Due Splendidi Tributi Ad Altrettante Icone Del Country. Parte Seconda: Willie Nelson

willie nelson american outlaw cd dvd

VV.AA. – Willie Nelson: American Outlaw – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

Dopo aver parlato dello splendido concerto-tributo a Merle Haggard, oggi mi occupo dell’analoga operazione dedicata a Willie Nelson, uno show all-star svoltosi anche questo alla Bridgestone Arena di Nashville ma il 12 gennaio del 2019. Rispetto all’omaggio a Merle qui c’è una differenza “abbastanza” importante, e cioè che là si pagava il giusto tributo ad un grande artista scomparso esattamente un anno prima, mentre nel caso di Nelson il festeggiato è ancora vivo e vegeto, e soprattutto è presente sul palco per tutta la seconda metà del concerto. E, seppur di poco, questo doppio CD (volendo anche con DVD) è superiore anche a quello dedicato a Haggard, sia per la tracklist che comprende anche classici non scritti da Willie ma da lui interpretati in passato, sia per il cast che è ancora più di alto profilo che nel primo caso. La house band è come al solito guidata dal bassista Don Was, e comprende fra gli altri la bella e brava Amanda Shires al violino, Jamey Johnson e Audley Freed alle chitarre, il maestro della steel guitar Paul Franklin e lo storico partner di Nelson Mickey Raphael all’armonica.

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Un concerto quindi da godere dalla prima all’ultima canzone, con diverse prestazioni di altissimo livello. Come nei concerti di Willie si comincia con Whiskey River, canzone trasformata quasi in un southern rock dal vocione di Chris Stapleton e da un accompagnamento strumentale robusto https://www.youtube.com/watch?v=xJlw93PLCRY ; Lee Ann Womack fornisce una performance trascinante e piena di grinta con l’honky-tonk Three Days (e che voce), mentre la coppia Steve Earle-Margo Price ci delizia con un ottimo medley di puro country’n’roll tra Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint https://www.youtube.com/watch?v=bUyVRoL0FT0 . Altro medley, stavolta fra I Thought About You Lord, Time Of The Preacher e Hands On The Wheel, con i due figli di Willie, Lukas e Micah Nelson, al centro del palco (e se la cavano splendidamente, con l’ugola di Lukas che sembra davvero una versione giovane di quella del padre); poi arriva Nathaniel Rateliff che si conferma un grande vocalist con una formidabile rilettura del classico di Leon Russell A Song For You https://www.youtube.com/watch?v=0V8MpRmsmFg . Il duo Lyle Lovett-Ray Benson rilegge Shotgun Willie mescolando in maniera goduriosa rock, blues e gospel https://www.youtube.com/watch?v=wUsviEoiKcc , Vince Gill va sul velluto con la sua voce morbida, e Blue Eyes Crying In The Rain sembra scritta apposta per lui, mentre il classico di Ray Charles (ma l’ha fatta anche Willie) Georgia On My Mind brilla di nuova luce nelle sapienti mani di Jamey Johnson, in una versione che è puro southern soul https://www.youtube.com/watch?v=C7XIHrP1o2w .

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Ed ecco proprio Willie, che insieme ai coniugi Susan Tedeschi e Derek Trucks ci regala una strepitosa City Of New Orleans di Steve Goodman (ma come canta Susan!) https://www.youtube.com/watch?v=JNS9-EHwS5k , e vengono seguiti dagli Avett Brothers in una travolgente ripresa bluegrass di Bloody Mary Morning suonata ai mille all’ora e dalla brava Norah Jones che insieme ai Little Willies si conferma artista raffinata con una swingata ed elegante I Gotta Get Drunk. Il primo CD si chiude con Jack Johnson che propone la sua Willie Got Me Stoned, niente di speciale, ed Eric Church che non è un fenomeno ma con Me And Paul se la cava abbastanza bene. Le undici canzoni del secondo dischetto vedono tutte quante il padrone di casa protagonista di una serie di duetti: la voce di Willie non è più quella di un tempo, a volte sembra quasi non arrivarci più, ma questo paradossalmente rende il tutto ancora più emozionante e vero. La languida Crazy viene riproposta insieme a Dave Matthews, la cui voce non ho mai potuto soffrire molto, mentre la gustosa honky-tonk song After The Fire Is Gone vede il nostro insieme a Sheryl Crow, ed il risultato è già migliore. La stupenda Pancho & Lefty è rifatta insieme alla meravigliosa Emmylou Harris  https://www.youtube.com/watch?v=FnFGYNPK5g4 (scusate gli aggettivi, ma sono innamorato di Emmylou da quando i miei ormoni hanno iniziato a fare il loro dovere), ed i due vengono raggiunti da Rodney Crowell che porta in dote la fulgida Till I Gain Control Again https://www.youtube.com/watch?v=UCSmqi2-uXk .

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E’ il momento di un incontro di leggende (texane), in quanto sale sul palco Kris Kristofferson che intona la sua Me And Bobby McGee con Willie che fa da backing vocalist: puro carisma (c’è anche Church, ma c’entra come i cavoli a merenda); Jimmy Buffett porta nella serata un po’ di Caraibi con una versione solare dell’evergreen di Jimmy Cliff The Harder They Come, mentre Always On My Mind (successo di Elvis ma anche di Willie) vede Nelson fare un po’ di fatica con la voce, ma ci pensa Stapleton ad aiutarlo, con Trucks che ricama sullo sfondo per una rilettura decisamente toccante. Arriva George Strait che prima duetta con il nostro sulle note della sua recente hit Sing One With Willie https://www.youtube.com/watch?v=nBilEaAM5Go , e poi fa le veci di Waylon in una solida e vigorosa Good Hearted Woman https://www.youtube.com/watch?v=S4k4TZAQdyg . Finale altamente coinvolgente con tutti quanti on stage per la sempre splendida On The Road Again https://www.youtube.com/watch?v=UpEAQEz-EN8  ed una pimpante Roll Me Up And Smoke Me When I Die, titolo perfetto per chiudere una serata dedicata ad uno degli ultimi fuorilegge rimasti.

Marco Verdi

Un Live Di Importanza Storica Ed Un Altro “Solo” Strepitoso! The Allman Brothers Band – The Final Note/Warner Theatre, Erie, Pa 7-19-05

allman brothers band the final note

The Allman Brothers Band – The Final Note – ABB Recording Company CD

The Allman Brothers Band – Warner Theatre, Erie, PA 7-19-05 – Peach Records 2CD

Il bellissimo cofanetto uscito a inizio anno dal titolo Trouble No More, atto a celebrare la fantastica epopea della Allman Brothers Band, era quasi più un’operazione per neofiti che per fans, dal momento che su 61 pezzi totali gli inediti erano appena sette (*NDB Perà circa 90 minuti di musica) https://discoclub.myblog.it/2020/03/12/il-tipico-cofanetto-da-isola-deserta-the-allman-brothers-band-trouble-no-more/ . La doppia uscita di cui mi accingo a parlare è invece chiaramente indirizzata agli estimatori dello storico gruppo di Macon: trattasi infatti di due album live inediti provenienti dagli archivi della band e realizzati dalle loro etichette personali (la seconda incentrata sul materiale del periodo 2003-2014 gestito dalla Peach Records), due pubblicazioni diverse sia nei contenuti che nella data di registrazione ma decisamente interessanti, seppur per motivi differenti.

Il primo CD, singolo, si intitola The Final Note e, come lascia intuire la copertina che raffigura il grande Duane Allman, appartiene al periodo d’oro del gruppo: si tratta infatti di parte di un concerto (otto canzoni) che i nostri tennero il 17 ottobre del 1971 ad Owing Mills, nel Maryland, uno show a modo suo storico per un triste motivo: si tratta infatti dell’ultimo spettacolo della ABB con Duane nella lineup, dato che dopo soli 12 giorni il chitarrista morirà tragicamente nel famoso incidente motociclistico a soli 24 anni. La storia di come è avvenuta la pubblicazione di questo concerto è piuttosto curiosa, dal momento che per decenni si pensava che non esistesse alcuna testimonianza sonora: tutto nacque grazie all’iniziativa di tale Sam Idas, uno studente che nel 1971 aveva 18 anni e che per arrotondare lavorava part-time in una radio indipendente dell’area di Baltimora. Sam era un fan del gruppo, ed in occasione della serata del 17 ottobre ad Owing Mills era stato incaricato addirittura di intervistare Gregg Allman, il quale si era gentilmente concesso per un breve scambio di battute: siccome l’intervista sarebbe avvenuta dopo il concerto, Idas aveva pensato bene di usare il suo registratore portatile per registrare parte dello show, stando però attento a non occupare tutto lo spazio dato che il nastro durava solo 60 minuti.

