in persona a duettare con lei (portandosi dietro anche Mickey Raphael all’armonica), e la temperatura sale ulteriormente; che dire di Highway To Hell degli AC/DC ripresa in versione jazz-lounge, con il riff di chitarra di Angus Young sostituito da una sezione fiati? Un po’ spiazzante a dire il vero, e qui forse è l’unico caso in cui si sfiora l’effetto-parodia (vi ricordate i Big Daddy?). Ma Carla riprende subito in mano il gioco con la splendida Perfect Day di Lou Reed, rifatta come un valzerone francese, una situazione che si addice alla perfezione a Madame Sarkozy (anche se nel ritornello il brano riprende la sua forma conosciuta, e Carla canta benissimo). Sembra strano ma Stand By Your Man, uno dei brani country al femminile più famosi di sempre (immortale la versione di Tammy Wynette) è rifatta con buona aderenza all’originale, con tanto di piano honky-tonk e dobro: una delle più riuscite. Please Don’t Kiss Me era interpretata da Rita Hayworth nel film La Signora Di Shanghai, e la Bruni la rifà in maniera giustamente vintage, con una strumentazione simile a quella di Bob “Sinatra” Dylan; chiude il CD la famosissima Moon River, scritta da Johnny Mercer con Henry Mancini per il film Colazione Da Tiffany, un pezzo che hanno rifatto sia lo stesso Sinatra che Sarah Vaughan, ma Carla non si lascia intimorire e la rifà alla sua maniera, voce in primo piano e poco altro.

Sono perfettamente conscio del fatto che la figura di Carla Bruni  possa non godere delle simpatie del titolare di questo blog e dei suoi abituali lettori, ma credetemi se vi dico che nel trasporto con cui ho giudicato questo French Touch il mio indiscutibile debole per il fascino femminile c’entra fino ad un certo punto.

Marco Verdi

Con Babbo, Fratello, Zia e Cugine “Acquisite” Al Seguito, Non Male. Lukas Nelson And Promise Of The Real

lukas nelson & promise of the real

Lukas Nelson & Promise Of The Real – Lukas Nelson & Promise Of The Real –Fantasy/Concord//Universal

Lukas Nelson, non ce lo possiamo nascondere, è il figlio di Willie Nelson, uno dei sette, insieme all fratello Micah, il più giovane della discendenza. Il suo primo disco, sempre omonimo, era uscito nel 2010, a livello indipendente, poi ne hanno fatti uno per la Warner e un altro indie, e questo quindi è il quarto album: in mezzo i Promise Of The Real sono diventati la band di Neil Young, prima per il discreto (per il sottoscritto, http://discoclub.myblog.it/2015/06/24/ogm-grande-musica-neil-young-promise-of-the-real-the-monsanto-years/ a Marco era piaciuto) The Monsanto Years e poi per lo “strano” Live Earth http://discoclub.myblog.it/2016/06/26/nuovo-tipo-musica-ambient-neil-young-promise-of-the-real-earth/ .Si parlava anche di un ennesimo disco in coppia con il canadese (e infatti era uscito il video per un brano nuovo Children Of Destiny,  ma per ora non se ne è fatto nulla https://www.youtube.com/watch?v=4RKBUG9VLFU ), ma a sorpresa esce questo nuovo CD,: il fratello Micah Nelson è stato retrocesso ad ospite, al piano e banjo in un brano, mentre il resto della famiglia è presente tutta, babbo Willie con chitarra Trigger al seguito in Just Outside Of Austin, dove appare anche al piano la zia Bobbie Nelson. Volendo, come ospiti, ci sarebbero anche le “cuginette” acquisite Lucius (sentite nel recente disco di Roger Waters), presenti in cinque brani, e la “lontana cugina italiana” Lady Gaga, in due brani, dove non fa disastri, in uno indistinguibile, potrebbe cantare chiunque, anche Janis Joplin risorta, nell’altro Find Yourself, uno dei pezzi migliori del disco, persino brava.

La formazione è diventata un sestetto, aggiungendo un tastierista e un secondo chitarrista, alla steel: il genere? Bella domanda, direi che più che country, che è comunque presente, si potrebbe definire Americana, roots music, spesso con una propensione per il rock: se avete letto da qualche parte che ascoltando Lukas sembra di sentire il padre, non credeteci, per me è una balla colossale, sì, Lukas ha una voce piacevole, direi persino “adeguata”, ma non è un grande cantante come Willie. Ci sono almeno un paio di categorie di cantanti, quelli che hanno una bella voce e quelli con una voce “particolare”, come Bob Dylan o Lou Reed, ma questi scrivono canzoni sensazionali. Forse ce ne sarebbe anche una terza, quelli con voce normale e canzoni memorabili, direi che Lukas Nelson non rientra in nessuna delle tre: questo non vuol dire che non sia bravo o che l’album sia brutto, tutt’altro, il disco è buono e si ascolta con piacere, con qualche pezzo sopra la media. Citando alla rinfusa, la conclusiva If I Started Over, una sorta di valzerone country pianistico con uso di pedal steel, dove effettivamente all’inizio la voce di Lukas assomiglia in modo impressionante a quella del babbo, ma poi quando sale di tonalità la similitudine si spegne, anche se la canzone rimane bella e malinconica, come certe composizioni di Willie. L’aria di famiglia si respira anche nella citata Just Outside Of Austin, che parte come una sorta di Everybody’s Talkin’ Part II, o un pezzo della Nitty Gritty più dolce e melanconica, e poi nella seconda parte quando il ritmo si anima maggiormente, si respira aria di morbido country texano, ma anche di qualche perduto brano di Glen Campbell, con la chitarra di Willie a sostituire il vecchio amico.

