La “Nonna” Del Southern Soul! Candi Staton – Life Happens

candi staton

Candi Staton – Life Happens – Beracah Records

La sua carta d’identità recita anni 74 (ma dalla cover del CD si vede che sono portati benissimo), anche se prima di leggere questa recensione, molti, tanti (purtroppo) non sapranno chi è Candi Staton, complice una carriera che ha portato questa meravigliosa cantante ad abbandonare la “soul music” per oltre un ventennio (dopo i successi degli anni ’70), per una serie di problemi personali (tra perdite personali, divorzi e dipendenza dall’alcol), trovando infine rifugio tra le mura della Chiesa, cosa che l’ha portata ad incidere per anni solo brani “gospel”. L’album della rinascita, lo splendido His Hands (06) venne alla luce sotto la produzione di Mark Nevers dei Lambchop, e conteneva undici perle che spaziavano fra soul e rhythm & blues, alcune cover d’autore, come Cry To Me di Bert “Russell” Berns, lanciata dal grande Solomon Burke, tutte cantate con “anima” genuina dalla Staton. Disco bissato dal successivo Who’s Hurting Now? (09), nell’interregno è stata pubblicata una compilation di gospel-soul come Evidence The Complete Fame Records Masters (11), con materiale d’archivio. Ora eccola di nuovo sul mio lettore con questo Life Happens, ad inondarci i padiglioni auricolari con la sua musica che spazia dal country rock al southern soul, con sfumature di toni blues e funky, facendosi produrre dal grande Rick Hall  titolare della Fame Records, ricomponendo un binomio di grande successo negli anni ’70.

candi staton 1

Per questo lavoro (il ventisettesimo della sua carriera, fidatevi, ho contato e ricontato) oltre a musicisti di area, Candi si è avvalsa, tra gli altri, di Toby Baker e Larry Byron alle chitarre, Mose Davis alle tastiere, Mike Burton al sassofono, Steve Herman al corno, e di suo figlio Marcus Williams (ha suonato anche con Isaac Hayes e Peabo Bryson) alla batteria, registrando il tutto negli storici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama https://www.youtube.com/watch?v=QvpfqzZjpOI .

candi staton 3

Life Happens è una miscellanea di generi che dal brano d’apertura, Three Minutes To A Relapse condiviso con Jason Isbell e John Paul White dei Civil Wars, spazia tra il rhythm and blues di brani come Go Baby Go, Close To You e Where Were You When You Knew?, le atmosfere soul di Have You Seen The Children? e Beware, She’s After Your Man, passa per il funky affumicato alla Etta James di Never Even Had The Chance e Even The Bad Times Are Good, ma è indubbio che siano le ballate dove Candi dà il meglio di sé, nelle languide My Heart’s On Empty, I Ain’t Easy To Love https://www.youtube.com/watch?v=9J-7KChSle8 e You Treat Me Like A Secret, Commitment, per finire con le struggenti armonie di una Better World Coming, e i leggeri rintocchi di pianoforte e chitarra, che dialogano brillantemente con la Staton e varie voci di supporto in una celestiale For Eternity.

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La cantante di Hanceville, Alabama, con quattro decenni di carriera alle spalle, è stata sicuramente artefice di un percorso artistico che per un certo periodo l’ha vista anche protagonista della “disco”, attraversando il deserto per la redenzione con il “gospel”, e trovando la meritata serenità con la triade iniziala con His Hands, fino a giungere a questo Life Happens, dove ogni canzone è la storia della sua vita, con tutti i suoi alti e bassi, gioie e dolori (amori, disperazione, redenzione e speranza). Per chi scrive è bello sapere che Candi Staton non è andata via, canta ancora per noi, perché di dischi cosi, personalmente ne vorrei almeno uno al mese. Altamente consigliato.

Tino Montanari

Buone O Cattive Notizie Per I Fans Dei Queen? Vedete Voi! Live At The Rainbow ’74 In Uscita il 9 Settembre

queen live at the rainbow '74 queen live at the rainbow '74 dvd blu-ray

La risposta al quesito del Post dipende sempre se tenete di più al portafoglio o al cuore, la zona è limitrofa. Andiamo a vedere cosa conterrà e soprattutto in quante versioni verrà pubblicato questo Queen Live At The Rainbow ’74.

Versione CD singola

SHEER HEART ATTACK TOUR
Live at the Rainbow, November ’74

https://www.youtube.com/watch?v=KxJ9AI8OMdA

1. Procession
2. Now I’m Here
3. Ogre Battle
4. Father To Son
5. White Queen (As It Began)
6. Flick Of The Wrist
7. In The Lap Of The Gods
8. Killer Queen
9. The March Of The Black Queen
10. Bring Back That Leroy Brown
11. Son And Daughter
12. Guitar Solo
13. Son And Daughter (Reprise)
14. Keep Yourself Alive
15. Drum Solo
16. Keep Yourself Alive (Reprise)
17. Seven Seas Of Rhye
18. Stone Cold Crazy
19. Liar
20. In The Lap Of The Gods… Revisited
21. Big Spender
22. Modern Times Rock ’n’ Roll
23. Jailhouse Rock
24. God Save The Queen