Ebbene, quella cassetta è miracolosamente sopravvissuta fino ad oggi, ed i tecnici del suono alle dipendenze della ABB Recording Company sono stati incaricati di ripulire il tutto e rimasterizzarlo al fine di tirare fuori un CD che fosse commerciabile. A questo punto la leggenda deve però far spazio alla cronaca, e devo quindi affermare che, nonostante The Final Note sia indubbiamente un documento eccezionale dal punto di vista storico, la sua resa sonora è ai limiti dell’accettabilità. Infatti, siccome i miracoli non li fa nessuno, il dischetto paga la precarietà della registrazione originale e nonostante l’indiscutibile lavoro certosino che è stato fatto presenta un suono fangoso e poco limpido tipico dei bootleg, e neppure di buona qualità. E’ un peccato, in quanto la performance è tosta e solidissima, con un set tipico dell’epoca e la ABB (al gran completo e con l’aggiunta di Juicy Carter al sax in tre pezzi) che è la solita macchina da guerra. Il CD si apre in maniera potente con Statesboro Blues (con Idas che all’inizio ripete insistentemente “testing, testing”, il nostro “prova, prova”), con il suono che va e viene ed una superba prestazione chitarristica di Duane e Dickey Betts che purtroppo si intuisce soltanto.

Il sound non migliora molto strada facendo, ed è un peccato perché la serata è di quelle giuste: diciamo che l’orecchio dopo un po’ si abitua e così possiamo “ascoltare” una diretta e ficcante Trouble No More seguita da due lucide e sanguigne riletture di Don’t Keep Me Wondering e Done Somebody Wrong, in cui si capisce comunque che i nostri erano in forma nonostante la stanchezza di fine tour, con la voce di Gregg che si staglia sopra il sound piuttosto confuso (ma chi conosce bene il gruppo saprà in ogni caso cogliere le sfumature). Dopo una breve One Way Out abbiamo una sempre calda e sinuosa In Memory Of Elizabeth Reed che però è incompleta e si interrompe dopo sei minuti, ma il finale rimette le cose a posto grazie alle formidabili Hot’Lanta e Whipping Post, venti minuti totali che chiudono il CD, se non dal punto di vista del suono almeno da quello della performance, alla grande.

allman brothers band warner theatre erie 7-19-05

Facciamo invece un salto in avanti di 34 anni per parlare di Warner Theatre, Erie, PA 7-19-05, un doppio CD che documenta uno spettacolo che stavolta non ha risvolti tragici, ma che semplicemente, almeno a detta dei fans, è stata una delle migliori esibizioni del nuovo millennio da parte della band al punto da essere stato ribattezzato “the best show you never heard”. Rispetto al concerto di The Final Note troviamo ancora saldamente al loro posto Gregg Allman (ovviamente) ed i batteristi Butch Trucks e Jaimoe, ai quali si è aggiunto dal 1991 il percussionista Marc Quinones, mentre al basso il posto di Berry Oakley (che nel 1972 ha subito lo stesso destino di Duane) è stato preso da Oteil Burbridge ed i due chitarristi sono Derek Trucks e Warren Haynes, il quale si divide con Gregg anche le parti da lead vocalist. Personalmente non ho mai collezionato bootleg o instant live della ABB, ma se i fans dicono che questa è stata una delle migliori serate del periodo non sarò certo io a smentirli: quello che so è che dopo avere ascoltato fino in fondo questo doppio CD sono rimasto letteralmente tramortito sul divano, dato che mi sono trovato di fronte ad un concerto di livello altissimo e di notevole potenza, due ore e mezza di grandissimo rock sudista come solo Gregg e soci sapevano fare, con la sezione ritmica che non ha mai perso un colpo, le due chitarre che si sono rincorse senza stancarsi per tutta la durata dello show ed il suono caldo dell’organo di Allman (ottimo anche al piano) che ha completato il suono insieme al suo vocione, il tutto con una qualità di registrazione stavolta davvero perfetta e professionale.

Un disco che se fosse uscito nel 2005 sarebbe probabilmente stato eletto da molti come live dell’anno. Che non è un concerto “normale” si capisce sin dal fatto che inizi subito con una superlativa Mountain Jam di quasi 22 minuti (divisi in due, 12 prima ed altri 9 e mezzo sette canzoni dopo): partenza quasi attendista, poi il ritmo prende il sopravvento ed i due chitarristi suonano prima all’unisono e poi alternandosi con una serie di assoli strepitosi, un avvio che fa capire immediatamente che tipo di serata sarà. Rispetto allo show di The Final Note ci sono quattro brani in comune (Statesboro Blues, Trouble No More, Don’t Keep Me Womdering e la conclusiva One Way Out), tutte in trascinanti versioni che non fanno certo rimpiangere quelle del ’71, anzi, forse One Way Out è pure meglio. All’epoca i nostri stavano ancora promuovendo il loro ultimo album di studio Hittin’ The Note del 2003, e da quel disco possiamo ascoltare il solido e cadenzato rock-blues Firing Line e soprattutto l’ottima High Cost Of Low Living, una calda e fluida ballata di nove minuti degna dei loro momenti migliori. Tra gli altri classici abbiamo una straordinaria rilettura di 12 minuti dell’evergreen di Sonny Boy Williamson Good Morning Little Schoolgirl, con Warren e Derek letteralmente trasfigurati e la band che li segue come un treno lanciato, la grintosa e raramente suonata Leave My Blues At Home (con in mezzo un lungo assolo di batteria, forse troppo lungo – 16 minuti – intitolato Jabuma, dalle iniziali dei nomi dei tre percussionisti Jaimoe, Butch e Marc), e tre pezzi da novanta, tre ballate fantastiche come Melissa, Dreams e Jessica (unica concessione ai brani scritti da Betts, tra l’altro in una versione semplicemente fenomenale di un quarto d’ora abbondante, tra le più belle mai sentite), che rappresentano la quintessenza del suono Allman.

Una particolarità dei concerti della ABB negli anni duemila era infine l’introduzione in scaletta di cover diciamo “mainstream”, ovvero non strettamente legate alle influenze blues di Gregg e compagni: in questo doppio possiamo ascoltare, suonate alla loro maniera (quindi alla grande) tre capolavori come The Night They Drove Old Dixie Down di The Band, Into The Mystic di Van Morrison ed una stupenda e decisamente soulful Don’t Think Twice It’s All Right di Bob Dylan, affidata alla voce (e chitarra) dell’ospite d’onore Susan Tedeschi, all’epoca già sposata con Derek Trucks. Una doppia uscita da non ignorare quindi: diciamo che se non siete fans accaniti della Allman Brothers Band potete anche bypassare The Final Note a causa del suono un po’ deficitario, ma con Warner Theatre, Erie, 7-19-05 c’è da godere come ricci.

Marco Verdi

Il Tipico Cofanetto Da Isola Deserta! The Allman Brothers Band – Trouble No More

allman brothers trouble no more 50th anniversary collection

The Allman Brothers Band – Trouble No More. 50th Anniversary Collection – Mercury/Universal 5CD – 10LP Box Set

Eccomi finalmente a parlare dell’atteso cofanetto che celebra i 50 anni di carriera della leggendaria Allman Brothers Band, uno dei più grandi gruppi di sempre ed inventore del genere southern rock, una miscela irresistibile di rock, blues, jazz e soul che ha avuto centinaia di seguaci ma nessuno a quel livello (in realtà gli anni sarebbero 51, perché la ABB si è formata nel 1969, o 45 dato che si sono ufficialmente sciolti nel 2014, ma non è il caso di essere troppo pignoli). Gruppo fantastico in ognuna delle sue molte configurazioni, gli ABB oltre ad avere dato origine ad una lunga serie di grandissime canzoni sono stati uno degli acts dal vivo più memorabili (non per niente il loro mitico Live At Fillmore East del 1971 è probabilmente il miglior album live di sempre in assoluto), ma hanno avuto nella loro storia anche diverse tragedie, in particolare la drammatica scomparsa del fenomenale chitarrista e fondatore Duane Allman, uno che avrebbe potuto diventare il più grande axeman di sempre, seguita un anno dopo dall’ugualmente scioccante dipartita del bassista Berry Oakley in circostanze quasi identiche (un incidente di moto a pochi isolati di distanza uno dall’altro).

Non è però il caso che vi racconti qua la storia del gruppo (se siete abituali frequenatatori di questo blog li conoscete alla perfezione), ma voglio parlarvi nel dettaglio di questo splendido cofanetto intitolato Trouble No More, che attraverso cinque CD (o dieci LP, ma il box in vinile ha un costo davvero improponibile) ripercorre il meglio della loro storia dal primo demo inciso in studio fino all’ultima canzone suonata dal vivo, in una confezione elegante con un bellissimo libretto ricco di foto ed un lungo saggio scritto da John P. Lynskey, e con la produzione a cura del noto archivista Bill Levenson, specialista in questo genere di operazioni. Il box è una goduria dall’inizio alla fine, in quanto troviamo al suo interno quasi sette ore di grandissima musica: gli inediti non sono tantissimi, solo sette (ma uno meglio dell’altro), ma non mancano diverse chicche e rarità e poi diciamocelo, non ci sono tanti gruppi al mondo a potersi permettere una collezione di cinque CD a questo livello (ed il box funziona anche se possedete già Dreams, l’altro cofanetto degli Allman uscito nel 1989, un po’ perché là mancava ovviamente tutto il materiale dal 1990 in poi, ed anche perché si prendevano in esame anche cose dei vari gruppi pre-ABB e materiale solista di Gregg Allman e Dickey Betts, mentre Trouble No More si occupa esclusivamente della vita della band “madre”). Ma vediamo nel dettaglio il contenuto dei cinque dischetti.