L’iniziale Set Me Down On A Cloud è un cadenzato pezzo rock dove si apprezza l’ottimo lavoro della solista, e anche di tutta la band, con una nota di merito per le armonie quasi gospel delle Lucius, che danno un aria rock got soul alla canzone, provvista pure di una bella coda strumentale un po’ alla Young; Die Alone è un robusto ‘70’s rock, di nuovo con le Lucius in spolvero, organo e chitarra in vivaci call and response, ben cantato ed energico il giusto, mentre Fool Me Once è un ondeggiante honky-tonk, dalle parti di Jimmy Buffett, solare e molto piacevole, sempre con Jess Wolf e Holly Laessig (le Lucius) a spalleggiare la voce del leader, che si disbriga con classe anche alla solista. Carolina è uno dei due brani con Lady Gaga, che insieme alle Lucius canta le armonie vocali di questo leggero connubio tra honky-tonk e qualche deriva caraibica, piacevole ma niente di che; Runnin’ Shne è il pezzo dove appare il fratello Micah, una morbida ballata quasi alla James Taylor o alla John Denver nella parte iniziale, che poi si apre e si trasforma in una texan country song, con Find Yourself, l’altro pezzo con Lady Gaga, che è un potente blues-rock, cadenzato e chitarristico che ricorda nella sua andatura anche certi pezzi dei Pink Floyd quando la chitarra di David Gilmour è più presente, e l’intreccio di voce maschile e femminile è veramente trascinante, decisamente una bella canzone, con lunghi inserti strumentali, che si ripetono anche in Forget About Georgia, l’altro pezzo forte dell’album, un sontuoso mid-tempo, una sorta di “risposta” al Ray Charles di Georgia on My Mind (nel testo), serena ed avvolgente, di nuovo con le Lucius in bella evidenza, e dove appaiono ancora le influenze di Neil Young, soprattutto nella lunga coda strumentale. Non male anche Four Letter Word e High Times dove si vira verso un country-southern energico, quasi alla Billy Joe Shaver, tutto ritmo e chitarre, e quella specie di ninna-nanna  dolce e fischiettata Breath Of My Baby, dedicata alla prole, forse superflua ma gradevole.

Bruno Conti

Appena In Tempo. Anche Glen Campbell Ci Ha Lasciato: Se “Lungo Addio” Doveva Essere… Questo E’ Stato Uno Dei Migliori. Glen Campbell – Adios

glen campbell adios

Come forse avrete letto l’8 agosto anche Glen Campbell se ne è andato, aveva 81 anni e dopo una lunga battaglia con l’Alzheimer durata ben sei anni è morto a Nashville l’altro ieri. Prima di lasciarci ha fatto comunque in tempo a regalarci un ultimo album Adios, del quale a seguire mi sembra doveroso riproporre come omaggio alla sua arte la recensione pubblicata circa un mese, recensione che conteneva anche una breve cronistoria della sua carriera musicale.

Glen Campbell – Adios – 2 CD Deluxe Universal Music Enterprises

Una premessa doverosa, se conoscete le circostanze che hanno dato vita a questo disco: l’album è veramente bello, forse addirittura il migliore, o tra i migliori in assoluto, della carriera di Glen Campbell. Si diceva delle circostanze: all’inizio del 2011 al musicista di Billstown, Arkansas, viene diagnosticata una forma già sviluppata di Alzheimer (che forse era in corso da prima), ma in effetti già l’anno precedente Campbell aveva registrato un disco Ghost On The Canvas, poi pubblicato nell’agosto del 2011, che doveva essere il suo album di addio; a seguito della pubblicazione Glen si imbarca anche nel suo “Tour d’addio”, nel corso del quale viene annunciata pubblicamente la malattia, anche per giustificare le sue perdite di memoria o eventuali discorsi sconnessi sul palco, che sono tra i sintomi dell’Alzheimer. Nel 2013 poi esce See You There, un ulteriore disco con tracce vocali registrate durante le stesse sessions del 2009-2010 a cui è stata aggiunta una nuova base strumentale. Tra l’altro entrambi gli album erano piuttosto piacevoli e ben suonati e cantati; la malattia ha poi proseguito il suo corso e attualmente Campbell è in una clinica in quelle che paiono le fasi finali del suo male, ma, come poi ha rivelato la moglie Kim, dopo il tour di commiato, il cantante era entrato in studio ancora, tra il novembre del 2012 e il gennaio del 2013, per registrare l’album di cui stiamo parlando, il suo vero commiato, questo Adios, per chi non conoscesse Campbell, allegato al CD “nuovo”, c’è anche una raccolta di successi, con 16 brani non in ordine cronologico, che tracciano la storia di uno dei grandi della musica americana.

