Ristampe Che Passione 2! ELO & Jeff Lynne

*NDB. Il 2 al titolo l’ho aggiunto io, in quanto già utilizzato in un vecchio post, mentre aggiungo ancora che le ristampe verranno pubblicate la settimana prossima in Italia e quella successiva in Inghilterra e Stati Uniti, quindi le leggete in anteprima sull’uscita: la parola a Marco.

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Electric Light Orchestra: Live (Frontiers CD) Electric Light Orchestra: Zoom (Frontiers CD)

Jeff Lynne: Armchair Theatre (Frontiers CD)

In realtà all’inizio avevo pensato di intitolare questo post “Barrel Bottom Scratching”, in quanto è da un po’ di tempo che il mio amico Jeff Lynne tende a cucinare con gli avanzi (lo scorso anno un dischetto di cover, Long Wave, di appena mezz’oretta ed una collezione di nuove incisioni di successi della ELO dal titolo di Mr. Blue Sky), ma siccome tra queste tre ristampe ce n’è almeno una del tutto inedita (più o meno, e con qualche difettuccio come vedremo) ed una è di un disco introvabile da anni, qualche punto di interesse c’è.

Live.  Questo sarebbe il disco “inedito”, ma in realtà è la riproposizione su CD del DVD Zoom Tour Live, che conteneva un concerto televisivo del 2001 di Jeff & Band (ribattezzata ELO per chiari motivi di marketing, e forse per la presenza del tastierista Richard Tandy), ma, mentre nel DVD vi erano ben ventitre brani, in questo CD ne vengono riportati solo undici. I fans non potranno comunque esimersi dall’acquisto perché, e qui sta la finezza, quattro di questi undici non erano sul DVD (Secret Messages, Sweet Talkin’ Woman, Confusion e Twilight), e quindi udibili qui per la prima volta.  (So comunque che esistono altre esecuzioni, tra cui Rock’n’Roll Is King, tuttora inedite, quindi aspettiamoci qualche altra “sorpresa” futura). Non sto chiaramente a parlarvi delle canzoni, le conoscete tutti, ma dico solo che comunque il concerto è ottimo, suonato con vigore (nella band ci sono anche i fratelli Bissonette, Matt e Gregg, alla sezione ritmica, gente abituata a pompare) e con Jeff in forma smagliante; in più, come ulteriore bonus, ci sono due brani di studio nuovi di zecca: il rock’n’roll allo stato puro Out Of Luck, breve ma trascinante, e Cold Feet, un brano di quelli che Lynne scrive anche quando dorme.

Zoom.  Album uscito nel 2001 e che segnava il ritorno su disco della ELO da Balance Of Power del 1986, era in realtà un disco del solo Jeff (con Tandy in un solo brano, più due ospiti di prestigio come George Harrison e Ringo Starr), accreditato al suo ex gruppo un po’ per motivi commerciali ed un po’ per fare chiarezza (all’epoca girava infatti una band di ex membri della ELO che si faceva chiamare Electric Light Orchestra Part II, vi assicuro una cosa triste).

Un discreto album, con meno violoncelli e più chitarre, che vede Jeff in buona forma ma non smagliante: diciamo che ad undici anni dal suo ultimo album di materiale originale uno poteva pensare anche a qualcosa di meglio. Ci sono alcuni ottimi brani (la vigorosa Alright, che apre l’album all’insegna del rock, la languida Moment In Paradise, Just For Love, con il classico ELO-sound, il boogie trascinante Easy Money e la solare Melting In The Sun), ma anche diversi riempitivi (In My Own Time, A Long Time Gone, Lonesome Lullaby). L’impressione è quella di un’ottima cena, ma riscaldata e riproposta la sera dopo: manca la freschezza.

Anche qui troviamo due bonus track: una Turn To Stone presa dal DVD Zoom Tour Live ma non presente sul CD di cui vi ho parlato sopra (ma che burlone il nostro Jeff!) e One Day, un inedito registrato nel 2004 e superiore a molto del materiale presente su Zoom. E con Zoom, in teoria, si chiude la campagna di ristampe della ELO, anche se mancherebbero all’appello il Live del 1974 (tutt’altro che imperdibile) e la colonna sonora del film Xanadu, che però era per metà appannaggio di Olivia Newton-John.

Armchair Theatre.  A livello artistico, il migliore dei tre: primo (e unico, fino a Long Wave dello scorso anno) disco accreditato al solo Jeff, uscito nel 1990 e fuori catalogo da anni, Armchair Theatre è un disco veramente ispirato, che, se si escludono le tre cover presenti (Don’t Let Go, September Song e Stormy Weather), interpretate in maniera un po’ troppo scolastica, ci presenta alcune delle migliori canzoni scritte da Jeff, suonate e prodotte alla grande. Su tutte Lift Me Up, uno splendido e solare pop rock, influenzato chiaramente dai Beach Boys (ma tutto il disco profuma di California), con George Harrison che suona la slide da par suo. Non male anche il singolo dell’epoca, l’energica ma orecchiabile Every Little Thing, l’insolita Now You’re Gone, suonata con musicisti indiani e con una bella coda strumentale, la gradevole Don’t Say Goodbye, con tutti e due i piedi negli anni sessanta, e la bella What Would It Take, che sembra una outtake dei Traveling Wilburys. Per finire con la toccante ballad Blown Away, scritta con Tom Petty, e la squisita e breve folk song ecologista Save Me Now. Anche qui due bonus (ma pare che le outtakes fossero molte di più), la lenta Forecast, un brano nella media, e la scoppiettante e solare Borderline (versione alternata di un lato B dell’epoca), che non avrebbe sfigurato affatto sull’album.

Particolare per maniaci: le copertine delle reissues di Zoom e Armchair Theatre escono leggermente diverse da quelle originali. Accogliamo dunque con (moderato) giubilo queste tre ristampe, adesso però è ora che Lynne la smetta di sparpagliare canzoni inedite come bonus dei vari dischi (e nella versione giapponese di Zoom ce n’è un’altra, Lucky Motel, che non è quella di John Trudell) e che ci consegni un disco nuovo come si deve.

Marco Verdi                             

Sempre “Vivi” Ma Solo Per Nostalgici? – Commander Cody & His Modern Day Airmen – Live From The Island

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Commander Cody & His Modern Day Airmen – Live From The Island Woodstock Rec.

Se in altre attività il termine “Comandante” si attribuisce, di volta in volta, a varie personalità, nella musica “Commander” spetta di diritto a George Frayne, pianista, cantante e leader, un tempo dei Lost Planet ed ora dei Modern Day Airmen, che si avvicinano a grandi passi ai 50 anni di attività, mentre Frayne l’anno prossimo compirà 70 anni, ma non si direbbe! E’ assodato che i Live sono sempre stati tra i fiori all’occhiello della formazione e anche se questo Live From The Island, registrato in quel di Long Island, NY non ha la potenza di classici come Live In Deep From The Heart Of Texas o il doppio We’ve Got A Live One Here, si lascia ascoltare con piacere e il “divertimento” non manca, fin dall’iniziale Too Much Fun, dove l’irresistibile miscela di boogie, western swing, country, rockabilly e R&R, colpisce una volta ancora.

