Un Folksinger Di Stampo Classico…Dopo Un Viaggio Al Sud! John Craigie – Asterisk The Universe

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John Craigie – Asterisk The Universe – ZPR/Thirty Tigers CD

Non fatevi sviare dalla foto di copertina di questo disco, in cui una donna dalle forme generose vi osserva con sguardo languido: John Craigie è un musicista originario di Los Angeles, definito da molti una sorta di moderno troubadour dal momento che le sue influenze primarie vanno cercate tra i padri della folk music contemporanea, vale a dire Woody Guthrie, Ramblin’ Jack Elliott e Pete Seeger. Devo confessare che il nome di Craigie mi giungeva del tutto nuovo, al punto che quando ho avuto per le mani il suo nuovo CD Asterisk The Universe ho pensato che fosse il suo album d’esordio. Indagando un po’ ho però scoperto che John è uno dei tanti segreti nascosti della musica americana, dato che ha alle spalle già sei album pubblicati tra il 2009 ed il 2018, oltre a due live e due dischi di cover (uno di canzoni rock alternative ed uno di brani dei Led Zeppelin). La seconda sorpresa l’ho avuta al momento dell’ascolto, in quanto pensavo di trovarmi di fronte al classico folksinger voce, chitarra e poco altro, ma invece mi sono ritrovato in mezzo a sonorità degne di un qualsiasi studio di registrazione del profondo sud, una miscela stimolante di rock, soul e gospel che si fonde mirabilmente con le canzoni (e la voce) di stampo folk del nostro.

Come se Bob Dylan, facendo le debite proporzioni, invece di andare a muovere i primi passi nel Village a New York fosse andato ad incidere ai Fame Studios in Alabama. Un disco full band molto ricco dal punto di vista strumentale, ma con un suono diretto che mantiene intatta l’essenza folk delle canzoni; prodotto dallo stesso John, Asterisk The Universe vede la presenza di musicisti abbastanza sconosciuti ma in grado di donare un sound decisamente caldo ai vari pezzi: tra i vari membri della band segnalerei i chitarristi Nilo Daussis e Erin Chapin (quest’ultima impegnata alla slide), il tastierista Jamie Coffis (proprio quello dei Coffis Brothers, quindi il più “famoso” tra tutti https://discoclub.myblog.it/2020/06/09/tom-petty-avrebbe-approvato-coffis-brothers-in-the-cuts/ ), che si destreggia benissimo sia all’organo che al pianoforte, e la sezione ritmica formata da Ben Berry al basso e Matt Goff alla batteria.

Prendete l’iniziale Hustlin’: la partenza è tipicamente folk, con solo la voce protagonista ed un mandolino, ma poi entrano chitarre, basso, batteria ed un piano elettrico, il tutto in maniera decisamente leggera, quasi in punta di piedi. Don’t Ask è più movimentata, una ballata folk-rock classica dalla melodia orecchiabile ed un coro femminile a conferire un sapore southern soul, grazie anche al suono caldo dell’organo. Bella anche Son Of A Man, un pezzo nel quale l’anima folk del nostro si fonde a meraviglia con il suono sudista molto anni settanta della band, il tutto impreziosito da un altro motivo diretto e piacevole; il ritmo si fa più sostenuto anche se sempre con discrezione nella vibrante Part Wolf, nuovamente col piano in evidenza ed un refrain vincente: tra le più riuscite del CD.

Con Crazy Mama si rimane ben piantati al sud, per una scintillante ballata tra country e blues con una bella slide ed un leggero tocco swamp, un pezzo che sembra provenire da un’oscura session dei seventies prodotta da Jim Dickinson, mentre la cadenzata Climb Up ha addirittura elementi funky nel suono ed un background che rimanda a dischi come Dusty In Memphis. La breve e suggestiva Used It All Up per sola slide e voci femminili funge da incipit per la limpida Don’t Deny, brano folk-rock cristallino con elementi dylaniani e sonorità coinvolgenti ed in parte californiane, un’altra canzone che entra di diritto tra le più belle del lavoro; il disco si conclude con l’elettroacustica ed intensa Vallecito, dalle atmosfere vagamente western, e con la splendida Nomads, folk song di grande spessore con le chitarre acustiche e il pianoforte a fornire un alveo perfetto per la deliziosa melodia.

Non credo sia il caso di andare a recuperare tutta la discografia di John Craigie (ammesso che si trovi da qualche parte *NDB Si trovano sul suo sito https://john-craigie.myshopify.com/ , ma al solito quello che ti frega sono i costi di spedizione dagli Stati Uniti), ma Asterisk The Universe può essere un ottimo punto di partenza per conoscerlo.