Chiamiamolo un “crooner country”, ma è stato anche un formidabile chitarrista, uno dei membri della “Wrecking Crew”, Beach Boys onorario (ha sostituito spesso Brian Wilson nei tour e ha suonato su Pet Sounds), con una serie impressionante di dischi di studio registrati nella sua carriera, questo è il n° 64 (neanche Johnny Cash o Dylan credo sono stati così prolifici, nel 1968 il suo anno d’oro sono usciti ben cinque album): nella raccolta troviamo gli splendidi brani scritti da Jimmy Webb, tra cui By The Time I Get To Phoenix, Wichita Lineman, Galveston, ma anche il suo più grande successo, Gentle On My Mind, la canzone di John Hartford, in una versione scevra di archi, per un brano che era il diretto antenato di Everybody’s Talkin’ (in cui Campbell aveva suonato la chitarra), e ancora True Grit, il tema di “Il Grinta”, il film di John Wayne, una Southern Nights di Allen Toussaint, che sembra un pezzo della Nitty Gritty o di Loggins & Messina, e anche cover dei Foo Fighters o di Jackson Browne, incise negli ultimi album, il tutto cantato con una voce splendida ed espressiva, calda ed avvolgente, e se ogni tanto gli arrangiamenti di archi sono forse eccessivi, erano comunque un segno dei tempi, le canzoni rimangono bellissime.

Per questo capitolo finale Glen Campbell, aiutato dal suo produttore abituale, l’ottimo cantante e musicista Carl Jackson, ha voluto incidere alcune cover di celebri brani che non aveva mai affrontato nella sua carriera (non è del tutto vero, ma lo vediamo tra un attimo): sono con lui i tre figli, oltre ad un manipolo di ottimi musicisti, tra cui spiccano Aubrey Haynie al violino e mandolino, Mike Johnson alla steel guitar, Catherine Marx al piano, oltre allo stesso Jackson alla chitarra acustica (visto che Campbell non riusciva più a suonarla) ed alcuni ospiti di nome. Il disco ha un suono eccellente, raramente o mai sopra le righe, Glen per essere all’epoca un 76enne malato ha ancora una voce quasi uguale a quella degli anni d’oro e le canzoni sono molto belle: dall’iniziale Everybody’s Talkin’, il tema dell’Uomo Da Marciapiede, di Harry Nilsson (ma scritta da Fred Neil), qui in una versione leggermente accelerata, che non diminuisce il fascino del pezzo, con il banjo della figlia di Glen, Ashley Campbell, in bella evidenza a sottolineare la matura e vissuta voce del babbo, ancora in grado di arditi falsetti.

Il primo brano scelto di Jimmy Webb è la delicata Just Like Always, una romantica ballata con uso di pedal steel, seguita dal duetto con Willie Nelson (poteva mancare?) Funny How Time Slips Away, più di 150 anni in due, ma che classe, non so chi canta meglio; Arkansas Farmboy è un pezzo di Carl Jackson, una specie di biografia della gioventù di Glen, a tempo di valzerone country, con una strumentazione acustica parca, ma ricca di dettagli sonori. Am I All Alone di Roger Miller viene prima presentata in un breve frammento dell’originale e poi nella nuova versione con Vince Gill alle armonie vocali, bellissima pure questa; It Won’t Bring Her Back, il secondo brano di Webb, ancora con una magnifica weeping steel è un’altra country tune di grande fascino, degna dei grandi balladeer americani, avvolgente e ad alto tasso emotivo, sempre con splendide armonie vocali della famiglia Campbell, sembra quasi un pezzo degli Eagles. E pure la versione di Don’t Think Twice, It’s Allright di Dylan è da applausi, ispirata da quella country di Jerry Reed, con dell’ottimo picking dei musicisti; She Tinks I Still Care in effetti l’aveva già incisa in un album del 1972, ma è un classico della country music, con decine di riletture fatte da grandi nomi (da George Jones in giù), talmente bello che una nuova versione, tra l’altro di ottima fattura, ci sta proprio bene.

