Dispacci Dalla Scandinavia! Sivert Hoyem – Lioness & Ane Brun – When I’m Free

sivert hoyem lioness

Sivert Hoyem – Lioness – Hektor Grammofon Records

Ane Brun – When I’m Free – Genepool Records – Deluxe Edition

Domanda delle “cento pistole”: chi fra i numerosi lettori di questo blog conosce Sivert Hoyem e Ane Brun? Pochini presumo, anche se questi due personaggi si portano dietro un “background” di tutto rispetto. Sivert Hoyem con gli amici Frode Jacobsoen e Robert Buras è stato il frontman e leader indiscusso dei Madrugada, un gruppo che si è formato nel ’95 in Norvegia e con i primi tre album ha venduto 400.000 copie, facendo da apripista ad altri gruppi conterranei che sarebbero venuti dopo, come i Midnight Choir (di Paal Flata e Al DeLoner) e i  Kings Of Convenience. *NDB Comunque di artisti norvegesi si è già parlato nel Blog, oltre a un paio di quelli appena citati, http://discoclub.myblog.it/tag/paal-flaata/ anche Ingrid Olava http://discoclub.myblog.it/2010/05/07/la-ricerca-prosegue-dalla-norvegia-ingrid-olava-the-guest/) Nella prima parte di carriera pubblicano i notevoli Industrial Silence (99), The Nightly Disease (01), Grit (02), e proseguono con The Deep End (05), l’immancabile disco dal vivo Live At Tralfamadore (06) per chiudere una più che dignitosa carriera con l’omonimo Madrugada (07).

 

Prima dello scioglimento del gruppo,  il buon Sivert aveva dato alle stampe un lavoro solista passato pressoché inosservato, Ladies And Gentlemen Of The Opposition (04), mentre di tutt’altro spessore gli album seguenti, a partire dall’ottimo Moon Landing (09) (che nella versione Deluxe conteneva una intrigante cover in cui si cimentava con The House Of The Rising Sun,in una meravigliosa versione countrynorvegese), e ancora Long Slow Distance (11), Endless Love (14), fino ad arrivare a questo nuovo Lioness, dove nelle dieci tracce contenute nell’album si sposano il pop con l’alt-rock, il tutto con un approccio vocale nuovo.

Lioness è stato registrato a Oslo negli studi Klang, dove Hoyem ha utilizzato musicisti di area locale, tra i quali Inga Byrkjerland e Margrethe Falkenberg al cello, Oysten Frantzvag alle chitarre e basso, Morten Engebretsen al clarinetto, Borge Fjordmen alla batteria e percussioni, Andre Orvik e Bjarne Magnus Jensen al violino, e come ospite la brava (e bella) Marie Munroe, il tutto con la produzione di Christer Knutsen (chitarrista di lunga pezza e membro dei Tumbleweed).

Chi ha ascoltato almeno una volta la musica dei Madrugada, difficilmente avrà dimenticato la voce calda e maestosa di Hoyem, e la partenza di Lioness è in perfetto stile Leonard Cohen, con l’ariosa e pianistica Sleepwalking, a cui fanno seguito la solare Fool To Your Crown, la potente title-track dal timbro scuro Lioness, la minimalista e triste It Belongs To Me, e poi chiudere la prima parte con la poetica My Thieving Heart cantata in duetto con la citata Marie Munroe. Si riparte con i brani più estremi del lavoro una indie-song come V-O-I-D e una intrigante The Boss Bossa Nova (forse un omaggio postumo a David Bowie) dal ritmo nervoso, seguita da una Oh, Spider cantata in falsetto, le chitarre acustiche di una delicata e recitativa The Riviera Of Hades, e chiudere al meglio con una tenera canzone di un amore straziante, la meravigliosa Silences.

Come sempre Sivert Hoyem nelle sue canzoni fa riferimento, oltre al citato Leonard Cohen alle influenze di artisti quali Dylan, il compianto Lou Reed e il lato più oscuro di Nick Cave, e questo Lioness lo certifica ancora di più (come fu, prima con i Madrugada e poi con una solida carriera solista), come una sorta di “istituzione” del rock alternativo locale e norvegese!

ane brun when i'm free

Lo stesso dicasi per Ane Brun, che è una stella nella sua patria d’adozione (nata in Norvegia, vive a Stoccolma in Svezia) e che arriva al settimo disco in studio con questo When I’m Free (senza dimenticare due album live e due raccolte), in un arco temporale di una quindicina d’anni. Questa signora (il suo vero nome è Ane Brunvoll, è figlia del cantante di jazz e pianista Inger Johanne Brunvoll), esordisce con Spending Time With Morgan (03), a cui fa seguire A Temporary Dive (05), Duets (06) una raccolta di duetti con artisti locali e non (tra cui i Madrugada e Ron Sexsmith), e dopo due anni in tour pubblica il primo e splendido Live In Scandinavia (07).

Il terzo disco in studio arriva con Changing Of The Season (08) che arriva ai primi posti delle classifiche in Svezia e Norvegia, fatto che attira l’attenzione di Peter Gabriel e Ani DiFranco (che se la portano in tour), dandole quella visibilità che merita e che la porta ad incidere altro buoni lavori come Sketches (08), It All Starts With One (11), e una raccolta di cover e outtakes dal titolo Rarities (13).

Questo ultimo lavoro When I’m Free (con una copertina inguardabile) non ha avuto molte recnsioni fuori dalla Scandinavia (dove era uscito già a Settembre dello scorso anno), ma Mojo e Uncut gli avevano dato entrambi 4 stellette o 8 se preferite, e devo riconoscere che ad un primo e pure  ad un secondo ascolto non mi aveva particolarmente entusiasmato, ma poi sentendolo più attentamente mi sembra che pur non essendo il più bello, forse è il più completo della sua discografia. Ad aiutare la Brun in sala di registrazione si sono presentati musicisti altri di area locale, tra cui il bassista Dan Berglund, il batterista Andreas Werliin, Lars Skoglund e John Erikson, tenendo comunque ben presente che il perno dell’album, dall’inizio alla fine, rimane la voce cristallina di Ane, che spazia dal pop al soul con qualche sfumatura jazz.

L’iniziale Hanging attrae con sofisticati accordi melodici, per poi passare alle sonorità alla Moby con Black Notebook e Directions, all’inno femminista “soulful” You Lit My Fire interpretato come una novella Kate Bush, le sorprendenti percussioni mediorientali di Shape Of A Heart, per poi ritornare alla ballate Miss You More e All We Want Is Love (dove è sufficiente una chitarra arpeggiata), e ancora una meravigliosa Still Waters, che ricorda la bravissima Liz Frazer dei Cocteau Twins https://www.youtube.com/watch?v=7UT-uQuAVmA , andando poi a chiudere con il mid-tempo di Better Than This e il canto distintivo di Ane nella dolce Singing Off. Le bonus tracks della versione Deluxe  sono la sussurrata e pianistica Let In Your Love, e la tenera bellezza nordica di Hunting Hight And Low, che chiudono il cerchio di un piacevole album di “pop orchestrale”.