CD1: The Capricorn Years 1969-1979 Part I. Si inizia subito col primo inedito, che è anche il primo demo in assoluto registrato dal gruppo nell’Aprile del 1969 (strano che non sia stato pubblicato prima), e cioè il brano di Muddy Waters che intitola il box, che non sembra affatto una prova ma vede i nostri già belli in tiro, con Duane e Dickey che si scambiano licks e assoli e la sezione ritmica di Oakley, Jaimoe e Butch Trucks che è già un macigno. Poi abbiamo quattro classici dal primo album omonimo e cinque da Idlewild South (con capolavori come It’s Not My Cross To Bear, Dreams, Whipping Post, Midnight Rider, Revival e Don’t Keep Me Wonderin’) inframezzati da una formidabile I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town di nove minuti dal famoso Live At Ludlow Garage. Il CD di chiude con tre brani dal leggendario Fillmore East (Statesboro Blues, Stormy Monday e la magnifica In Memory Of Elizabeth Reed), un lavoro dal quale il box non attinge più di tanto essendo già stato soggetto di un cofanetto sestuplo nel 2014.

CD2: The Capricorn Years 1969-1979 Part II. Unico dischetto senza inediti, ma non per questo privo di interesse : dopo la One Way Out ancora al Fillmore East abbiamo due pezzi tratti dal Live From A&R Studios 1971 (pubblicato nel 2016), una Hot’Lanta di “soli” sei minuti ed un monumentale medley You Don’t Love Me/Soul Serenade che di minuti ne dura quasi venti, uno degli highlights del box pur non essendo inedito. Da Eat A Peach abbiamo tre classici assoluti (Stand Back, Melissa e Blue Sky), per poi approdare ad una rara e bellissima Ain’t Wastin’ Time No More registrata dal vivo nel 1972 al Mar Y Sol Festival a Puerto Rico (tratta dal box Dreams), con Duane che ci aveva già lasciato ma Oakley ancora nel gruppo. I restanti cinque pezzi provengono da Brothers And Sisters, splendido album del 1973 che vedeva Betts ritagliarsi sempre di più il ruolo di co-leader insieme a Gregg, con capolavori come il roccioso rock-blues Southbound, la countreggiante Ramblin’ Man (il loro più grande successo a 45 giri) e la magnifica Jessica, mentre la conclusiva Early Morning Blues, con un grande Chuck Leavell al piano, è una outtake presa dalla deluxe edition di Brothers And Sisters del 2013.

CD3: The Capricorn Years 1969-1979 Part III/The Arista Years 1980-1981. Questo CD copre il periodo meno celebrato del gruppo, ma contiene anche l’inedito più interessante del box, cioè una straordinaria Mountain Jam registata al famoso Watkins Glen Festival del 1973, dodici minuti di goduria assoluta durante i quali i nostri condividono il palco con Jerry Garcia, Bob Weir e Robbie Robertson per una jam stratosferica (la chitarra di Jerry si riconoscerebbe su un milione, anzi in alcuni punti sembra che debba partire da un momento all’altro Sugar Magnolia). Anche Come And Go Blues è presa dal concerto a Watkins Glen, ma è tratta dal live Wipe The Windows, Check The Oil, Dollar Gas; a seguire troviamo tre brani presi da Win, Lose Or Draw, ultimo album dei nostri prima della temporanea separazione ed anche il meno fortunato fino a quel momento, anche se i pezzi qui presenti fanno la loro bella figura (Can’t Lose What You Never Had, ancora di Muddy Waters, la title track e soprattutto il quarto d’ora infuocato di High Falls di Betts). La reunion a cavallo tra i settanta e gli ottanta non fu molto proficua: tre album discreti ma lontani dai fasti di inizio decade (Enlightened Rogues, Reach For The Sky e Brothers Of The Road) in cui si tentava di dare al gruppo un suono più radiofonico, ma tra i brani scelti per questo box alcuni non sono affatto male, come il boogie Crazy Love, il godurioso strumentale Pegasus, la coinvolgente e soulful Hell & High Water e la grintosa Leavin’; chiude una fulgida Just Ain’t Easy dal vivo nel 1979, ancora dal box Dreams.

CD4: The Epic Years 1990-2000. Ecco la “vera” reunion, con Allman, Trucks, Betts e Jaimoe raggiunti da Warren Haynes ed Allen Woody (entrambi futuri Gov’t Mule) alla seconda chitarra e basso e dal tastierista Johnny Neel, per quella che a mio parere è la migliore formazione del gruppo dopo quella “mitica” dei primi anni. Con la guida del loro storico produttore Tom Dowd la nuova ABB pubblica due eccellenti album in meno di un anno, Seven Turns e Shades Of Two Worlds (quest’ultimo senza Neel ma con Marc Quinones alle percussioni), con brani del calibro di Good Clean Fun, trascinante boogie, Seven Turns (grandissima canzone), lo slow blues Gambler’s Roll, la solida End Of The Line e gli undici minuti strepitosi di Nobody Knows: tutti brani scelti per il cofanetto. Dopo una ruspante Low Down Dirty Mean dal vivo al Beacon e tratta dal doppio Play All Night abbiamo una delle chicche del box, ovvero una splendida versione acustica di Come On Into My Kitchen di Robert Johnson, tre chitarre (Gregg, Dickey e Warren) ed il basso di Woody, presa da un raro promo del 1992 diviso a metà con le Indigo Girls. Chiusura con quattro pezzi dall’ottimo Where It All Begins del 1994, tra cui le bellissime Back Where It All Begins e Soulshine (la signature song di Haynes), e con un’inedita I’m Not Crying live nel 1999, scritta e cantata da Jack Pearson che aveva sostituito proprio Haynes due anni prima.

CD5: The Peach Years 2000-2014. A parte High Cost Of Low Living e Old Before My Time, due tra i brani migliori di Hittin’ The Note del 2003 (ultimo album di studio dei nostri), questo CD è quello con più inediti e rarità. Si inizia con una rilettura strepitosa e mai sentita di Loan Me A Dime (live nel 2000), classico di Boz Scaggs che in realtà è un omaggio a Duane che suonò nella versione originale, con una grandissima prestazione dei due nuovi chitarristi della ABB Derek Trucks e Jimmy Herring. Segue un altro inedito, una favolosa Desdemona sempre dal vivo ma nel 2001, con Haynes che era rientrato definitivamente nel gruppo a fianco di Trucks: 13 minuti sensazionali. Le ultime due “unreleased songs” del box sono altrettante live versions stavolta del 2005, cioè un’insolita Blue Sky con Gregg alla voce solista ed un toccante omaggio a Duane con una breve Little Martha suonata da Derek e Warren con le chitarre acustiche. Gran finale con tre brani che non sono considerati inediti in quanto erano usciti come instant live, ma sono abbastanza rari: sto parlando dei tre pezzi conclusivi dell’ultimo concerto dei nostri nell’ottobre del 2014 al Beacon Theatre, cioè due magistrali Black Hearted Woman e The Sky Is Crying (classico di Elmore James) e, dopo i commossi discorsi d’addio, una tonica Trouble No More che chiude in un sol colpo carriera del gruppo e cofanetto così come si erano aperti.

Un box che, più di altre volte, si può riassumere con una sola parola: imperdibile.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 2020 2. The Allman Brothers Band Trouble No More 50th Anniversary Collection 5CD box Set: Esce Il 28 Febbraio, Il Solito Anniversario, “Tardivo” Ma Gradito.

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The Allman Brothers Band – Trouble No More: 50th Anniversary Collection – 5CD box set – Mercury/Universal – 28-02-2020

Il tardivo nel titolo del Post si riferisce al fatto che il 50° Anniversario sarebbe dovuto coincidere con l’effettiva nascita degli Allman Brothers, quindi con una jam session avvenuta nel marzo del 1969 a Jacksonville, Florida, senza Gregg Allman, ma con la presenza di Reese Wynans (futuro Double Trouble) alle tastiere, che però lascia subito il gruppo. Poco più di un mese dopo, il 1° di maggio, si trasferiscono, dopo il rientro in Florida avvenuto nel frattempo di Gregg, la band si trasferisce a Macon, Georgia, dove vengono messi sotto contratto per la nascente Capricorn Records di Phil Walden, e a novembre viene pubblicato il loro primo omonimo album. Ma questa è una storia raccontata mille volte. Era solo per ricordare che ancora una volta la data di uscita di questo cofanetto viene scelta in modo arbitrario, ma come abbiamo detto è ormai solo un optional per le case discografiche.