Tra l’altro è l’unico brano dove appare, come ospite, il “leggendario” Bill Kirchen alla chitarra, gli altri sono tutti nuovi ma si difendono, con  il Professor Louie che si occupa di organo e fisa, veterano di mille battaglie (leader dei Crowmatix e collaboratore della Band negli ultimi album di studio degli anni ’90) che tiene unito il gruppo. In Riot In Cell Block #9 si apprezza la solista del “nuovo” Mark Emerick, Oh Momma Momma scritta da Frayne/Tichy è un tributo alla musica di New Orleans, con piano e fisarmonica a guidare le danze. Thanx A Lot Ranger è uno di quei surreali e scatenati rock’n’roll che hanno costellato la carriera del gruppo, grinta e sound ci sono ancora, con Emerick che si rivela un signor chitarrista nel corso di tutto il concerto. River City era un altro degli scatenati “classici” scritti da Billy C. Farlow e il pubblico si diverte sempre. Il comandante spesso lascia scorrere velocemente le mani sulla tastiera del suo pianoforte, come in una deliziosa House Of Blue Lights e il resto della band realizza una cover corale di Lightnin’ Bar Blues, scritta ai tempi che furono dal grande Hoyt Axton.

Gran finale con i classici in sequenza (ma niente Willin’, per me la loro rimane una delle versioni più belle in assoluto del brano di Lowell George, peccato, comunque il video l’ho messo lo stesso): in ogni caso ci consoliamo con Rock That Boogie, irrefrenabile come al solito, una Hot Rod Lincoln come di consueto più veloce della luce e con la chitarra di Emerick che non fa rimpiangere le evoluzioni di Bill Kirchen, anche se ci mancano il violino e sax di Andy Stein e la pedal steel di Bobby Black, ma erano altri tempi. Ma non manca il boogie woogie scatenato in Beat Me Daddy 8 To The Bar con il “Comandante” e il “Professore” che si scambiano sciabolate di piano e organo e la presentazione di tutta la band (anche se mi sfugge l’utilità di tale Miss Marie!). Come si usa dire “last but not least”, si torna nei saloon del Texas per una travolgente Lost In The Ozone Again, dove anche Miss Marie riesce a cantare un verso. Da Detroit, Michigan, via California e Texas, ancora una volta, a New York City Commander Cody & His Modern Day Airmen: questa volta è proprio il caso di dire “solo per nostalgici”!

Bruno Conti     

Li Ho Già Visti Da Qualche Parte?!? Tributi a Lynyrd Snynyrd e ZZ Top

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Pride of The South – All-Star Tribute To Lynyrd Skynyrd

Four Flat Tires On A Muddy Road – All-Star Tribute To ZZ Top

Rokkarola Records/Music Avenue

Una Premessa: sono quasi più lunghi i titoli, delle recensioni di questi tributi. Perché? Va bene la moda del tributo, ad un artista o a un disco, ma obiettivamente mi pareva strano che fossero usciti due ennesimi dischetti dedicati alla musica di Lynyrd Skynyrd e ZZ Top. La materia trattata è ampia ma, soprattutto la band di Jacksonville, ha avuto moltissimi album dedicati alla propria musica nel corso degli anni. Uno degli ultimi, uscito in origine nel 2008, se togliete il Pride Of The South dal titolo, cambiate la copertina e l’ordine dei pezzi, è esattamente lo stesso disco uscito per la Cleopatra Records alcuni anni fa. Invece l’altro pure. Quindi uomo avvisato, se li avete già presi, non è il caso di ripetersi. Se viceversa mancano all’appello, un pensierino lo potete anche fare per i Lynyrd Skynyrd, evitare quello agli ZZ Top.

Una volta tanto i nomi impegnati in questa operazione sono congrui (per il primo dischetto) con i soggetti trattati e se nessuno può migliorare gli originali in alcuni casi ci vanno vicino, essendo fatti decisamente bene. Superato il disappunto della riproposizione “mascherata” alcune versioni sono veramente gagliarde: dall’iniziale Sweet Home Alabama ripresa dagli Outlaws con una resa vocale e strumentale quasi pari all’originale, con il basso che pompa, le chitarre tirate al punto giusto, il piano perfetto e una notevole interpretazione vocale; bene anche Double Trouble nella versione di Artimus Pyle e Ed King, due che conoscono l’argomento alla perfezione. La versione bluesata di That Smell dei Canned Heat ricorda il boogie del passato e anche gli Atlanta Rhythm Section rendono onore a Call Me The Breeze. Rick Derringer, Pat Travers e Great White vanno giù duretti ma le loro versioni non sono male. La Gimme Three Steps di Walter Trout è decisamente buona. Addirittura ottima The Seasons che compariva in First…And Last, scritta e cantata ai tempi (‘71/’72) da Rickey Medlocke, ora ripresa dai “suoi” Blackfoot. Black Oak Arkansas, Jason McMaster e Sky Saxon (l’ex Seeds è scomparso nel 2009, ed era una dei motivi per cui non mi “tornava” questo tributo del 2013!) non c’entrano moltissimo, mentre la versione di Free Bird di Molly Hatchet e Charlie Daniels, uniti per la causa sudista, ha un suo “vigoroso” perché.

Four Flat Tires… è meno valida, per usare un eufemismo, come compilation, alcuni dei nomi sono gli stessi, ma qui l’argomento più che il southern è un boogie rock-blues che spesso sconfina nell’hard rock di maniera: si parte bene con Gimme All Your Lovin’ di Walter Trout e Sharp Dressed Man dei Molly Hatchet e anche Pat Travers rende giustizia a Waitin’ For The Bus e al bluesaccio di Jesus Just Left Chicago mentre tutta la parte centrale e finale con Mick Moody, Lea Hart (un uomo nonostante il nome), Steve Overland sfocia in un heavy AOR veramente scarso e anche la versione di La Grange, nonostante il vocione di Jim Dandy dei Black Oak Arkansas non è proprio memorabile e pure i National Dust picchiano a vuoto, un filo meglio Legs di Artimus Pyle ma tale Ray Calcutt riesce a peggiorare Planet Of Women che già non era bella in originale, il periodo “sintetico” anni ’80 e fino al finale, anche con un Fee Waybill dei Tubes che c’entra come i cavoli a merenda, si va sempre peggiorando, fino alla ripresa in medley dei primi due brani del tributo fatta dalla Atlanta Rhythm Section,  appena decente, e posta in coda al progetto. In definitiva, mi ripeto, nonostante trattasi di CD già usciti, il primo è un buon tributo, l’altro da evitare, bello il titolo ma il contenuto…

Bruno Conti

A Tutto Country! Kyle Park, Thompson Square, Eric Church, Alan Jackson

Kyle Park – Beggin’ For More – Thirty Tigers CD

Thompson Square – Just Feels Good – Stoney Creek CD

Eric Church – Caught In The Act Live – EMI Nashville CD

Alan Jackson – Precious Memories Volume II – EMI Nashville CD

Oggi vorrei occuparmi di quattro album di musica country usciti di recente, ognuno a suo modo diverso dall’altro, ma tutti per una ragione o per l’altra degni di menzione.