Tirando le somme, se volete approfondire: per Sivert Hoyem dove si pesca si pesca bene, per la signora Brun vi consiglio lo splendido Live At Stockholm Concert Hall (09), e la raccolta Songs 2003-2013.!

Tino Montanari  

Ma Che Musica Maestro! Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live

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Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live – Klondike Records 

Credo che tutti sappiamo chi sia Buddy Guy, forse l’ultimo dei grandi “originali” bluesmen del periodo d’oro ancora in vita, il chitarrista elettrico per eccellenza, uno che ha suonato a lungo, prima con Muddy Waters e poi con Junior Wells, ma anche con una carriera solista altrettanto lunga, pur se non particolarmente prolifica, avvenuta in un certo senso a periodi, prima quello a cavallo fine anni ’60,  primi ’70, con i bellissimi album per la Vanguard, poi il “ritorno” ad inizio anni ’80, con i dischi targati Alligator, e l’ultima fase, tutt’ora in corso, iniziata con Damn Right, I’ve Got The Blues, uscito nel 1991 per la Silvertone/BMG e che prosegue a tutt’oggi, con lo splendido Born To Play Guitar, recente vincitore del Grammy come miglior disco Blues nel 2016 http://discoclub.myblog.it/2015/08/03/lultimo-dei-chitarristi-blues-gran-forma-buddy-guy-born-to-play-guitar/ .

E il nostro è veramente nato per suonare la chitarra: nel corso degli anni, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page e Jimi Hendrix, i quattro grandissimi dello strumento, ma poi anche Stevie Ray Vaughan, hanno ammesso l’influenza che il grande musicista di Lettsworth, Louisiana, ma da sempre cittadino onorario di Chicago, ha esercitato sulla loro formazione come chitarristi. Keith Richards e gli Stones stravedono per lui, nel 2012 al Kennedy Center gli hanno dato un premio alla carriera, in una serata in cui Jeff Beck e Beth Hart hanno incendiato la platea dei presenti (tra cui i Led Zeppelin al completo) con una versione memorabile di I’d Rather Go Blind, nel 2014 è stato “introdotto” nella Hall Of Fame, quindi i riconoscimenti, per una volta e per fortuna, non gli sono mancati da vivo, ma quelli a cui tiene di più sono quelli che raccoglie sui palchi in giro per il mondo, con una serie di concerti che sono sempre delle feste memorabili per gli amanti della chitarra.

Il suo stile spavaldo, quasi acido, con quel sound lancinante, forte e tenero, ma anche aggressivo,  è il prototipo del blues elettrico, Buddy Guy è anche un grande entertainer, uno showman con “trucchetti” alla chitarra che qualcosa hanno insegnato anche a Jimi e a tutti gli altri citati, ma è anche un grande tecnico dello strumento e un divulgatore, in grado di suonare il repertorio pure di molti colleghi, contemporanei e non, con cui ha condiviso lunghi tratti di vita.

 

Prendete questo concerto dal vivo, il solito broadcast “ufficiale”, una registrazione del 9 gennaio 1992, dallo Sting, New Britain nel Connecticut, Guy ha appena pubblicato quel Damn Right… citato prima e delizia il pubblico presente e quello sintonizzato alla radio con un concerto dove si apprezzano tutte le sue indubbie qualità: con la sua Stratocaster in overdrive infiamma il pubblico presente con una serie di brani dove gli assolo di chitarra si sprecano, ma anche tutto il contorno blues e rock è di primissima scelta. Il suono è buono, senza essere perfetto, da bootleg, ma di quelli ascoltabili, le canzoni però sono formidabili: un’oretta di musica dove Guy sciorina un repertorio che definire eclettico è quasi fargli un torto, da una Mary Had A Little Lamb, uno dei suoi rari successi per la Chess, a lungo nel repertorio di SRV, e qui in una versione scintillante, con la chitarra che scorre con una fluidità assoluta e quella voce aspra e vissuta che canta il blues come pochi hanno fatto, prima e dopo di lui.

 

A seguire una I Just Wanna Make Love To You che parte funky e diventa una fucilata rock-blues, prima di trasformarsi, sotto la forma di medley (un modo di proporre i brani tipico del Guy performer live) in You Can’t Fool A Fool, con Buddy che fa cantare tutto il pubblico presente, con il brano che diventa quasi jazzato grazie ad un pregevole assolo di piano, senza soluzione di continuità ci troviamo scaraventati nella leggendaria blues ballad I’ll Play The Blues For You, uno degli slow più belli del repertorio di Albert King, dove Guy accarezza con libidine la sua chitarra, per poi lanciarsi in un altro medley memorabile, con il trittico da sogno della ciondolante Everything’s Gonna Be Alright, l’omaggio a B.B. King con accenni di Rock Me Baby e Watch Yourself, poi è la volta del suo “allievo” Jimi Hendrix, con l’intro a tutto wah-wah di Voodoo Chile, che poi diventa l’inchino al “maestro” Muddy Waters di una poderosa Hoochie Coochie Man, un accenno a Cold Shot di Vaughan e poi è la volta di Strange Brew dei Cream di Eric Clapton, proposta in un medley con Mustang Sally, il pezzo di Wilson Pickett, l’unico tratto dall’album in teoria in promozione, con Guy che “addestra” il pubblico e i suoi musicisti come un domatore di tigri, oltre dieci minuti di pura magia sonora che diventano più di 15 minuti in una orgia di R&B e R&R per l’accoppiata mitica di Knock On Wood/Johnny Be Goode. Ma che musica Maestro!

Bruno Conti

La Classe Non Invecchia! Anteprima Graham Nash – This Path Tonight

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Graham Nash – This Path Tonight – Blue Castle CD/Deluxe Download/CD+DVD

Certe convinzioni e certi stereotipi sono duri a morire: è infatti opinione comune che, nell’ambito del più famoso dei supergruppi, cioè Crosby, Stills & Nash (e Young, nei rari casi in cui si è degnato), Graham Nash rappresentasse l’anello debole. Certo, se paragonato agli altri due compagni di ventura forse l’ex Hollies ha un filo di talento in meno (Neil Young è di un altro livello o, come dicono gli esperti di calcio, fa reparto da solo), ma mi viene da ridere solo al pensiero di considerare uno che ha scritto brani come Marrakesh Express, Our House, Chicago, Cathedral, Just A Song Before I Go, Wasted On The Way (oltre al più grande classico di CSN, Teach Your Children) come una figura di secondo piano. Di certo non è mai stato un artista prolifico, dato che a parte i (pochi) album con il trio/quartetto di cui sopra, fino allo scorso anno aveva inciso solo cinque lavori da solista (ma per correttezza dovremmo ricordare anche i dischi in duo con David Crosby, comunque solo quattro), partendo nel 1971 con il bellissimo Songs For Beginners, inferiore al debutto del baffuto socio (il mitico If I Could Only Remember My Name) ma superiore all’esordio di Stills (che si rifarà di lì a breve con i Manassas), seguito nel 1974 dal discreto Wild Tales, dal claudicante Earth & Sky (1980), dal brutto Innocent Eyes (1986) e, dopo ben sedici anni, dall’ottimo Songs For Survivors, che anche nel titolo si riallacciava al disco di 31 anni prima e senza dubbio si piazzava appena alle sue spalle anche come qualità.