Marco Verdi

Continua Il Filotto Di Ottimi Dischi Per L’Omone Di Ocean City, New Jersey. Walter Trout – Ordinary Madness

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Walter Trout – Ordinary Madness – Mascot Provogue CD Limited Edition – 2 LP Vinile Colorato

Ormai anche Walter Trout si avvia a toccare, il prossimo anno a marzo, il traguardo dei 70 anni: e da come si era messa la sua vita quando nel giugno del 2013 gli fu diagnosticata una grave forma di cirrosi epatica, le sue possibilità di sopravvivenza sembravano veramente poche, senza un trapianto del fegato. Cosa per fortuna puntualmente avvenuta nel maggio dell’anno successivo, tanto che già ad ottobre del 2015 usciva il suo album Battle Scars, che documentava la sua battaglia vinta con la malattia. Nel pieno della malattia aveva pubblicato un sorprendente (per qualità) disco come The Blues Came Fallin’, e negli anni successivi ha confermato una vena compositiva mai perduta, prima con Alive In Amsterdan, poi con l’ottimo album di duetti, con ospiti a go-go, We’re All In This Together, e ancora lo scorso anno l’eccellente Survivor Blues, un album con una serie di cover di brani non notissimi, alcuni addirittura oscuri https://discoclub.myblog.it/2019/01/26/non-solo-sopravvive-ma-prospera-ogni-disco-e-piu-bello-del-precedente-walter-trout-survivor-blues/ .

Per completare il filotto il musicista del New Jersey (che ha ribadito in una recente video intervista con il suo amico Joe Bonamassa, un aneddoto divertente e poco conosciuto dei suoi primi anni sui palchi di Ocean City, quando le rispettive band suonavano una di fianco all’altra su palchi adiacenti, e la chitarra solista degli Still Mill era un certo Bruce Springsteen, di cui Walter non rimase molto impressionato all’epoca dalla abilità come chitarrista, consigliandolo di migliorarla, cosa che poi parrebbe essere successa (!?!?), e ha pure scritto anche qualche “bella canzoncina”) pubblica ora un nuovo album Ordinary Madness, che non fa riferimento alla “pazzia” fuori dal comune causata dalla pandemia, ma alle debolezze e alle fragilità insite in ciascuno di noi. In effetti l’album è stato completato poco prima dello stop per il virus, negli Horse Latitudes, gli studios di proprietà dell’amico Robby Krieger dei Doors, in quel di LA, California, non lontano da Huntington Beach, dove Trout vive da anni con la famiglia. Solito produttore, una garanzia, Eric Corne, dal 2006 al suo fianco, Johnny Griparic al basso, Michael Leasure alla batteria, un altro fedelissimo, e Teddy Andreadis alle tastiere.

Ovviamente ci dobbiamo aspettare un ennesimo album di blues elettrico corposo, influenzato dalle 12 battute, ma innervato da una base rock assai presente e dove la chitarra solista di Walter Trout è la dominatrice assoluta del suono: insomma anche se Walter non ha dimenticato gli anni trascorsi con il suo mentore John Mayall il suo approccio è quello tipico del “guitar hero”, quindi ottime melodie quando servono, belle ballate terse, ma poi quando interviene la Fender di Trout non ce n’è per nessuno o per pochi. Anche se lo scorso anno si è fratturato il mignolo della mano sinistra (quella degli accordi per intenderci) ben tre volte, la title track, un lento sinuoso, languido e ipnotico conferma la grande tecnica e il feeling dei suoi assoli, un brano che potrebbe rimandare a quegli slow blues à la Robin Trower dove la chitarra quasi galleggia, liquida ed affascinante, mentre lascia dipanare lentamente la sua improvvisazione, stabilendo anche quale sarà il concetto sonoro dell’album, ribadito in Wanna Dance dove i ritmi si fanno più incalzanti, le sonorità più lavorate, con le tastiere a sostenere la solista, tra Van Halen e Neil Young (?!? lo ha dichiarato lui) che continua comunque a rilasciare assoli sempre vibranti e di grande consistenza, per poi placarsi nella bellissima ballata My Foolish Pride, quasi di impianto country e cantata benissimo del nostro, in una atmosfera che trasuda serenità, mentre piano e organo, quelli che furono di Ray Manzarek, lavorano di fino e tirano la volata per il lirico assolo di chitarra.

Poi nella pastorale Heartland utilizza la vecchia Telecaster di James Burton, “casualmente” anche quella negli studi di Krieger e fa capolino pure una fisa. All Out Of Tears scritta insieme a Teeny Tucker, e dedicata al defunto figlio di quest’ultima, è uno slow blues duro e puro, ad alto contenuto emotivo, con Trout che distilla dalle corde della sua chitarra un assolo lancinante, che avrebbe reso orgoglioso il suo amato Mike Bloomfield, da sempre citato come suo modello di ispirazione. Final Curtain Call è più dura e tirata, con dei tocchi orientaleggianti che rimandano agli Zeppelin, compreso assolo alla Page, ma con l’armonica suonata dallo stesso Walter che alza la quota blues, Heaven In Your Eyes è una ballata che illustra il suo lato più melodico, con The Sun Is Going Down che rivaleggia con i mid-tempo più ispirati di Clapton, grazie anche al lavoro delle tastiere e finale in crescendo galoppante con la solista in grande spolvero.