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Se dovessi giudicare dalle foto pubblicate su fronte e retro copertina di questo Beggin’ For More, Kyle Park ha più la faccia da comico del Saturday Night Live che da cantante country. Questo dilemma viene però spazzato via non appena infilo il CD nel lettore: Park è, a discapito del suo aspetto, un countryman di quelli giusti, con una spiccata predisposizione per un suono elettrico e chitarristico, come piace a noi. Texano di Austin (il che spiega molte cose), Park ha già all’attivo tre album più due EP, e se il precedente Make Or Break Me aveva fatto parlare molto bene di sé oltre i confini del Texas, questo Beggin’ For More è a mio parere destinato anche a fare meglio. Country-rock corroborante, tipicamente texano, nel quale anche violini e steel suonano grintosi, tante chitarre, una voce perfettamente a suo agio e canzoni mai banali (tutte scritte da Kyle, da solo o in collaborazione). Tra i musicisti troviamo gente ben nota a noi carbonari, tra cui Glenn Fukunaga, ex bassista della Joe Ely Band, la richiestissima dobroista Cindy Cashdollar ed il fiddler Larry Franklin, tutti sessionmen abituati a suonare con la parte giusta della città. Grinta, forza e feeling (e canzoni): gli ingredienti giusti per fare un disco di vero country.

  

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I Thompson Square sono in realtà un duo formato da Kiefer e Shawna Thompson, che nella vita sono anche marito e moglie. I due hanno già dato alle stampe un paio d’anni fa il fortunato debutto omonimo, che, grazie anche ad un fittissimo passaparola sui social networks, è sorprendentemente arrivato fino al numero 3 delle country charts di Billboard. Just Feels Good, il loro nuovo lavoro, conferma quanto di buono avevano fatto trapelare con il loro esordio: Kiefer e Shawna, oltre ad essere una bella coppia, sono anche bravi, fanno un country molto elettrico, strettamente imparentato con il rock, hanno due buone voci e sanno scegliere le canzoni (scritte da loro e da alcuni writers di Nashville, tra cui il noto David Lee Murphy, già affermato countryman di suo, ma che da anni si occupa solo di scrittura). Ritmo, chitarre, ottimi impasti vocali e ritornelli adatti sia alle radio sia ai lettori CD di ascoltatori più esigenti: se vogliamo trovare un difetto al disco, direi che manca un po’ in spontaneità.

Le canzoni infatti sono talvolta eccessivamente lavorate, con le sonorità studiate a tavolino, apposta per favorire i passaggi nelle radio di settore ed aumentare il parco clienti: emblematico il fatto che la produzione sia accreditata all’enigmatica sigla LV, dietro la quale si nasconde un vero e proprio team di produttori (ben quattro), che quindi mettono mano eccome nel suono dei due coniugi. Intendiamoci, i producers fanno un buon lavoro, in alcuni casi non intervengono più di tanto, ma anche quando ci vanno giù più pesanti si fermano un attimo prima del livello di guardia: quindi il disco risulta pienamente gradevole lo stesso (d’altronde quando ci sono le canzoni si è già a metà dell’opera), soltanto avrei preferito qualche orpello in meno qua e là.   

Ad ogni modo, Just Feels Good darà sicuramente altre soddisfazioni ai coniugi Thompson (mentre scrivo è già al quarto posto, a pochi giorni dalla sua uscita), e, dato che sono comunque bravi, non me la sento di biasimarli a causa di una produzione un filo troppo levigata.

 

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Eric Church, musicista nativo del North Carolina, è diventato in pochi anni e con soli tre dischi alle spalle una vera e propria superstar in USA: il suo ultimo album, Chief, ha venduto la bellezza di 1.300.000 copie (non male in un periodo di crisi discografica), andando al numero uno non solo nella Billboard Country Chart, ma anche in quella generale. La misura della sua popolarità attuale si può desumere dallo splendido CD/DVD Love For Levon, resoconto del concerto tributo a Levon Helm, nel quale Eric è uno dei pochissimi ad avere a disposizione due brani, mentre gente come John Hiatt, John Prine o Gregg Allman cantano una sola canzone a testa. Il fatto quantomeno insolito è che Church per vendere non ha dovuto scendere a compromessi, anzi non ha cambiato di una virgola il proprio suono: un country robusto, molto robusto, con abbondanti dosi di rock e southern music, un sound chitarristico potente e con una sezione ritmica granitica. Non solo forza e grinta comunque, ma anche feeling a dosi massicce ed ottime canzoni (tutte scritte da Eric), ed è quindi abbastanza naturale che, dopo un tale successo, venga pubblicato questo album dal vivo autocelebrativo: Caught In The Act non fa che confermare quanto di buono si era ascoltato sui dischi di studio.

Anzi, se possibile, la dimensione live amplifica ulteriormente le caratteristiche rock delle canzoni di Church, al punto da farci dimenticare che ci troviamo tra le mani un CD di musica country: chitarre, chitarre, basso, batteria ed ancora chitarre, spariti violini e steel, rimangono un banjo ed un mandolino a far capolino ogni tanto. Eric è accompagnato da una band di sei elementi, tra cui spiccano i chitarristi Driver Williams e Jeff Cease e la sezione ritmica composta da Lee Hendricks al basso ed il granitico Craig Wright alla batteria. L’album è registrato a Chattanooga, Tennessee, alla presenza di un pubblico caldissimo che conosce ogni virgola dei brani di Church: il disco ne contiene ben diciassette (tutte autografe, ma un paio di covers le avrei ascoltate volentieri), ma non c’è un solo attimo di noia nei settanta minuti abbondanti di durata.Un ottimo live che afferma Eric Church come una delle più valide realtà nello sterminato mondo della country music: play it loud! 

         

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Sono da sempre un estimatore di Alan Jackson, lo seguo fin dal suo esordio Here In The Real World, e se posso essere in parte d’accordo con i suoi detrattori che dicono che fa tutti i dischi uguali, è anche vero che suona del vero country ed in quasi 25 anni di carriera non ha mai prodotto ciofeche (se si esclude l’inqualificabile Like Red On A Rose, debacle resa ancor più incomprensibile dal fatto che era prodotto da Alison Krauss, diversamente sempre molto brava). Ora il buon Alan pubblica Precious Memories Volume II, seguito dell’omonimo CD del 2006 in cui rileggeva con uno stile più folk che country una serie di classici della musica gospel.

