Pochi Ma Buoni! Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions

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Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions – M.C. Records

Kim Wilson a livello solista non è uno molto prolifico. L’ultimo album Blues And Boogie Vol.1, uscito per Severn nel 2017, faceva presagire che ci sarebbe stato un volume 2, e invece Kim torna alla M.C. Records che gli aveva pubblicato due CD tra il 2001 e il 2003 (in mezzo solo un disco in comproprietà con Mud Morganfield), ma andando a scorrere i credits degli album il suo nome appare in decine di uscite degli ultimi anni, inclusi un paio con i Fabulous Thunderbirds. Cambia il titolo ma non la formula per il nuovo Take Me Back, tutti insieme appassionatamente ai Bigtone Studios (quelli del sottotitolo dell’album), in presa diretta e registrati rigorosamente in mono, che è un po’ una fissa di Wilson ultimamente: Big John Atkinson, il boss degli studios, ha curato le sessions, oltre a suonare la chitarra come solista in 12 brani, poi della partita sono alcuni degli stessi musicisti del precedente CD (tanto da farmi pensare che i brani provengano dagli stessi nastri analogici), Billy Flynn, Barrelhouse Chuck, Rusty Zinn, mentre i “nuovi” Kid Andersen e Danny Michel, anche loro alle chitarre, i batteristi June Core, Al West, Ronnie Smith e il bassista Greg Roberts, oltre a Johnny Vlau ai fiati, completano le forze in campo, pe il pianista Barrelhouse Chuck è morto nel dicembre 2016, quindi…

Il repertorio e il suono pescano a piene mani dai classici del blues degli anni ‘50, ma nel caso di Wilson non possiamo parlare solo di cura filologica nella propria musica, quanto di passione pura per quel periodo, visto che tra le canzoni del CD ce ne sono anche parecchie “nuove” scritte dallo stesso Kim, che sono comunque molto simili alle vecchie. You’ve Been Goofing è un oscuro brano di Jimmy Nolen, il chitarrista di James Brown, tra R&B e Blues vintage, come i vecchi dischi Chess, Cobra, Vee-Jay, con chitarra e sax a fiancheggiare Wilson, che canta con impegno e piglio deciso, per poi iniziare a soffiare con forza nell’armonica nelle proprie Wingin’ It e Fine Little Woman, classici esempi di Chicago Blues primordiale, con Billy Flynn alla solista e Barrelhouse Chuck al piano che rispolverano vecchie atmosfere. Slow Down è proprio il vecchio brano di Larry Wlliams che Paul McCartney cantava come un ossesso in un 45 giri dei Beatles, qui riportato nel R&R del suo spirito originale, con qualche rimando meno elettrico al suono spiritato dei Fabulous Thunderbirds, grazie a Wilson e soci, che poi rivolgono la propria attenzione allo standard di Howlin’ Wolf No Place To Go, dove Kim Wilson mette in mostra la sua grande perizia all’armonica a bocca, con un approccio più intimo, chitarra acustica, contrabbasso e drum kit minimale per un tuffo nel blues primigenio.

Strange Things Happening di Percy Mayfield è un rovente blues lento, con il suono quasi “archeologico” che può risultare forse straniante per i non habituè del catalogo Chess, con Wilson che segue le tracce dei suoi maestri, da Little Walter in giù, anche nella propria Play Me o nella title track scritta da Walter Jacobs. If It Ain’t Me è un “bluesazzo” torrido scritto da James A. Lane, uno che come Jimmy Rogers ha diviso a lungo i palchi con Muddy Waters, sia come chitarrista che come armonicista, entrambe ben presenti in questa rilettura. Strollin’ è uno strumentale dello stesso Kim, The Last Time è un’altra intensa cover di un brano di Jimmy Rogers a tutta armonica, mouth harp sempre molto presente anche nel bel lento Money, Marbles And Chalk, uno dei brani originali di Wilson, che poi affronta Take Me Back, il pezzo di Little Walter, con piglio rigoroso e ottima resa anche vocale. In Rumblin’ un brano strumentale di Kim, quelli che finiscono in “in’’”, si apprezza una volta di più la sua perizia all’armonica, di nuovo Chicago Blues elettrico e vibrante in I’m Sorry, con Atkinson e Flynn che si dividono le parti di chitarra, molto rigorosa anche Goin’ Away Baby, la terza ed ultima cover di Jimmy Rogers, e lo shuffle sincopato dell’ultimo strumentale del nostro amico Out Of The Frying Pan. Se siete degli Indiana Jones del blues qui non troverete solo “mummie”, ma musica ancora fresca e vitale!

Bruno Conti

Un Altro “Grosso” Protetto Di Mike Zito. Kevin Burt – Stone Crazy

kevin burt stone crazy

Kevin Burt – Stone Crazy – Gulf Coast Records

Il famoso detto recita “una ne fa e cento ne pensa”, ma nel caso di Mike Zito dovremmo modificarlo in “cento ne pensa e cento ne fa”, in quanto il nostro texano preferito è sempre impegnatissimo con nuovi progetti. Certo aiuta molto il fatto che avere una studio casalingo vicino a casa, soprattutto in questo periodo di pandemia durante il quale i musicisti non possono andare in giro in tour e quindi si occupano delle loro cose: nel caso di Zito anche il fatto di avere una propria etichetta è ulteriore stimolo. E quindi in questi mesi di quarantena ha “prodotto” molto: andando a ritroso troviamo nuovi album di Kat Riggins, il ritorno dei Louisiana’s Le Roux, l’ottimo disco della Mark May Band, quello dei Proven Ones, lo stesso Zito con Quarantine Blues. Il comune denominatore è che sono tutti belli: ora si aggiunge anche questo CD di Kevin Burt, registrato a giugno ai Marz Studios di Nederland. Texas, dove vive il buon Mike.