Negli ultimi anni Graham è stato molto attivo soprattutto dal punto di vista produttivo, in quanto ha curato la messa a punto degli splendidi cofanetti di Crosby, il suo e quello di Stills (nell’ordine), oltre al grandioso Live 1974 di CSN&Y, ma canzoni nuove nessuna: giunge quindi gradito questo album nuovo di zecca del musicista di Manchester, This Path Tonight (esce il 15 di Aprile, fra pochi giorni dunque), dieci canzoni (o tredici, come vedremo) proposte dal nostro con il suo consueto stile raffinato e gentile, un album sicuramente riuscito che, anche se non vale Songs For Beginners, si può tranquillamente mettere sullo stesso piano di Wild Tales.

Il disco giunge in un momento molto particolare della vita di Nash, e cioè la separazione, dopo ben 38 anni, dalla moglie Susan, e dell’innamoramento da parte del nostro per la giovane fotografa newyorkese Amy Grantham (che per quanto ne so, potrebbe anche essere la causa del divorzio, certi nonnetti ad un certo punto della vita non li tieni più, vedi anche l’ex compagno Neil con Daryl Hannah), evento che sicuramente ha dato nuova linfa ed ispirazione al nostro, il quale non manca però di portare alla ribalta anche i consueti temi di attualità (ed è un peccato non avere davanti i testi, mai banali nel caso di Nash). Il produttore (ed anche co-autore dei brani) è Shane Fontayne, chitarrista anche di CSN dal vivo, un ottimo musicista e valido anche in consolle: una produzione classica, con un suono mai invadente (tranne forse nella title track) e completamente al servizio della voce di Graham, sempre bella e pulita nonostante le 74 primavere; la band in studio è composta da gente che dà del tu ai propri strumenti, dal batterista Jay Bellerose al pianista Patrick Warren, passando per l’organo di Todd Caldwell ed il basso di Jennifer Condos.

This Path Tonight (la canzone) dà il via al disco in modo forte e deciso, con un arrangiamento rock e ritmo cadenzato, un inizio tonico e grintoso, anche se forse un tantino sopra le righe nel sound. Myself At Last la conoscevo già (l’hanno suonata CSN lo scorso anno a Milano), una ballata gentile e tipica del suo autore, ma non per questo non degna di nota (anzi, questo è il tipo di pezzi che mi aspetto in un disco di Nash), mentre Cracks In The City ha una struttura folk ed un ritornello molto intenso. La delicata Beneath The Waves, con un ricorrente arpeggio acustico ed un drumming complesso, è un brano d’atmosfera, sofisticato ma anche poco immediato, meglio Fire Down Below, elettrica e dominata dalla chitarra di Fontayne, anche se il cantato di Graham si mantiene su toni pacati.

Another Broken Heart è di un gradino superiore: Nash canta con la consueta classe, il ritmo è sostenuto e la melodia fluida e decisamente ben costruita (ed anche il suono, elettrico ma misurato, è perfetto); Target ci presenta un Nash vicino a quello degli anni settanta, una bella canzone dal timbro folk, motivo limpido e strumentata in maniera classica, con preziosi interventi di steel, piano ed armonica. Bella anche Golden Days, con il nostro che ricorda con affetto i bei tempi della sua gioventù artistica, un gradevole pastiche dalla base acustica e squisito gusto pop, con qualche riferimento beatlesiano (anche nel testo, in quanto Nash cita All You Need Is Love); Back Home, lenta e rarefatta, con sonorità quasi alla Daniel Lanois e la raffinata Encore, ancora con rimandi sonori al passato, chiudono il CD, almeno nella sua versione “fisica”.

Sì, perché esiste anche una edizione deluxe, ma solo per il download, con ben tre brani in più: Mississippi Burning (un brano che parla di contrasti razziali, condividendo anche lo stesso titolo di un famoso film di Alan Parker), che ha un andamento quasi da filastrocca folk ed un intenso ritornello corale, Soft Place To Fall, altro pezzo tipico per Graham, ma con una costruzione melodica di prim’ordine ed un accompagnamento elettrico guidato da una bella slide (meritava di entrare nel CD fisico, è una delle migliori) e The Last Fall, che chiude definitivamente il lavoro con una dolce ballata acustica, semplice ma a cui non difetta il pathos.

Un buon ritorno sulle scene per Graham Nash: spero solo che non sia il suo ultimo lavoro, ma considerando la regolarità con cui incide qualche dubbio in proposito mi viene.

Marco Verdi

*NDB E ne esiste un’altra versione, ancora più deluxe, senza le tre tracce extra, ma con un DVD aggiunto di oltre due ore, dove vengono riproposti venti classici dal songbook di Nash (qui potete leggere i titoli dei brani http://discoclub.myblog.it/tag/graham-nash/), che provvederemo ad illustrarvi con una post(illa) ad hoc, non appena lo avremo visto, visto che il tutto, come detto, esce il 15 aprile.

Occhio Alla Fregatura, Sembra Diverso? Pat Travers & Carmine Appice – The Balls Album

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Pat Travers & Carmine Appice – The Balls Album – Cleopatra Records 

A chi è capitato di leggere le mie recensioni sa che, per usare un eufemismo, non sono un fan particolare delle produzioni dell’etichetta californiana Cleopatra Records, non tanto per la qualità dei contenuti, ma spesso proprio per i contenuti stessi. Mi spiego: l’arte del riciclo, soprattutto per quanto riguarda il problema dei rifiuti, è una iniziativa nobile, ma quando viene applicata alle produzioni discografiche incontra meno la mia approvazione. Spesso e volentieri nelle loro produzioni (e penso soprattutto ai tributi, ma anche ai cosiddetti dischi “nuovi”), i nostri amici di Los Angeles hanno l’abitudine di riciclare vecchi dischi già usciti, con nuovo titolo e copertina, ma con lo stesso contenuto, però senza dirlo o scriverlo sul CD, e questo è un comportamento da veri str…zi (sono stato autorizzato a usare il termine, quando ci vuole ci vuole). Qualche mese fa mi era capitato di parlarvi di The House Is Rockin’ il tributo a SRV, da loro pubblicato nel 2015, ma già uscito nel 1996 come Crossfire per un’altra etichetta http://discoclub.myblog.it/2015/08/14/sembra-nuovo-the-house-is-rockin-tribute-to-stevie-ray-vaughan/ , succede spesso anche con i dischi di Judy Collins e vari altri titoli.