Anche questo secondo volume è pienamente all’altezza, anzi forse perfino un filo meglio: come già nel primo episodio Jackson si fa accompagnare da un ristretto gruppo di musicisti, tutti alle prese con vari strumenti a corda (niente sezione ritmica) e rilegge una serie di noti traditionals, dimostrando di non essere soltanto una macchina da soldi ma di avere anche un’anima profonda (tra i brani troviamo la title track, stranamente assente dal primo volume, Amazing Grace, When The Roll Is Called Up Yonder e There Is Power In The Blood).

Alan non è Johnny Cash (e temo che non lo sarà mai), ma mi sento di consigliare questo album anche a chi non lo segue da anni.

Marco Verdi

Per L’Occasione, Meglio In Compagnia Che Sola! Carla Olson – Have Harmony Will Travel Vol.1

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Carla Olson – Have Harmony Will Travel Vol. 1 – Continental Coast/CRS/Ird 2013

Chi, come colui che vi scrive, ha amato i Textones, band degli anni ’80 nata dalla scena musicale di Los Angeles, non  può non provare piacere per il ritorno alla ribalta di Carla Olson, un personaggio quasi carismatico del rock californiano degli ultimi quarant’anni. La produzione di questa leggendaria “rockeuse” si è sempre mantenuta ad alti livelli qualitativi. Se l’apice della sua carriera l’ha toccato come “front woman” dei suddetti Textones (Phil Seymour, David Provost, Kathy Valentine, George Callins), con lo splendido album Midnight Mission (84), bissato da Cedar Creek (87) e da una raccolta Through The Canyon (89), la sua attività non ha poi conosciuto cedimenti, diventando una “musicista di culto”, ma lontana dal raggiungere lo “status” di rockstar. Non posso dimenticare il sodalizio con l’ex Byrds Gene Clark (che poteva far rinverdire in chiave più rock i fasti del duo Emmylou Harris-Gram Parsons) e che ha prodotto album come So Rebellious A Lover (87), e non posso neppure scordare la lunga collaborazione, iniziata alla fine degli anni ’90, con l’ex Bluesbreakers e Stones Mick Taylor, concretizzata in un eccellente live Too Hot For Snakes (91). Dopo l’esordio solistico Carla Olson (88), la buona armonia tra i due è continuata con Within An Ace (93) e proseguita anche in Reap The Whirlwind (94), mentre The Ring Of Truth (2001) e Dark Horses (una compilation del 2008)sono i lavori dell’ultima decade, oltre al live inedito del 2008 con i Textones, Detroit ’85: Live And Unreleased.  

Questi deliziosi duetti di Have Harmony Will Travel prodotti e curati dalla stessa Olson, vedono il supporto strumentale di ottimi musicisti come Clem Burke, Cindy Cashdollar, Tom Fillman, Rick Hemmert, Tom Morgan Jr., Pat Robinson, Greg Sutton suoi amici da sempre, e vengono eseguiti con artisti del calibro di Peter Case, Richie Furay (Poco), Scott Kempner, John York (Byrds), Rob Waller (I See Hawks in L.A.), James Intveld, Gary Myrick e la cantante country Juice Newton. L’iniziale You Can Come Crying To Me esce dalla penna di Radney Foster, un brano in mid-tempo ritmato in duetto con Juice Newton, seguito dal vocione di Rob Waller in Look What You’ve Done con Carla al controcanto, mentre Love’s Made A Fool Of You di Buddy Holly, viene eseguita in perfetto stile Roy Orbison da James Intveld. La nota Keep Searchin’ (We’ll Follow The Sun) di Del Shannon, vede un inaspettato Peter Case in una versione “beatlesiana” anni ’60, cui fa seguito una ballata di Chris Jagger (il fratello meno noto di Mick), Still Waters cantata e suonata dalla Olson con Gary Myrick, mentre She Don’t Care About Time del suo vecchio “pard” Gene Clark trova le antiche armonie dei Poco nella voce di Richie Furay.

Il sax di Tom Morgan Jr. introduce All I Needed Was You di Little Steven, e pare di vedere salire sul palco la mitica E-Street Band con la voce di Scott Kempner (dei grandi Del Lords), cui fa seguito la dolce The First In Line, scritta ai tempi da Paul Kennerley per la reunion degli Everly Brothers ed eseguita in duetto con John York, nei Byrds nel ’68-’69. Con il blues di Stringin’ Me On del songwriter e chitarrista James Intveld, Carla ritorna ai suoi antichi amori musicali, in coppia con Juice Newton, mentre Upon A Painted Ocean, viene ripescata dal vasto repertorio di PF Sloan (vi dice niente Eve Of Destruction di Barry McGuire? E’ stato anche uno dei pochi ai quali un collega illustre come Jimmy Webb ha dedicato un brano, P.F. Sloan appunto) sempre in duetto con York, seguita da 8:05 dei Moby Grape ed eseguita da Peter Case, molto sixties. Chiude la versione di un brano di Don Williams Till The Rivers All Run Dry, dal ritmo trascinante, eseguita alla perfezione da Rob Waller,

Per Carla Olson gli anni non sembrano passare, stessa grinta e classe degli importanti esordi con i Textones, una voce di grande personalità (per il sottoscritto tra Chrissie Hynde e Patti Smith), certificata da questo lavoro Have Harmony Will Travel, dove si mette anche al servizio degli altri e  che non solo conferma la classe e la continuità di questa cantante, autrice e chitarrista in grado come poche di nobilitare la figura del rock al femminile, ma che testimonia, una volta di più, la caratura di questa bionda e affascinante signora texana.

L’uscita ufficiale del disco è il 16 aprile, ma in Italia già circola.

Tino Montanari

Adesso Si Ragiona! Tom Jans & Mimi Farina + Take Heart, Continua La “Riscoperta”!

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Tom Jans & Mimi Farina – Take Heart + Tom Jans – Real Gone Music 

*NDB Sembra incredibile ma su YouTube c’è fatta da chiunque meno che da Jans, questa comunque è la prima versione di Dobie Gray, quella di Elvis è nel Post precedente!