Anche Postcards From Paris, sempre di Jimmy Webb, era già apparsa su See You There, ma questa nuova versione di una grande canzone, con i figli che intonano “I Wish You Were Here”. manda un groppo giù per la gola, sembra quasi una canzone di James Taylor e pure di quelle belle. Jerry Reed appare anche come autore, di un brano che è stato uno dei grandi successi di Johnny Cash (soprattutto in Europa) A Thing Called Love, altro pezzo dal fascino inalterato nel tempo, ancora con Campbell in pieno controllo vocale ed emotivo. Se deve essere Addio, l’ultimo pezzo di Jimmy Webb scelto, è proprio la title track Adios, una ballata di una bellezza struggente, cantata con grande trasporto da Glen Campbell che pone l’ultimo sigillo alla sua carriera e ci saluta con malinconia ma anche un senso di profonda serenità. Forse solo Warren Zevon con The Wind e la canzone Keep Me In Your Heart in particolare, aveva saputo salutare i suoi fans, conscio della fine imminente, con un testamento sonoro di tale fattura ed intensità. La versione doppia del CD è quasi d’obbligo.

Bruno Conti

Uno Splendido Omaggio Al Country Texano Anni Settanta. Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw

steve earle so you wanna be an outlaw

Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw – Warner CD – Deluxe CD/DVD

Dopo il piacevole ma piuttosto disimpegnato disco di duetti con Shawn Colvin di un anno fa http://discoclub.myblog.it/2016/06/21/buon-debutto-nuovo-duo-shawn-colvin-steve-earle-colvin-earle/ , torna Steve Earle con uno degli album più belli della sua ormai più che trentennale carriera. So You Wannabe An Outlaw è un CD di brani originali che, come lascia intuire il titolo, è anche un sentito tributo ad una certa musica country texana dei seventies, meglio conosciuta come Outlaw Music, che aveva i suoi massimi esponenti in Willie Nelson, Waylon Jennings e Billy Joe Shaver, un country robusto ed elettrico e non allineato con i precisi dettami commerciali di Nashville. Ma questo album è anche un omaggio di Steve alla sua gioventù, ed ai suoi primi passi come songwriter, quando venne preso dal grande Guy Clark sotto la sua ala protettiva (e Guy viene ricordato in una delle canzoni più intense del disco). Dal punto di vista sonoro So You Wanna Be An Outlaw è il lavoro più country di Earle da moltissimi anni a questa parte, se escludiamo il disco The Mountain inciso con la Del McCoury Band (che però era molto più legato ai suoni folk appalachiani), ed è forse il primo album a ricollegarsi direttamente ai due suoi fulminanti dischi d’esordio, Guitar Town ed Exit 0. Il suono è robusto, con Waylon come influenza principale, la produzione è dell’ormai inseparabile Richard Bennett, e la band che lo accompagna, oltre a qualche ospite che vedremo, sono i fedeli Dukes, che nella formazione attuale comprendono Chris Masterson alla chitarra solista, Eleanor Whitmore al violino e mandolino, Kelley Looney al basso, Brad Pemberton alla batteria, Ricky Ray Jackson alla steel e Chris Clark alle tastiere e fisarmonica.

E le canzoni di Steve sono, ripeto, tra le migliori che il nostro ha messo su CD da molti anni a questa parte, cosa ancora più significativa dal momento che il musicista texano d’adozione fa parte di quella ristretta schiera di artisti che non ha mai sbagliato un disco. L’album inizia benissimo con la title track, robusta country song che fa molto Waylon & Willie, in cui Earle fa la parte di Jennings e Willie Nelson fa…sé stesso, accompagnati dai Dukes in maniera energica con grande uso di steel e violino, ma anche di chitarre elettriche. Molto bella anche Lookin’ For A Woman, tempo cadenzato, melodia fluida e solare, voce del nostro leggermente arrochita e solito gran gioco di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=eaj4iv58s0E ; The Firebreak Line è un delizioso rockabilly elettrico, gran ritmo e Steve pimpante come non lo sentivo da anni, mentre News From Colorado è una delicata ballata di stampo acustico (scritta assieme all’ex moglie Allison Moorer), dominata dalla voce imperfetta ma vissuta del leader. La tonica If Mama Coulda Seen Me ha poco di country, in quanto è un rock’n’roll tra il Texas e gli Stones, anche se il motivo sembra davvero uscire dalla penna di Waylon, Fixin’ To Die non è il classico di Bukka White ma un brano originale dallo stesso titolo, ed anche qui la base è blues, ma ad alta gradazione rock, di sicuro il pezzo meno in linea con le atmosfere del disco, mentre This Is How It Ends è un duetto con Miranda Lambert (che è anche co-autrice del brano), una squisita country ballad dal ritmo spedito e melodia cristallina, tra le più belle del CD.