Ora la storia si ripete, in quanto questo The Balls Album è praticamente la ripubblicazione di It Takes A Lot Of Balls (questa volta non hanno nemmeno cambiato il titolo di  molto), pubblicato in origine dalla SPV/Steamhammer nel 2004, naturalmente con la sequenza dei brani mescolata, senza dichiararlo da nessuna parte, anzi aggiungendo pure due brani come bonus. Oltre a tutto non stiamo parlando di un capolavoro assoluto della discografia, questo disco dell’accoppiata Travers/Appice non entrerà certo negli annali della storia, ma gli amanti di questo hard-rock-blues di grana grossa comunque non mancano e penso che non faccia piacere comprarsi lo stesso titolo due volte. Se però vi manca e l’accoppiata (che ha registrato vari album insieme) vi attizza, i due picchiano come fabbri, in brani che rispondono al nome di Taken, un poderoso boogie-blues che sembra il figlio bastardo di certe composizioni degli ZZ Top, con la chitarra di Travers che taglia in due l’etere e Carmine che una o due cose su come si suona la batteria comunque le conosce, in fondo neanche male. Better From A Distance alza subito la quota heavy e da lì in avanti non si fanno più prigionieri.

Il bello (o il brutto) è che anche i titoli cambiano leggermente, la prima canzone perde il sottotitolo Iguana Song, il successivo brano Escape The Fire, aveva un prefisso Can’t che nella nuova versione sparisce, e nonostante intermezzi acustici è sempre durissimo, per quanto, bisogna ammettere, ben suonato. In Rock Me, anche se sembra un pezzo degli Sweet gonfiato con il testosterone, Travers brandisce la sua chitarra con vigore e wah-wah a manetta, mentre la batteria di Appice è di una potenza devastante, e pure I Don’t Care è una fabbrica di riff, Remind Me To Forget You è hard rock brutale, con tocchi di slide, però una ballata pseudoacustica come Hey You non mi sembra nelle loro corde, anche se il lavoro della solista è sempre pregevole, e pure il reggae alla Police di I Can’t let you go era meglio lasciarlo alla band di Sting che lo faceva molto meglio: per il resto c’è molto hard rock violento, con titoli come Keep On Rockin’ o Gotta Have Ya (pure leggermente rappata?!?, ma per favore) e simili. Le due bonus Tonite e una cover di Never Gonna Give You Up, una cover di Barry White quasi metal, non sono memorabili. Proprio se siete in astinenza di “air guitar” davanti allo specchio.

Bruno Conti

Un Omaggio A Jimmie Rodgers E Alla “Vecchia” Musica Country Delle Origini. Paul Burch – Meridian Rising

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Paul Burch – Meridian Rising – Plowboy Records 

Paul Burch è uno dei tanti musicisti che vivono ed operano nel “lato buono” di Nashville, quello lontano dal country-pop plastificato delle majors, e vicino alla musica delle radici, al country più genuino, alla buona musica insomma. Il nativo di Wahington, DC festeggia quest’anno venti anni di attività discografica, con una dozzina di album pubblicati a proprio nome. Da molti anni nei suoi dischi suonano i WPA Ballclub, un collettivo di musicisti ed amici che ricorrono anche in questo album, con un cenno di merito per Fats Kaplin, violino, chitarre, banjo, nonché l’ottimo Dennis Crouch, contrabbassista di grande gusto e tecnica,tra i musicisti preferiti di T-Bone Burnett, che lo usa spesso e volentieri nelle proprie produzioni. In questo Meridian Rising troviamo anche Jen Gunderman a piano e fisa, Tommy Perkinson e Justin Amaral, che si alternano alla batteria, e tra i tanti ospiti presenti nel disco, ricordiamo Richard Bennett alla chitarra, Jon Langford (Waco Brothers(, vocalist aggiunto, Tim O’Brien al bouzouki e Garry Tallent, bassista di quel gruppo di cui al momento mi sfugge il nome, nelle inconsuete vesti di suonatore di tuba.

Forse non abbiamo ancora detto che questo album è un tributo alla musica di Jimmie Rodgers, ma non attraverso la rivisitazione delle sue canzoni, come avevano fatto il compianto Merle Haggard con Same Train, A Different Time o Bob Dylan con il Songs Of Jimmie Rodgers, bensì attraverso una sorta di autobiografia fittizia costruita dallo stesso Paul Burch, che immagina di raccontare attraverso una serie di canzoni scritte per l’occasione, la vita e la musica di colui che è stato definito di volta in volta, “The Father Of Country Music”, “Singing Brakeman”, “The Blue Yodeler”, “Yodeling Cowboy”, inserendo anche nei brani elementi di western swing, blues, folk, jazz e musica tradizionale in generale, quello che si sentiva in quell’epoca, durante  una vita, breve ma intensa, durata solo dal 1897 al 1933. Il risultato di questo album mi ha ricordato in parte quei dischi anni ’70 di David Bromberg, album in cui questi generi venivano frullati in una sorta di composito che brillava per la capacità, l’ironia, il gusto per l’old fashioned che si sprigionava da quei solchi. Mi sembra che pure Paul Burch, con il suo stile laconico ma espansivo, pieno di affetto per la musica che rivisita, in modo rigoroso ma anche divertente, abbia centrato l’obiettivo che si era proposto, ovvero trasportare quella musica e quelle melodie nel 21° secolo, senza essere troppo didascalico, ma un poco sì, perché l’insieme lo richiede: forse già sentito altre volte, ma quando è ben fatto si ascolta con piacere, sarà pure revivalismo, ma non è solo fine a sé stesso.

Burch, come si può rilevare dal suo sito http://www.paulburch.com/the-story-of-meridian-rising , ha fatto un accuratissimo lavoro di ricerca sulla vita di Rodgers, quindi la biografia in musica è assolutamente attendibile e i brani sono tutti molto gradevoli: dall’apertura con la piacevole Meridian, un brano attraversato dal clarinetto di Chloe Feoranzo, che potrebbe quasi uscire da un disco di Bix Beiderbecke, non fosse per la chiarezza cristallina del suono, perfettamente delineata da una produzione quasi filologica; Cadillacin’ è un boogie swing pianistico che racconta l’abitudine di Jimmie di girare gli States con la sua Cadillac per recarsi ai concerti da una città all’altra, mentre Us Rte 49 ci trasporta sulla Route 49 con un brano dove il blues, misto a ragtime, è il tema del pezzo. Non poteva mancare Baby Blue Yodel, un breve tuffo nello yodeling tipico di Rodgers, molto bella la delicata Black Lady Blues, ambientata in Louisiana e con il violino di Fats Kaplin, oltre al sax baritono di Cal Gray ed alla tuba di Tallent. Bromberg a parte, si potrebbero ricordare gli album di Pokey La Farge http://discoclub.myblog.it/2013/07/14/uno-strano-tipo-bravo-pero-5509769/  o di Meschiya Lake http://discoclub.myblog.it/2014/02/15/giovane-vecchia-meschiya-lake-the-little-big-horns-foolers-gold/ , altri revivalisti doc, oppure potrei citare Maria Muldaur e il suo folk country blues da jug band, anche se il sound è più complesso.