Versione 2 CD, disponibile anche in quadruplo vinile

CD 1

QUEEN II TOUR
Live at the Rainbow, March ’74

1. Procession
2. Father To Son
3. Ogre Battle
4. Son And Daughter
5. Guitar Solo
6. Son And Daughter (Reprise)
7. White Queen (As It Began)
8. Great King Rat
9. The Fairy Feller’s Master-Stroke
10. Keep Yourself Alive
11. Drum Solo
12. Keep Yourself Alive (Reprise)
13. Seven Seas Of Rhye
14. Modern Times Rock ’n’ Roll
15. Jailhouse Rock (Medley)
Stupid Cupid (Medley)
Be Bop A Lula (Medley)
16. Liar
17. See What A Fool I’ve Been

CD 2

SHEER HEART ATTACK TOUR
Live at the Rainbow, November ’74

1. Procession
2. Now I’m Here
3. Ogre Battle
4. Father To Son
5. White Queen (As It Began)
6. Flick Of The Wrist
7. In The Lap Of The Gods
8. Killer Queen
9. The March Of The Black Queen
10. Bring Back That Leroy Brown
11. Son And Daughter
12. Guitar Solo
13. Son And Daughter (Reprise)
14. Keep Yourself Alive
15. Drum Solo
16. Keep Yourself Alive (Reprise)
17. Seven Seas Of Rhye
18. Stone Cold Crazy
19. Liar
20. In The Lap Of The Gods… Revisited
21. Big Spender
22. Modern Times Rock ’n’ Roll
23. Jailhouse Rock
24. God Save The Queen

Versione DVD o Blu-ray, queste su etichetta Eagle Rock, le altre usciranno per la Virgin/EMI/Universal o Universal/Island in Europa e su Hollywood/Universal negli USA

Standard DVD and SD Blu-Ray, solo per gli Stati Uniti uscirà un cosiddetto combo che riunirà sia il DVD che il Blu-Ray:
SHEER HEART ATTACK TOUR
Live at the Rainbow, November ’74

1. Procession
2. Now I’m Here
3. Ogre Battle
4. Father To Son
5. White Queen (As It Began)
6. Flick Of The Wrist
7. In The Lap Of The Gods
8. Killer Queen
9. The March Of The Black Queen
10. Bring Back That Leroy Brown
11. Son And Daughter
12. Guitar Solo
13. Son And Daughter (Reprise)
14. Keep Yourself Alive
15. Drum Solo
16. Keep Yourself Alive (Reprise)
17. Seven Seas Of Rhye
18. Stone Cold Crazy
19. Liar
20. In The Lap Of The Gods… Revisited
21. Big Spender
22. Modern Times Rock ’n’ Roll
23. Jailhouse Rock
24. God Save The Queen

BONUS TRACKS

QUEEN II TOUR
Live at the Rainbow, March ’74

1. Son And Daughter
2. Guitar Solo
3. Son And Daughter (Reprise)
4. Modern Times Rock ’n’ Roll

Doppio vinile

QUEEN II TOUR
Live at the Rainbow, March ’74

1. Procession
2. Father To Son
3. Ogre Battle
4. Son And Daughter
5. Guitar Solo
6. Son And Daughter (Reprise)
7. Keep Yourself Alive
8. Drum Solo
9. Keep Yourself Alive (Reprise)
10. Seven Seas Of Rhye
11. Modern Times Rock ’n’ Roll
12. Liar

SHEER HEART ATTACK TOUR
Live at the Rainbow, November ’74

1. Procession
2. Now I’m Here
3. White Queen (As It Began)
4. Flick Of The Wrist
5. In The Lap Of The Gods
6. Killer Queen
7. The March Of The Black Queen
8. Bring Back That Leroy Brown
9. Stone Cold Crazy
10. In The Lap Of The Gods… Revisited

Devo ancora studiare bene, ma quindi parrebbe che di ritono dalle ferie, dove avrete risparmiato quel centone o poco più di euro, per avere il tutto vi toccherà acquistare questa versione Superdeluxe quadrupla.

queen live at the rainbow '74 deluxe

Contenuto:

Il doppio CD

Il DVD e il Blu-Ray

Megalibro di 60 pagine confezione hardbook

Riproduzione di due biglietti dello show di Marzo, pare appartenuti ai genitori di Brian May

Riproduzione del Tour Itinerary dei concerti di Marzo contenente le raccomandazioni del promoter Neal Bush, compresa una lettera in cui li si pregava di non fare atti di vandalismo nelle camere di albergo

La riproduzione della brochure di 8 pagine relativa allo spettacolo

Le due spillette, tipo quelle che venivano vendute ai concerti

La riproduzione del poster dei concerti di marzo. nei colori viola e dorato

Una riproduzione di un servizio di moda pubblicato dalla rivista Telegraph, con il gruppo fotografato insieme ad alcune modelle

Lo sticker dello stage pass sembra del concerto di Marzo.

Fine: direi che potete iniziare a risparmiare. Il periodo è quello di Queen II e Sheer Heart Attack quando Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon formavano una poderosa rock band pura e dura!

Alla prossima anticipazione.

Bruno Conti

Come Al Solito, Buona “Roba” Dall’Irlanda! Eleanor McEvoy – Stuff

EleanorMcEvoy Stuff

Eleanor McEvoy – Stuff – Moscodisc Recording

Dopo l’uscita dello scorso anno di If You Leave… (si era comunque parlato del precedente Alone su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2011/09/26/dall-irlanda-con-passione-eleanor-mcevoy-alone/ ), torna Eleanor McEvoy con una raccolta di rarità, b-sides, collaborazioni e nuove registrazioni, che copre un arco di carriera ventennale, ormai giunta al dodicesimo album (dieci, secondo l’intervista che potete ascoltare sotto). Questa bella musicista irlandese, nata a Dublino (città che penso di tornare a visitare entro l’anno), è una valida polistrumentista, suona di tutto (violino, chitarra, mandolino, ukulele, viola, pianoforte , clavicembalo e organo), e con la sua voce, immediatamente riconoscibile, ci presenta questa miscellanea di undici tracce, brani che parlano di amori non corrisposti, di perdite dolorose, dall’accompagnamento musicale molto variabile, sempre comunque in un ambito di suono elettroacustico.