Chitarra impiegata in modalità gilmouriana, nel senso di David, con grande assolo, per la sognante Up Above My Sky che ricorda i Pink Floyd mid-seventies, la stonesiana e danzante Make It Right ilustra il lato più ludico e divertente della musica di Trout, un rock-blues di quelli robusti con solista prima accarezzata e poi strapazzata, e ancora più corposa e robusta è la conclusiva Boomer, scritta con la moglie Marie, dove i due parlano delle future generazioni in un brano dove le chitarre ruggiscono, anche la Gibson SG di Krieger di nuovo casualmente nello studio e impiegata insieme alle tastiere di Manzarek, in un brano che è il più duro e tirato, ma forse anche il meno soddisfacente, in un disco che globalmente comunque conferma l’ottimo livello della produzione di Trout. Forse l’unico appunto che si può fare è il fatto che il CD esce solo in quella confezione “Deluxe”, con plettri, sottobicchieri, stickers e cartoline, niente bonus tracks, il tutto francamente inutile e fa solo aumentare il prezzo, se volete potete consolarvi con la versione in doppio vinile colorato.

Bruno Conti

Una Edizione Riveduta E Corretta Del Suo Primo Album! Joe Bonamassa – A New Day Now 20th Anniversary Edition

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Joe Bonamassa – A New Day Now 20th Anniversary Edition – JR Adventures/Mascot Provogue

Nuovo ma vecchio, o se preferite vecchio ma nuovo: di solito invertendo i fattori il risultato non cambia, in questo caso non saprei. Come è noto Joe Bonamassa appartiene alla categoria “una ne pensa e cento ne fa”. In questi mesi di pandemia se ne è stato stranamente tranquillo nel suo quartier generale di Nerdville e da lì ha imperversato con video, interviste a colleghi e altri modi per passare il tempo; ovviamente non è stato con le mani in mano, ha pubblicato il primo album della sua band collaterale Sleep Eazys, lo strumentale Easy To Buy https://discoclub.myblog.it/2020/04/20/e-sempre-il-buon-vecchio-joe-bonamassa-ma-diverso-e-in-incognito-sleep-eazys-easy-to-buy-hard-to-sell/ , e ha prodotto l’eccellente album collettivo di Dion Blues With Friends https://discoclub.myblog.it/2020/06/17/un-altro-giovanotto-pubblica-uno-dei-suoi-migliori-album-di-sempre-dion-blues-with-friends/ . Già che c’era ha iniziato anche a registrare agli Abbey Road Studios Royal Tea il suo nuovo album di studio, che dovrebbe essere pronto, uscita il 23 ottobre, sto già preprando la recensione; ma nel 2020 ricorre anche il 20° Anniversario dalla pubblicazione dei suo primo album solista A New Day Yesterday, quello che ha trasformato un giovane e promettente chitarrista che divideva il palco con B.B. King a 12 anni, e nel 1994 a 17 anni pubblicava il suo primo non memorabile disco con i Bloodline, nella “Next Big Thing” della chitarra, tanto che a produrre quel disco venne chiamato Tom Dowd (Cream, Eric Clapton, Derek & The Dominos, Allman Brothers, Aretha Franklin possono bastare?).

Il risultato non fu per nulla disprezzabile, anzi, ma oggi Bonamassa, nel suo continuo desiderio di migliorarsi, ha deciso di riprendere in mano quei nastri, affidarli al suo attuale produttore Kevin Shirley e come dice il lancio del nuovo CD, presentare un prodotto “ri-cantato, rimixato, rimasterizzato e con l’aggiunta di tre bonus”. A voler essere pignoli, il disco uscito in origine per la Okeh Records nel 2000, era già stato “ri-pubblicato” nel 2005 e nel 2010, ma questa volta, come appena accennato, Bonamassa ha voluto rifare ex novo tutte le parti vocali, con la sua maturata voce di 43enne cantante di grande esperienza: ovviamente il “bravo recensore”, come direbbe Frassica, cioè il sottoscritto, si è andato a risentire anche il disco vecchio, e devo dire che in effetti Joe già allora non cantava poi così male, il suono del disco curato da un maestro come Dowd era brillante, e il repertorio, con 6 cover e 6 brani originali era ben bilanciato, quindi a voi l’ardua sentenza se ricomprarvelo. Il disco, se già non lo avete, comunque merita, nella nuova versione ancora di più: oltre alla sezione ritmica dell’epoca Creamo Liss al basso e Tony Cintron alla batteria, prevedeva anche la partecipazione di alcuni ospiti di pregio.

Il trittico iniziale di cover, Cradle Rock di Rory Gallagher, a tutto riff e con un assatanato Joe alla slide, Walk In My Shadow dei Free e A New Day Yesterday dei Jethro Tull, è veramente strepitoso, e la voce di oggi di Bonamassa gli rende ulteriore giustizia, quindi forse, a voler ben guardare non è una operazione del tutto peregrina; si diceva degli ospiti, Rick Derringer, seconda voce e chitarra aggiunta in una versione potente di Nuthin’ I Wouldn’t Do (For a Woman Like You) di Al Kooper, che ricorda moltissimo il sound dei Johnny Winter And dei quali Derringer era elemento decisivo, con sventagliate di chitarra wah-wah a piè sospinto. Come ha detto lo stesso Joe in una recente conversazione sul suo sito con Walter Trout, riferendosi alle critiche di alcuni loro detrattori puristi, “Too Many Notes Played Way Too Loud”, se lo sono pure stampati sul retro di una t-shirt e via senza problemi, sentire una vigorosa Colour And Shape e non godere come ricci è un vero delitto.