jimmie rodgers meridian

Ain’t That Water Lucky è più “scura” e malinconica, un country-blues lungo il Mississippi, con June che è uno dei vari brevi sketches strumentali che punteggiano la narrazione, ce ne sono altri cinque fino alla fine del disco, con il dixieland di Oh, Didn’t He Ramble che chiude la storia. Ma prima troviamo il viaggio in Europa di To Paris (with regrets) dove la fisarmonica di Kaplin, aggiunge ulteriori sapori retrò allo stile Reinhardt/Grappelli del brano, con Gunter Hotel Blues, che con le sue 12 battute classiche tiene fede al titolo, o la divertente The Girl I Sawed In Half, che racconta di quegli anni di feste paesane e circhi itineranti, in questo caso a tempo di deliziosa New Orleans music. O la denuncia sociale del valzerone country di Poor Don’t Vote e la divertente e soffusa diapositiva seppiata rappresentata in Back To The Honky Tonks, cantata in modo sornione da Paul Burch. Piacevole e diverso da molta musica in circolazione al momento.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Anticipazione. Non Solo Un’Operazione Di Marketing, Ma Anche (Finalmente) Un Gran Bel Disco! Santana – Santana IV

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Santana – Santana IV – Santana IV Records/Thirty Tigers CD

Quando, sul finire dello scorso anno, ho letto la notizia che Carlos Santana aveva riformato la band dei suoi primi tre, storici album (Santana, Abraxas, Santana III) ho storto un po’ il naso, in quanto la cosa mi puzzava di espediente per rilanciare una carriera che aveva di nuovo preso una china discendente. Diciamo che sul chitarrista di origine messicana ero anche un po’ prevenuto, in quanto non sono mai stato un suo grande fan: dando per assodata la sua abilità con lo strumento (davvero formidabile) ed anche il fatto che con quei primi tre album aveva inventato un suono (mescolando ritmi latini, blues, psichedelia e rock, ricavandone un cocktail unico, rubando lo show, come si dice in gergo, anche a Woodstock, dove si esibì da totale sconosciuto), è anche vero che poi ha vissuto di rendita per tutto il resto della carriera (o almeno da Borboletta in poi), riciclandosi all’infinito senza più trovare l’ispirazione, ma anzi cercando sempre di più il successo commerciale, a discapito della qualità delle registrazioni.

Quasi relegato al ruolo di vecchia gloria per tutti gli anni ottanta e novanta, ha avuto un improvviso colpo di coda nel 1999 con l’album Supernatural, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, e che ha riportato in auge il suo nome, grazie anche a singoli perfetti come Smooth e Corazon Espinado (ma il disco era, a mio parere, discreto, non certo un capolavoro); il successivo Shaman vendette molto meno, e la qualità ricominciò a scemare, e non sono serviti altri quattro album (Guitar Heaven, per usare un’espressione cara a Bruno, era una tavanata galattica *NDB Infatti, inserito tra i peggiori dischi del 2010)) per rilanciarsi.L’interesse per questo nuovo disco (e per la reunion) era dunque molto alto: Carlos ha richiamato a sé il chitarrista Neal Schon ed il tastierista/organista e vocalist Gregg Rolie (entrambi, dopo la prima esperienza con Santana, hanno formato i Journey, nei quali Schon milita ancora oggi, mentre Rolie li ha lasciati nel 1981 tentando una poco fortunata carriera da solista, rientrando nei Santana per un paio di album, e militando in seguito in una delle mille line-up della All-Starr Band di Ringo), oltre al batterista Michael Shrieve ed al percussionista Mike Carabello; le uniche concessioni alla band attuale di Carlos sono il bassista Benny Rietveld (David Brown non è più tra noi da tempo) e l’altro percussionista Karl Perazzo. 

Santana IV, fin dal titolo (che si ricollega dunque idealmente al terzo album) e dalla copertina rimanda a quei giorni gloriosi ma, sorpresa delle sorprese, anche il contenuto musicale è notevole: Carlos, forse grazie anche alla rinnovata collaborazione coi vecchi amici, sembra aver ritrovato l’ispirazione, e tra i sedici brani del CD (non ci sono edizioni deluxe) non c’è una sola nota da buttare (solo un paio di leggeri cali). Il nostro è sempre un grande chitarrista, e questo lo sapevamo, ma l’intesa che ha con il resto del gruppo (specie con Rolie, altro grande protagonista del CD) è tale che sembra quasi che non si fossero mai separati. I brani sono tutti accreditati al gruppo stesso, e rappresentano tutto il mondo di Santana a 360 gradi, tanto rock, lunghi assoli, un suono caldo dominato da organo e percussioni, ma anche struggenti brani d’atmosfera, un cocktail che in certi momenti sembra far rivivere l’antico splendore, e che rende Santana IV di gran lunga il miglior disco di Carlos da quarant’anni a questa parte.

L’album si apre con la strana (ma interessante) Yambu, con la sua ritmica tribale e la chitarra wah-wah che duetta abilmente con l’organo di Rolie, ed il cantato che sembra un inno propiziatorio di qualche tribù ad una divinità: un inizio spiazzante, ma anche accattivante. Shake It porta il disco su territori più rock: ancora gran gioco di percussioni, Rolie canta con grinta e Schon fornisce un aggressivo background ritmico sopra il quale si staglia splendida la chitarra del leader. Anywhere You Want To Go è il primo singolo dell’album: dopo un intro in cui i musicisti sembrano accordare gli strumenti, parte una ritmica tipica del nostro, subito doppiata dall’organo, un suono caldo, chitarra stellare ed un motivo molto orecchiabile, un pezzo dalla struttura simile a Oye Como Va. Un brano riuscito, radiofonico ma di sostanza allo stesso tempo. La lunga Fillmore East già dal titolo evoca l’epoca gloriosa della band (ed è anche un omaggio a Bill Graham che lo ha scoperto): inizio lento ed ipnotico, con la chitarra del nostro che sembra faticare a trovare una linea melodica, poi circa a metà il brano parte deciso anche se non ci sono cambi di ritmo. Non il brano migliore del CD, e forse con quel titolo si doveva fare meglio.

Love Makes The World Go Round (titolo non originalissimo) vede la presenza di Ronald Isley, leggendario leader degli Isley Brothers, alla voce solista: la base strumentale è tipica, il connubio chitarra/organo da manuale, ed il vocione di Ronald dona un sapore errebi solitamente estraneo al suono di Santana; Isley resta anche per il pezzo successivo, la potente Freedom In Your Mind, un rock venato di funky dal suono “grasso” e solita chitarra magistrale, che fa muovere volentieri il piedino. Da questi primi brani è lampante come Carlos sia maggiormente dentro al suono ed alle canzoni che nei suoi ultimi dischi, nei quali i suoi assoli risultavano posticci quando non appiccicati alla bell’e meglio, senza un minimo di feeling. La ritmatissima Choo Choo, con i suoi insistenti riff di organo ed il suo mood coinvolgente, è un tripudio di suoni e colori, ed è il Santana che tutti volevamo (e qui il chitarrista è meno all over the place del solito, infatti il vero protagonista è Rolie); il brano sfocia in una scatenata jam session intitolata All Aboard, che purtroppo finisce quasi subito.