La raccolta inizia con il robusto singolo The Thought Of You, a cui fanno seguito una bella versione rallentata di una canzone di Chuck Berry, Memphis Tennessee, riletta in chiave blues e un omaggio alla penna di Georges Moustaki e alla celeberrima Edith Piaf, con una Milord cantata in francese. Si prosegue con Please Heart You’re Killing Me scritta a quattro mani con Rodney Crowell, un brano dal suono vagamente “mariachi”, passando per l’atmosfera ancora bluesy di Don’t Blame The Tune, alla collaborazione con il sestetto polacco Banana Boat in una Take A Little Look, cantata a cappella e a una dolce rilettura acustica di Take You Home. Arriva il momento di un’altra cover, la pimpante e poco conosciuta Whistle For The Choir dei Fratellis (un gruppo indie-rock scozzese), mentre Deliver Me, una canzone sull’ipocrisia della chiesa ufficiale, viene riletta in formato gospel-blues, andando poi a chiudere con due splendidi brani scritti con David Rotheray, chitarrista ed autore nei Beautiful South, l’ironica (british humor) The Night May Still Be Young, But I Am Not,  sotto forma di un valzer cadenzato, e una Lovers Chapel  recuperata dal gruppo di Rotheray, gli Homespun.

Questa signora (o signorina?), Eleanor McEvoy, rimarrà per sempre legata al suo brano più celebre Only A Woman’s Heart (dal suo album d’esordio omonimo Eleanor McEvoy (92)  interpretato da molti artisti (su tutte scelgo personalmente la versione fatta da Mary Black), ma per chi eventualmente ancora non la conosce o vuole approfondire, questo lavoro raccoglie delle piccole gemme che meritano di essere conosciute, una sorta di promemoria costante che ci ricorda che la McEvoy occupa un posto di rilievo nell’universo delle cantanti al femminile della verde Irlanda, dove è molto amata.

Tino Montanari

Prossimo Disco Dal Vivo Per Eric Johnson – Europe Live

eric johnson europe live

Eric Johnson – Europe Live – Mascot/Provogue/Edel CD/2LP 24-06 UK/EU 01/07 ITA

Come dicevo, recensendo il precedente Up Close Another Look http://discoclub.myblog.it/2013/02/13/provaci-ancora-eric-una-anteprima-eric-johnson-up-close-anot/ , Eric Johnson non è un artista particolarmente prolifico, tra dischi in studio, dal vivo e il progetto G3 fatichiamo ad arrivare a dieci. Quindi questo nuovo Europe Live giungerà come una gradita sorpresa per i fans del chitarrista texano. Registrato nel corso del tour europeo del 2013, la maggior parte del materiale proviene dalla serata al Melkweg di Amsterdam, con alcuni brani tratti da due date in Germania, ed è l’occasione per fare il punto della situazione sulla sua carriera, ma soprattutto per ascoltare uno dei massimi virtuosi della chitarra elettrica attualmente in circolazione: il genere di Johnson non è di facile definizione, sicuramente c’è una forte componente rock, ma anche notevoli accenti prog, blues, fusion, jazz e qualche piccola spolverata di country, folk e qualsiasi altra musica vi venga in mente, con l’enfasi posta proprio sul virtuosismo allo strumento, in quanto la musica prevede poche parti cantate e quindi si basa molto sul lavoro alla chitarra di Eric, che in questa occasione (come quasi sempre) si esibisce in trio, con gli ottimi (benché non molto noti Chris Maresh al basso e Wayne Salzmann alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=4M6amrKDt1w .

eric johnson 2

Tra i suoi prossimi progetti ci sono collaborazioni con il collega Mike Stern e nuovi dischi in studio, sia elettrici che acustici, mentre in tempi recenti è stato possibile ascoltarlo nei dischi di Sonny Landreth, Christopher Cross, Oz Noy, e sempre Mike Stern, mentre il side-project degli Alien Love Child (dove appariva il bassista Maresh) al momento sembra silente. Proprio da quel disco proviene Zenland, uno dei brani più rock di questo Live, preceduto da una breve Intro, che è una delle due tracce inedite di questo album. Austin, è il brano dedicato da Mike Bloomfield alla città texana, uno di quelli cantati dallo stesso Eric, anche se la versione di studio su Up Close, mi pareva più grintosa, non si può negare il fascino di questo brano, dove il blues assume quell’allure molto raffinata che lo avvicina a gente come Robben Ford, Steve Morse ed altri musicisti “prestati”  alle dodici battute, anche se nel caso di Robben è vero amore https://www.youtube.com/watch?v=KPH8YitsJwQ .