Nella cover di un brano di Warren Haynes If Heartaches Were Nickels, uno slow blues libidinoso, Bonamassa unisce le forze con Leslie West e Gregg Allman, per sei minuti di pura magia sonora, anche se nella nuova versione sono spariti i contributi vocali degli ospiti ed un paio di minuti del brano, e questo non va bene. L’ultima cover è Burn That Bridge, dal repertorio di Albert King, un altro rock blues tiratissimo con pedale wah-wah inserito a manetta , con il babbo di Bonamassa Len, alla chitarra aggiunta. Gli altri brani originali firmati da Joe, con molti richiami a Clapton e Stevie Ray Vaughan, illustrano il lato più duro e tirato del nostro amico. Diciamo più che buoni ma non eccelsi. Eliminata l’altra bonus, la versione lunga di Miss You, Hate You, presente nella versione “radio”, sono stati aggiunti tre brani con Stevie Van Zandt (Little Steven), uno dei primi a credere nel talento del nostro amico, demos registrati nel 1997 quando Bonamassa non aveva ancora un contratto discografico, Hey Mona, I Want You e Line On Denial sono tre brani di classico rock americano, il secondo, una cover irriconoscobile e durissima di I Want You di Dylan, il terzo con vaghi riff e rimandi zeppeliniani e un sound piuttosto robusto e corposo, ma forse niente per cui strapparsi le vesti. Come avrebbe detto Gene Wilder “Si-può-fare”!

Bruno Conti

Anche Da Solo Sul Palco (O Quasi) Era Un Grande. Jerry Garcia & John Kahn – Garcia Live Volume 14

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Jerry Garcia & John Kahn – Garcia Live Volume 14 – ATO CD – 2LP

Nel recensire di recente l’ultimo dei quattro live dei Blue Oyster Cult usciti quest’anno ho accennato appunto al fatto che la band americana ha deciso di inflazionare in maniera massiccia il mercato dal momento che ci sono state anche le ristampe di due album in studio ed in autunno sarà la volta del loro disco nuovo. Ebbene, non è che chi cura gli archivi del compianto Jerry Garcia se ne sia stato con le mani in mano, dato che il CD di cui mi accingo a parlare è il terzo in sette mesi dell’ormai nota serie Garcia Live, ed il quattordicesimo totale. Registrato al Ritz di New York il 27 gennaio del 1986, Garcia Live Volume 14 è però un episodio abbastanza unico: intanto è “solo” singolo, e poi vede Jerry in veste totalmente acustica, ma non con la Jerry Garcia Acoustic Band bensì proprio solo lui e la sua chitarra, coadiuvato solamente dal fido John Kahn che lo accompagna al basso (ed il CD è co-intestato ai due).

Nel 1986 Jerry non se la passava benissimo per quanto riguarda la salute (a luglio dello stesso anno cadrà in un coma diabetico che per poco non lo porterà all’altro mondo), ma in questa serata newyorkese è davvero in ottima forma, e nonostante la struttura scarna del suono riesce a fornire una performance da leccarsi i baffi, con qualche lieve imprecisione vocale ma con una prestazione chitarristica sublime, in cui il nostro riempie gli spazi al punto che in alcuni momenti non sembra che ci siano solo due persone sul palco (e Kahn si dimostra un partner perfetto, misurato e con un chiaro background jazz). Musica pura ed incontaminata, con le radici folk, country e bluegrass del nostro che fuoriescono prepotentemente anche in brani che originariamente hanno una struttura rock. Ovviamente non mancano pezzi con diverse decadi sulle spalle, siano essi traditionals o meno, veri e propri classici del folk-blues come l’opening track Deep Elem Blues, molto energica nonostante siano solo in due, una Little Sadie pregna di atmosfere western, una deliziosa Oh Babe, It Ain’t No Lie di Elizabeth Cotten caratterizzata dallo splendido pickin’ di Jerry ed una lucida Spike Driver Blues (Mississippi John Hurt).

In ogni concerto di Garcia che si rispetti ci sono poi dei brani di Bob Dylan, e qui ascoltiamo una limpida When I Paint My Masterpiece e soprattutto una commovente rilettura di Simple Twist Of Fate che la fragilità vocale del nostro rende ancora più poetica (e con Kahn che si produce in un intermezzo in puro stile jazz). Infine, rispetto agli abituali show solisti di Garcia in cui dominano le cover, i brani a firma Garcia-Hunter sono ben cinque, a partire da una discreta (ed applauditissima) Friend Of The Devil per proseguire con la mossa Run For The Roses, le splendide Dire Wolf e Ripple, tra le migliori composizioni di sempre del nostro, ed una strepitosa Bird Song di nove minuti che suona acida e psichedelica perfino con la chitarra acustica. Come unico bis abbiamo una rara performance da parte di Jerry del classico di Leadbelly Goodnight Irene, in una versione decisamente pimpante e vigorosa (NDM: le prime copie dell’album avevano un CD aggiunto che documentava la serata completa del 28 gennaio, con una scaletta simile ma la presenza della dylaniana It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry e dei traditionals I’ve Been All Around This World e Jack-A-Roe).

Quindi un altro capitolo importante dell’infinita saga live di Jerry Garcia, e qualcosa mi dice che non sarà l’ultimo episodio di questo 2020.