Adesso si ragiona! Dopo un lunghissimo periodo di silenzio, decadi addirittura, si torna a parlare di Tom Jans e soprattutto si ripubblicano i suoi dischi in CD: dopo la meritoria antologia Loving Arms, edita dalla australiana Raven, di cui ci siamo occupati un paio di mesi fa, ecco ora per la Real Gone Music questo twofer, con i primi due album in un’unica confezione. Take Heart registrato in coppia con Mimi Farina nel 1971 e l’omonimo Tom Jans del 1974. Ma come, diranno molti, mi sono appena comprato l’antologia e adesso esce questo! Niente paura, la raccolta della Raven contiene 19 brani di cui solo 5 provenivano dai primi due album, quindi i doppioni sono pochissimi e nel contempo Loving Arms è comunque un “must have”, in quanto contiene il meglio dei due album su Columbia (per i quali continuo ad avere una leggera preferenza, più alcuni brani del disco giapponese (ma questo potete andare a rileggervelo nella precedente recensione, dove trovate anche tutti i dati biografici, che non sto a ripetere se non en passant) era-ora-finalmente-in-cd-tom-jans-loving-arms-the-best-of-19.html .

Siamo all’inizio degli anni ’70, Mimi Farina (sorella di Joan Baez) è alla ricerca di un nuovo partner musicale, dopo gli sconquassi avvenuti nella sua vita a seguito della scomparsa di Richard Farina, primo marito e geniale scrittore e cantautore folk, autore di una manciata di album per la Vanguard che ancora oggi vengono ricordati tra i migliori del periodo 1963-1966, scomparso proprio nell’aprile del ’66 quando Mimi aveva 21 anni (per i casi tragici della vita anche Jans quasi ci lasciò la pelle in un incidente di moto pochi mesi prima della morte avvenuta nel 1984, per cause, secondo il parere di amici e conoscenti, legate al fatto). Ma qui siamo ancora lontani da quegli avvenimenti; Joan Baez, tramite il suo chitarrista (erano a Woodstock insieme) e amico Jeffrey Shurtleff, presenta Tom alla sorella Mimi e i due legano subito (qualcuno dice anche sentimentalmente) e partecipano al Big Sur Festival, entrando poi in sala di registrazione per registrare Take Heart. Il contratto con la A&M c’è, il produttore pure, Michael Jackson (ovviamente non “quello”) e anche un ottimo ingegnere del suono nella persona di Henry Lewy, che portano in studio un piccolo gruppo di musicisti di grande valore, adatti al tipo di suono che era in voga in quegli anni, Jim Keltner e Russ Kunkel si alternano alla batteria, Leland Sklar è il bassista, Craig Doerge piano e organo, pare quasi il cast di un disco di Jackson Browne o James Taylor, Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel nella unica cover presente, un brano di Buck Owens e Susan Raye, The Great White Horse, completa la formazione. Un fattore da non dimenticare è che Tom Jans e Mimi Farina erano due pickers eccellenti alla chitarra acustica, come dimostrano nel brano strumentale After The Sugar Harvest, dedicato a Duane Allman.

O come ribadiscono nell’eccellente brano di apertura, Carolina, dedicato, pare, ad una ragazza e non a uno stato, come nel caso della canzone di James Taylor (ma una citazione all’altro brano appare nel testo): le voci si amalgamano alla perfezione, quella di Jans, per quanto interessante, non ha ancora raggiunto la piena maturità, mentre quella di Mimi ricorda molto la sorella, che infatti inciderà il brano In The Quiet Morning (For Janis Joplin), peraltro uno dei migliori presenti in questo esordio. Molto belle anche King And Queens, dove la batteria di Russ Kunkel, dal suono più “tondo”, si rifà moltissimo al suono weastcoastiano dell’epoca e No Need To Be Lonely che ricorda parecchio i brani più romantici di Stills, quando collaborava con la sua “amica Judy dagli occhi blu”, anche il cello di Edgar Lustgarten contribuisce all’atmosfera e le voci prima divise e poi ad armonizzare sono perfette. Piacciono anche Reach Out (For Chris Ross) dove l’unica apparizione dell’organo di Craig Doerge aggiunge una patina più southern allo stile folky d’insieme e le intricate trame elettroacustiche di Madman, quasi orientali in alcuni passaggi.

I due si lasciano a fine 1972, ma quando Jans riappare nel 1974, ha fatto un salto di qualità sesquipedale (ogni tanto mi piace citare il grande Gianni Brera). Il disco omonimo che esce nel 1974, registrato in quel di Nashville, e preceduto dalla prima versione di Loving Arms fatta da Dobie Gray e poi lanciato nella stratosfera da quella di Elvis Presley, incontrato su un treno nella storia raccontata dal padre di Tom, è un piccolo capolavoro nascosto di quel periodo fertile e segna una maturazione notevole di Jans sia come autore che come cantante rispetto ai pur buoni risultati di Take Heart. Lo si capisce sin dall’apertura con Margarita, un brano che non ha nulla da invidiare alle migliori ballate del Tom Waits dell’epoca (che su Bone Machine gli ha anche dedicato un brano), di Jackson Browne, degli Eagles, di Rick Roberts (altro musicista i cui dischi usciti sempre su A&M andrebbero pure rivalutati), per non parlare del primo Jimmy Buffett, quello più country-rock e come sound generale dell’album si potrebbe ricordare anche il Guy Clark dei primi dischi per la Rca, leggermente più “commerciale”. I musicisti sono tutti differenti dall’album precedente, ma sempre sopraffini: Troy Seals e il grande Lonnie Mack si dividono i compiti alla chitarra con Reggie Young, Mike Leach e Kenny Malone, basso e batteria, sono la sezione ritmica e David Briggs, che suonava anche con Elvis in quel periodo, è il tastierista “sommo”.

Per la serie, non è fondamentale citare i musicisti, ma aiuta la comprensione sulla riuscita di un disco. Produce Nestor Willams che era il fratello di Paul (proprio l’autore del Fantasma del Palcoscenico e di Bugsy Malone), Jans scrive tutte le canzoni (con la collaborazione non accreditata sul CD di Will Jennings in alcuni brani, tra i quali l’ottima Old Time Feeling), oltre ad incidere Slippin’ Away di Troy Seals e una bella cover di (Why Don’t You) Meet Me At The Border di Jackie De Shannon con Reggie Young impegnato al sitar. Free and easy, leggermente reggae ma molto californiana anticipa il sound più rock dei futuri album su Columbia. La già citata ballata Old Time Feeling dall’afflato country la incideranno anche Johnny Cash e June Carter mentre in Tender Memory la pedal steel di Weldon Myrick aggiunge pathos al brano. Loving Arms (scritta con Troy Seals) è quel brano meraviglioso che quasi tutti conoscono (uno dei pochissimi di Jans) e la versione contenuta nell’album si appoggia alla grande sulle tastiere, piano e organo, di Briggs. Ma i dieci brani dell’album sono tutti di spessore, Lonnie Mack lavora spesso di fino alla solista e Tom Jans canta veramente bene, sentite la conclusiva Hart’s Island a riprova di questa asserzione. Fate questo nuovo “sacrificio” finanziario e non ve ne pentirete!