Suenos è un lento d’atmosfera decisamente evocativo, nel quale il nostro sostituisce il furore elettrico con una splendida chitarra spagnoleggiante, una canzone sullo stile di classici come Europa e Samba Pa Ti: sarà anche auto-riciclaggio, ma avercene! Caminando è un festival di suoni e percussioni, anche se ogni tanto spunta un synth non proprio graditissimo ed il cantato è stranino, mentre Blues Magic è splendida, uno showcase per le due chitarre di Carlos e Neal, che si alternano con assoli liquidi ben supportati dalla voce di Rolie: grande pathos, uno dei momenti migliori del disco. Echizo è uno strumentale dai toni epici, solito magistrale gioco di percussioni e Santana e Schon che duellano alla grande (vince Carlos, ma Neal vende cara la pelle), chi ama i brani per chitarra qui troverà trippa per gatti; ottima anche Leave Me Alone, di nuovo il Santana più tipico, una canzone decisamente godibile e fluida, un potenziale singolo (anche meglio di Anywhere You Want To Go), mentre in You And I si riaffaccia il lato romantico del nostro, anche se c’è un sottofondo di tensione che dà un tono pinkfloydiano al pezzo (e Carlos nel finale fa i numeri). Il CD si conclude con la solare Come As You Are, ancora ritmo a mille ed un motivo godibilissimo (quasi un calypso caraibico, uno dei pezzi più immediati del disco), e con la lunga Forgiveness, solito inizio lento e fluido nel quale gli strumenti scaldano i muscoli, poi sia Carlos che Neal iniziano a far cantare le chitarre, ed il brano assume quasi le caratteristiche di uno space rock.

Sono il primo ad essere felice del fatto che Carlos Santana sia ancora tra noi, qualitativamente parlando: spero solo che Santana IV non sia un fuoco di paglia, e che non dobbiamo attendere altri quarant’anni per il quinto capitolo, perché non ce la possiamo fare, né noi, né soprattutto loro! Il disco esce il 15 aprile.

Marco Verdi

L’Originale Non C’è Più, Ecco Una Buona “Copia” di Jimi Hendrix! Randy Hansen – Funtown

randy hansen funtown

Randy Hansen – Funtown – Jazzhaus Records/Ird 

Come si usa dire, se non possiamo avere “l’originale” accontentiamoci di una copia. L’originale ovviamente è Jimi Hendrix, che comunque anche post mortem continua ad avere una cospicua produzione discografica, mentre la copia, nel caso specifico, è tale Randy Hansen, nato non a caso a Seattle, sempre non a caso mancino e chitarrista, nonché grande fan, “impersonificatore” (anche nei tratti del volto) e, proprio volendo molto allargarsi, erede di Hendrix. Ruolo che spetta sicuramente più a Robin Trower, a Stevie Ray Vaughan, in parte a Frank Marino (che comunque ha avuto belle parole per Hansen, che nella sua smania di tributi ne ha dedicato uno anche al chitarrista dei Mahogany Rush).

Forse non tutti sanno che la carriera di Randy era partita col botto quando Francis Ford Coppola, avendo sentito delle mirabolanti capacità tecniche chitarristiche di Hansen gli affidò parte degli effetti sonori che si sentono in Apocalypse Now, sedici minuti dove il nostro con chitarra e basso riproduceva scoppi di bombe, colpi di cannoni, raffiche di fucili, poi incorporati nella colonna sonora del film. Come conseguenza la Capitol gli offrì un contratto discografico che sfociò nella pubblicazione del suo primo omonimo album di esordio nel 1980, seguito poi da una lunga sequenza di dischi che nel corso degli anni lo avrebbero portato a suonare anche con Buddy Miles e poi con Noel Redding: molti di queste uscite discografiche vertevano naturalmente sulla musica e le canzoni di Jimi Hendrix, ma non solo, Hansen, oltre a Marino, ha “omaggiato” anche altri artisti, nel suo ultimo disco in studio del 2004 Alter Ego, riprendeva anche brani dei Traffic e dei Led Zeppelin, in un ambito prettamente acustico. Ma la passione per Hendrix, estrinsecata in una copiosissima serie di CD e DVD, per lo più dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=0EyIrDgYn8E , ritorna sempre a galla: anche quando Randy non suona brani del suo idolo lo stile è comunque sempre quello, chitarra molto effettata, spesso con wah-wah innestato, dal vivo suonata, manco a dirlo, anche dietro la schiena e con i denti, e i risultati, anche se sfiorano spesso e volentieri il plagio, non sono poi malvagi; si sente che quella del nostro è una passione unica ed irrefrenabile, ma ricca di rispetto e amore per l’oggetto del suo amore.

Mi pare di avere recensito dei suoi dischi nei tempi che furono (passano gli anni) ma lo stile è sempre stato quello che ora viene ripreso anche in questo Funtown che rompe undici anni di silenzio discografico e (ri)parte subito con una title-track che sembra provenire dai solchi di Electric Ladyland, oltre 8 minuti, spesso in modalità wah-wah (ma Hansen nel disco suona tutti gli strumenti, esclusa la batteria affidata al figlio Desmond nel brano The Pain) per una musica che non nasconde le sue origini e le sue derivazioni dichiarate e quindi alla fine non dispiace, perché questo signore la chitarra la sa suonare, come si sente anche nel rock-blues alla Spirit di Randy California (altro grande epigono hendrixiano) di Save America, o nel breve strumentale Odd Ball.

Ogni tanto si esagera senza costrutto come in Mind Controller, ma altrove, per esempio nel simil blues tanto caro a Jimi di una Paramount, il lavoro di chitarra è persino raffinato e ricco di tecnica. Senza ricordarle tutte, ce ne sono ben 15 per oltre 75 minuti di musica, citiamo la futuristica Izaiah, la ballata Two Wonderful Butterflies, la lunghissima elettroacustica Underwater Lazarium, forse un po’ prolissa e che si rianima nel finale, o la citata The Pain. In altri momenti l’effetto Jimi è troppo esagerato e straniante, ma nell’insieme questo Funtown si lascia ascoltare, anche per la presenza di alcuni brani pastorali che possono rimandare pure a sonorità Pink Floyd, o così dice il comunicato stampa dell’etichetta che però in parte si può condividere, meno quando si parla di Frank Zappa. Ovviamente trattasi di disco soprattutto indicato per gli amanti della chitarra elettrica, qui se ne trova parecchia e ben suonata.

Bruno Conti

Un Gustoso Antipasto In Attesa (A Maggio) Della Portata Principale! Bob Sinatra, Scusate, Dylan – Melancholy Mood

bob dylan melnchololy mood

Bob Dylan – Melancholy Mood – Sony Japan EP/CD

Bob Dylan ormai ci ha preso gusto: dopo il bellissimo Shadows In The Night dello scorso anno, in cui il Vate rileggeva a modo suo alcuni standard della musica americana (tutti con il comune denominatore di essere stati interpretati anche da Frank Sinatra), il 20 Maggio darà seguito all’operazione, probabilmente confortato anche dal successo di critica e pubblico avuto dal predecessore, con Fallen Angels, altro album composto esclusivamente da evergreen e di cui riporto qua di seguito la tracklist.