Marco Verdi

Quando Fertilità Non Fa Rima Con Qualità! Bruce Hornsby – Non-Secure Connection

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Bruce Hornsby – Non-Secure Connection – Zappo/Thirty Tigers CD

Lo scorso anno Bruce Hornsby con Absolute Zero era tornato a pubblicare un album come solista a ben 21 anni da Spirit Trail (ma in mezzo c’erano stati i sei lavori, quattro in studio e due dal vivo, con i Noisemakers, e pure le due collaborazioni con Ricky Skaggs in cui il songwriter e pianista della Virginia aveva dato sfogo alla sua passione per il bluegrass), ma evidentemente il nostro si trova in un periodo creativamente fertile dal momento che ha deciso di pubblicare un nuovo full length intitolato Non-Secure Connection. Musicista dalla grande preparazione tecnica che lo ha portato soprattutto ad inizio carriera ad essere richiestissimo sugli album di colleghi illustri come Bob Dylan, Don Henley (con cui scrisse la splendida The End Of Innocence), Bonnie Raitt, Willie Nelson, Robbie Robertson e The Nitty Gritty Dirt Band (e che lo aveva fatto entrare dopo la morte di Brent Mydland a far parte di una band solitamente “chiusa” come i Grateful Dead).

Hornsby negli anni non ha più bissato il successo dei primi tre album incisi con la sua prima band The Range, pur consegnandoci lavori di tutto rispetto come il bellissimo Harbor Lights del 1993 ed il valido Halcyon Days del 2004, ma bisogna dire che Bruce non ha mai fatto canzonette pop da tre minuti “usa e getta”, ma ha sempre costruito brani eleganti e raffinati anche nei momenti più radiofonici, facendo leva su una tecnica pianistica non comune e su un background di chiaro stampo jazz. Dopo un attento ascolto di Non-Secure Connection devo però affermare che il nostro non ha del tutto centrato il bersaglio, in quanto ha messo a punto un lavoro alla lunga un po’ involuto, con una serie di ballate non sempre di prima scelta ed in più con soluzioni sonore a volte cerebrali e discutibili, il tutto proposto in maniera un tantino freddina e con un suono in certi momenti troppo spersonalizzato. Non è un brutto disco, ma neppure così bello, ed in più si fa fatica ad arrivare fino in fondo senza qualche sbadiglio.

Bruce suona quasi tutti gli strumenti facendosi aiutare qua e là da alcuni membri dei Noisemakers, con l’aggiunta di diversi ospiti noti (Vernon Reid, il grande Leon Russell) e meno noti (Rob Moose, James Mercer, Jamila Woods) che però non alterano né in negativo né in positivo il risultato finale. Cleopatra Drones apre il CD in un’atmosfera rarefatta, note di piano sparse ed una melodia corale che mi ricorda più Peter Gabriel che lo stesso Hornsby, con la batteria che inizia a scandire il tempo dopo un paio di minuti: il brano ha un’andatura circolare e quasi ipnotica, non di facile assimilazione ma che per il momento riesco a definire comunque affascinante. Time, The Thief è più aperta e caratterizzata da una suggestiva orchestrazione di fondo che fa un po’ The Band (si sente distintamente un “french horn”), nonostante il carattere intimista del pezzo che vede Bruce centellinare le parole e l’accompagnamento sui tasti del pianoforte: un uno-due spiazzante, soprattutto per chi ha in testa i primi album del musicista americano. La title track prosegue sulla stessa falsariga (voce, piano ed un synth che crea il tappeto sonoro di fondo), ma qui il brano ha una melodia dissonante con risvolti perfino inquietanti, e sinceramente il gioco inizia un po’ a stancarmi (e le chitarre dove sono?); almeno The Rat King, che rispetta l’andamento cupo del lavoro, ha un motivo riconoscibile e non va tanto per le lunghe.

Finalmente con My Resolve il disco ci presenta una canzone più strumentata (diciamo pure full band), con una linea melodica piacevole ed elementi californiani, un pezzo non distante da certe cose di CSN: non per niente è il primo singolo. Bright Star Cast è pop-errebi che potrebbe avere qualche potenzialità (il motivo di fondo è orecchiabile), ma secondo me è rovinata da un arrangiamento troppo moderno e tecnologico, mentre con Shit’s Crazy Out There torniamo a tempi lenti ed atmosfere francamente angoscianti, anche se nel finale strumentale ascoltiamo finalmente un assolo chitarristico. E veniamo al brano migliore, cioè la collaborazione con Russell (uno degli eroi del nostro), una registrazione che risale a quasi trenta anni fa della già nota Anything Can Happen (era la title track di un album del 1994 di Leon prodotto proprio da Bruce): qui Hornsby ha preso la traccia vocale di Russell dal demo originale e le ha cucito intorno un vestito sonoro moderno ma non disprezzabile (con il sitar come strumento guida), anche se fa specie che la canzone più riuscita del CD risalga a quasi tre decadi fa. L’album si chiude con la cervellotica Porn Hour, voce, piano ed archi ma anche una certa freddezza, e con la vivace e discreta No Limits, un buon brano che però non risolleva le sorti di un disco troppo difficile ed introverso, che non metterei di certo tra i più riusciti di Bruce Hornsby.