Bruno Conti     

Quattro Professionisti Al Lavoro! 4Jacks – Deal With It

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4Jacks – Deal With It – Eller Soul Records

I “4 Fanti” in questione sono in effetti alcuni tra i più bravi musicisti diciamo del Blues minore, un piccolo supergruppo (con la s minuscola) di veterani della scena musicale texana, il più “famoso”, Anson Funderburgh, per i casi della vita, è nato in un paesino del Texas che si chiama Piano, ma poi il destino ha voluto che diventasse uno dei migliori chitarristi della scena blues bianca dello stato della stella solitaria, con molti album a suo nome ma anche innumerevoli collaborazioni a dischi di amici e colleghi, ricordiamo il sodalizio con Sam Myers. Quelli che lo affiancano in questo Deal With It, secondo alcuni, con le loro iniziali costituiscono il patronimico del gruppo (ma manca la C vi avviso subito): Big Joe Maher, il batterista e cantante della band, nonché leader di Big Joe And Dynaflows, che non frequentavo per lavoro da anni (recensioni ovviamente), anche se continua a fare dischi con quel nome, è la J, naturalmente la A è quella di Anson, la K deriva da Kevin McKendree, pianista e organista, produttore pure (anche del disco in questione), mentre la S sta per Steve Mackey, bassista di valore e produttore, ma non per l’occasione, che ha suonato in miliardi di dischi, di country soprattutto ma se la cava egregiamente con le 12 battute.

Non vi sto a citare tutte le collaborazioni dei soggetti in questione perché sarebbe un elenco da pagine gialle, altro soggetto in via di estinzione, ma sono veramente numerosissime e data per eliminata la C, l’hanno sbarrata anche loro sulla copertina del CD (chi sarà stato?), veniamo a questo album, che fin dalla copertina, con i quattro Jacks che campeggiano sotto la scritta Stereophonic Sound, ci riporta ad un sound tipicamente anni ’60, quando il suono era analogico e la stereofonia era ancora una invenzione recente (c’è anche un gruppo giapponese con lo stesso nome, se girate su YouTube trovate decine dei loro video).

Quindi trattasi di disco per “specialisti”, del Blues e di quanto gli gira attorno, volumi volutamente moderati, arrangiamenti sobri e lontani dal rock-blues più duro, molto piano e organo a duettare con la solista di Funderburgh, una ritmica mossa ma anche canonica nei suoi approcci e un cantante come Big Joe Maher che ha la tipica voce da bluesman provetto ma che tiene il ritmo con gusto e vivacità oltre ad essere l’autore (con qualche aiuto dagli altri) di ben nove dei dodici brani contenuti nel CD.  C’è una piacevole presenza di brani strumentali, tre per la precisione, firmati coralmente dalla band, l’iniziale title-track, la mossa Texas Twister e la super funky Painkiller che potrebbe venire da qualche vecchio vinile dei Meters o di Booker T & The Mg’s. Ricca di funkytudine è anche la cover della classica I Don’t Want To Be President di Percy Mayfield, percorsa dalle stilettate della solista di Funderburgh e cantata con grande aplomb da Maher che si diverte, con i suoi soci, anche nel divertente boogie di Ansonmypants con doppia tastiera della famiglia McKendree che attende l’arrivo del citato Anson.

Your Turn To Cry è il classico slow blues d’ordinanza scritto da Deadric Malone (ovvero Don Robey), uno che di questi brani ne ha scritti a decine perché probabilmente li viveva, almeno secondo i ricordi di Jerry Leiber della famosa coppia Leiber & Stoller, che ne parla come di una sorta di gangster che spesso si appropriava delle canzoni dei suoi assistiti e poi le pubblicava a nome proprio. La versione più famosa di questo brano è forse quella di Otis Rush. Ricca di vigore e cantata con grande passione da Big Joe Maher anche una ottima Thunder And Lightning. Altra cover, la terza e ultima e altro blues lento ad alta gradazione per Bad News Baby scritta da tale L. Cadden che ammetto di non avere mai sentito nominare, ma questo non mi impedisce di apprezzare il brano, costruito ottimamente sull’interazione tra la chitarra di Funderburgh, il piano di McKendree e la voce di Maher, come un po’ in tutto l’album che si lascia ascoltare con grande piacere. Dischi così ce ne sono in giro molti ma sono pur sempre 4 Professionisti al lavoro!

Bruno Conti    

“Vecchio” Ma Sempre Nuovo. Ronnie Earl & The Broadcasters – Just For Today

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Ronnie Earl and The Broadcasters – Just For Today – Stony Plain/CRS/Ird

Mi è capitato molte volte, nel corso degli anni, di recensire dischi di Ronnie Earl per il Busca (e per il Blog temp-7c86eb47861bfd87e08cf80efc4797bd.html), e, come dicevo nella recensione del penultimo, Spread The Love e ribadisco per questo Just For Today, se vi dovessi dire qual è il mio album preferito nella sua copiosa discografia, sarei in seria difficoltà e quindi ogni volta, non sbagliando mai, mi limito a citare il più recente. Questo non vuol dire che sono tutti uguali fra loro (beh, un po’ sì, per essere onesti, anche se il livello è sempre medio-alto): d’altronde Earl (un quasi omonimo, tradotto in inglese, di chi scrive) è un virtuoso chitarrista, uno dei migliori, fa del Blues, perlopiù strumentale, è su piazza da oltre un trentennio, prima nei Roomful Of Blues, poi come leader di varie edizioni dei Broadcasters, periodicamente piazza un nuovo CD sul mercato che, immancabilmente, soddisfa la piccola schiera di appassionati del personaggio e del genere, ma non turba i sonni di coloro che non si muovono entro queste ristrette coordinate.

E’ questo è un peccato, perché il musicista merita, escludendo i fans, che una volta appurato che il nostro non abbia fatto un disco di dubstep o tarantelle delle Transilvania (se esistono!) e quindi acquistano in ogni caso i suoi dischi, anche l’appassionato di buona musica un paio di dischi del buon vecchio Ronnie (60 anni quest’anno) li dovrebbe avere nella propria discoteca. Perchè non proprio Just For Love, che tra l’altro è uno dei rari dischi dal vivo registrati nel corso della sua carriera? Gli elementi migliori ci sono sempre, come al solito: tecnica strumentale all’attrezzo (di solito una Fender Telecaster) mostruosa, in bilico tra le folate texane chitarristiche à la Stevie Ray Vaughan di una iniziale tiratissima The Big Train, dove ben sostenuto dall’organo B3 di Dave Limina che gli tira la volata, mostra tutte le sue virtù di solista, ma anche (come direbbe un “nostro amico” politico”, ma è ancora in giro? Quasi quasi gli faccio scrivere la prefazione al Blog, è uno specialista del genere) gli slow blues in crescendo, con finali lancinanti che ti sommergono sotto un diluvio di note e che sono il suo marchio di fabbrica e che molto, secondo me, devono a Roy Buchanan, un altro che come Earl raramente cantava e quando lo faceva era meglio non lo avesse fatto, Blues For Celie è il primo della serie, e si becca la giusta ovazione del pubblico a fine esibizione, pur segnalandovi che il disco è registrato in modo perfetto, non sembra neppure un live, lo capisci solo da applausi e presentazioni a fine brano.