The Girl On The Mountain, ancora lenta ed intensa, e con violino e steel più languidi che mai, precede due scintillanti honky-tonk, You Broke My Heart (con Cody Braun dei Reckless Kelly al violino) e la più elettrica Walkin’ In L.A., nella quale partecipa il leggendario countryman texano Johnny Bush con il suo vocione, due pezzi decisamente riusciti e godibili, che verrebbero approvati anche da uno come Dwight Yoakam. Il country elettrico di Sunset Highway, il più vicino come suono ai primi due album di Steve, ed il toccante e sentito omaggio a Guy Clark di Goodbye Michelangelo, chiudono positivamente il CD “normale”: sì, perché esiste anche una versione deluxe che, oltre ad un DVD aggiunto (con dentro il making of, il videoclip della title track ed un commento canzone per canzone da parte di Steve), presenta quattro brani in più, quattro cover scelte appunto nel repertorio dei tre più famosi Outlaws citati prima, ovvero Waylon, Willie e Shaver. Di quest’ultimo Steve propone Ain’t No God In Mexico, mentre di Nelson vengono scelte le poco note Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint (unite in medley), e l’altrettanto oscura Local Memory, mentre di Waylon abbiamo la famosa Are You Sure Hank Done It This Way, rifatta alla grande da Steve, con spirito da vero rocker. L’ho già detto ma è doveroso ripeterlo: So You Wannabe An Outlaw è un grande disco, uno dei migliori di sempre di Steve Earle.

Marco Verdi

Un Quasi Veterano Ed Un Quasi Esordiente, Con La Regia Di Dave Cobb: Che Bravi Entrambi! Chris Stapleton – From A Room, Vol.1/Colter Wall – Colter Wall

chris stapleton from a room vol.1 colter wall colter wall

Chris Stapleton – From A Room, Vol. 1 – Mercury/Universal CD

Colter Wall – Colter Wall – Young Mary’s Record Co./Thirty Tigers CD

Oggi vi parlo di due dischi nuovi di zecca, due album solo apparentemente simili, che hanno come comune denominatore il fatto di avere entrambi l’ormai onnipresente (ma bravissimo) Dave Cobb alla produzione. Ho definito Chris Stapleton un quasi veterano dato che, malgrado abbia alle spalle un solo disco, lo splendido Traveller, era già conosciuto da qualche anno nel mondo di Nashville come apprezzato songwriter per conto terzi: il grande successo di Traveller, che dimostra che a volte la musica di qualità riesce ancora a vendere, ha poi fatto balzare Chris in cima a tutte le classifiche di gradimento, facendolo diventare richiestissimo sia come autore che come ospite nei dischi dei suoi colleghi, ed oggi è uno dei maggiori esponenti di un certo country-rock classico, ed ammirato anche da vere e proprie leggende come Willie Nelson. From A Room, Vol. 1 è il suo nuovo lavoro, nove canzoni di puro rockin’ country, forse ancora più rock che in Traveller, un disco che, nei suoi 32 minuti, appare ancora più immediato del suo predecessore e, per certi versi, anche più compatto (ed il secondo volume pare sia già pronto ed in uscita entro fine anno). Stapleton è accompagnato da un gruppo ristretto ma decisamente valido di musicisti, che comprende, oltre allo stesso Cobb, il grande armonicista Mickey Raphael, l’ottimo Robbie Turner alla steel, la sezione ritmica di J.T. Cure al basso e Derek Mixon alla batteria, oltre al bravissimo Mike Webb al piano ed organo ed alla moglie di Chris, Morgane Stapleton, alle armonie vocali in quasi tutti i pezzi.

Nove brani, di cui otto originali ed una cover, una versione deliziosa e soulful di Last Thing I Needed, First Thing This Morning, un vecchio brano di Gary P. Nunn reso popolare proprio da Willie Nelson. L’album parte alla grande con Broken Halos, splendida ballata dall’incedere classico e suono potente, perfetto per la grande voce di Chris, un brano superlativo sotto ogni punto di vista. Second One To Know è una gran bella rock’n’roll song, robusta, elettrica, dal sapore sudista, un tipo di canzone che i Lynyrd Skynyrd non scrivono più da molto tempo, Up To No Good Livin’ è una country ballad fulgida e cristallina, mentre l’intensa Either Way vede il nostro in perfetta solitudine e capace di una performance vocale da brividi. Poi ci sono anche la sontuosa rock song I Was Wrong, decisamente anni settanta, la fluida Without Your Love, ancora molto southern (e molto bella), il saltellante e trascinante country-boogie chitarristico Them Stems e Death Row, sinuosa, annerita, bluesy e quasi nello stile swamp di Tony Joe White, che conclude un disco splendido, esemplare per qualità e sintesi.