Quello che interessa è il fatto che per la prima volta questa è una antologia multilabel, ovvero raccoglie materiale di tutte le etichette per cui hanno inciso gli Allman Brothers nella loro storia: Capricorn, Arista, Epic e Peach Records. C’è da dire che gli inediti di questo cofanetto non sono molti, 7 in totale su 61 brani, anche perché, a partire da Dreams, il primo box uscito nel 1989 e passando per tutte le varie ristampe potenziate dei dischi uscite negli anni successivi, di materiale inedito e raro ne è uscito veramente tantissimo, comunque qualche chicca c’è anche questa volta, benché per impossessarsene bisognerà scucire indicativamente una cifra superiore ai 60 euro: in ogni caso come si vede dall’immagine ad inizio Post, molto bella la confezione, con libretto di 88 pagine che attraverso un saggio di John Lynskey e diverse foto inedite e memorabilia, traccia la storia del gruppo.

Ecco brevemente gli “inediti”: il primo demo di Trouble No More registrato nel 1969 e stranamente mai pubblicato prima, poi c’è una rara e lunghissima (23 minuti) Mountain Jam tratta dal concerto tenuto a Watkins Glen nel 1973, e cioé quella eseguita insieme ai Grateful Dead e a membri della Band. Dovrebbe essere questa.

E ancora I’m Not Crying (Live at the Beacon Theatre), dai tanti concerti tenuti nel famoso Teatro di New York negli anni ’90. Dalla stessa location sono tratti anche 4 tracce presenti nell’ultimo CD, quello dei Peach Years 2000-2014, tra i quali la rarissima Loan Me A Dime (penso nella versione che vedete sotto in due parti) il brano di Boz Scaggs dal suo album omonimo del 1969 (a proposito di anniversari mancati) in cui era presente Duane Allman alla chitarra, per un assolo leggendario; Desdemona, Blue Sky Little Marta completano i brani dal vivo inediti. Comunque, come al solito, ecco la lista completa dei contenuti del cofanetto.

[CD1: The Capricorn Years 1969 – 1979 Part I]
1. Trouble No More (Demo)*
2. Don’t Want You No More
3. It’s Not My Cross To Bear
4. Dreams
5. Whipping Post
6. I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town (Live At Ludlow Garage)
7. Midnight Rider
8. Revival
9. Don’t Keep Me Wonderin’
10. Hoochie Coochie Man
11. Please Call Home
12. Statesboro Blues (Live At Fillmore East)
13. Stormy Monday (Live At Fillmore East)
14. In Memory Of Elizabeth Reed (Live At Fillmore East)

[CD2: The Capricorn Years 1969 – 1979 Part II]
1. One Way Out (Live At Fillmore East)
2. You Don’t Love Me / Soul Serenade (Live At A&R Studios)
3. Hot ‘Lanta (Live At A&R Studios)
4. Stand Back
5. Melissa
6. Blue Sky
7. Ain’t Wastin’ Time No More (Live At Mar Y Sol)
8. Wasted Words
9. Ramblin’ Man
10. Southbound
11. Jessica
12. Early Morning Blues (Outtake)

[CD3: The Capricorn Years 1969 – 1979 Part III / The Arista Years 1980 – 1981]
1. Come And Go Blues (Live At Watkins Glen)
2. Mountain Jam (Live At Watkins Glen)*
3. Can’t Lose What You Never Had
4. Win, Lose Or Draw
5. High Falls
6. Crazy Love
7. Can’t Take It With You
8. Pegasus
9. Just Ain’t Easy (Live At Merriweather Post Pavilion)
10. Hell & High Water
11. Angeline
12. Leavin’
13. Never Knew How Much (I Needed You)

[CD4: The Epic Years 1990 – 2000]
1. Good Clean Fun
2. Seven Turns
3. Gambler’s Roll
4. End Of The Line
5. Nobody Knows
6. Low Down Dirty Mean (Live At The Beacon Theatre)
7. Come On Into My Kitchen (Live At Radio & Records Convention)
8. Sailin’ ‘Cross The Devil’s Sea
9. Back Where It All Begins
10. Soulshine
11. No One To Run With
12. I’m Not Crying (Live At The Beacon Theatre)*

[CD5: The Peach Years 2000 – 2014]
1. Loan Me A Dime (Live At World Music Theatre)*
2. Desdemona (Live At The Beacon Theatre)*
3. High Cost Of Low Living
4. Old Before My Time
5. Blue Sky (Live At The Beacon Theatre)*
6. Little Martha (Live At The Beacon Theatre)*
7. Black Hearted Woman (Live At The Beacon Theatre)
8. The Sky Is Crying (Live At The Beacon Theatre)
9. “Farewell” Speeches (Live At The Beacon Theatre)
10. Trouble No More (Live At The Beacon Theatre)

* Previously Unreleased

Il tutto è prodotto da Bill Levenson, John Lynskey e Kirk West e ne uscirà anche una versione in 10 LP. Per festeggiare l’evento, il 10 marzo si terrà un concerto al Madison Square Garden di New York, dove la band denominata The Brothers eseguirà una scelta di brani del repertorio degli ABB: formazione per l’occasione Jaimoe, Warren Haynes, Derek Trucks, Oteil Burbridge, Marc Quinones, più Reese Wynans Duane Trucks (in rappresentanza del babbo Dickey) e come ospite Chuck Leavell.

Per il momento è tutto, poi al momento dell’uscita ci ritorniamo.

Bruno Conti

Non E’ Un Brutto Disco, Ma Nemmeno Bello! Robbie Robertson – Sinematic

robbie robertson sinematic

Robbie Robertson – Sinematic – Universal CD

Robbie Robertson, ex leader e principale compositore di The Band (ma che ve lo dico a fa?), ha sempre avuto una passione per le colonne sonore, e da quando ha messo in pensione il suo vecchio gruppo è sempre stato più impegnato a produrre soundtracks che album di canzoni come solista. Eppure da lui sarebbe stato lecito aspettarsi ben altro, dato che stiamo parlando di uno (almeno per il sottoscritto) dei più grandi songwriters di tutti i tempi, titolo guadagnato durante i dieci anni di storia discografica della Band: ma da quando i cinque si sono detti addio all’indomani del mitico concerto The Last Waltz, pare che Robbie abbia voluto in maniera insistita prendere le distanze da loro, e non solo per i cattivi rapporti con Levon Helm. Se era prevedibile il non partecipare alle successive reunion del gruppo, era un po’ meno scontato non riprenderne più il caratteristico sound negli album pubblicati da solista: Robbie Robertson, seppur ottimo, sembrava un disco degli U2 (presenti tra l’altro in session, e poi il produttore era Daniel Lanois), il raffinato Storyville era molto influenzato dal suono di New Orleans, mentre i seguenti Music For The Native Americans e Contact From The Underworld Of Redboy (bello il primo, poco riuscito il secondo) erano due dischi che trattavano il tema appunto dei Nativi Americani (Robbie lo è da parte di madre) con sonorità abbastanza moderne e, nel secondo caso, spiazzanti.

Solo nell’ultimo How To Become Clairvoyant (2011) c’era qualche pezzo che ravvivava la vecchia fiamma della Band https://discoclub.myblog.it/2011/04/07/purtroppo-no-robbie-robertson-how-to-become-clairvoyant/ , ed il disco infatti mi era piaciuto anche più di Music For The Native Americans che aveva ricevuto critiche migliori: quando ho letto che a distanza di ben otto anni da Clairvoyant Robertson stava per pubblicare finalmente un nuovo disco, ho avuto un moto di soddisfazione, che purtroppo non ha avuto seguito una volta ultimato l’ascolto. Con Sinematic (ispirato da due colonne sonore alle quali ha lavorato di recente: il documentario sulla Band Once Were Brothers, in cui finalmente fa pace col suo passato, e l’ultimo film di Martin Scorsese The Irishman) Robbie ha infatti nuovamente evitato di dare al pubblico quello che si aspettava, mettendo insieme una serie di canzoni dal suono decisamente moderno e con soluzioni sonore che mi hanno fatto storcere il naso più di una volta. Va bene che il nostro non si è mai adagiato sugli allori e si è sempre messo in discussione, ma a questo punto mi vengono dei dubbi sul fatto di essere di fronte allo stesso cantautore che cinquant’anni fa faceva vibrare il mondo con canzoni del calibro di The Weight, Up On Cripple Creek e The Night They Drove Old Dixie Down.

In Sinematic ci sono anche delle ottime cose, alternate però a canzoni secondo me non degne del lignaggio musicale di Robertson, e con l’aggravante del fatto che viene spesso premuto l’acceleratore su sonorità troppo moderne, che spersonalizzano un po’ troppo i brani. Manca anche all’interno del lavoro uno stile ben preciso, con alcuni momenti anche parecchio cupi, e poi la voce di Robbie non aiuta di certo le canzoni a risollevarsi ma al contrario rischia di affossarle ancora di più (se nella Band non cantava praticamente mai un motivo ci sarà stato). All’interno del disco ci sono dei musicisti di ottimo pedigree (Glen Hansard, Derek Trucks, Doyle Bramhall II, Jim Keltner, Pino Palladino), ma anche nomi che non vorrei leggere su un album di Robbie, primo tra tutti il produttore hip-hop Howie B, che collabora con il nostro in diverse tracce. L’album (che esce in una bella confezione in digipak con immagini di dipinti dello stesso Robertson) parte comunque alla grande con I Hear You Paint Houses, un soul-errebi bello ed orecchiabile, dal suono moderatamente moderno ed in cui Robbie mostra di essere ancora un eccellente chitarrista, canzone impreziosita ulteriormente dalla partecipazione in duetto del grande Van Morrison (tra i due c’è sempre stata grande stima), anche se il confronto delle due voci è impietoso. Anche meglio Once Were Brothers, una fluida ballata che è anche il tema principale del documentario su The Band, ed è appunto il pezzo che più si avvicina allo stile del suo ex gruppo (immaginatela cantata da Richard Manuel): qui le sonorità moderne sono usate con intelligenza e poi la melodia è molto bella.