D’altronde Ronnie Earl, per problemi di salute, raramente suona dal vivo, e quando lo fa rimane comunque nei paraggi di casa, nel Massachusetts, Boston e dintorni (ma quest’anno è in tour negli States), oppure invita il pubblico in studio, come per il precedente live del 2007, Hope Radio (anche in DVD). Miracle è un altro di quei brani torrenziali, dove lo spirito del miglior Santana o di Buchanan via Jeff Beck si impadronisce delle mani di questo uomo che è una vera forza della natura con una chitarra in mano. Se ami il genere, ripeto, uno così non ti stanchi mai di ascoltarlo, peraltro lui non è instancabile come Bonamassa che fa quattro o cinque dischi all’anno, quindi è sostenibile anche a livello finanziario, il precedente CD era del 2010. Heart Of Glass( ma anche la finale Pastorale) è un altro di quei brani, lenti e sereni, ricchi di spiritualità, dove Earl esplora il manico della sua chitarra alla ricerca di soluzioni di tecnica e di feeling che ti lasciano sempre basito per l’intensità dei risultati. Rush Hour è uno dei rari shuffle, dedicato al grande Otis Rush, dove Ronnie viene raggiunto sul palco dal secondo chitarrista Nicholas Tabarias per fare pulsare alla grande il suo Blues. Ampio spazio per Dave Limina, questa volta soprattutto al piano, nel travolgente Vernice’s Boogie ma poi è nuovamente tempo di tributi con Blues For Hubert Sumlin, un altro dei grandi, affettuosamente ringraziato anche nelle note del libretto, uno slow di quelli torridi come il nostro sa fare come pochi.

Per la cover di Equinox di John Coltrane oltre allo stile di Carlos Santana i Broadcasters si affidano anche ad un groove latineggiante che fa tanto Santana Band e la solista, ben coadiuvata dall’organo di Limina, cesella note, timbri e volumi con una precisione e una varietà incredibili che sfociano anche in territori tra jazz e blues, come ama fare pure un altro virtuoso della chitarra come Robben Ford. Ain’t Nobody’s Business, un’altra delle cover presenti, faceva parte del repertorio di Billie Holiday e sotto la guida del piano di Limina la band si lancia anche in territori ragtime e poi di nuovo, in tuffo, nel blues. Un altro omaggio Robert Nighthawk Stomp, quasi a tempo di R&R e sono di nuovo le 12 battute di Jukein’ a introdurre l’unico brano cantato dell’album, una fantastica e vibrante I’d Rather Go Blind affidata alla ottima voce di Diane Blue. Forse niente di nuovo, ma non suona mai “vecchio”!  

Esce il 9 Aprile.

Bruno Conti

“Sembra” Lo Stesso, Bello In Ogni Caso! The Last Bison – Inheritance

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The Last Bison – Inheritance – Universal Republic

Se inserendo il dischetto nel lettore vi sembra di ascoltare una jam session tra i Mumford and Sons e i primi Decemberists o gli Avett Brothers più tradizionali, diciamo che, in linea di massima, non vi state sbagliando. La prima impressione è quella di una band folk vecchio stile, pur essendo in metà di mille, ok facciamo sette, come da foto, gatto escluso: due famiglie, gli Hardesty, Ben, il leader, voce solista, chitarra e batteria (tipo Marcus Mumford) ed autore dei brani, la sorella Hannah, alle percussioni, orchestra bells, diavolerie varie e armonie vocali e il babbo Dan, banjo, chitarra, mandolino e armonie vocali. Un’altra coppia di fratelli, amici di famiglia, Andrew & Jay Benfante, anche loro percussioni varie (ma ascoltando il disco non si direbbe che ci sia quest profusione di elementi ritimici) e il vecchio pump organ, aggiungete il cello di Amos Housworth e il violino di Teresa Totheroh, che sono altri elementi portanti del sound della band e voilà, il gioco è fatto.

Perché quel titolo, che poteva anche essere “sempre lo stesso”? Presto detto, oltre al genere che li accomuna ad altre formazioni, magari non un movimento, ma quasi, anche la storia del disco è curiosa. Il gruppo nasce nel 2010 e nel 2011 pubblicano, a livello indipendente, il primo album, Quill. Però allora si chiamavano ancora Bison, nome poi cambiato perché c’era un’altra band in circolazione con lo stesso nome, potrebbero essere i Bison B.C.? Boh. Ma il fatto peculiare è che ben sei brani di quell’album sono confluiti, pari pari, senza remix o nuove versioni e diversi arrangiamenti, in questa versione diciamo da major di Inheritance. Altri 4 erano già apparsi nell’EP dallo stesso titolo pubblicato lo scorso anno. Quindi alla fine, l’unico brano nuovo, per chi già li conosceva, è la title-track dell’album, che purtroppo è uno strumentale di  solo1 minuto e 1 secondo. Ma per chi non lo conosce è tutta un’altra storia.

Diciamo subito che, a fronte di una serie quasi unanime di critiche e recensioni positive, i Bison si sono trovati già fronteggiare un piccolo plotone dei “nemici” dei Mumford and Sons e soci, nato da qualche tempo, che trova questa musica monotona e ripetiva e pure noiosa, peraltro opinione rispetabilissima, se non fosse per partito preso, ma siccome non voglio creare una polemica inutile, passiamo a parlare dell’album: dopo la breve introduzione di Inheritance, parte Quill, mandolino, banjo e grancassa a manetta, cello e violino sottotraccia, alcuni strani strumenti dalle sonorità arcaiche, ma che si rifanno a vibrafono e antichi organetti, ricordano a chi scrive anche quelle atmosfere da fiera paesana che si potevano ascoltare (con diverse sonorità ma stesso spirito) in Being For The Benefit of Mr.Kite su Sgt. Pepper. Poi parte la loro “grande hit”, quella Switzerland che renderà felici i nostri vicini di casa della confederazione elvetica, atmosfere accelerate, percussioni in evidenza, ma anche, almeno nella parte iniziale, una voce stentorea, da fratelli americani dei Mumford, armonie vocali meno intricate ma sempre coinvolgenti, un ritornello che ti entra in testa, intervallato a segmenti più complessi, vagamente bucolici, con folk e arie classicheggianti che vanno a braccetto, violino e cello che cesellano, la voce di Ben Hardesty potrebbe avere qualche similitudine con quella di un Robin Williamson dell’Incredible String Band dei giorni nostri. Dark Am I sembra avvicinarsi agli Avett Brothers più roots, spruzzate di archi sul mandolino che conduce le danze, musica che sale e scende e il cantato. che pare sincero e non costruito, dei due fratelli Hardesty, con un continuo vorticare ciclico della musica che coinvolge e attrae l’ascoltatore.