Come si rileva facilmente dalla foto di copertina Burt è una “personcina” più o meno delle dimensioni di Popa Chubby, e che brandisce la sua Gibson come fosse uno stuzzicadenti: alla registrazione di Stone Crazy hanno partecipato alcuni dei fedelissimi di Zito, ovvero l’ottimo Lewis Stephens a piano e organo, e la sezione ritmica formata da Doug Byrkit al basso e Matthew Johnson alla batteria, con lo stesso Zito che aggiunge anche le sue chitarre a profusione. Burt scrive tutte le canzoni, con l’eccezione della cover di Better Off Dead di Bill Withers. Ah dimenticavo, Mr. Burt, che suona anche l’armonica nel disco, è uno di quelli bravi, ottimo strumentista e voce potente, ma anche duttile, influenzata sia dal blues come dal soul, forgiata in 25 anni di musica on the road, che lo ha portato in giro in tour per gli States, a registrare un paio di CD precedenti autogestiti e a vincere alcuni premi nelle consuete classifiche blues.

Si parte subito forte con il blues di I Ain’t Got No Problem With It, dove l’armonica guida le volute di un brano fortemente influenzato da funky e R&B, mentre Kevin canta con brio, nella successiva Purdy Lil Thang si viaggia su territori cari allo swamp rock di Tony Joe White o al sound dei Creedence, chitarre acustiche ed elettriche in bella vista, l’ottima voce sempre in evidenza, mentre Rain Keeps Comin’ Down, con slide ed armonica a guidare le danze ha forti elementi sudisti nella costruzione del brano, ed un ottimo lavoro al bottleneck; la title track è una bella soul ballad, calda e suadente, sempre con la voce espressiva di Kevin in primo piano, per un sound che non è giocato su un lavoro da axeman, ma più da musicista raffinato, quale e è il nostro amico. In Busting Out entra in azione l’organo di Stephens e il suono si fa più pressante ed incisivo, sempre con derive funky e southern vintage anni ‘70 e un bel groove della band, mentre la chitarra inizia a lavorare di fino con un bel assolo.

Same Old Thing è un’altra piacevole ballata mid-tempo più influenzata dal blues, con Kevin che canta con fervore e lascia andare la solista con classe e feeling, You Get What You See è un boogie-shuffle dal bel drive, dove appare anche un sassofono non accreditato e un sound che richiama alla Marshall Tucker Band, con il plus della voce di Burt che è veramente un cantante espressivo. La musica sudista classica torna anche nella elettroacustica Something Special About You un rock got soul in crescendo di grande fascino, ottima anche Should Have Never Left Me Alone, un blues con uso R&B, che grazie anche alla presenza costante dell’armonica mi ha ricordato i non dimenticati Wet Willie di Jimmy Hall, ed eccellente anche la cover di Better Off Dead di Withers, dove il soul dell’artista nero viene coniugato con il rock in modo impeccabile, con la conclusiva Got To Make A Change dove una slide minacciosa ed incombente caratterizza un altro brano di ottima fattura dove la band e Kevin Burt hanno modo di mettere in evidenza con personalità la loro bravura. Ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Sempre Tra Blues E Soul Il Musicista Di Boise Conferma Il Suo Valore. John Nemeth – Stronger Than Strong

John Nemeth stronger than strong

John Nemeth – Stronger Than Strong – Nola Blue Records

Nuovo album anche per John Nemeth, il cantante ed armonicista dell’Idaho, ma dal 2013 cittadino di Memphis, una delle più belle voci della scena americana tra blues e soul. Lo avevamo lasciato nel 2018 alla guida della Love Light Orchestra con un disco dal vivo Live from Bar DKDC in Memphis, TN! dove rivisitava il sound delle Big Band Blues, quelle per intenderci di Bobby “Blue” Bland e B.B. King, ma anche tante altre, dedite a quello stile di Soul Revue dove le traiettorie del Memphis Sound si intrecciano con le 12 battute classiche https://discoclub.myblog.it/2018/02/15/che-band-che-musica-e-che-cantante-divertimento-assicurato-the-love-light-orchestra-featuring-john-nemeth-live-from-bar-dkdc-in-memphis-tn/ . Ma Nemeth è anche cultore di un blues got soul, a volte esuberante e anche fiatistico, come nell’ottimo Feelin’ Freaky del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/06/27/blues-got-soul-da-una-voce-sopraffina-john-nemeth-feelin-freaky/ , o nel torrido Memphis Grease del 2014.

Insomma il buon John non sbaglia un disco: anche per questo nuovo Stronger Than Strong si è recato agli Electrophonic Recording Studios gestiti da Scott Bomar dei Bo-Keys, che sono gli eredi diretti degli Hi-Studios dove negli anni ‘70 a Memphis nasceva la musica di Al Green, Ann Peebles ed altri luminari, in pratica è uscito di casa e ha fatto quattro passi, per arrivare sul posto di “lavoro”, dove lo aspettavano i componenti delle sua touring band, The Blue Dreamers, una band giovane ma ricca di talenti, guidata da uno degli astri nascenti della chitarra blues&soul come John Hay, e la sezione ritmica formata dal batterista Danny Banks, e dal bassista Matt Wilson, più Nemeth che come detto è anche ottimo armonicista, il produttore Bomar è all’occorrenza tastierista di pregio, e quindi questa volta il suono è più compatto e grintoso, come testimonia subito la gagliarda Come And Take It che ci trasporta sulle rive del Mississippi per un Country Hill Blues, voce filtrata (ed è un peccato) e chitarra “sporca” per un sound alla Fat Possum https://www.youtube.com/watch?v=EE6w4tLJG64 , ribadito anche nella successiva Fountain Of A Man dove Nemeth soffia con forza nell’armonica, Banks e Wilson trovano un groove veramente cattivo e Banks strapazza le corde della sua solista, mentre John lascia anche andare in libertà la sua voce, in un brano travolgente.