Dead End Kid, che vede Hansard alle armonie vocali, è una rock song piuttosto scura ma comunque dotata di un motivo diretto e di un buon tiro chitarristico, e non mi dispiace neppure Hardwired, che pur non essendo un capolavoro è suonata con grinta e si mantiene in ambito rock, anche se il sound è un filo troppo “attuale”. Walk In Beauty Way è una suadente ballata d’atmosfera cantata in duetto con la voce seducente di Laura Satterfield, un brano forse buono da mettere come sottofondo ad una serata alla “50 sfumature (il colore mettetelo voi)”, ma che in un disco di Robertson ci sta come i cavoli a merenda https://www.youtube.com/watch?v=CefxAi1lqAQ . Let Love Reign è un discreto pop-rock dal ritmo sostenuto e con un ritornello accattivante, anche se forse servirebbe un altro cantante, Shanghai Blues non è per niente blues bensì trattasi di un altro lento mellifluo e cupo, più parlato che cantato, mentre Wandering Souls è uno strumentale soffuso che vede Robbie esibirsi in trio chitarra-basso-batteria, con esiti tutto sommato discreti anche se il brano in sé non è nulla di trascendentale. Street Serenade è un lento un po’ banale, ed è strano che uno del livello di Robertson scriva canzoni banali (e l’arrangiamento da pop ballad radiofonica non lo aiuta https://www.youtube.com/watch?v=EYgSXnssjNA ): sembra Eric Clapton quando non azzeccava un disco neanche per sbaglio, periodo PilgrimReptileBack Home. The Shadow è semplicemente brutta, e con un suono orribilmente tecnologico (perché, Robbie?) https://www.youtube.com/watch?v=m3weRjSlEWs , ed anche la tetra Beautiful Madness non fa molto per migliorare le cose. Il CD (58 minuti, forse troppo lungo) si chiude per fortuna in crescendo con la cadenzata Praying For Rain, una buona soul ballad moderna dal motivo fluido e con i suoni finalmente “giusti”, e con Remembrance, un lungo strumentale ancora d’atmosfera ma di ottimo livello, tutto giocato sugli incroci di chitarra tra Robertson, Trucks e Bramhall.

Da alcuni commenti letti in rete temevo che Sinematic fosse persino peggio, ma da uno con il passato di Robbie Robertson sarebbe d’uopo aspettarsi molto di più, specie dopo otto anni di silenzio.

Marco Verdi

In Attesa Del “Nuovo” Album Stay Around In Uscita Il 26 Aprile, Ecco 8 Dischi Da Avere Se Amate La Musica Di JJ Cale! Parte II

jj cale 5

Seconda parte.

5 – 1979 – Island/MCA – ***1/2

5 esce dopo una pausa di tre anni e presenta due novità sostanziali: una nuova etichetta discografica, dopo gli anni con la Shelter, e la prima apparizione su disco di Christine Lakeland,  che resterà  con lui, prima come musicista e in seguito  anche come moglie, fino alla sua morte avvenuta nel 2013. Non cambiano il solito produttore Audie Ashworth e molti dei musicisti utilizzati, mentre il suono si fa a tratti più “rotondo” e corposo, meglio definito, con la voce in primo piano e un approccio più vicino al rock, come testimoniano l’iniziale vigorosa Thirteen Days e I’ll Make Love To You Anytime sul cui sound i Dire Straits di Mark Knopfler hanno costruito una intera carriera.

Senza dimenticare la sinuosa Don’t Cry Sister, cantata in duetto con la Lakeland e che Cale inciderà di nuovo con Clapton in The Road To Escondido e la delicata e raffinata The Sensitive Kind con fiati e archi aggiunti e sul lato rock ancora l’ottima Friday, mentre Let’s Go To Tahiti ha qualche tocco etnico quasi alla Ry Cooder e Mona è un’altra di quelle ballate malinconiche in cui eccelle il nostro.

 

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Shades – 1981 – Island/MCA – ***1/2

 Il primo album della nuova decade completa un filotto di sei album che hanno cementato la reputazione di JJ Cale come artista di culto. Al solito ci sono decine di musicisti impiegati tra cui molti altri chitarristi, non ultimi Reggie Young e James Burton. La copertina riproduce una parodia dei pacchetti di sigarette Gitanes, mentre tra i brani l’iniziale vibrante Carry On è un altro dei suoi classici senza tempo, Deep Dark Dungeon è blues allo stato puro, Wish I Had Not Said That è un altra delle sue ballatone mid-tempo e la cover di Mama Don’t va di rock che è un piacere. Ma tutto l’album conferma la classe del musicista, che poi, tra lunghe pause, inciderà parecchi altri altri buoni album, senza forse più arrivare a questi livelli.

 

jj cale eric clapton the road to escondido

The Road To Escondido with Eric Clapton – 2006 – Duck/Reprise – ***1/2

Gli anni 2000 vedono un ritorno in grande stile di Cale, che dopo l’eccellente To Tulsa And Back del 2004 realizza finalmente un disco in coppia con Eric Clapton: i due amici se lo producono e chiamano a raccolta un vero parterre de roi di musicisti, da Billy Preston che fa la sua ultima apparizione, ad altri “discepoli” come John Mayer, Derek Trucks e Doyle Bramhall II, Taj Mahal all’armonica e tutto il giro di musicisti di Manolenta. Oltre alle riprese di Don’t Cry Sister e Anyway The Wind Blows, brilla una cover di Sporting Life Blues di Brownie McGhee e anche se il suono a tratti è fin troppo “professionale”, a causa del tocco di Simon Climie, i due si divertono ad improvvisare e canzoni come l’iniziale Danger, Heads In Georgia, la bluesata Missing Person, sono quasi interscambiabili nel repertorio dei due, anche se portano la firma di JJ.

When The War Is Over ha sprazzi del vecchio Cale, e niente male il tuffo nel country-rock di Dead End Road, con violino in grande spolvero come pure la chitarra di Albert Lee, ma tutti suonano come delle cippe lippe; l’intero l’album è comunque ottimo, da It’s Easy a Hard To Thrill, scritta da Mayer e Clapton, passando per la morbida Three Little Sister, Last Will And Testament e la vibrante e chitarristica Ride The River. JJ Cale appare poi nel Crossroads Guitar Festival di Eric e partecipa al tour di Clapton del 2007 da cui verrà tratto l’ottimo Live In San Diego, prima di lasciarci per un attacco di cuore il 26 luglio del 2013.

eric clapton & friends the breeze

Eric Clapton & Friends –  2014 – The Breeze An Appreciation of JJ Cale – Bushbranch/Surfdog – ***1/2

L’anno dopo la morte di JJ Cale esce questo bellissimo tribute album creato da Eric Clapton e pubblicato sulla propria etichetta.  Call Me The Breeze del solo Eric apre il tributo, con la stessa intro della versione originale è uno dei classici brani del Clapton più ispirato, con Albert Lee alla seconda chitarra, Rock And Roll Records, cantata a due voci, propone una inconsueta accoppiata tra Enrico e Tom Petty che funziona alla grande; Someday è affidata ad un altro fedele discepolo come Mark Knopfler, con Christine Lakeland alla seconda chitarra e Mickey Raphael all’armonica. Lies è affidata al duo Clapton e John Mayer, mentre per la felpata Sensitive Kind viene rispolverato un vecchio amico e compagno di avventura come Don White, uno degli originatori del Tulsa Sound, con Cajun Moon che Clapton riserva nuovamente per sé con eccellenti risultati.

La versione di Magnolia è cantata con classe e stile da John Mayer, prima del ritorno della strana coppia Petty/Clapton con una vibrante I Got The Same Old Blues e del duo Willie Nelson/Eric Clapton che illustra il lato più country di Cale con una sognante Songbird,  lato poi ribadito nella saltellante I’ll Be There (If You Ever Want Me), cantata ancora da Don White con il supporto di Eric, che suona anche il dobro, lasciando la chitarra a Albert Lee.