River Rhine è più intima e meno enfatica, ma gli interventi corali quasi gospel delle voci arricchiscono un impianto costruito solo sull’acustica e sulle percussioni, con brevi interventi del pump organ, mentre Tired Hands con la sua apertura tracciata da violino e violoncello e poi il resto del gruppo che segue ha nuovamente quell’aura dei Beatles classicheggianti, quando seguivano l’impulso del Paul McCartney melodico ma colto, vista però dall’altra sponda dell’Atlantico, tra Copland e la mountain music. Molto bella anche Take All The Time sempre in bilico tra classico e folk, con la voce di  Ben Hardesty, sostenuta dal babbo, che si avventura in qualche ardito falsetto mentre cello e violino al solito cesellano le note. Interessante anche il quasi minuetto di Watches and Chains, sempre danzato su queste atmosfere sospese e raramente troppo cariche, improvvisamente squarciato da accelerazioni strumentali e poi quieto di nuovo. Musica che in teoria non parrebbe destinata al successo ma che sulla scia di formazioni come i Mumford and Sons, gli Avett Brothers, gli Hem, i Decemberists, gli Old Crow Medicine Show, i Fleet Foxes, i Monsters and Men e molti altri, sotto forme musicali diversificate e con diverse gradazioni di “elettricità” rock, sta lentamente conquistando un pubblico fedele (?) in giro per il mondo. 

Forse non sono così sensazionali come vengono dipinti, ma sicuramente Inheritance ha un suo fascino e una sua peculiarità, per cui segnatevi questo nome, Last Bison, e se vi capita cercate di ascoltarlo, forse non vi salverà la vita ma sicuramente vi garantirà 45 minuti di buona musica, e non è poco.

Bruno Conti

 

A Proposito Di Nuovi Dylan, Thom Chacon!

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Thom Chacon – Thom Chacon Pie Records

Di recente su questo blog, in seguito ad un post dedicato a Dan Bern, si è aperto un piccolo dibattito riguardo ai cosiddetti “Nuovi Dylan”, un termine appioppato dalla critica musicale dai primi anni settanta ad ogni musicista che lasciava intravedere la benché minima influenza da parte del bardo di Duluth. Ebbene, Thom Chacon, cantautore originario del Colorado, potrebbe essere solo l’ultimo in ordine di tempo ad essere iscritto di diritto al club dei Nuovi Dylan, ma temo che questa catalogazione semplicistica non gli farebbe giustizia. Certo, non appena Thom apre bocca è impossibile non pensare al grande Bob, tanto il suo timbro è simile a quello dell’autore di Like A Rolling Stone (periodo giovanile, non certo il rantolo waitsiano di oggi), ma volendo andare più in profondità, lo stile si dimostra più variegato.

Molti brani hanno sicuramente una base folk, e quindi riconducibili direttamente a Dylan, ma in molti casi ho notato anche qualche elemento di John Prine e dello Springsteen più cantautorale (due autori comunque definiti anch’essi nuovi Dylan all’epoca) e perfino di Kris Kristofferson e, se vogliamo, Townes Van Zandt (che invece non sono mai appartenuti al club). Musica cantautorale quindi, ma con un quid di personalità che fa di questo Thom Chacon un lavoro pienamente riuscito e soddisfacente (Thom ha altri due dischi all’attivo, Live At Folsom Prison – dove ho già sentito questo titolo? – e Featherweight Fighter, entrambi però abbastanza introvabili), tra i migliori dischi di cantautorato giovane da me ascoltati ultimamente. Certo, a volte la somiglianza vocale con Dylan può essere un limite, in quanto può far pensare ad uno stile derivativo anche quando il suono è più personale, ma in definitiva a noi interessa ascoltare buona musica e quindi non starei troppo a spaccare il capello in quattro.

Un altro punto di contatto con Dylan è dato dal fatto che Thom utilizza la sezione ritmica che accompagna Bob on stage da anni, e cioè Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria (mentre gli altri musicisti, a me sconosciuti, rispondono ai nomi di Arlan Schierbaum, William Wittman e Peter Stuart Kohman, oltre al produttore Perry Margouleff), colorando con gusto e misura una serie di (ottime) ballate di base folk.

*NDB. Ogni tanto mi intrometto, in qualità di Blogger titolare. Arlan Schierbaum è il tastierista (ma suona anche la fisarmonica) nella band di Bonamassa, pure nell’ultimo live acustico, oltre ad essere presente negli ultimi dischi di Beth Hart e John Hiatt e Janiva Magness, quindi uno bravo, fine dell’intervento!

 

Il disco, 12 canzoni, dura all’incirca 35 minuti, e questo a mio giudizio è un altro punto a suo favore (i dischi troppo lunghi talvolta mi stancano).

Apre Innocent Man: passo cadenzato, armonica, voce dylaniana al 100% (periodo ‘63/’64), ma comunque una bella canzone. Ancora meglio American Dream, atmosfera quasi western, con uno stile che si divide tra Dylan e Prine: la strumentazione e parca (come in tutto il CD) ma di grande impatto emotivo. Juarez, Mexico, voce a parte, ha tutte le caratteristiche di una ballata texana di Kristofferson: la melodia, l’andamento dolente, l’arrangiamento scarno (voce, chitarra, basso e fisa) ed il modo di porgere il brano sono tipiche del barbuto cantautore di Brownsville. Non pensate però ad un disco derivativo e basta: le canzoni sono di prima qualità, e quelle sono farina del sacco di Chacon.

La splendida A Life Beyond Here ha un arrangiamento più rock ed un mood irresistibile, un brano scintillante che ha il difetto di durare troppo poco; la folkeggiante Chasing The Pain è tanto semplice quanto intensa, chitarra, voce, una spolveratina d’organo e tanto feeling; Alcohol è più elettrica e con un bel crescendo, ma tutto sommato un gradino sotto alle precedenti. Ain’t Gonna Take Us Alive è un brano più solare, un country-rock Dylan-meets-Prine, vibrante e dal refrain vincente; Big River (non è quella di Cash), è un folk-rock attendista ma cadenzato, con l’aiuto vocale di Bess Chacon (moglie? sorella?). Amy è molto bella, intensa, matura, mentre con No More Trouble torniamo in territori cari a Mr. Zimmerman; la deliziosa folk song Bus Drivin’ Blues porta alla conclusiva Grant County Side, un brano voce-chitarra-armonica scarna ma molto intensa, con uno script degno del Boss.

Bel dischetto: Thom Chacon non è solo uno dei tanti Nuovi Dylan, ma ha abbastanza talento e personalità per far parlare bene di sé anche in futuro.

Marco Verdi