Non mancano momenti più raffinati come nella cover di una vecchia B-Side di Junior Parker Sometimes, dove il nostro amico gigioneggia con la voce come lui sa fare, o rocka e rolla come nel rocking boogie della potente Throw Me In The Water dove la band va come un treno, poi passando allo shuffle targato Chicago Blues di Chain Breaker che sembra uscire da qualche vecchio vinile Chess o Delmark, ma anche dalle rielaborazioni delle 12 battute di Blues Brother (visto che anche Nemeth è un bianco) e altri di successive generazioni. E il soul mi chiederete? Ci sta, ci sta, introdotto dal basso pulsante di Wilson John Nemeth comincia a lasciare andare la sua ugola vellutata nella deliziosa Bars, dove il suo timbro tenorile è godibile come sempre, mentre Hay va di classe e finezza in un assolo cesellato; non manca una divertita I Can See Your Love Light Shine, di nuovo con il dancing bass di Wilson in azione e Banks che lo segue con le sue percussioni molto presenti, qualche accenno gospel mentre anche Hay titilla di nuovo il capo con la sua solista ricca di feeling, che poi sposta il sound verso lidi che ricordano i primi Fabulous Thunderbirds di Vaughan e Wilson, dove il blues e il rock erano parenti stretti, ma con l’aggiunta di un signor cantante che guida pure i coretti dei suoi pards nella eccellente Depriving A Love.

Work For Love, sta tra blues puro e funky, come in certe cose di un collega della stessa parrocchia musicale, Boz Scaggs, armonica pronta alla bisogna, voce felpata e sinuosa, il basso che va di groove come se il funky lo avesse inventato lui, poi arriva di nuovo Hay che completa il lavoro; e non poteva mancare una ballata sublime, come l’unico successo targato fine anni ‘50 del dimenticato Jesse Belvin, al quale Nemeth rende merito con una interpretazione da manuale del soul e del R&B di Guess Who, cantata con il cuore in mano e suonata in modo sublime dalla band di John, più l’organo di Bomar che sottolinea un assolo da urlo di Banks, che distilla di nuovo grande musica. Per concludere arrivano la deliziosa She’s My Punisher tra swing e doo-wop alla Sam Cooke e per non farsi mancare nulla anche un divertente e coinvolgente boogaloo come Sweep The Shack, di nuovo con Hay sugli scudi. Bravi tutti! L’unica nota negativa, che mi preme sempre segnalare, è la scarsa reperibilità del CD, soprattutto per noi europei (con spese di spedizione proibitive per noi europei)

Bruno Conti

Dai Sobborghi Di Brooklyn Alle Rive Del Mississippi, Un’Altra Grande Voce. Bette Smith – The Good The Bad And The Bette

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Bette Smith – The Good The Bad The Bette – Ruf Records

Pettinatura Afro, corporatura prorompente, a Milano affettuosamente si dice “una bella paciarotta”, solo una piccola differenza grafica con l’altra Smith, la più famosa Bessie, anche se il genere non è proprio lo stesso, ma è passato un secolo, e non è un modo di dire: la nostra Bette Smith viene dai sobborghi di Brooklyn, NY, ha esordito tre anni fa con un disco Jetlagger, pubblicato dalla Big Legal Mess/Fat Possum Records, prodotto da Jimbo Mathus degli Squirrel Nut Zippers, che l’ha portata nel Mississippi, dove l’aspettavano Matt Patton, basso e Bronson Tew, batteria, che sono la sezione ritmica dei Drive-By Truckers, insieme ad altri musicisti, per registrare un album di funk/soul, R&B, rock, per sintetizzare diciamo blues contemporaneo, materiale in gran parte originale, ma con un paio di cover, un Isaac Hayes e I Found Love della coppia Maria McKee/Steve Van Zandt ai tempi dei Lone Justice, se vi capita cercatelo, perché ne vale le pena.

Ma stiamo parlando ora di questo The Good The Bad The Bette, chiara citazione Leone/Morricone, anzi ci siamo spinti ancora più in là, visto che la prima canzone del CD si chiama Fistful Of Dollars, ma le analogie con lo “spaghetti western” finiscono li: per la nuova missione lungo il Mississippi Patton e Tew sono sempre in pista, anzi sono loro i nuovi produttori, Jimbo Mathus era casualmente da quelle parti a dare una mano e suona organo e chitarra, l’etichetta è nuova, la tedesca Ruf Records, che se parliamo di blues e dintorni non si fa mancare nulla e quindi il risultato è di nuovo più che soddisfacente.

Adesso parliamo però di Bette Smith, cresciuta a pane e gospel, visto che il babbo era il direttore del coro di bambini della chiesa locale, ma lei era pure una grande appassionata di rock’n’roll, e nei lunghi anni di pratica di entrambe le passioni, a furia di cantare, deve avere consumato una parte della sua voce, visto che ora è roca e vissuta (si scherza), anche se questo non le impedisce di darci dentro alla grande nel nuovo album: organo, chitarra e fiati impazzano nella incalzante Fistful Of Dollars dove si apprezza la vocalità prorompente di Bette, a seguire arriva Whistle Stop una ballata delicata e malinconica dedicata alla madre scomparsa, dove la voce si fa più roca ed accorata, ben sostenuta da un arrangiamento complesso e curato.

Mentre in I’m A Sinner, voce riverberata e atmosfere tra psych e garage rock anni ‘60 Jimbo Mathus scatena la sua chitarra, e anche I Felt It Too non scherza quanto a grinta, un altro pezzo corale dove i musicisti si scatenano e la Smith lascia andare divertita la sua voce, con Mathus alle prese con un assolo distorto e selvaggio, doppiato da un sax in overdrive suonato da Henry Westmoreland  degli Squirrel Nut Zippers. Visto che era disponibile nei dintorni perché non utilizzare la chitarra di Luther Dickinson, e allora vai con il southern carnale di Sign And Wonders, sempre funzionale alla vocalità esuberante, ma mai sopra le righe, di Bette Smith, e non manca neppure una ode al suo amato cane, ripreso pure in un video legato all’album, nel funky, rock and soul della potente (I Wanna Be Your) Human.