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Forty Mile Town è una ballata romantica e dagli spunti melodici, cantata sempre da Johnson, in modo più che dignitoso, ma non memorabile, nobilitata da un lirico assolo. Una delle cover principali del disco è una versione vorticosa di Mr. P.C, un brano di John Coltrane, quasi dieci minuti di scale velocissime ed improvvisate che escono dalla chitarra di Johnson, con ampio spazio per gli assolo del basso di Maresh e della batteria di Salzmann, come nei live che si rispettano, siamo più dalle parti del jazz-rock e della fusion, ma il tutto viene eseguito con grande finezza. Manhattan era su Venus Isle, il disco del 1996, un altro strumentale naturalmente molto intricato nei suoi arrangiamenti, con la chitarra sempre fluida ed inventiva del titolare a deliziare la platea dei presenti e noi futuri ascoltatori del CD. Zap, che era su Tones, il suo disco migliore, a momenti vinse il Grammy nel 1987 come miglior brano strumentale, ed è una bella cavalcata a tempo di rock, con continui cambi di tempo e tonalità della struttura del brano e Chris Maresh che fa numeri alla Pastorius con il suo basso elettrico fretless.

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A Song For Life vede Eric Johnson passare all’acustica, un brano tra impressioni classiche e new age, che si trovava sul primissimo Seven Worlds. Fatdaddy viceversa viene dall’ultimo Up Close ed è uno dei brani più tirati dell’intero concerto, quasi a sfociare in un hard rock virtuosistico degno dei migliori Rush o dei più funambolici Dixie Dregs dell’amico Steve Morse. Last House On The Block è il brano più lungo del CD, una lunga suite di oltre dodici minuti, tratta dal disco degli Alien Love Child, divisa in varie parti, anche cantate, e tra le migliori cose del concerto nei suoi continui cambi di tempo ed atmosfere sonore, che si avvicinano, a momenti, al miglior rock progressive degli anni ’70. La breve Interlude ci introduce al brano più famoso di Johnson, Cliffs Of Dover, che il Grammy lo ha vinto (video vintage https://www.youtube.com/watch?v=smwQafhNU6E, altra cavalcata nel migliore rock progressivo, mentre Evinrude Fever, è l’altro brano inedito presentato in anteprima in questo tour europeo e che è l’occasione per una bella jam di stampo rock con tutta la band che viaggia a mille sui binari del rock più travolgente, con intermezzi blues e R&R inconsueti nel resto del concerto. Finale con Where The Sun Meets The Sky ribattezzata per l’occasione Sun Reprise, un brano affascinante, molto complesso nel suo dipanarsi, con effetti quasi cinematografici e che chiude degnamente questo Live destinato agli amanti di un certo rock, ricco di virtuosismi ma non privo di sostanza e qualità.

Bruno Conti

*NDB In questi giorni mi sono accorto che, a mia insaputa (come all’ex ministro Scajola), è stato aperto un canale su YouTube dedicato al Blog https://www.youtube.com/channel/UC_HDvJLsHP-MY0cQQjjb_Aw, probabilmente generato dai moltissimi video che inserisco in ogni Post oppure dalla nuova piattaforma WordPress utlizzata da MyBlog, non saprei dirvi, comunque c’è e potete entrare a leggere i post anche da lì.   

Ancora Una “Leggenda”? Terry Davidson And The Gears – Sonic Soul Sessions

terry davidson and the gears

Terry Davidson & The Gears – Sonic Soul Sessions – Bangshift Music

Un’altra delle “leggende” del blues, del rock e della roots music Americana, da Columbus, Ohio,Terry Davidson & The Gears, da una quarantina di anni on the road, hanno diviso i palchi di tutto il circuito internazionale con gente come Chuck Berry, Muddy Waters, Buddy Guy, Johnny Winter, ZZ Top, solo per nominarne alcuni. Ovviamente così recita il loro sito, che riporta anche un giudizio da 5 stellette di American Blues Review. In effetti anch’io, quando ero un ragazzo, una volta, ho visto da lontano Jimi Hendrix e in un’altra occasione ho diviso il palco con Bruce Cockburn (è vero, e non era dopo il concerto, durante, però davo una mano agli organizzatori, per essere sinceri). Tralasciando le facili ironie, come è noto, negli States ci sono centinaia, addirittura migliaia di gruppi e solisti che propongono la loro musica con passione e bravura, e quindi non mi permetterei mai di prenderli per il c…, però un minimo di obiettività è richiesta.

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A ben guardare Terry Davidson ha una cospicua discografia di sette album alle spalle, fa proprio i generi citati ad inizio recensione e li fa anche bene, quindi perché non parlarne? Siamo qui per questo e quindi parliamone https://www.youtube.com/watch?v=dgu-gq-d4E8 . La band è un quartetto, con Davidson che è la chitarra solista, il cantante e suona occasionalmente anche il mandolino, Mike Gilliland, armonica e seconda chitarra e voce, quando serve, Bill Geist e Bob Hanners, basso e batteria, Todd Brown è il tastierista aggiunto, e tra gli “ospiti” anche una ridotta sezione fiati e una piccola pattuglia di background vocalist agguerriti. Il risultato è un onesto disco di rockin’ blues, da una Sweet Deceiver tirata e fiatistica, con l’armonica di Gilliland e la chitarra con wah-wah di Davidson che si dividono gli spazi solistici, le atmosfere più sospese di una raffinata Nasty Girl.