Colter Wall è un giovane canadese di appena 21 anni, ma che dalla voce, talmente baritonale ed adulta da far pensare quasi ad un discepolo di Johnny Cash (anche se il timbro è diverso) e dallo stile, sembra un americano con già alle spalle una carriera trentennale. Colter Wall, il suo disco omonimo, non è il suo esordio assoluto, in quanto il nostro ha debuttato nel 2015 con un EP di sette canzoni intitolato Imaginary Appalachia, ma è con questo disco che Colter conta di farsi notare su scala più larga. E Colter Wall è un gran bel disco, un album di canzoni vere ed intense, scritte dal nostro con un piglio davvero da veterano, un sound abbastanza scarno e più folk che country, con Cobb solito abile dosatore di suoni ed un gruppo ancora più ristretto che nell’album di Stapleton: alcuni nomi sono in comune (Turner e Webb), mentre al basso e batteria troviamo rispettivamente Jason Simpson e Chris Powell; rispetto al disco di Stapleton, poi, manca totalmente la componente rock, le chitarre sono rigorosamente acustiche e le atmosfere decisamente più intime, ma il livello qualitativo è senza dubbio lo stesso. Il lavoro si apre con Thirteen Silver Dollars, una folk tune splendida, pura e deliziosa, con inizialmente solo Colter voce e chitarra, ma con una spettacolare entrata della sezione ritmica dopo quasi due minuti (e che voce il ragazzo, sembra impossibile che sia, per la legge americana, da poco maggiorenne); bella anche Codeine Dream, toccante brano dall’atmosfera spoglia e malinconica (solo chitarra e dobro sono presenti), ma dal pathos altissimo, un pezzo degno di Townes Van Zandt.

E proprio il grande texano, una delle sue principali influenze, è omaggiato con una cover di Snake Mountain Blues, intensa come solo Townes sapeva fare, ma poi abbiamo altre notevoli canzoni scritte da Wall, come la western ballad Me And Big Dave, che risente invece della lezione di Waylon Jennings, lo squisito country-folk Motorcycle, con Colter che riesce a coinvolgere anche con tre strumenti in croce, o la strepitosa Kate McCannon, un drammatico racconto tra West e folk dall’impatto straordinario, ancora con Van Zandt nei cromosomi. Chiudono questo album sorprendente You Look To Yours, un honky-tonk purissimo, la fulgida e breve Fraulein, un traditional poco noto ed interpretato in duetto con Tyler Childers (altro musicista misconosciuto), e le profonde Trascendent Ramblin’ Railroad Blues e Bald Butte, che confermano la statura di autore del nostro. Due dischi bellissimi, uno forse più immediato (Chris Stapleton), l’altro più intenso (Colter Wall), ma comunque due lavori che quest’anno ascolteremo parecchio: non so indicarvi quale mi piace di più e quindi, nel dubbio, accaparrateveli entrambi.

Marco Verdi

 

Alla Sua Veneranda Età E’ Ancora Al Top. Willie Nelson – God’s Problem Child

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Willie Nelson – God’s Problem Child – Legacy/Sony CD

A 84 anni suonati Willie Nelson non ha assolutamente voglia di appendere la sua chitarra Trigger al chiodo, né di rallentare il ritmo: un disco all’anno è il minimo, quando non sono due. Dal vivo ormai fa un po’ fatica, come dimostra la sua recente partecipazione al concerto tributo a Waylon Jennings (ed anche, evento del quale sono stato fortunato testimone, la sua comparsata allo splendido concerto di Neil Young & Promise Of The Real lo scorso anno a Milano, in cui non ha cantato benissimo ma è bastata la sua presenza per illuminare il palco di un’aura particolare), ma in studio ha ancora diverse frecce al proprio arco; tra l’altro Willie potrebbe vivere di rendita continuando ad incidere standard della musica americana, come ha fatto più volte, ed invece ama ancora mettersi in gioco scrivendo nuove canzoni. Infatti nel suo ultimo lavoro, God’s Problem Child, ben sette brani su tredici portano la firma di Nelson, insieme al produttore Buddy Cannon (a suo fianco da diversi anni ormai), e questo dimostra chiaramente la voglia di non sedersi sugli allori. Ma, a parte queste considerazioni, God’s Problem Child è un disco bellissimo, uno dei migliori tra gli ultimi di Willie, con un suono straordinario (Cannon è un fuoriclasse di un certo tipo di produzione) ed una serie di canzoni di prim’ordine, suonate con smisurata classe dalla solita combriccola di musicisti coi fiocchi, tra i quali il fido Mickey Raphael all’armonica, Bobby Terry alla steel, James Mitchell alla chitarra elettrica, Fred Eltringham alla batteria e, a sorpresa, Alison Krauss alle armonie vocali in un paio di brani, oltre a tre ospiti che vedremo dopo nella title track.