Con Song For A Friend che ci riporta all’amato soul cantato con un timbro vocale quasi fanciullesco e buffo a tratti, diciamo piacevole ma non memorabile. In Pine Belt Blues la band torna a roccare e rollare, con una pattuglia di voci aggiunte che stimolano la brava Bette a darci dentro con più impeto, mentre in Everybody Needs Love, i pard Patton e Tew invitano il loro capo Patterson Hood a duettare con la Smith in un brano che come struttura sonora e melodia, anche se con un suono decisamente più grintoso, ha parecchie analogie nel ritornello con All You Need Is Love, se i Beatles avessero voluto farne un brano soul.

Per chiudere un’altra ballatona emozionale come Don’t Skip Out On Me, una storia di redenzione dove la nostra amica ha modo di mettere in mostra le sue indubbie doti vocali ancora una volta facendo ricorso ai ricordi dell’amato gospel della gioventù, e con uno splendido assolo di tromba, sempre di Westmoreland, che è la ciliegina sulla torta del brano, per un album complessivamente molto interessante e vario.

Bruno Conti

Suonato Molto Bene, Ma Il Comandante Kirk E’ Meglio Che Non “Canti”! William Shatner – The Blues

william shatner the blues

William Shatner – The Blues – Cleopatra Records

E’ lui o non è lui? Certo che è lui, come si evince dalla copertina è proprio il Capitano/Comandante Kirk, all’anagrafe William Shatner, anzi aggiungerei purtroppo è lui: ritiratosi da qualche anno dalla saga di Star Trek, Shatner ha del tempo libero e quindi ogni tanto pubblica un CD (ma lo faceva già nel 1968, quando uscì il suo primo album The Transformed Man, dove massacrava in guisa psichedelica anche brani di Dylan e dei Beatles), perché ovviamente, come dicono gli americani, trattasi di dischi della categoria “spoken word”, vale a dire il buon William parla, qualcuno azzarda declama, canzoni anche celebri, perché poi il Capitano ha perseverato, firmando per la Cleopatra e interpretando anche Bowie, Elton John, Queen, persino Lyle Lovett e via discorrendo, e persino un CD di canzoni natalizie.

Alla fine è approdato al blues, sempre con lo stesso approccio, ma circondandosi anche in questa occasione di una serie di musicisti eccellenti: in effetti la prima volta che ho ascoltato il CD non mi era neanche dispiaciuto, perché la parte musicale è molto buona, tre musicisti che hanno inciso le basi, Chris Lietz piano e organo, e i due produttori Adam Hamilton e il tedesco Jurgen Engler, che suonano chitarre, basso, batteria e armonica, con un approccio rock-blues energico, poi hanno fatto cantare, pardon parlare, Shatner, e infine gli ospiti hanno aggiunto le loro parti soliste. Nei due primi brani, Sweet Home Chicago e I Can’t Quit You Baby, il vecchio Bill (quasi 90 anni) mi aveva anche ingannato, perché c’era quasi un tentativo di cantar/parlando su timbri diversi dal suo tipico vocione da Comandante Kirk, ma nel resto del disco…

Perché la house band ci dà comuque dentro di gusto e Brad Paisley primo brano e ancor di più Kirk Fletcher nel secondo realizzano degli assoli veramente pregevoli, per non dire di Sonny Landreth superbo in una gagliarda Sunshine Of Your Love dei Cream, dove si sopporta anche il talking di Shatner. Niente male anche le parti soliste di Ritchie Blackmore in The Thrill Is Gone https://www.youtube.com/watch?v=SYMsP1-NgSg , Ronnie Earl in Mannish Boy, Tyler Bryant in Born Under A Bad Sign, Pat Travers in I Put A Spell On You, James Burton in una elettroacustica Crossroads, Jeff “Skunk” Baxter in Smokestack Lighting, dove la parte vocale, che in alcuni brani precedenti, esagero, non mi era neppure dispiaciuta, sfiora e forse supera il ridicolo.

In As The Years Go Passing By, il vecchio Arthur Adams imbastisce un assolo di grande finezza, mentre i Canned Heat al completo, con Harvey Mandel alla solista, vanno di boogie alla grande in Let’s Work Together https://www.youtube.com/watch?v=5DR8V2I9SZg  e Steve Cropper è magistrale in Route 66, mentre Albert Lee aggiunge una nota country in In Hell I’ll Be In Your Company, e la conclusiva Secret Or Sins non si capisce cosa c’entri con il resto. Se siete Trekkers e collezionate tutto, già saprete, per gli altri se trovate un sistema per ascoltare solo la parte musicale provate, se no evitare con cura.

Bruno Conti

Un’Altra Perla Sbucata Dalle Nebbie Del Passato. The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band - Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968 – Retroworld/Floating World Records

In questo ultimo periodo mi è capitato più volte di occuparmi di Steve Miller, incluso un lungo articolo retrospettivo pubblicato sul finire del 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/12/07/steve-miller-band-tra-blues-rock-e-psichedelia-parte-i/ , ma quando dalle nebbie del passato miracolosamente appare qualche “nuova” testimonianza del periodo fine anni ‘60, tra blues e psichedelia, è quasi doveroso portarlo alla vostra attenzione. Come è il caso di questo Live From The Fillmore West 1968, un broadcast radiofonico della emittente KFA Radio, relativo a tre serate speciali del 26/27/28 Dicembre appunto del ‘68, dove il gruppo si esibì insieme a Sly And The Family Stone e ai Pogo (che da lì a breve sarebbero diventati i Poco di Richie Furay). Due o tre precisazioni: il disco è attribuito alla Steve Miller Blues Band, ma, come evidenzia la locandina dell’evento, erano già la Steve Miller Band, avendo pubblicato due album con quel nome durante l’anno, nelle note viene ricordato che Boz Scaggs non era presente, in quanto se ne era andato a Settembre ‘68, ma come mi pare di desumere da altro materiale degli archivi di Bill Graham https://www.wolfgangs.com/music/steve-miller-band/audio/20053982-6771.html?tid=4884717 , sembrerebbe ancora presente nella line-up della Band, almeno nella data del 29, quindi non una di queste, ma dubito che 3 date no e poi una sì, e comunque mi sembra proprio la sua voce, oltre che una canzone scritta da lui, l’iniziale Stepping Stone.