Marco Verdi

Più Sregolatezza Che Genio! Così E’ (Se Vi Piace…). The Waterboys – Good Luck, Seeker

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The Waterboys – Good Luck, Seeker – Cooking Vinyl Limited Edition 2 CD

Mike Scott è un genio. L’ho sempre pensato, da quando molti anni fa ebbi la fortuna di assistere all’esibizione della sua creatura appena nata, i Waterboys, in apertura ai Pretenders nel cortile del Castello Sforzesco di Milano http://www.lateforthesky.org/wp-content/uploads/2009/10/Waterboys.pdf . Non può che essere un genio uno capace di scrivere canzoni della qualità di Savage Earth Heart, A Pagan Place, Don’t Bang The Drum, The Whole Of The Moon, The Pan Within, Fisherman’s Blues, And The Bang on The Ear, On My Way To Heaven e la lista potrebbe diventare lunghissima fino alle più recenti You In The Sky, Long Strange Golden Road o Piper At The Gates Of Dawn. Uno che è stato capace di riattualizzare il genere folk-rock con un capolavoro su cui ha lavorato proficuamente per quasi tre anni come testimoniato dal monumentale Fisherman’s Box di sei CD traboccanti di perle luminose. Uno che dal vivo ha sempre fatto performance entusiasmanti, da solo, in trio, full band, con le varie formazioni che lo hanno accompagnato (meglio se con il funambolico violinista Steve Wickham al fianco).

Eppure anche i geni hanno degli svarioni, o cadute, più o meno rovinose. E il nostro Mike, purtroppo, non fa eccezione. Ci aveva già provato negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio con due album sottotono, Dream Harder e, soprattutto, A Rock In The Weary Land, che soffrivano di un suono eccessivamente ridondante sul modello di quello di alcuni famosi gruppi americani di quel periodo. Il fondo però lo ha toccato tre anni fa con lo sciagurato Out Of All This Blue, un doppio CD (addirittura triplo nella versione superdeluxe https://discoclub.myblog.it/2017/09/20/ma-e-veramente-cosi-brutto-come-dicono-quasi-tutti-waterboys-out-of-all-this-blue/ ), ricco di pastrocchi sonori che andavano dalla dance anni ottanta al trip-hop con largo uso di elettronica, usata per creare effetti spesso irritanti e senza senso. In tanto marasma, salvabili risultavano solo i pochi brani ispirati dal country nashvilliano che non c’entravano nulla col resto del lavoro. Nel 2019 Where The Action Is, con un ritorno a sonorità rock più congeniali alla band del songwriter di Edimburgo, sembrava aver riportato i Waterboys sulla retta via https://discoclub.myblog.it/2017/09/20/ma-e-veramente-cosi-brutto-come-dicono-quasi-tutti-waterboys-out-of-all-this-blue/ . E invece, ahimè ci risiamo, e ci troviamo tra le mani questo nuovo capitolo, Good Luck, Seeker, che se non raggiunge i livelli nefasti di Out Of All This Blue, ci arriva comunque molto vicino.

L’impressione, e due indizi fanno spesso una prova, è che Mike Scott soffra di bipolarismo (non vorrei gettare la colpa di ciò sulla sua più recente compagna di vita, l’artista giapponese Megumi Igarashi, già nota col nome d’arte di Rokunedashiko, ovvero “artista della vagina”…non trovate qualche richiamo alla vicenda Lennon-Yoko Ono?) perché tutta questa infatuazione per l’elettronica, le campionature, il nu-soul e il chillout non può giustificarsi solo come una reazione traumatica al periodo di lockdown. Bipolare o no, da questo nuovo stillicidio di suoni finti, voci trattate (addirittura nella pessima The Golden work rispolvera il vocoder del peggior Neil Young di Trans), ritmi dance di ogni passata decade, lounge music urticante come i quarantasei secondi di Sticky Fingers, che degli Stones ha solo il titolo, da tutto questa paccottiglia deprimente salviamo il salvabile, purtroppo ben poco. Senz’altro il singolo The Soul Singer, che spicca in tanta confusione come un brillante esempio di r&b in stile Motown, con una sezione fiati in gran spolvero, le voci nere delle coriste a rinforzare la performance vocale di Scott che gigioneggia nel testo e nel video che vi invito a guardare.

Poi l’unico episodio dalla struttura folk, la semi-acustica Low Down In The Broom, intensa e ancor più efficace nella versione demo per sola voce e chitarra. Quindi due brani recitati, non cantati, come Mike ama fare negli ultimi tempi, Postcard From The Celtic Dreamtime e My Wanderings In The Weary Land. In entrambi troviamo finalmente protagonista il violino di Wickham, che, se nella prima si limita a ricamare sullo sfondo di una evocativa e ipnotica contemplazione di paesaggi naturali irlandesi, nella seconda scatena tutta la sua trascinante irruenza duettando con la chitarra del leader nei tre minuti finali di un brano che ci riporta per una volta ai fasti dei bei tempi andati. Merita una citazione anche l’unica cover presente in scaletta, Why Should I Love You? (era nell’album The Red Shoes di Kate Bush) non tanto perché sia un brano memorabile, quanto perché gode di un arrangiamento più sobrio rispetto al resto, nobilitato da un bell’assolo di chitarra nel finale. Vi lascio il privilegio di scoprire l’imbarazzante bruttezza delle canzoni che non ho citato, questa è una,

Magari qualcuno avrà il coraggio di farsele piacere e qualche nota rivista specializzata (soprattutto inglese) griderà al capolavoro. Preferisco sperare che mister Scott abbia ancora la voglia e la capacità di rinsavire e concludo citando le ultime frasi di uno dei suoi gioielli del passato: that was the river, this is the sea, ovvero, quello era il fiume (della buona musica), questo è il mare (pieno di spazzatura).