Tom Petty in solitaria rilascia una delicata The Old Man And Me e il trio White/Knopfler/Clapton ci delizia in una raffinata Train To Nowhere, prima di lasciare spazio a Willie Nelson che accompagnato da Derek Trucks rilegge in modo “stiloso” Starbound, prima di tornare al rock chitarristico di Don’t Wait, affidata a John Mayer e Clapton. In chiusura niente Cocaine, ma una versione in punta di dita di Crying Eyes, cantata de Eric con la Lakeland, mentre Trucks lavora di fino alla slide. Tra pochi giorni esce il “nuovo” album di JJ Cale Stay Around e la storia continua.

Bruno Conti

Un Bagno Rigenerante Nelle Acque Del Sud. Amy Ray – Holler

amy ray holler

Amy Ray – Holler – Daemon/Compass CD

Amy Ray, come saprete, è da più di trent’anni una metà del duo delle Indigo Girls insieme ad Emily Saliers ma, a differenza della compagna che ha pubblicato un solo album senza di lei, è titolare anche di una corposa discografia da solista che dal 2001 al 2014 ha prodotto cinque lavori. Ed Amy, che con le Ragazze Indaco porta avanti da anni un discorso fatto di musica folk-rock-cantautorale, da sola si cimenta a volte in generi differenti: per esempio, il suo primo disco, Stag, era quasi punk, mentre Lung Of Love aveva un suono da band di rock indipendente. Holler è il sesto solo album di Amy, e fin dal primo ascolto si pone come il più riuscito della sua carriera lontana dalla Saliers: infatti stiamo parlando di un lavoro davvero bello, nel quale la Ray va a riscoprire le sue radici del Sud (è nata in Georgia), mescolando abilmente rock, country, folk e addirittura mountain music, un cocktail stimolante e coinvolgente, che risulta riuscito anche grazie alle ottime canzoni che Amy ha scritto per il progetto.

Un disco impregnato nel profondo di suoni del Sud, che vede all’opera anche una serie di musicisti da leccarsi i baffi: oltre ai membri dell’abituale live band di Amy (Jeff Fielder alla chitarra, Matt Smith alla steel, Kerry Brooks al basso e Jim Brock alla batteria), abbiamo tre nomi legati a doppio filo alla Tedeschi Trucks Band, cioè il produttore Brian Speiser, il bravissimo Kofi Burbridge, alle tastiere in diversi pezzi, e soprattutto Derek Trucks stesso in un brano. In più, il determinante contributo della grande banjoista Alison Brown, ed una serie di guest vocals che rispondono ai nomi di Vince Gill, Brandi Carlile, The Wood Brothers e Justin Vernon, leader dei Bon Iver. Ma al centro di tutto c’è Amy, con le sue canzoni e la sua lunga esperienza come performer: Holler è dunque un piccolo grande disco, sicuramente il migliore della Ray, ma anche superiore alle ultime prove delle Indigo Girls (che, va detto, il livello di album come Rites Of Passage e Swamp Ophelia non lo hanno mai più raggiunto). Dopo un breve preludio strumentale che sa di country d’altri tempi (Gracie’s Dawn), l’album attacca con la potente Sure Feels Good Anyway, uno splendido country-rock dal ritmo alto, con chitarre, violino, steel e piano in evidenza ed una melodia importante: subito una grande canzone. Dadgum Down è un pezzo dall’approccio tradizionale (con il banjo della Brown a dominare) ma con un arrangiamento di stampo rock.

Last Taxi Fare invece è una ballata tersa e limpida, dal passo lento e con un chiaro sapore southern soul, impreziosita dai fiati e dalle armonie di Gill e della Carlile, mentre Old Lady è un toccante interludio che purtroppo dura solo un minuto, e che confluisce nella roccata Sparrow’s Boogie, un pezzo decisamente coinvolgente, sorta di bluegrass elettrico con lo splendido banjo della Brown doppiato ad arte dalla chitarra di Fielding, ed Amy che si dimostra in forma e perfettamente a suo agio. Niente male anche Oh City Man, canzone tra folk e country, con il solito banjo che viene affiancato da un bel dobro, il tutto in una limpida atmosfera bucolica; Fine With The Dark vede solo la Ray voce e chitarra, puro cantautorato di classe, Tonight I’m Paying The Rent è uno scintillante honky-tonk dal motivo irresistibile, con i fiati dietro la band ed un ottimo Burbridge: tra le più belle del CD. Notevole anche Holler, uno slow languido, accarezzato da una bella steel e con ricordi lontani dell’Elton John “americano” (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water); che dire di Jesus Was A Walking Man? Uno spettacolare country-gospel, davvero coinvolgente, pura mountain music degna di Ralph Stanley (o della Nitty Gritty Dirt Band del primo Will The Circle Be Unbroken). Dopo i 54 secondi della struggente Sparrow’s Lullaby, troppo breve, il CD si chiude con Bondsman (Evening In Missouri), fluida e crepuscolare ballata di nuovo con piano e steel in prima fila, e con Didn’t Know A Damn Thing, altro splendido pezzo di puro southern country, dal bellissimo refrain e con la chitarra di Trucks a rilasciare un breve ma ficcante assolo.

Veramente una bella sorpresa questo Holler: se anche negli ultimi anni avete un po’ perso di vista le Indigo Girls, bypassarlo sarebbe un vero peccato.

Marco Verdi

Non Solo Per Appassionati. Wynton Marsalis Septet – United We Swing:Best Of Jazz At The Lincoln Center Galas

wynton marsalis united we swing

Wynton Marsalis Septet – United We Swing: Best Of The Jazz At Lincoln Center Galas – Blue Engine CD

Questo blog non si è mai occupato molto di jazz, genere musicale nobilissimo anche se non dico elitario, ma sicuramente rivolto ad un pubblico di estimatori (io stesso ne sono un fruitore occasionale, e non mi ritengo certo un esperto in materia). Il CD di cui mi accingo a parlare secondo me è una storia leggermente diversa, primo perché tratta di un tipo di jazz assolutamente piacevole e fruibile, e poi perché presenta una serie di ospiti di altissimo profilo che nobilitano le varie performance. Wynton Marsalis, compositore e trombettista, è uno dei più stimati artisti jazz contemporanei: fratello del grande sassofonista Branford Marsalis ed appartenente ad una vera e propria famiglia di musicisti, da anni Wynton è anche il direttore musicale di Jazz At Lincoln Center, una sala da concerto situata nei pressi del Columbus Circle a New York (forse il luogo preferito della Grande Mela per chi scrive, nel quale la zona dello shopping si fonde con l’inizio di Central Park). United We Swing è una selezione di brani dal vivo suonati dal 2003 al 2007 in quella venue (ma anche all’Apollo Theatre) dal Wynton Marsalis Septet, un combo formidabile che ha come punti di forza, oltre alla tromba del leader, il sassofono di Wess Anderson, il clarinetto di Victor Goines, il trombone di Ronald Westray (rimpiazzato poi da Wycliffe Gordon), lo splendido piano di Richard Johnson e la sezione ritmica formata da Reginald Veal e Herlin Riley, tutti musicisti di grande bravura ed indubbia classe, in grado con la loro tecnica di accompagnare chiunque, oltre che di agire come band a sé stante.

E poi ci sono gli ospiti, che rendono questo United We Swing un album da avere anche se il jazz non è il vostro genere preferito (non dimentichiamo che Wynton aveva già inciso due live interi con Willie Nelson ed uno con Eric Clapton, ed è quindi abituato alle contaminazioni con il rock). Inizio, dopo un breve intro strumentale, con i Blind Boys Of Alabama che ci deliziano con il gospel-blues tradizionale The Last Time, grandi voci e gruppo che segue con discrezione, quasi in punta di piedi. Trovare Bob Dylan sui dischi di qualcun altro è ormai una rarità, ma non solo il Premio Nobel c’è (la serata in questione è del 2004), ma è anche in gran forma sia come cantante che come armonicista, e la sua It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry brilla particolarmente in questo arrangiamento jazz-blues, con il clarinetto che duetta alla grande con la sua armonica; parlando di grandissimi ecco Ray Charles in una delle sue ultime esibizioni: I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town è uno slow blues di gran classe, cantato in maniera eccelsa e con la band che asseconda The Genius in maniera perfetta (splendida la tromba del leader). E’ la volta a seguire proprio di Eric Clapton con una godibilissima I’m Not Rough (di Louis Armstrong), suonata in puro stile dixieland e nobilitata dalla chitarra (acustica) di Manolenta, un pezzo tra i più immediati e piacevoli; la soffusa e raffinatissima Creole Love Call è perfetta per i gorgheggi di Audra McDonald, mentre Willie Nelson non sbaglia un colpo, e ci delizia con una strepitosa Milk Cow Blues, gran voce e band in palla (con il sax protagonista), per uno slow blues di grande effetto.