E infine, rispetto anche ad altri CD che riportano date dal vivo dell’epoca, soprattutto del ‘67, la qualità sonora non è perfetta ma è più che soddisfacente. E la chicca della serata è la presenza di Paul Butterfield all’armonica in alcune tracce: con loro ci sono Lonnie Turner al basso, Tim Davis alla batteria e Jim Peterman alle tastiere: a prescindere dalla formazione, il concerto è favoloso, appunto l’iniziale Stepping Stone è testimonianza della furia chitarristica di uno Steve Miller infoiato con il pedale wah-wah costantemente inserito per un brano di una potenza devastante, dove il nostro emula le evoluzioni di Hendrix in salsa psych-blues. Mercury Blues è un brano che Miller e soci avevano già eseguito al Monterey Pop Festival, e inciso nella colonna sonora di Revolution, canzone che poi sarebbe entrata a far parte del repertorio dei Kaleidoscope di David Lindley, anche in questo caso wah-wah a manetta con Steve che impazza per gli oltre sette minuti del brano, con la band che lo segue come un sol uomo.

In Blues With A Feeling il nostro amico invita Paul Butterfield sul palco per una sanguigna ripresa di questo classico del blues, uno slow di Little Walter dove Miller distilla dalla sua chitarra una serie di assoli degni di Magic Sam o Buddy Guy, ottimamente spalleggiato da un ispirato Butterfield, che poi rimane anche per la jam improvvisata di Butterfield Blues, con botta e risposta tra i due, e si sente anche un’altra chitarra, quindi probabilmente Scaggs era presente, ma io non c’ero quindi… Paul rimane sul palco anche per le sublimi volute psichedeliche di una sontuosa, lunga ed improvvisata Song For Our Ancestors, e anche Roll With It, un lato B dell’epoca ha profumi acidi e psych, come pure una lunga cover di un brano degli Isley Brothers (altri pionieri del rock e del soul miscelati tra loro, come Sly Stone che divideva il palco con Miller in quella serata) quasi dieci minuti di blues-rock tirato e di grande potenza, con Steve sempre impegnatissimo alla solista, con Peterman di supporto all’organo, oltre alla seconda chitarra, e qualche deriva funky aggiunta come sovrappiù alle operazioni, con il gruppo in un continuo crescendo irresistibile.

Steve Miller Band Vintage Concert Poster from Fillmore West, Dec 26, 1968 at Wolfgang's

Drivin’ Wheel è una cover di Roosevelt Sykes che Miller suona dal vivo ancora oggi , un altro blues che parte lento e poi diventa un brano di grande intensità, anche con forti connotazioni rock, e ancora un electric blues Chicago style come Bad Little Woman, per concludere in gloria una splendida esibizione, sempre con uno Steve Miller molto ispirato alla chitarra. Una piacevole sorpresa. *NDB Documenti sonori di quel concerto in rete non ce ne sono, vi dovete comprare il CD, quindi ne ho messi un paio sempre del 1968, ma vi assicuro che la qualità del suono di questo Live From The Fillmore West benché lungi dall’essere perfetta è nettamente superiore, e raramente mi è capitato di sentire la Steve Miller Band suonare così bene dal vivo.

Bruno Conti

Un’Altra “Scoperta” Dell’Infaticabile Mike Zito! Kat Riggins – Cry Out

kat riggins cry out

Kat Riggins – Cry Out – Gulf Coast Records

Anche in questo caso garantisce Mike Zito, che la produce e pubblica il disco per la propria etichetta: non è il primo album di Kat Riggins, ne ha già pubblicati almeno altri tre, più un EP e uno solo in streaming, ma la cantante nera (lo so che in tempi di politically correct qualcuno storce il naso, ma non è una offesa razzista, semplice constatazione che nella nostra musica si usa normalmente) si conferma una delle voci più interessanti delle nuove generazioni, benché la cantante della Florida abbia ormai compiuto 40 anni nel 2020, peraltro in ambito blues, soul e gospel, quelli che lei frequenta, direi quasi una giovinetta. Lo stile l’ho appena svelato, ma la Riggins ha quella che si suole definire “una voce della Madonna”, con inflessioni che rimandano a Koko Taylor, Etta James e Tina Turner, non esattamente le prime che passano per strada, ma in questo nuovo album prodotto da Zito, che ama le robuste sonorità rock, ci sono analogie pure con Dana Fuchs, Beth Hart e altre paladine del blues rock’n’soul moderno.

Prendiamo l’iniziale Son Of A Gun, ritmica rock gagliarda, riff di chitarra come piovesse, e la voce di devastante potenza della Riggins, Cry Out è un grande Texas blues, con Johnny Sansone all’armonica, brano che ricorda molto l’approccio della citata Koko Taylor, chitarra in primo piano, un organo vintage e la voce profonda e risonante sbattuta in faccia di Kat, che si trova a proprio agio anche nel funky fiatistico e sincopato di una brillante Meet Your Maker, voce che sale e scende, un tocco di raucedine che la rende sensuale, e grande controllo pure nel rock-blues tirato e cattivo di Catching Up, chiaramente farina del sacco di Zito che in questo tipo di brani ci sguazza e lascia andare la sua chitarra con libidine in un vibrante assolo, e anche l’heavy blues di Truth trasuda grinta e personalità, soprattutto quando si “incazza”, va beh diciamo si inquieta, e alza la voce. Dopo l’interludio a cappella di Hand In The Hand, non manca neppure il deep soul venato di gospel della splendida ballata Heavy dove si toccano profondità quasi alla Mavis Staples, fortificato dal ricercato lavoro alla slide di Zito e con un coro di voci di bambini ad aumentare nel finale il pathos del brano.