Marco Frosi

 

Replacements – Pleased To Meet Me. Altro Box “Ibrido” 3CD/1LP In Ristampa Per La Rhino il 9 Ottobre

replacements pleased to meet me

Replacements – Pleased To Meet Me – 3 CD + 1 LP Sire/Rhino – 09-10-2020

Altro cofanetto in uscita nella prima parte di ottobre, si tratta della ristampa di Pleased To Meet Me dei Replacements, l’album del 1987 della band di Minneapolis, l’ultimo con Bob Stinson in formazione alla chitarra e l’unico ad essere registrato come un trio, con lo stesso Stinson e Paul Westerberg a dividersi le parti di basso, oltre a Chris Mars alla batteria, più alcuni ospiti chiamati negli studi Ardent di Memphis dal produttore Jim Dickinson (che suonò anche le tastiere): i Memphis Horns, il loro idolo Alex Chilton, a cui dedicano anche una canzone, un giovanissimo Luther Dickinson che a 14 anni fece il suo esordio discografico con un assolo durissimo in Shooting Dirty Pool https://www.youtube.com/watch?v=avU5p9p6Z9A , e sempre ai fiati James Lancaster, Steve Douglas e Prince Gabe. Uno dei loro dischi più acclamati dalla critica, in particolare da David Fricke di Rolling Stone, che non ha scritto le nuove note del libro allegato alla ristampa: purtroppo chi lo vuole si deve beccare anche il vinile aggiunto. Nel primo CD, rimasterizzato nel 2019 in occasione della pubblicazione del box Dead Man’s Pop, è stato aggiunto il remix del singolo Can’t Hardly Wait di Jimmy Iovine.

Il secondo CD contiene i 15 Blackberry Way Demos registrati nel 1986 agli studios omonimi di Minneapolis in preparazione dell’album, mentre il terzo CD riporta altri 23 brani, tra outtakes, alternates takes e primi abbozzi delle canzoni, che porta a 29 il totale delle tracce mai pubblicate prima in queste versioni.

Ecco la lista completa dei contenuti del cofanetto.

Tracklist
[CD1: Pleased to Meet Me (2020 Remaster) + Rare, Single-Only Tracks]
1. I.O.U.
2. Alex Chilton
3. I Don’t Know
4. Nightclub Jitters
5. The Ledge
6. Never Mind
7. Valentine
8. Shooting Dirty Pool
9. Red Red Wine
10. Skyway
11. Can’t Hardly Wait
12. Election Day
13. Jungle Rock
14. Route 66
15. Tossin’ n’ Turnin’
16. Cool Water
17. Can’t Hardly Wait – Jimmy Iovine Remix

[CD2: Blackberry Way Demos]
1. Bundle Up – Demo
2. Birthday Gal – Demo
3. I.O.U. – Demo *
4. Red Red Wine – Demo *
5. Photo – Demo
6. Time Is Killing Us – Demo *
7. Valentine – Demo
8. Awake Tonight – Demo *
9. Hey Shadow – Demo *
10. I Don’t Know – Demo *
11. Kick It In – Demo 1 *
12. Shooting Dirty Pool – Demo *
13. Kick It In – Demo 2 *
14. All He Wants To Do Is Fish – Demo *
15. Even If It’s Cheap – Demo *

[CD3: Rough Mixes, Outtakes, & Alternates]
1. Valentine – Rough Mix *
2. Never Mind – Rough Mix *
3. Birthday Gal – Rough Mix *
4. Alex Chilton – Rough Mix *
5. Election Day – Rough Mix *
6. Kick It In – Rough Mix *
7. Red Red Wine – Rough Mix *
8. The Ledge – Rough Mix *
9. I.O.U. – Rough Mix *
10. Can’t Hardly Wait – Rough Mix *
11. Nightclub Jitters – Rough Mix *
12. Skyway – Rough Mix *
13. Cool Water – Rough Mix *
14. Birthday Gal
15. Learn How To Fail *
16. Run For The Country *
17. All He Wants To Do Is Fish
18. I Can Help – Outtake *
19. Lift Your Skirt *
20. ‘Til We’re Nude
21. Beer For Breakfast
22. Trouble On The Way *
23. I Don’t Know – Outtake

[LP]
1. Valentine – Rough Mix *
2. Never Mind – Rough Mix *
3. Birthday Gal – Rough Mix *
4. Alex Chilton – Rough Mix *
5. Election Day – Rough Mix *
6. Kick It In – Rough Mix *
7. Red Red Wine – Rough Mix *
8. The Ledge – Rough Mix *
9. I.O.U. – Rough Mix *
10. Can’t Hardly Wait – Rough Mix *
11. Nightclub Jitters – Rough Mix *
12. Skyway – Rough Mix *
13. Cool Water – Rough Mix *

Ovviamente la presenza del LP alza il costo del box intorno a una 70ina di euro, forse troppi, anche se è un gran bel disco.