1. Young At Heart
2. Maybe You’ll Be There
3. Polka Dots And Moonbeams
4. All The Way
5. Skylark
6. Nevertheless
7. All Or Nothing At All
8. A Little Street In Singapore
9. It Had To Be You
10. Melancholy Mood
11. That Old Black Magic
12. Come Rain Or Come Shine

Come vedete un’altra bella serie di classici, ancora con Sinatra come elemento conduttore (anche se questa volta c’è l’eccezione: Skylark vanta, tra le altre, una versione da parte di Bing Crosby, ma non è mai stata incisa da Ol’ Blue Eyes): al momento non è dato sapere se i brani provengano dalle stesse sessions che hanno generato Shadows In The Night o ci sia anche qualcosa registrato ex novo, dato che all’inizio di quest’anno Dylan è stato visto aggirarsi negli studi Capitol di Los Angeles.

FallenAngel

Come succoso antipasto, la Sony ha messo fuori questo mini CD (una volta si chiamavano EP) di quattro brani, con Melancholy Mood come pezzo di punta, un dischetto che si trova su internet anche a prezzi abbordabili (ma attenzione alle spese di importazione dal Giappone), e che verrà pubblicato anche in vinile (ma in edizione limitata) in occasione del Record Store Day la settimana prossima.

Da queste quattro canzoni possiamo intuire che anche Fallen Angels sarà uno dei dischi dell’anno: come dicevo, Dylan ci ha preso gusto nell’interpretare il songbook americano (dal vivo fa circa una decina di questi pezzi ogni sera), e la band dopo anni di rodaggio sarebbe capace di seguirlo alla grande su qualsiasi territorio; anzi, da un primo ascolto di queste quattro canzoni (prodotte al solito da Bob stesso con il consueto pseudonimo di Jack Frost) sembra che il nostro sia ancora più “dentro” l’operazione che sul disco precedente…e se è davvero così Fallen Angels sarà una goduria.

Ma vediamo questi quattro “assaggi” nel dettaglio.

Melancholy Mood – brano scritto da Walter Schumann e Vick Knight, era sul lato B del primo 45 giri in assoluto inciso da Sinatra (From The Bottom Of My Heart, 1939): la versione dylaniana ha uno splendido inizio, con un bellissimo ricamo di chitarra (Charlie Sexton) e la batteria spazzolata, un intro strumentale piuttosto prolungato e di grande raffinatezza; quando entra la voce del leader (che se possibile canta ancora meglio che nell’album precedente) sono già entrato completamente nel mood (malinconico, of course) del disco.

All Or Nothing At All – anche questo pezzo (di Jack Lawrence ed Arthur Altamn) appartiene al repertorio “preistorico” del grande Frank, essendo uscita nel 1940: tra le altre cover successive ricordo Chet Baker, John Coltrane, Sarah Vaughan e Diana Krall. Altro intro di chitarra, ma stavolta Bob canta da subito, ed il gruppo lo segue con la professionalità e la discrezione tipiche delle backing bands degli anni quaranta; Dylan, poi, da consumato crooner, non ha paura a cantare anche note più alte del solito.

Come Rain Or Come Shine – un pezzo famosissimo, scritto da Johnny Mercer con Harold Arlen, incisa da Sinatra insieme a mille altri grandi (Dinah Shore, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Ray Charles, James Brown, Liza Minnelli, Dr. John, Don Henley ed Eric Clapton con B.B. King). La versione di Bob inizia piano, con la voce sospesa ed accompagnamento in punta di dita, poche note di chitarra, spazzole, contrabbasso suonato con l’archetto e steel (e Dylan canta benissimo). Classe pura.

That Old Black Magic – gli stessi due autori del brano precedente, un altro pezzo storico che vanta interpretazioni da parte di Glenn Miller (il primo ad inciderla), ancora la Fitzgerald, Sammy Davis Jr., Bing Crosby, naturalmente Sinatra, oltre a Van Morrison, Tom Jones e Rod Stewart. Qui il ritmo è più spedito (ma con la band sempre nelle retrovie), con Dylan che si diverte a swingare con gusto, come se non avesse mai fatto altro.

bob dylan fallen angels

Quindi un (bellissimo) mini CD che serve giusto a stuzzicare l’appetito, e tra poco più di un mese potremo godere del disco completo.

Marco Verdi

Anche Come Band Leader Rimane Sempre Una Cantante Di Un Certo “Peso”! Wynonna Judd – Wynonna & The Big Noise

wynonna & the big noise

Wynonna Judd – Wynonna & The Big Noise – Curb CD

Wynonna Judd, o più semplicemente Wynonna (sorella della popolare attrice Ashley, nonché figlia di Naomi, con cui componeva il popolarissimo duo delle Judds, anche se il loro vero cognome è Ciminella), era inattiva da ben sette anni. Considerata un’artista country, ha però sempre avuto sia nella voce potente che nella grinta un’attitudine da rockeuse, qualità che oggi ha modo di mostrare appieno con il suo lavoro nuovo di zecca, intitolato Wynonna & The Big Noise, nel quale, a partire dalla copertina, la nostra si mette alla leadership di una vera e propria band, formata da Justin Weaver alle chitarre, Peter King alle tastiere, Dow Tomlin al basso e Cactus Moser (ex membro degli Highway 101 e anche produttore del disco) alla batteria.

Wynonna & The Big Noise segna un bel ritorno da parte di una artista che non è mai stata tra le mie beniamine, ma ha comunque sempre fatto la sua musica con coerenza e senza rompere le scatole a nessuno, e con questo disco si rivela in gran forma, ben coadiuvata da un gruppo compatto dal suono molto rock e diretto, con chitarre (spesso in modalità slide) ed organo sempre in primo piano, che danno alle canzoni un sapore sudista con accenni blues e swamp in certi momenti; il CD, dodici brani, vede poi la collaborazione di alcuni pezzi da novanta (che vedremo strada facendo), i quali abbelliscono il tutto con interventi misurati ma preziosi. Una bella “rentrée” dunque (e molto poco country), da parte di una cantante che avevo sinceramente dimenticato.

Apre la tostissima Ain’t No Thing, un rock blues dallo spirito sudista che vede la partecipazione della bravissima Susan Tedeschi alla voce e chitarra, un pezzo che Wynonna conduce in porto con piglio sicuro ed autorità (ed il brano è scritto da Chris Stapleton, tanto per capirci). Cool Ya ha una ritmica spezzettata ed una melodia che fa un po’ fatica ad emergere, anche se il suono, dominato dall’organo, non presenta sbavature.Things I Lean On è più cantautorale, un intenso brano di base acustica con accompagnamento leggero e la gradita comparsata di Jason Isbell, mentre You Make My Heart Beat Too Fast è un godibilissimo ed insinuante swamp rock, polveroso, elettrico e cadenzato, con una bella slide paludosa quanto basta.

Staying In Love è un’escursione in territori soul-errebi (pur senza fiati), sempre con base sonora molto sudista ed un ritornello decisamente accattivante; Keeps Me Alive inizia piano, con un’atmosfera tesa da blues desertico, ed una slide in sottofondo suonata nientemeno che da Derek Trucks (per par condicio, dato che abbiamo avuto la moglie…), il quale nobilita la canzone con il suo tocco da maestro. Jesus And A Jukebox è una languida ballata, la più country del disco, con un’ottima scrittura ed una solida performance da parte della band; I Can See Everything vede l’ultimo ospite del disco, ovvero l’Eagle Timothy B. Schmit (che è anche autore del brano): Timothy è senz’altro famoso per la sua voce angelica e per le sue armonie, non certo per il suo songwriting, ma la canzone, una tipica ballata soft-rock californiana, è gradevole.