Nella di nuovo riffatissima Wicked Tongue arriva anche Albert Castiglia a dare una mano con la sua tagliente chitarra, che aumenta ulteriormente il tasso rock del pezzo con un assolo da sballo, mentre la band picchia di brutto e il testo cita anche la “maestra” Koko Taylor. Tornano i fiati e l’organo per la vibrante Can You See Me Now, sempre con chitarre fiammeggianti, che poi scatenano un pandemonio, come direbbe il buon Dan Peterson, nel robusto heavy blues della tirata Burn It All Down con il batterista Brian Zeilie che scandisce il tempo in modo granitico, ben spalleggiato dal bassista Doug Byrkit e dall’organo di Lewis Stephens spesso protagonista nell’album (in pratica la band di Mike), mentre Zito imperversa una volta di più. Molto bella anche la spumeggiante e con un groove quasi da revue alla Ike & Tina Turner On It’s Way, fiati in spolvero e un dinamico assolo di sax nella parte centrale, ma è un attimo e siamo al classico incrocio del blues, in un altro ottimo esempio di 12 battute con lo shuffle No Sale, dove ancora una volta non si prendono prigionieri e Mike Zito estrae il suo bottleneck per un’altra sfuriata delle sue e anche Sansone all’armonica si fa sentire, mentre la voce mi ha ricordato la Beth Hart più infoiata.

In chiusura un altro “lentone” intenso e ad alta intensità rock come The Storm, dove sembra che l’ottima Kat Riggins sia accompagnata dai Led Zeppelin per una scampagnata nei territori cari a Janis Joplin. Ottimo ed abbondante, assolutamente consigliato se amate le emozioni forti e la conferma che Zito raramente ne sbaglia una.

Bruno Conti

Probabilmente La Vera Erede Della Grandi Voci Nere Del Passato! Shemekia Copeland – Uncivil War

shemekia copeland uncivil war

Shemekia Copeland – Uncivil War – Alligator Records/Ird

Ormai Shemekia Copeland è entrata di diritto tra le voci più interessanti delle ultime generazioni blues (e non solo), con una serie di album, questo è il decimo, che spesso e volentieri sono stati candidati ai Grammy e hanno vinto molto premi di settore, l’ultimo come Female Artist Of The Year 2020 per Living Blues. Tutti di qualità elevata, con punte di eccellenza appunto nel precedente America’s Child, dove tra ospiti e collaboratori apparivano John Prine, Rhiannon Giddens, Mary Gauthier, Emmylou Harris, Steve Cropper, Gretchen Peters, Tommy Womack e svariati altri https://discoclub.myblog.it/2018/09/04/alle-radici-della-musica-americana-con-classe-e-forza-interpretativa-shemekia-copeland-americas-child/ . Disco che accentuava, come in precedenti album, ma in modo più marcato, la presenza di elementi rock, soul, country e “Americana” sound, quindi tutta la musica delle radici. Per questo nuovo Uncivil War la formula viene ripetuta: stesso produttore, l’ottimo Will Kimbrough, stessi studi di Nashville, massiccia presenza di ospiti di pregio e la scelta di un repertorio molto variegato, cercato con molta cura tra alcuni classici del passato e il nuovo materiale scritto principalmente dai due produttori John Hahn e Will Kimbrough.

Poi il resto lo fanno la bellissima voce di Shemekia e le sue sublimi capacità interpretative: Clotilda’s On Fire, è una storia vera, dalla penna di Kimbrough, che anche negli Orphan Brigade è un eccellente narratore, e racconta le vicende dell’ultima nave di schiavi che arrivò n America (a Mobile Bay, Alabama nel 1859, 50 anni dopo che il traffico di schiavi era stato ufficialmente bandito). La nave fu incendiata e distrutta dal capitano per nascondere l’evidenza dei fatti, e (ri)scoperta solo nel 2019: uno slow blues di grandissima intensità, cantato con passione dalla Copeland e con Jason Isbell superbo alla chitarra solista, mentre Kimbrough e la ritmica di Lex Price, basso e Pete Abbott, batteria, lavorano di fino, come in tutto l’album, grande canzone. E la successiva Walk Until I Ride non è da meno, come ospite troviamo Jerry Douglas ad una sinuosa lap steel, e la canzone, chiaramente ispirata da quelle degli Staple Singers, anche per l’uso di elementi gospel nei cori e il gran finale emozionante , tratta l’argomento dei diritti civili, sempre di attualità anche nell’America di oggi, e che voce, Mavis sono sicuro che approverà.

Ottima pure la title track Uncivil War, sulla attuale situazione di incertezza e paura che attanaglia il mondo: uno splendido country-folk-blugrass con Douglas che passa al dobro, con Sam Bush al mandolino, Steve Conn all’organo e gli Orphan Brigade alle armonie vocali, sempre cantata con impeto da Shemekia, basterebbero queste tre canzoni per celebrarne l’eccellenza, ma anche il resto del disco, per usare un eufemismo, non è male. Money Makes You Ugly ci introduce agli straordinari talenti del suo giovane compagno di etichetta, il bravissimo chitarrista Christone “Kingfish” Ingram https://discoclub.myblog.it/2019/06/24/lultima-scoperta-della-alligator-un-grosso-chitarrista-e-cantante-in-tutti-i-sensi-christone-kingfish-ingram-kingfish/ , che ci regala una incandescente serie di assoli di chitarra in questo travolgente rock-blues, mentre la Copeland dirige le operazioni con la sua voce potente; Dirty Saint è una commossa dedica a Dr. John, un amico che non c’è più, un brano di tipico New Orleans sound, con Phil Madeira all’organo, Will Kimbrough alla chitarra e slide e un terzetto di vocalist ad alzare la temperatura.