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Chicagoland, come da titolo, ha una parentela con il sound della Wind City, ma anche delle derive soul, grazie ad una voce femminile di supporto e all’uso dei fiati https://www.youtube.com/watch?v=omwdTuanICU . Qualcuno ha ipotizzato qualche grado di parentela con la J.Geils Band, ma quel gruppo aveva ben altra consistenza, con un cantante come Peter Wolf e l’armonica di Magic Dick, la formula è più o meno quella, la grinta c’è, ma Davidson non è un cantante così memorabile, anche se più che adeguato. Ancora più Chicago è lo slow blues classico di Too Late To Change, con il pianino di Brown che aggiunge autenticità e pathos al sound. So Hot ha un attacco alla Stones e anche il resto del pezzo qualche idea ai Glimmer Twins la ruba, però l’esecuzione è deliziosa e la voce assomiglia in modo impressionante a quella di Jagger https://www.youtube.com/watch?v=5SufHjAW3nk . L’intensità del disco comincia a crescere, la stoffa c’è, Hound Dog Blues, sempre con un bel riff che la sostiene, è un altro pezzo più rock che blues e i Gears ci danno dentro di gusto, molto bene sia Gilliland che Davidson, che non si risparmiano neppure nel R&R alla Fabulous Thunderbirds di Tapped Out. Stomping Ground, con Terry Davidson al mandolino vira con ottimi risultati verso un country-roots-rock di buona fattura. Deep In The Blues si affida nuovamente alle dodici battute con Brown che passa all’organo, per un brano non memorabile ancorché nobilitato da un assolo di finezza di Davidson.

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Three Ninety Six, poderosa e frenetica, ricorda band come i Nine Below Zero o i Blasters più tosti. Monkey Hand qualche parentela con il blues rivestito di rock della J.Geils Band parrebbe averla mentre Memphis Bones è uno strumentale boogie molto swingato che permette a tutta la band di mettersi in evidenza. Conclude Without The Blues, la storia della vita di Terry Davidson messa in musica, con citazioni precise, verbali e musicali, di tutte le influenze che hanno costellato la sua vita di artista, piacevole e coinvolgente, come peraltro tutto il disco, che si lascia gustare senza tanti problemi. Non saranno delle leggende ma sono bravi!

Bruno Conti

Solo Per “Iniziati” Dell’Armonica! Bob Corritore – Taboo

bob corritore taboo

Bob Corritore – Taboo – Delta Groove Music

I dischi, gli album, i CD, chiamateli come diavolo volete, di Bob Corritore mi sembrano sempre indirizzati verso un pubblico di “iniziati”, forse esagero, diciamo di appassionati, sempre molto politically correct, non dico didattici, ma un po’ didascalici, molto apprezzati dai colleghi armonicisti che spesso collaborano con il musicista nativo di Chicago, ma residente a Phoenix, dove è titolare anche di un club, e che svolge financo, tra le tante, l’attività di impresario (bisogna pur arrotondare), le opere di Corritore spesso utilizzano la formula del…And friends, qualche volta molto celebri, come in Harmonica Blues (recensito nel 2010 da chi scrive http://discoclub.myblog.it/2010/10/05/non-conoscevo-per-chi-ama-l-armonica-blues-come-da-titolo-bo/ ) che inaugurava la sua collaborazione con la Delta Groove con una parata di stelle del blues, che non vi cito, ma se volete potete andare a rileggervi quanto scritto all’epoca, altre volte meno noti come Tail Dragger ( http://discoclub.myblog.it/2012/04/18/incontri-tra-amici-tail-dragger-bob-corritore-longtime-frien/) , Dave Riley, John Primer, ma comunque la formula della collaborazione è sempre in atto, visto che il nostro amico non canta.

bob corritore 1

Bob Corritore è una sorta di armonicista per gli armonicisti, se mi passate il termine, molto apprezzato dai colleghi, non per nulla Charlie Musselwhite firma le note sul retro del CD esprimendosi in termini più che lusinghieri verso il buon Bob, autore, nel caso specifico, di un album, questo Taboo, che sottotitola Blues Harmonica Instrumentals: non temano anche i non bluesofili spinti, non è una palla tremenda, non fa parte di quella categoria di dischi, molto, troppo, specializzati, di Blues, che spesso scatenano nel sottoscritto una irrefrenabile voglia di schiacciarmi un pisolino, non chiedetemi quali, non lo direi nemmeno sotto tortura, ma se leggete queste pagine ogni tanto, per usare un eufemismo, si intuisce. Sapete, quei dischi molto legati alla tradizione, quasi integralisti ma…Ok, finiamola qui, non è questo il caso: il nostro Bob armato della sua inseparabile armonica Hohner, citata anche nelle note del CD con un bello spottone, compone una serie di brani originali che portano nella quasi totalità la sua firma, ma che si ispirano naturalmente ai classici e circondato da Jimmie Vaughan (solo in due pezzi) e Junior Watson alle chitarre, Fred Kaplan a piano e organo, Papa John DeFrancesco all’organo in un paio di brani e Doug James al sax, ci propone la sua personale visione del Blues.

bob corritore 2

Corritore ha una bella tonalità con la sua armonica, lo strumento è mixato in primo piano, il suono è nitido e preciso, come è caratteristica delle produzioni Delta Groove e quindi si possono gustare al meglio il puro Chicago sound della vivace Potato Stomp, posta in apertura, con l’armonica che si alterna alla chitarra di Watson e al sax di James come strumento guida, Many A Devil’s Night è uno slow di quelli classici, con il piano di Kaplan che sostiene le evoluzioni melodiche dello strumento di Corritore https://www.youtube.com/watch?v=5v-r_EQH88A , Ruckus Rhythm è più controllata e cadenzata ma sempre legata alla tradizione più consolidata del blues elettrico più tradizionale, Harmonica Watusi, come suggerisce il titolo, concede qualcosa al divertimento, ben sostenute dal piano e dall’organo di Kaplan e dai ritmi vagamente twist del brano, armonica e chitarra si rincorrono gioiosamente. Anche Taboo, latineggiante, si concede ad un sound nostalgico, quasi cinematografico, a cavallo tra 50’s e 60’s, piacevole ancorché innocuo. Harp Blast, con l’armonica molto più amplificata, si ispira ai grandi dello strumento, per quelle cavalcate torride che hanno fatto la storia dello strumento, cambia il titolo ma il mood è quello.