Something You Can’t Live Without è ancora rock dalla vena southern, anche se i suoni non sono molto spigolosi, meglio You Are So Beautiful, dall’andatura più lenta ma dalla musicalità calda e voce in primo piano; il CD si chiude con la pianistica Every Ending (Is A New Beginning), altra ballata di gran classe, e con Choose To Believe, un pezzo scritto da Kevin Welch, che riporta il disco su territori paludosi, sudati, con la voce di Wynonna a dare un tocco di sensualità. Un buon ritorno per Wynonna Judd: potrebbe anche essere il suo disco migliore di sempre.

Marco Verdi

Continuano I Lutti In Questo 2016 Maledetto: Ora E’ La Volta Di Merle Haggard, Aveva 79 Anni!

merle haggard death 1

Sinceramente comincio ad essere un po’ stufo di scrivere necrologi,  non perché non voglia occuparmene, ma insomma i musicisti continuo a preferirli nettamente da vivi. *NDB Anche se è una occasione per parlare diffusamente di musicisti che meritano comunque di essere ricordati!

Oggi devo purtroppo ricordare Merle Ronald Haggard, scomparso ieri per complicazioni dovute ad una brutta polmonite (tra l’altro proprio nello stesso giorno in cui era nato, esattamente 79 anni fa):  uno per il quale il termine “leggenda” non è assolutamente esagerato, dato che nei suoi cinquant’anni di carriera ha collezionato una serie impressionante di successi, ha scritto diverse canzoni diventate poi degli standard della musica country e ha anche contribuito alla creazione di un suono. Oltre ad essersi fumato e “pippato” una quantità impressionante di sostanze non perfettamente legali (nonostante quello che diceva nelle sue canzoni)..

Nato a Bakersfield, California, Haggard ha avuto una gioventù parecchio problematica, un periodo nel quale entra ed esce con regolarità da riformatori e patrie galere (tra cui San Quintino), prima per piccoli furtarelli e poi per vere e proprie rapine a mano armata: nel suo caso si può quindi affermare a ragion veduta che la musica gli ha salvato la vita. Dopo qualche timido tentativo all’inizio degli anni sessanta, è dal 1965 che Merle inizia ad incidere singoli ed album con una certa regolarità, e non ci mette molto a diventare una delle figure di riferimento in ambito country, grazie ad un’abilità innata nel songwriting, un’ottima voce (anche se non eccelsa) ed al fatto che, insieme al compaesano Buck Owens, è uno dei creatori del cosiddetto “Bakersfield Sound”, che ai classici strumenti come steel e violino affiancava il suono delle chitarre elettriche suonate in modalità twang (cioè utilizzando le corde alte), con arrangiamenti diretti e che poco avevano da spartire con le sonorità di Nashville. Gli anni sessanta ed i primi anni settanta sono quelli ricchi di maggior successo per il nostro, con una lunga serie di canzoni andate al primo posto in classifica (a fine carriera i singoli al numero uno saranno addirittura una quarantina), brani epocali come Mama Tried (riproposta più volte dal vivo anche dai Grateful Dead), la splendida Sing Me Back Home, Hungry Eyes, The Legend Of Bonnie And Clyde, I Wonder If They Ever Think Of Me, If We Make It Through December, solo per citare le più note (ma anche gli album del periodo sono notevoli, specie Swinging Doors, Sing Me Back Home, Hag, It’s Not Love (But It’s Not Bad)).

Un caso a parte è rappresentato da Okie From Muskogee, un brano del 1969 (anch’esso un numero uno), in cui Merle, ormai identificato come la voce della working class e dell’americano medio, se la prende con gli hippies ed il loro modo di vivere e di concepire l’amore; un pezzo che gli attira addosso una lunga serie di critiche dall’intellighenzia di sinistra per le sue posizioni largamente conservatrici: non è mai stato molto chiaro se Merle ce l’avesse davvero con gli hippies o se la sua fosse una parodia del classico redneck reazionario (ma io propendo per la prima ipotesi), certo che il suo singolo successivo The Fightin’ Side Of Me, brano farcito di patriottismo e che deride le posizioni anti-guerra in Vietnam, non contribuisce a placare gli animi.

Dalla seconda metà degli anni settanta (durante i quali viene associato al movimento degli Outlaws, anche se non ne farà mai veramente parte) e per tutti gli anni ottanta, complici anche le mode che cambiano, i successi si diradano, anche se in maniera minore rispetto ad altri colleghi (come Johnny Cash): le belle canzoni non mancano di certo, come I Think I’ll Just Stay Here And Drink, Big City, e duetti fortunati come Yesterday’s Wine con George Jones e Pancho And Lefty con Willie Nelson (bello il video, al quale partecipa anche l’autore del brano, Townes Van Zandt), e proprio con Nelson incide negli eighties anche due album, Pancho And Lefty appunto (che vende moltissimo), e Seashores Of Old Mexico (che vende molto poco).

Gli anni novanta sono ancora più avari, solo tre album, che seppur buoni (specie 1994 e 1996, della serie la fantasia al potere…) vengono praticamente ignorati; fortunatamente nel nuovo secolo Merle ricomincia ad incidere dischi con più regolarità e con una qualità mediamente alta, con punte come If I Could Only Fly (2000), Roots, Volume 1 (2001), Haggard Like Never Before (2003) e I Am What I Am (2010), anche se i due successi più grandi li ha ancora con Wille Nelson, prima con l’album in trio assieme anche a Ray Price, Last Of The Breed (2007) e soprattutto con lo splendido Django And Jimmie dello scorso anno, che ci presenta due artisti in forma smagliante e con un’intesa incredibile, un disco che al momento dell’uscita mai avrei immaginato che sarebbe diventato il canto del cigno di Haggard (ed è stato anche il suo primo numero uno dopo una vita) http://discoclub.myblog.it/2015/07/07/due-vispi-giovanotti-willie-nelson-merle-haggard-django-and-jimmie/ .

Se ne va quindi una delle figure centrali della country music, che ha influenzato legioni di musicisti venuti dopo di lui, come Dwight Yoakam, George Strait, Alan Jackson, Brad Paisley e Jamey Johnson, e che ci lascia un songbook che pochi tra i suoi colleghi possono vantare. Ora me lo immagino già formare una superband con Cash, George Jones e Waylon Jennings, quasi una sorta di Highwaymen In Heaven.

E sono sicuro che il più rompiscatole dei quattro sarà proprio lui.

Marco Verdi

P.S: magari sarò smentito, ma sono praticamente certo che la morte di Haggard verrà praticamente ignorata dai media italiani, specie quelli televisivi, dato che la sua figura (ma tutto il country in generale) non è mai stata popolarissima nel nostro paese. Ma forse è meglio così, già tremo al pensiero di ciò che potrebbe dire di lui il mitico Mollicone (uno che ha riassunto la figura di Elvis Presley con “un simpatico mascalzone”).