La prima cover è una raffinata ripresa di Under My Thumb degli Stones, rallentata e trasformata quasi in un R&B intimo e notturno, mentre Apple Pie And A .45, sulla proliferazione delle armi negli USA, è una poderosa rock song con Will Kimbrough che imperversa di nuovo a slide e solista a tutto riff, con un suono cattivo il giusto. Give God The Blues del terzetto Shawn Mullins, Phil Madeira e Chuck Cannon è una sorta di preghiera laica alle 12 battute, con Kimbrough e Madeira che si dividono le parti di chitarra, mentre la Copeland declama questo carnale rock-blues cadenzato, seguito dalla divertente e tirata ode al vecchio R&R, She Don’t Wear Pink firmata da Webb Wilder che incrocia anche la chitarra con il re del twang Duane Eddy, mentre No Heart At All vede aggiungersi alla coppia di autori Kimbrough e Hahn, anche il noto produttore/batterista Tom Hambridge, con Jerry Douglas di nuovo alla lap steel in un assolo da urlo e un suono sanguigno quasi alla Ry Cooder dei tempi d’oro del blues elettrico. Per chiudere un paio di altri blues d’annata, di Don Robey una sospesa e sognante In The Dark, con Steve Cropper a duettare con Kimbrough, mentre Shemekia emoziona con una interpretazione da brividi, prima di rendere omaggio al babbo Johnny Clyde Copeland con una deliziosa blues ballad come Love Song, dove Kimbrough ci mette ancora del suo alla chitarra. Il tutto cantato e suonato come Dio comanda.

Bruno Conti

Uno Strepitoso Disco Di Blues Acustico, Come Non Se Ne Fanno Quasi Più! Bobby Rush – Rawer Than Raw

bobby rush rawer Than Raw

Bobby Rush – Rawer Than Raw – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Nativo della Louisiana, ma residente a Jackson, Mississippi sin dagli anni ‘80, Bobby Rush, 86 anni suonati, è uno strane personaggio del blues americano: a cavallo tra le 12 battute classiche, il soul e il funky, da qualche anno si è inventato un termine per definire la sua musica “Folkfunk”. Personaggio diciamo “minore”, ma non marginale, Rush era apparso anche nella miniserie The Blues, prodotta da Martin Scorsese, sempre in pista e pronto a raccontare aneddoti sulla sua lunga carriera, che lo vede come una sorta di Numero Uno di Alan Ford, uno che nel corso degli ha incontrato e suonato con tutti, “consigliandoli” su cosa fare, da Skip James, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II, Muddy Waters a Elmore James, i cui brani reinterpreta in questo Rawer Than Raw, praticamente tutti i grandi della musica nera, tanto che nelle note si dice dispiaciuto di non avere potuto cimentarsi con brani di Jimmy Reed, John Lee Hooker, Son House e BB King. Già nel 2006 aveva inciso un album Raw, composto solo di rivisitazioni di proprie canzoni e che si concludeva con il brano Bobby Rush For President. Quale è la particolarità di questi album?

Come suggerisce il titolo si tratta di album acustici, nel caso di quest’ultimo, anche in solitaria: solo voce, chitarra ed armonica. Ripreso in copertina tra attrezzi agricoli e galline, e all’interno in varie pose, dove sfoggia la sua tinta di capello sempre corvina, un must per i vecchi bluesmen, il buon Bobby ha ancora una voce potente e squillante, e le sue riletture dei classici, miste ad alcune canzoni a propria firma, sono la prova che il nostro amico conosce la materia e sa come trattarla con classe. Sin dall’apertura con Down In The Mississippi, scritta dallo stesso Rush, si respira un’aria “antica” ma non vetusta, voce e chitarra acustica a ripercorrere i vecchi tracciati del blues del Delta, l’armonica a colorare il suono. D’altronde si intuisce che si tratta, come dicono gli americani, di un “labor di love”, realizzato nel corso del tempo tra Jackson, Ms e Montreal: ascoltatevi il blues primigenio di Hard Times (che sarebbe Hard Times Killing Floor Blues di Skip James) al quale, oltre ad acustica e armonica aggiunge il foot stomp per ricreare il sound dell’originale del 1931 (e lì Rush non era presente). Let Me In Your House è una delle canzoni di Bobby, salace e ironico come deve essere il blues, “If I can’t sleep in your bed, let me sleep on your floor. If I walk in my sleep, you’re the only one who’ll ever know. If I can’t be your full-time lover, let me be your part-time man”, scandito dall’interpretazione quasi danzante del nostro.

Che poi si cimenta con Smokestack Lighting di Howlin’ Wolf, che invece ha conosciuto e incontrato nella sua gioventù, quando si aggirava per locali, con baffi finti per nascondere la sua vera età, versione intensa e vissuta, ora che gli anni sono quelli giusti, e anche Shake It For Me, scritta da Willie Dixon, viene dal repertorio del Lupo, con l’acustica suonata ancora con grande destrezza e la voce sicura in grado di emozionare. In Sometimes I Wonder, sempre farina del suo sacco, dimostra di essere anche un ottimo armonicista, poi cimentandosi anche con uno dei maestri dello strumento Sonny Boy Williamson II nella classica Don’t Me Start Me Talkin’, qui ripresa in una vibrante versione; molto intenso anche un altro originale di Rush come Let’s Make Love Again, che poi lascia spazio al lato più ironico della sua arte nella divertente Garbage Man, un potente lentone dove il testo però è molto scherzoso “of all the men my woman could have left me for, she left me for the garbage man. Every time I see a garbage can, I think of her and the garbage man all the time”, con la sua donna che lo tradisce con lo spazzino. Honey Bee, Sail On è un traditional , ma faceva parte del repertorio di Muddy Waters, che riceve il suo giusto tributo, in un brano che evidenzia ancora la voce splendida di Rush, che poi si cimenta con il super classico Dust My Broom, non nella versione di Robert Johnson (anche lui non lo ha conosciuto), ma in quella di Elmore James, conosciuto invece in un club nel 1947, quando ci si aggirava con i suoi baffi finti appena ricordati, grande versione, come d’altronde tutto l’album, uno dei migliori dischi di blues acustico dell’anno.