Non sono un fan di John Mayer, ma devo dire che la sua I’m Gonna Find Another You ha un senso, ed il gruppo lo segue senza fronzoli, in maniera classica, dando al brano un sapore d’altri tempi, mentre Lyle Lovett è un fuoriclasse, e con gli arrangiamenti jazzati ci è sempre andato a nozze, e così è anche qui con una swingatissima My Baby Don’t Tolerate. Natalie Merchant è un’altra cantante che fa rima con “classe”, la sua The Worst Thing è molto sofisticata, forse anche troppo, anche se il gruppo suona come al solito da Dio, mentre John Legend, un altro sopravvalutato, fa il bravo e ci regala una Please Baby Don’t vivace e pimpante. James Taylor non cambierebbe stile neanche con una band heavy metal alle spalle, e così la sua Mean Old Man suona come un rassicurante ed elegante dejà vu (e l’accompagnamento è superlativo, con il sax sopra tutti); una delle maggiori sorprese del CD è certamente Lenny Kravitz, che rifà la sua Are You Gonna Go My Way rallentandola e dandole un sapore blues che in origine non aveva, migliorandola alquanto grazie anche al formidabile apporto di Wynton e compagni, con uno spettacolare cambio di ritmo a metà canzone. Jimmy Buffett è uno che ha nelle corde questo tipo di sonorità, ed in Fool’s Paradise (del bluesman Johnny Fuller) si trascina dietro anche Mac McAnally alla chitarra e Robert Greenidge alle steel drums, portando così un tocco di Caraibi a New York. Molto brava anche Carrie Smith con Empty Bed Blues, appunto un blues diretto e cantato alla grande, con una versione ridotta del gruppo a soli tre elementi (e con Marsalis al pianoforte). Il CD termina con la coppia Susan Tedeschi e Derek Trucks che impreziosisce con voce e chitarra (rispettivamente) la già notevole I Wish I Knew How It Would Feel To Be Free (un classico di Nina Simone), dando una performance di altissimo livello, e con la fluida e bluesata What Have You Done, con solo il settetto senza partecipazioni esterne e Wynton che si cimenta anche alla voce solista.

Grande band, grandi ospiti e grande musica, non solo per “jazzofili”.

Marco Verdi

Un Gruppo Ormai Tra I Migliori In Circolazione! Tedeschi Trucks Band – Live From The Fox Oakland

tedeschi trucks band live from the fox oakland

Tedeschi Trucks Band – Live From The Fox Oakland – Fantasy/Universal 2CD/DVD

Nata dalle ceneri della Derek Trucks Band, e formata da Derek Trucks, grande chitarrista di scuola Allman (nipote tra l’altro del recentemente scomparso Butch Trucks http://discoclub.myblog.it/2017/01/27/lultima-testimonianza-di-un-grande-batterista-great-caesars-ghost-with-butch-trucks/ ) insieme alla moglie, la cantante e chitarrista Susan Tedeschi, la Tedeschi Trucks Band è un gruppo in costante ascesa, che migliora di disco in disco, e penso che si possa affermare che, dopo tre album di studio e due live, è oggi uno dei migliori acts a livello mondiale. Un esordio buono ma non eccezionale nel 2011 (Revelator), al quale aveva fatto seguito due anni dopo il più riuscito Made Up Mind e, lo scorso anno, l’eccellente Let Me Get By, un grande disco di southern rock come si usava fare negli anni settanta, ma con la band che palesava uno stile proprio che si rifaceva anche al suono di gruppi come Derek & The Dominos, Delaney & Bonnie ed a quel meraviglioso carrozzone che erano i Mad Dog & Englishmen guidati da Joe Cocker http://discoclub.myblog.it/2016/01/27/unoretta-pure-delizie-sonore-anche-piu-nella-versione-deluxe-tedeschi-trucks-band-let-me-get-by/ . In mezzo, un album dal vivo splendido, Everybody’s Talkin’ (2012), che mostrava che on stage la band, libera dai vincoli di studio, era veramente capace di suonare qualsiasi cosa. Oggi il gruppo è cresciuto ancora, è ulteriormente maturato, ed è migliorata anche l’intesa tra i molti membri (ben dodici), e questo si palesa alla grande in questo nuovo disco dal vivo, Live From The Fox Oakland, un doppio fantastico che supera anche il già bellissimo Everybody’s Talkin’ http://discoclub.myblog.it/2012/05/20/grande-musica-rock-70-s-style-tedeschi-trucks-band-everybody/ .

Registrato lo scorso 9 Settembre al Fox Theatre di Oakland, California, questo doppio CD con accluso DVD ci presenta una band in stato di grazia, guidata da un chitarrista (Trucks) che non esito e definire tra i migliori (se non il migliore) della sua generazione (magari a pari merito con Joe Bonamassa, ma superiore, ad esempio, a Kenny Wayne Shepherd), un axeman dotato di grandissima tecnica ma anche decisamente creativo e con un feeling enorme; Susan, poi, è una sparring partner perfetta: dotata di un’ottima voce, grintosa ma sensuale all’occorrenza, è anche lei una notevole chitarrista, quasi una sorta di novella Bonnie Raitt (anche se la rossa californiana è ancora qualche gradino più su). Il resto del gruppo, a partire dalla voce solista maschile di Mike Mattison (ex DTB) è un treno in corsa, con una menzione particolare per il tastierista Kofi Burbridge (fratello di Oteil), il basso preciso di Tim Lefebvre, la doppia batteria di Tyler Greenwell e J.J. Johnson e la sezione fiati di tre elementi, che dona ulteriore colore, e calore, ad un suono già di per sé ricco di sfumature. Live From The Fox Oakland presenta le solite differenze nella tracklist tra CD e DVD, anche se devo dire che per una volta è più completo il supporto audio, sebbene solo nella parte video trovino spazio due brani che da soli valgono parte del prezzo richiesto, e cioè una bellissima versione del classico country di George Jones Color Of The Blues (già cantato da Susan lo scorso anno con John Prine nell’album di duetti di quest’ultimo) ed una gradevole You Ain’t Going Nowhere di Bob Dylan eseguita in maniera informale nel backstage e con Chris Robinson come membro aggiunto.

Ma veniamo al concerto: si parte con la potente Don’t Know What It Means, chitarra wah-wah di Derek, fiati, poi entra il resto della band, con Susan che intona una delle melodie più dirette di Let Me Get By, specie nel ritornello, un modo decisamente adatto ad aprire la serata, in cui Trucks fa sentire subito di che pasta è fatto, ed un assolo di sax molto free che ci porta verso una versione scintillante di Keep On Growing (proprio dal classico unico album di Derek And The Dominos), lunga, fluida, dal suono caldo e con Derek che “claptoneggia” alla grande; Bird On The Wire è un sentito omaggio a Leonard Cohen (che all’epoca del concerto era ancora tra noi), una rilettura decisamente soul, quasi gospel, ancora calda e profonda, e cantata in maniera strepitosa da Susan: quasi un’altra canzone. Within You, Without You, proprio il brano di George Harrison incluso in Sgt. Pepper, non mi ha mai entusiasmato, e neppure questa versione con la chitarra al posto del sitar mi convince a cambiare idea, per fortuna dura poco e confluisce nella tonica Just As Strange, un’altra rock song dal suono pieno ed “allmaniano”, con Susan che più va avanti e meglio canta; Mattison non è la Tedeschi, ma se la cava egregiamente nella bella Crying Over You, uno dei pezzi migliori dell’ultimo album, un errebi colorato dai fiati e con la solita prestazione maiuscola di Derek, qui doppiato alla grande dall’organo di Burbridge, per la serie ca…spiterina se suonano! Il primo dischetto termina con la lunga ed intensa These Walls, che ospita il musicista indiano Alam Khan al sarod per un momento di quiete, e con la magistrale Anyhow, molto anni settanta, un vero pezzo di bravura da parte di tutti, un brano disteso e liquido, con uno splendido pianoforte e la solita chitarra spaziale.

Il secondo CD si apre con la deliziosa Right On Time, quasi un brano dixieland, davvero godibile e che mostra la versatilità della TTB; un po’ di sano rock-blues con Leavin’ Trunk (di Sleepy John Estes, ma Taj Mahal, con Jesse Ed Davis Ry Cooder alle chitarre, ne faceva una versione strepitosa), che vede il gruppo compatto e granitico come al solito ed un Derek stratosferico; Don’t Drift Away è una sontuosa ballata ancora soul-oriented, e qui è Kofi al piano ad offrire una prova da applausi. La mossa e vibrante I Want More è un errebi di gran classe, al livello delle cose migliori di Aretha Franklin e, come ciliegina, il brano termina con una ripresa del classico di Santana Soul Sacrifice, tra le cose più belle dello show, un tour de force che da solo vale il disco (ma come suona Derek? Sembra che abbia dieci mani…). Un po’ di sano blues è quello che ci vuole, e I Pity The Fool (Bobby Bland) è il classico pezzo giusto al momento giusto: ottimo uso dei fiati e band che suona in modo sciolto e con la solita classe. Il doppio termina con Ali, un classico di Miles Davis che è anche un perfetto pretesto per improvvisare partendo dal giro melodico originale, divagando in maniera totalmente libera, un altro momento di puro godimento sonoro, e con Let Me Get By, altra fluida e vibrante rock ballad, che chiude il concerto ancora con sonorità tra, rock, soul, gospel e blues. Un live album imperdibile, per un gruppo che è ormai una delle realtà più cristalline nel mondo del southern rock, e non solo.