Willie chiaramente non inventa nulla, nessuno credo si aspettasse un cambiamento nel suo modo di fare musica, ma in questo ambito è ancora uno dei numeri uno, nonostante le molte primavere alle spalle: Little House On The Hill apre l’album, una guizzante country song scritta da Lyndel Rhodes, che altri non è che la madre di Cannon, una canzone molto classica, del tipo che Willie ha cantato un milione di volte (anche se ogni volta sembra la prima), con un bel botta e risposta voce-coro che fa molto gospel, anzi noto una certa somiglianza con la famosa Uncloudy Day. Old Timer è un pezzo di Donnie Fritts, una sontuosa ballata pianistica, splendida nella melodia e nell’arrangiamento soulful, con la voce segnata dagli anni di Nelson che provoca diversi brividi. True Love è un’altra intensa slow song, tutta incentrata sulla voce carismatica del nostro, con una strumentazione parca ma calibrata al millimetro ed una melodia fluida: classe pura; Delete And Fast Forward, ispirata dall’esito delle elezioni presidenziali americane, è tipica di Willie, con il suo classico suono texano e qualche elemento rock garantito dalla chitarra di Mitchell, mentre A Woman’s Love, che è anche il primo singolo, è un delizioso western tune dal motivo diretto ed un leggerissimo sapore messicano. Your Memory Has A Mind On Its Own è un puro honky-tonk, niente di nuovo, ma Willie riesce a dare un tocco personale a qualunque cosa, e sono poi i dettagli a fare la differenza (qui, per esempio, la chitarra del texano e l’armonica sempre presente di Raphael).

Butterfly è una limpida country song dalla melodia tersa ed armoniosa, con un ottimo pianoforte e la voce che emoziona come sempre, la vivace Still Not Dead (ironico pezzo ispirato dalla notizia falsa circolata qualche tempo fa della morte di Nelson) porta un po’ di brio nel disco, e Willie mostra di avere ancora il ritmo nel sangue: il brano, poi, è davvero piacevole e cantato con la solita attitudine rilassata e misurata. God’s Problem Child, oltre a dare il titolo al CD, è anche il brano centrale, una canzone scritta da Jamey Johnson con Tony Joe White, con i due che partecipano anche vocalmente, e White pure con la sua chitarra, entrambi raggiunti per l’occasione da Leon Russell, qui nella sua ultima incisione prima della scomparsa: il brano ha il mood swamp annerito tipico di Tony Joe, ma con l’upgrade della voce e chitarra di Willie (e che brividi quando tocca a Russell), grandissima musica davvero; ancora tre pezzi scritti dalla coppia Nelson/Cannon (la cristallina e folkie It Gets Easier, Lady Luck, altra Texas cowboy song al 100% e l’ottimo valzerone I Made A Mistake) e chiusura con He Won’t Ever Be Gone, uno splendido e toccante omaggio all’amico di una vita Merle Haggard (scritto da Gary Nicholson) ed altra prova di grande classe da parte del nostro. Willie Nelson è uno dei pochi artisti che riescono a coniugare quantità e qualità, e se la salute lo assisterà avremo ancora parecchi bei dischi da ascoltare in futuro.

Marco Verdi

Una Grande Serata Di Vero Country In Quel Di Austin! Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings

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Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings – Legacy/Sony CD/DVD

Splendido tributo alla musica di Waylon Jennings, uno dei più importanti musicisti country di tutti i tempi, vera leggenda in Texas, ed esponente di punta insieme a Willie Nelson del cosiddetto movimento “Outlaw Country”, che negli anni settanta si contrapponeva al country più commerciale che veniva prodotto a Nashville. Il concerto si è tenuto quasi due anni fa, il 6 Luglio del 2015, al Moody Theatre di Austin, ed è stata una grande serata, nella quale si sono dati appuntamento una lunga serie di amici e discepoli di Waylon (più i secondi dei primi, purtroppo molti sono da tempo in cielo a far compagnia a Jennings) per suonare alcuni tra i brani più noti del grande texano, la cui influenza si è fatta sentire di più dopo la scomparsa (avvenuta nel 2002 in seguito a complicazioni dovute ad una grave forma di diabete, ma conseguenza di una vita nella quale il nostro non si era fatto mancare niente) che nel periodo di attività, complice una discografia non sempre all’altezza, specie negli anni ottanta. Ora la Legacy pubblica finalmente il resoconto di quella serata, in versione CD con DVD allegato, in modo da far godere anche noi delle performances dedicate a Waylon, un concerto nel quale gli invitati hanno dato veramente il meglio di loro stessi, sia i fuoriclasse (e ce n’erano parecchi), sia quelli che a prima vista poco c’entravano con il barbuto countryman texano; in tutti i brani, poi, troviamo la solita house band da sogno che non manca mai in queste occasioni: Don Was al basso, produzione e direzione musicale (ed ultimamente il riccioluto Don non se ne perde uno di questi tributi), Buddy Miller e Patrick Buchanan alle chitarre, Matt Rollings alle tastiere, l’ottimo Robby Turner alla steel guitar, Mickey Raphael all’armonica (da sempre nella band di Willie Nelson), ben due batteristi (Raymond Weber e Richie Albright) e tre coristi.