bob corritore 3

Mr. Tate’s Advice, con Vaughan alla chitarra e DeFrancesco all’organo ha quel feeling alla Smith/Montgomery, anche se l’armonica di Corritore e il sax di James si prendono i loro giusti spazi, classico come al solito l’intervento di Jimmie, molto giocato sui volumi https://www.youtube.com/watch?v=sZzcxT3LdlE . 5th Position Plea è l’occasione per ulteriori lente evoluzioni dell’armonica di Bob e del piano di Kaplan https://www.youtube.com/watch?v=nkn5r5HV3u0 , che come ricorda Musselwhite nelle note non si è soliti sentire abitualmente, mentre tornano i ritmi latini per Fabuloco (For Kid) e di nuovo il classico electric blues chicagoano di Shuff Stuff, un brano d’assieme dove i vari Vaughan, DeFrancesco e James si alternano con Corritore alla guida del gruppo. T-Town Ramble ha qualche attimo di maggior grinta alla Muddy Waters e Bob’s Late Hours è un altro “lentone” dove si apprezzano le qualità del titolare. Forse, anzi sicuramente, avrà anche ragione Charlie Musselwhite è questo è un gran disco per gli appassionati di armonica blues (ce ne sono moltissimi), ma aggiungerei modestamente io, solo per quelli, e non è una citica, solo una constatazione

Bruno Conti

“Piccoli Alligatori” Con Pettinature Afro! Selwyn Birchwood – Don’t Call No Ambulance

selwyn birchwood don't call no ambulance

Selvyn Birchwood – Don’t Call No Ambulance – Alligator

Dopo Jarekus Singleton http://discoclub.myblog.it/2014/05/10/dei-futuri-del-blues-elettrico-jarekus-singleton-refuse-to-lose/ un altro piccolo “Alligatore” scoperto da Bruce Iglauer, si chiama Selwyn Birchwood, babbo di Trinidad Tobago, mamma inglese, una capigliatura afro che, non so perché,  mi ricorda qualcuno! Anche lui un “giovane” di 29 anni, un album indipendente, FL Boy, uscito nel 2011 e ora questo Don’t Call No Ambulance, pubblicato dall’etichetta di Chicago; carriera perfettamente parallela con quella di Singleton, e sono anche parimenti bravi, ancorché diversi. Non so per quanto la Alligator riuscirà a presentare nuovi talenti con questa frequenza, ma finché dura approfittiamone. Vincitore nel 2013 dell’International Blues Challenge e dell’Albert King Guitarist Of The Year Award, che non so che rilevanza abbiamo, ma sulla carta suonano bene. messo sotto contratto da Iglauer, il nuovo disco è stato presentato come “una finestra sul futuro del Blues”, che mi ricorda tanto un’altra frase famosa coniata per il nostro amico Bruce. Nato nel 1985 a Orlando, Florida, la prima chitarra a 13, teenager nel periodo dell’hip-hop, del metal e del grunge, sulla strada di Damasco scopre Jimi Hendrix, e di conseguenza che quest’ultimo era stato a sua volta influenzato dal Blues. E qui è fatta: inizia ad ascoltare Albert King, Freddie King, Albert Collins, Muddy Waters e soprattutto Buddy Guy. E come in tutte le favole moderne Buddy Guy arriva a Orlando per fare un concerto e Birchwood si trova lì, in prima fila. Un amico gli indica un chitarrista che vive nei dintorni, il texano Sonny Rhodes, che diventa il suo mentore, una decina di anni, per finire scuole ed università e fare la giusta gavetta e siamo ai giorni nostri, il nome comincia a circolare e la sua reputazione lo precede, il disco ha tutti gli elementi al posto giusto per soddisfare gli amanti di tutti i tipi di blues

Bastano pochi secondi dall’intro devastante di chitarra di Addicted e sarete catturati dalla grinta e dalla tecnica di Selwyn, uniti ad una ferocia sonora che ricorda in effetti alcuni dei chitarristi ricordati sopra nel loro mode più elettrico, Collins, Guy, i due King, aggiungete una voce “vissuta”, ben al di là dei suoi 29 anni, e la capacità di prodursi in proprio con ottimi risultati anche a livello sonoro non guasta. La sua band lo asseconda alla grande: la solida sezione ritmica di Donald “Huff” Wright, bassista dal sound straripante e Curtis Natall, che sa alternare groove raffinati e violente scariche di energia rock e blues, che aggiunti al sassofonista Regi Oliver regalano un suono quanto mai vario e poderoso. Don’’t Call No Ambulance è una sventagliata di boogie, a metà tra Hound Dog Taylor e il Thorogood più letale, con chitarra e sax che si sfidano a colpi di riff e di soli – Walking In The Lion’s Den è l’unica oasi di tranquillità nell’album, Oliver prima al flauto e poi al sax, per una atmosfera molto waitsiana, ricercata e notturna.