Marco Verdi

Ca…spita Se Suonava(no), Uno Dei Migliori Concerti di Sempre Di Eric Clapton – Live In San Diego (With JJ Cale)

eric clapton live in san diego

Eric Clapton – Live In San Diego (With Special Guest JJ Cale) –  2 CD Reprise/Warner EU/

Come dicevo in fase di presentazione del disco, nella rubrica delle anticipazioni, più di un mese fa, lo scorso anno Eric Clapton ha annunciato il suo ritiro dalle scene, poi “fotografato” nei concerti di addio e nella pubblicazione dell’ottimo Slowhand At 70: Live At The Royal Albert Hall, e noi del Blog nel Post dedicato all’evento abbiamo titolato http://discoclub.myblog.it/2015/11/30/speriamo-che-ci-ripensi-eric-clapton-slowhand-at-70-live-at-the-royal-albert-hall/. In effetti il buon Eric da allora sembra averci ripensato: a maggio è uscito un nuovo album http://discoclub.myblog.it/2016/05/22/si-era-ritirato-fortuna-che-almeno-studio-lo-fa-eric-clapton-i-still-do/, preceduto da una serie di date in Giappone, in contemporanea alle date alla RAH lo scorso anno era uscita anche una raccolta Forever Man, dedicata al suo periodo con la Warner Bros e nel 2016 sembrava esserci  una nuova edizione del Crossroads Guitar Festival, ma era un refuso creato da un video in rete https://www.youtube.com/watch?v=Nn8tfnF39ek (in cui era caduto anche chi scrive)  e dall’apparizione di un cofanetto in 3 CD, peraltro bellissimo,con il meglio delle varie edizioni passate http://discoclub.myblog.it/2016/08/27/eric-clapton-guests-crossroads-revisited-i-dvd-ecco-il-cofanetto-triplo-i-cd/. Non contenti di tutto ciò ieri è uscito questo Live In San Diego di cui andiamo a parlare tra un attimo.

Breve premessa: in occasione della pubblicazione del disco The Road To Escondido, registrato in coppia con il suo amico e mentore JJ Cale, non fu intrapresa nessuna tournée particolare per promuovere l’album, per la nota riluttanza di Cale ad esibirsi dal vivo, ma Eric Clapton era già in giro per gli Stati Uniti con una super band. dove oltre ad Eric, alle chitarre c’erano anche Derek Trucks Doyle Bramhall II, entrambi presenti nel disco, oltre a Willie Weeks al basso e Steve Jordan alla batteria, più le doppie tastiere di Tim Carmon Chris Stainton, e le vocalist aggiunte Michelle John Sharon White, per dirla alla Pozzetto, una band della Madonna! Allora Clapton era in uno dei suoi vari vertici espressivi e il tour, in particolare la data al iPayOne Center di San Diego, dove Cale si unì alla compagnia per eseguire cinque brani nel corso del concerto, sono tra le cose migliori mai sentite (almeno dal sottoscritto) nell’intera carriera concertistica di Manolenta, una serata magica, non ancora inficiata dai problemi di salute, parlando con serietà dell’annunciato ritiro, causati dalla malattia degenerativa nervosa, una neuropatia periferica, che gli procura dei dolori molto forti che gli impediscono di suonare come lui sa, o comunque ne limitano parecchio il lavoro chitarristico.

Quel tour fu anche l’occasione per Eric, avendo altri due chitarristi in formazione, di proporre molti brani tratti dal disco classico di Derek And Dominos Layla & Other Assorted Love Songs: e infatti il concerto si apre con ben cinque brani tratti da quell’album splendido. In tutto il concerto le chitarre, e quella di Eric in particolare, sono il punto nodale dell’esibizione, con una serie di assoli fluidi e ricchi di tecnica ed improvvisazione, come solo in particolari e rare occasioni è dato sentire, La tetralogia di brani tratti da Layla si apre con una vibrante Tell The Truth, dove la slide di Derek Trucks si divide subito gli spazi solisti che le chitarre di Clapton e Bramhall, mentre la band crea un suono potente e corale, dove Doyle e le coriste sostengono con le loro voci quella di Eric e anche tastiere e ritmica sono immediatamente sul pezzo. Key To The Highway è uno degli standard assoluti del blues, qui ripresa in una versione elettrica e vibrante che non ha nulla da invidiare a quella  del disco originale, sempre con Bramhall II nella parte di seconda voce che fu di Bobby Whitlock,  la slide guizzante di Trucks nel ruolo di Duane Allman e il piano di Stainton a cesellare note. Ottima anche la ripresa di Got To Get Better In A Little While con la batteria di Steve Jordan che trovato un groove funky e coinvolgente non lo molla più, ben coadiuvato da tutta la band, Willie Weeks in particolare, mentre la versione di Little Wing, il pezzo di Jimi Hendrix che nel corso degli anni è diventato a sua volta uno standard nei concerti di Clapton, questa volta è più vicina al mood della ballata originale di Jimi, meno “galoppante”, più lenta e sognante, splendida e liquida come sempre, a parere di chi scrive una della dieci canzoni più belle della storia del rock, Per concludere la prima parte del concerto rimane Anyday, brano scritto con la collaborazione di Whitlock, un altro blues got rock got soul che esemplifica alla perfezione lo spirito e l’ispirazione di quell’album seminale per la carriera solista di Eric.

A questo punto viene chiamato sul palco JJ Cale per un quartetto di brani tratti dal meglio del suo repertorio e uno tratto da The Road To Escondido: bellissima l’apertura con Anyway The Wind Blows, che ci introduce subito al sound pigro e ciondolante tipico dei brani di Cale, per cui è stato coniato giustamente il termine laidback, JJ e Enrico la cantano all’unisono e il brano che si intensifica lentamente in un crescendo inesorabile si gusta alla grande, seguita da After Midnight, il brano apparso nel primo album di solista di Clapton, quello dove c’erano Delaney & Bonnie, e che fece conoscere il musicista dell’Oklahoma al mondo intero, con la band che si adegua allo stile più raccolto e meno scintillante di Cale, con i vari solisti più misurati nei loro interventi. Who I Am Telling You? è una delle canzoni meno conosciute del songbook di JJ, ai tempi era nuovissima, ma fa la sua bella figura, una ballata pianistica calda ed avvolgente, cantata a voci alternate; Don’t Cry Sister è un pezzo di taglio blues-rock, appariva su 5, forse non ha la fama di altre canzoni di Cale, ma conferma il gusto squisito e la finezza delle composizioni del chitarrista americano, anche nella versione che appare in questo Live In San Diego. Il riff di Cocaine è entrato nel subconscio di tutti gli amanti della musica rock, inconfondibile ed inesorabile, ti prende e ti trascina in un gorgo di sensazioni senza tempo che ammaliano il pubblico presente, assoli brevi e concisi per tutti, ma grande musica.

La parte finale del concerto è quella più blues, ma anche dei classici: Motherless Children, un altro dei riff più noti del canzoniere di Enrico, con l’uso della doppia slide e l’andatura incalzante tipica di questa versione dello standard di Blind Willie Johnson. Poi una versione monstre di Little Queen Of Spades, oltre diciassette minuti per questo brano di Robert Johnson che Clapton eseguiva già negli anni ’70, ma ha riscoperto nell’ultimo periodo, la versione di San Diego di questo slow blues è una delle più belle mai sentite, con il piano di Stainton che si prende i suoi spazi in vari momenti del pezzo e la solista di Eric che ci regala un primo assolo fluido e tagliente, nella migliore tradizione di quello che è stato definito, non a caso, “God”, per il suo stile unico ed inarrivabile (anche se l’arrivo di Hendrix da un altro universo, ai tempi gli creò non pochi problemi), nel prosieguo del brano anche Bramhall e la slide di Trucks hanno diritto ai loro interventi, fino al tripudio finale. Nel greatest hits di Clapton anche Further On Up The Road, uno splendido shuffle con uso di chitarre e assolo di organo, ha il suo giusto spazio, mentre Wonderful Tonight è una delle sue ballate più note, forse un filo caramellosa ma non può mancare nei concerti del nostro, scritta ai tempi per Pattie Boyd, rimane una delle più belle canzoni amore della storia della musica rock e la versione di San Diego non è priva di finezze, mentre Layla è un altro dei dieci pezzi rock all-time preferiti dal sottoscritto, qui riproposto nella prima versione, con Derek Trucks impegnato alla slide a non far rimpiangere quella che fu la parte di Duane Allman, e devo dire che ci riesce, in una versione gagliarda ed imperiosa, elettrica e vibrante, in una parola, splendida. Per l’ultimo brano, visto che i chitarristi erano pochi, sale sul palco pure Robert Cray, anche voce solista, in una ripresa solida e poderosa di un altro degli highlights del repertorio di Clapton, Crossroads, intensa e palpitante in un vorticoso interscambio di chitarre, per un trionfo del rock e del blues. Grande concerto, direi imperdibile, senza tema di ripetermi.

*NDB Anche se la presenza di tanti filmati del concerto in rete mi fa sperare (o temere) che prima o poi uscirà anche la versione video.

Bruno Conti