Bruno Conti

Non E’ Ancora “Tale Padre Tale Figlio” Ma La Strada E’ Quella Giusta! Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound

joachim cooder over that road

Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound: The Songs Of Uncle Dave Macon – Nonesuch/Warner CD

Sinceramente non mi ero mai interessato molto prima d’ora alla carriera solista di Joachim Cooder, figlio del grande Ry Cooder e dagli anni 90 presenza quasi fissa sui dischi del padre (compreso il mitico Buena Vista Social Club, ideato e patrocinato dal chitarrista californiano) come batterista e percussionista, una passione che fin da piccolo gli aveva trasmesso il leggendario Jim Keltner. I due lavori pubblicati da Joachim a suo nome finora, un album nel 2012 ed un EP nel 2018, non avevano ottenuto molti riscontri, e quindi non è che attendessi in maniera spasmodica un suo nuovo album. Le critiche più che positive ricevute dal suo ultimo CD, Over That Road That I’m Bound, mi hanno però convinto ad avvicinarmi a lui, e devo dire che dopo averlo ascoltato non mi sono pentito dell’investimento fatto. Come lascia intendere il sottotitolo del lavoro, The Songs Of Uncle Dave Macon, si tratta di un progetto di stampo decisamente “cooderiano” (nel senso di Ry), cioè l’omaggio ad un artista sconosciuto ai più ma di sicura importanza nella storia della nostra musica: nella fattispecie stiamo parlando appunto di Uncle Dave Macon, musicista, cantante, autore e banjoista attivo dagli anni venti fino alla morte sopravvenuta nel 1952, un personaggio poco noto ma che in seguito verrà soprannominato “il nonno della musica country”, visto che il ruolo di “padre” era già stato preso da Jimmie Rodgers.

Over That Road That I’m Bound è quindi un album di cover di pezzi scritti da Macon e di tradizionali resi popolari da lui, ma le versioni qui contenute sono proposte in riletture moderne ed attuali, con arrangiamenti di stampo contemporaneo che contrastano piacevolmente con le melodie di un tempo. Devo ammettere che quando ho letto i nomi di alcuni tra i musicisti in session, cioè papà Ry alle chitarre, basso e armonie vocali, Glenn Patscha al piano ed organo e Juliette Commagere (moglie di Joachim) alle voci ho pensato: “Ok, è un disco di Ry Cooder cantato dal figlio”: invece Ry si è “limitato” a suonare, mentre tutte le idee, i suoni e gli arrangiamenti sono farina del sacco di Joachim, che però qua e là palesa l’influenza del celebre genitore (ma mi sarei stupito del contrario). Il nostro si conferma un valido musicista (non c’è una vera e propria batteria nel disco, solo vari tipi di percussioni dal suono anche esotico, come ad esempio l’array mbira – che però è di origine americana – una via di mezzo tra un’arpa ed uno xilofono) e dimostra di essere anche un buon cantante. Ma il colpo di genio finale è stato quello di chiamare la bravissima Rayna Gellert, che con il suo splendido violino riesce ad impreziosire più di un brano, elevando da sola il livello di un disco già riuscito di suo.

Over That Road I’m Bound To Go apre il CD con un sottile gioco di percussioni, poi entra la voce limpida di Joachim a stendere una melodia di stampo decisamente folk, ben doppiato dal violino della Gellert (grande protagonista del disco, anche più di papà Ry), che nel finale prende il sopravvento. Ancora violino e percussioni introducono When Ruben Comes To Town, Joachim canta con un’inflessione tipica del padre ed il brano, una folk ballad moderna e cadenzata, è molto piacevole; Come Along Buddy vede il nostro all’array mbira, un coro femminile entra ogni tanto alle sue spalle ed il motivo è di stampo tradizionale ma arrangiato in modo decisamente attuale, con Ry che ricama con discrezione sullo sfondo, mentre Oh Lovin’ Babe è un blues dal mood orientaleggiante con il solito tappeto percussivo (una costante del disco), e Cooder Sr. che fa sentire la sua elettrica insieme a quella di Vieux Farka Touré, figlio di Ali. Splendida Tell Her To Come Back Home, una soave ballata dalla melodia toccante, voci sospese ed un delizioso accompagnamento per banjo, violino e poco altro, a differenza di Backwater Blues che torna dalle parti del folk, con percussioni e voce in primo piano ed un tessuto sonoro ricco anche se creato con pochi strumenti (ottimo come sempre il violino).

La breve Rabbit In The Pea Patch è quasi musica appalachiana tra folk e bluegrass, ed è finora quella con l’arrangiamento più tradizionale, Morning Blues ha ancora reminiscenze con la musica del padre, specie quella degli anni 70 in cui fondeva folk, blues e musica hawaiana, All In Down And Out è una ballata cantata a due voci, con l’esclusivo accompagnamento di banjo e le consuete percussioni dal suono etnico. Heartaching Blues è invece il pezzo più strumentato ed elettrico, e ricorda certi pezzi tra il blues e le sonorità moderne di quando i Los Lobos erano prodotti da Mitchell Froom (o ancora meglio della loro “spin-off band”, i Latin Playboys), mentre Molly Married A Traveling Man è l’ennesima ballad dal sapore tradizionale, stavolta con la slide acustica di Ry in evidenza assieme al solito violino; chiusura con When The Train Comes Along, dal bel motivo di fondo cantato quasi a cappella (ci sono solo piano e basso, ma suonati in punta di dita).

Un dischetto quindi piacevole questo “vero” esordio di Joachim Cooder, che non vi farà rimpiangere i soldi spesi, anche se in futuro auspico arrangiamenti più variegati con una minor incidenza delle percussioni.

Marco Verdi