Ulteriore cambio di tempo per The River Turner Red, un blues misto a rock e R&B, con fiati e la slide aggiunta di Joe Louis Walker, ospite per l’occasione, che fa numeri di grande virtuosismo, Love Me Again è una sorta di soul ballad di grande fascino, cantata con passione da Selwyn Birchwood, voce espressiva e grande fascino, la chitarra qui è molto raffinata, tutta giocata sul tocco e sui toni. Tell Me Why con il nostro amico che opera alla lap steel è forse un esempio di come Hendrix si sarebbe comportato se si fosse cimentato con lo strumento, raffiche di note sparate dalla sua chitarra con una tecnica che ti lascia stupefatto per i suoni che riesce a creare, tipo quelli del Robert Randolph più intricato o di Jeff Healey quando lasciava correre le mani. Ancora lap steel, ma applicata al blues più classico, per una Overworked and Underpaid dove fa capolino l’armonica di RJ Harman e il suono si fa più raccolto, quasi acustico-

She Loves Me Not è semplicemente una bella canzone di stampo soul, cantata anche con un leggero falsetto da Selwyn, bella melodia e bel assolo di sax di Oliver. Ci rituffiamo nel blues più torrido con una splendida Brown Paper Bag, sono quasi dieci minuti di slow blues, l’organo di Dash Dixon che sottolinea le evoluzioni chitarristiche di un Birchwood maestoso, con la solista che sale e scende di tono, rilancia le note e le atmosfere con una padronanza dello strumento stupefacente, del tutto degna dei grandi axemen del passato, bianchi e nero che fossero. Queen Of Hearts è un funky travolgente, tra gli Headhunters di Herbie Hancock, la Band Of Gypsys hendrixiana e il James Brown o il George Clinton più “liberi”, basso slappato, chitarra ritmica con wah-wah, sax jazzato il “solito” assolo assatanato di Selwyn. Falling From The Sky forse l’unico brano non memorabile di questa raccolta, ma onesto e di buona qualità, prima della chiusura frenetica con una Voodoo Stew che viaggia nuovamente a tempo di boogie, con il fantasma del miglior Hound Dog Taylor a due passi mentre controlla la lap steel che sembra tanto una slide, nelle sue poderose evoluzioni solistiche, grandissima tecnica e feeling notevole. Lo aspettiamo al prossimo album, ma già ora la classe e la stoffa non mancano, consigliato vivamente.

Bruno Conti

Cantautore O Produttore? Joe Henry – Invisible Hour

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Joe Henry – Invisible Hour – Work Song/ Ear Music/Edel Records

Lo ammetto, sono un “fan” di lunga data di Joe Henry (cognato di Madonna, ha sposato la sorella Michelle, ma non è una colpa), dai tempi dell’esordio con Talk Of Heaven (86), e l’ho seguito negli anni, mentre uscivano Murder Of Crows (con Mick Taylor e Chuck Leavell) (89), lo splendido ma poco considerato Shuffletown (90) (andatevi a risentire la traccia iniziale Helena By The Avenue https://www.youtube.com/watch?v=l2nDnE4LQS8 ),  e poi ancora Short Man’s Room (92) accompagnato dai Jayhwaks, e Kindness Of The World (93), i due lavori più influenzati dal suono americana, la trilogia Trampoline (96), Fuse (99) e Scar (01); poi Joe ha firmato per la Anti Records e le cose sono cambiate, con un disco dal suono molto personale come il geniale Tiny Voices (03), e le raffinate incisioni dell’ultimo periodo con Civilians (07) con Bill Frisell e  Van Dyke Parks, Blood From The Stars (09), e infine le sfumature blues di Reverie (11). Nel contempo Joseph Lee Henry (il suo vero nome) ha imparato a fare il produttore iniziando con Bruce Cockburn (insieme a T-Bone Burnett), Teddy Thompson (figlio di Richard & Linda) , proseguendo con Solomon Burke (con cui ha vinto un grammy nel 2003), Ani DiFranco, Bonnie Raitt, Bettye Lavette, il suo amico Loudon Wainwright III e ultimamente, con uno dei miei gruppi preferiti, gli Over The Rhine, e  mille altri (anche Lisa Hannigan, che troviamo sotto, tra i collaboratori di questo album)…

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Mi viene da pensare che l’occasione di stare a contatto con musicisti di diverso genere ed estrazione musicale gli ha fatto certamente bene, lo ha stimolato ad apprendere tutte le mille sfumature che la musica offre, e ora tutto quello che ha appreso si certifica in questo nuovo Invisible Hour (che esce in questi giorni) uno dei suoi dischi migliori in assoluto, un lavoro intenso e maturo, musicalmente ineccepibile, curato sia negli arrangiamenti che nella stesura delle canzoni.  Registrato in una settimana nel suo studio di Pasadena, Joe come sempre si avvale di musicisti di grande qualità, tra i quali ricordiamo Greg Leisz e John Smith alle chitarre, David Piltch o Jennifer Condos al basso, Jay Bellerose alla batteria, il figlio Levon ai fiati, e tra gli ospiti la brava Lisa Hannigan (cantante e musicista irlandese, a sua volta, già collaboratrice di Damien Rice) e i Milk Carton Kids alle armonie vocali, e direi anche non trascurabile l’apporto del noto romanziere Colum McCann per la stesura dei testi.