Il DVD rispetto al CD contiene due brani in più (curiosamente entrambi con protagonista Sturgill Simpson, che quindi nella parte audio non compare – NDM: la presente recensione è fatta sul CD, sorry Sturgill…) più varie interviste agli ospiti che parlano chiaramente di Waylon; da segnalare purtroppo l’assenza di Billy Joe Shaver, che si può spiegare forse solo con il suo precario stato di salute, anche se è una mancanza che pesa non poco. La serata inizia alla grande con una delle performances migliori, grazie all’ottimo Chris Stapleton che propone una versione mossa e tonica, decisamente rock’n’roll, di Ain’t Living Long Like This, il brano di Rodney Crowell che Waylon fece suo nell’ormai lontano 1979, un avvio potente e trascinante, con ottimi interventi di piano e steel; il figlio di Waylon, Shooter Jennings, non si fa contaminare da sonorità strane come spesso fa ultimamente nei suoi dischi, anzi riesce anche a toccare le corde giuste con Whistlers And Jugglers, uno slow classico e con la giusta dose di pathos (splendido Rollings al piano, e strepitoso il finale chitarristico, molto southern), mentre la riunione di famiglia continua con la moglie di Waylon, e madre di Shooter, Jessi Colter, che emoziona con la sua Mona (se siete veneti non fraintendete quest’ultima frase per favore), solo voce e piano ma tanto feeling.

Sale sul palco la prima leggenda vivente della serata: Bobby Bare è un contemporaneo di Waylon, ed uno dei grandi del country, e la sua Only Daddy That’ll Walk The Line è piena di ritmo e grinta nonostante l’età avanzata del nostro; la voce limpida di Lee Ann Womack affronta molto bene la melodica Ride Me Down Easy (proprio di Shaver) e, in duetto con Buddy Miller, la cristallina Yours Love, ed anche il bravissimo Jamey Johnson strappa applausi a scena aperta con Freedom To Stay, country ballad classica cantata con il cuore in mano. La brava Kacey Musgraves sembra ferma agli anni sessanta, sia come stile che come look, e con The Wurlitzer Prize mantiene entrambi i piedi ben saldi in quel periodo, mentre Robert Earl Keen è uno dei migliori texani della generazione successiva a quella di Waylon, ma questa sera la sua rilettura di Are You Sure Hank Done It This Way ha qualcosa che non va, troppo elettrica e rock, quasi monolitica, molto meglio l’arrangiamento originale; Kris Kristofferson non ha certo bisogno di presentazioni, è uno dei grandissimi e non solo della musica country, uno che potrebbe cantare qualsiasi cosa: stasera sceglie I Do Believe, uno slow dall’accompagnamento leggero e con al centro la voce vissuta di Kris che, inutile dirlo, la fa diventare quasi una sua canzone. Strepitoso Ryan Bingham con Rainy Day Woman, in un arrangiamento grintoso e rock ma rispettoso della struttura country dell’originale, un brano che la voce ruvida di Ryan affronta senza problemi (e la steel di Turner è monumentale); sale sul palco Alison Krauss per due pezzi, la dolcissima Dreaming My Dreams With You (splendida la voce della bionda cantante e violinista) e, con Jamey Johnson, una mossa, ritmata e coinvolgente I Ain’t The One, dal deciso sapore sudista.

Toby Keith ed Eric Church non sono certo tra i miei countrymen preferiti, ma stasera non deludono, anzi convincono con due riletture serie e sentite di Honky Tonk Heroes e Lonesome, On’ry And Mean rispettivamente. E’ la volta del grande Willie Nelson, che sale sul palco e non scenderà più fino alla fine: Willie non è più quello di qualche anno fa, canta a fatica, in alcuni momenti sembra perfino a corto di fiato, ma ovviamente non poteva mancare, e comunque sopperisce con la sua presenza magnetica ed il suo immenso carisma (e poi chitarristicamente è ancora un portento); inizia da solo con la nota ‘Til I Gain Control Again, ancora di Crowell, e, in duetto rispettivamente con Keith e Stapleton, le mitiche Mammas Don’t Let Your Babies Grow Up To Be Cowboys e My Heroes Have Always Been Cowboys, entrambe splendide, tra gli highlights dello show. Finale da urlo con la meravigliosa Highwayman, con Willie e Kris che fanno loro stessi, Shooter al posto del padre e Johnson in luogo di Johnny Cash, e poi tutti sul palco per la celebrazione finale con Luckenback, Texas, una delle canzoni-manifesto di Waylon. Un ottimo tributo: era ora che a tredici anni dalla sua scomparsa qualcuno si decidesse ad omaggiare Waylon Jennings in maniera adeguata.

Marco Verdi