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Pur non essendo un “concept album”, le canzoni di Invisible Hour girano attorno al concetto del matrimonio, come ha ricordato in alcune interviste lo stesso Henry, a partire dal trittico iniziale, con la magnifica Sparrow https://www.youtube.com/watch?v=f5nAIX1aM6w , Grave Angels https://www.youtube.com/watch?v=XSneRuPlN3I  e i nove minuti di una Sign dove è la voce di Joe a farla da padrona (tra Van Morrison e il miglior Dirk Hamilton), dialogando con il suono minimale degli strumenti https://www.youtube.com/watch?v=cRp1w8Zqr4g . Un tocco dolce di chitarra introduce la title track, Invisible Hour, composizione intensa e struggente https://www.youtube.com/watch?v=MTl25EQ9Zls , per poi passare alle trame più ricche e complesse di Swayed  e ai suoni quasi gospel di Plainspeak, con largo uso del sax da parte del figlio Levon, mentre nell’ottima Lead Me On troviamo Lisa Hannigan al controcanto.

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Lo spirito di Tom Waits aleggia nell’acustica Alice, mentre il ritmo si innalza con Every Sorrow, la canzone più “roots” dell’album, andando poi a chiudere con Water Between Us, una solida ballata melodica, introdotta dalle note del piano e accompagnata nello sviluppo da sax e clarinetto (ha tutte le qualità per entrare nel novero delle sue canzoni più belle), e nella conclusiva, lunga e intensa Slide, una di quelle composizioni che rimangono impresse nella memoria per lungo tempo.

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Anche se il suo “status” attuale di produttore supera quello dell’autore e cantante (ma non per chi scrive), Henry non rinuncia a pubblicare dischi, e dopo una lunga e importante carriera quasi trentennale https://www.youtube.com/watch?v=567GTsSgNtw , esce con questo lavoro raffinato e delicato, percorso da avvolgenti trame, acustiche e non, supportate dalla sua abituale voce calda e sinuosa, rendendo l’ascolto un esercizio di gusto e delicatezza. Per i pochi che ancora non lo conoscono, Joe Henry è un amante della musica, di quella vera, e Invisible Hour conferma la sua bravura di musicista e produttore, e quindi di essere ampiamente in grado di portare avanti entrambe le professioni. Tra i dischi dell’anno!

Tino Montanari

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

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The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

Un Altro Figlioccio Di Woody Guthrie! John Fullbright – Songs

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John Fullbright – Songs – Blue Dirt Records

John Fullbright, sin da quando ha iniziato a suonare è considerato un “predestinato”, in quanto proviene da Okemah, il piccolo villaggio che ha dato i natali alla leggenda del Folk Woody Guthrie (*NDB. Come nel Blog avevamo subito messo in evidenza http://discoclub.myblog.it/2012/02/28/e-chi-e-costui-da-okemah-oklahoma-john-fullbright/).  Il buon John ha cominciato a farsi conoscere quando ancora frequentava il liceo, prima facendo pratica nella band di Mike Mc Clure, passando poi a suonare con artisti del livello di Joe Ely e Jimmy Webb, e, pur amando il rock, la sua musica nasce con la canzone d’autore, e tra i maestri riconosciuti c’è gente come Steve Earle, Dylan e naturalmente il grande Cohen. Fullbright, in ogni caso, è un cantautore nato: suona la chitarra e il piano in modo egregio, ha una voce bene impostata, e, cosa più importante, scrive belle canzoni, che hanno già trovato la giusta consacrazione nell’esordio Live At The Blue Door (09), un disco dal vivo acustico (distribuito inizialmente solo a livello locale), con brani di notevole spessore quali Jericho, All The Time In The World, Moving, e alla fine una grande rilettura di Hallelujah di Cohen, album bissato poi dal successivo From The Ground Up (12), CD autoprodotto, attraverso la sua etichetta Blue Dirt Record, dove John metteva a fuoco le sue passioni, dalla canzone d’autore, al blues e al folk, e che definiva il gran talento e la maturità di questo giovane musicista.

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Questo nuovo lavoro, Songs, conferma la bravura del personaggio https://www.youtube.com/watch?v=wuqfburCguE , e attraverso la co-produzione di Wes Sharon, aiutato, come nel precedente, da una “full band” composta da David Leach al basso, Mike Meadows alla batteria e percussioni e Terry Ware alla chitarra elettrica, confeziona dodici ballate introspettive, con largo uso del pianoforte, tutte cantate con voce chiara e intensa. L’iniziale Happy alterna il suono tra chitarra acustica e piano, accompagnato da un dolce “fischiettio” https://www.youtube.com/watch?v=KDdIrcqLei0 , poi troviamo due ballate, When You’re Here (voce e piano) e Keeping Hope Alive (chitarra e voce), decisamente affascinanti, mentre in She Knows lo stile pianistico ricorda influenze alla Randy Newman https://www.youtube.com/watch?v=qEJHrEucImY . La parte del disco più malinconica si manifesta con Until You Were Gone e Write A Song, senza dimenticare una canzone dalla ossatura elettrica come Never Cry Again (molto vicina al miglior Steve Earle), e l’uso dell’armonica molto accentuato nella elettroacustica Going Home. Le dolci note di un piano ci introducono ad una accorata All That You Know, mentre The One That Lives Too Far ha un intro acustico e a seguire una bella apertura elettrica, quando la band entra in gioco (canzone splendida), andando a chiudere nuovamente con due ballate pianistiche (solamente voce e piano), High Road  https://www.youtube.com/watch?v=1WpVzC7yPGE e Very First Time, cantate con anima e cuore.

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John Fullbright non è più solo una promessa, in breve tempo è diventato un vero artista, la sua musica attraversa il folk ed il rock, e il nostro scrive canzoni degne di essere ricordate, uno dei pochi in giro al momento in grado di rinnovare la grande tradizione dei “songwriters” americani. In fondo e nato a Okemah!

Tino Montanari