Bruno Conti

Cambia Il Genere, Ma Non La Voce, Sempre Calda E Vellutata. Rumer – Nashville Tears

rumer nashville tears

Rumer – Nashville Tears – Cooking Vinyl

Doveva uscire il 1° maggio, poi come altri molti dischi in questi tempi di coronavirus, è stato posticipato ad agosto. Si tratta del primo album dopo una lunga pausa per la cantante anglo-pachistana, e come lascia intuire il titolo un disco di country, tutto composto di canzoni scritte da Hugh Prestwood, un autore non notissimo al grande pubblico, ma assai apprezzato da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno interpretato i suoi brani, molte volte entrati nelle classifiche di categoria e qualche volta anche successi nelle charts nazionali USA, come per esempio Hard Times For Lovers, una hit per Judy Collins nel 1979. Per il resto Rumer e il marito Rob Shirakbari (a lungo arrangiatore e collaboratore di Burt Bacharach) hanno privilegiato canzoni meno note del suo songbook, comunque sempre con interpreti di prestigio: Alison Krauss, Randy Travis, Barbara Madrell, Shenandoah, Trisha Yearwood.

Sarah Joyce, con il suo nome d’arte di Rumer, come certo saprete se leggete il blog regolarmente, è molto amata sia dal sottoscritto https://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , quanto dall’amico Marco Verdi https://discoclub.myblog.it/2012/06/27/confermo-e-proprio-brava-rumer-boys-don-t-cry/ , grazie alla sua voce calda e vellutata, dal timbro e dalla emissione che sfiora la perfezione, epigona di quella schiatta di interpreti che discende da Karen Carpenter e Dusty Springfield, passando anche da cantautrici come Carole King e Laura Nyro, e con la benedizione del suo mentore Burt Bacharach, uno che ha sempre avuto una passione per le grandi voci femminili, e al quale proprio Rumer aveva dedicato il suo ultimo album, uscito nel 2016, This Girl’s In Love (A Bacharach & David Songbook), il primo ad essere pubblicato dopo essersi trasferita per vivere con il marito negli States tra Arkansas e Georgia, dove ha anche avuto un aborto e diradato la sua attività musicale, per problemi di salute legati a disturbi bipolari a seguito dello stress legato alla sua carriera.

Per il rientro Sarah ha deciso, dovo vari tentennamenti, di pubblicare un album di country, folgorata dal repertorio di Hugh Prestwood, proposto da Fred Mollin, produttore e musicista canadese, ma vecchia volpe della scena locale di Nashville, uno che ha lavorato a lungo con Jimmy Webb, America, Kris Kristofferson, quindi non il primo pirla che passa per la strada, che ha prodotto questo Nashville Tears. A ben guardare rimane molto del pop orchestrale e raffinato che da sempre caratterizza la proposta di Rumer, con continui florilegi orchestrali che spesso fanno da prologo alle canzoni, che però poi si svolgono con un deciso piglio country, tra acustiche, pedal steel, dobro e violini che sono gli elementi principali del sound. Mollin ha radunato una eccellente pattuglia di musicisti locali, tra cui spiccano Pat Buchanan alla chitarra elettrica, Bryan Sutton a basso, banjo e mandolino, Stuart Duncan al violino, l’ottimo Mike Johnson alla pedal steel, e Kerry Marx e Scotty Sanders, che si alternano a dobro e pedal steel, strumento molto impiegato nel disco. La voce della nostra amica, come si diceva, è rimasta splendida, magari aggiungendo una patina di maturità, visto che da poco ha compiuto 41 anni.

Si parte con la gentile The Fate Of Fireflies, con i florilegi della sezione archi, poi entra subito la calda ed avvolgente vocalità di Rumer, ben supportata dal classico suono country seventies preparato da Mollin, con la steel subito in evidenza, ma anche il piano, seguita da un altra ballata come June It’s Gonna Happen, altro tipico esempio dello stile compositivo di Prestwood, che utilizza molte metafore relative alla natura, mentre pedal steel e dobro, oltre al piano di Gordon Mote, sono sempre in evidenza. Deliziosa anche Oklahoma Stray che sembra un brano del primo James Taylor, con una bella melodia e un arrangiamento intimo, Bristlecone Pine è leggermente più mossa, giusto un poco, potrebbe ricordare gli America, vecchi clienti di Mollin, sempre con la voce cristallina di Rumer a galleggiare sulla musica, come conferma la sua versione di Hard Times For Lovers, il brano di Judy Collins, dove rivaleggia con la grande cantante di Seattle, quanto a purezza di emissione vocale, con il dobro che sottolinea lo spirito più brioso di questa canzone. Eccellenti anche la malinconica Ghost In This House, un successo per i Shenandoah e la solenne The Song Remembers When, grande successo per Trisha Yearwood nel 1993.

E’ ovvio che stiamo parlando di un country old style, molto lavorato, lontano dall’alt-country e dall’Americana, tutto basato sulla voce superba di Rumer che porge queste canzoni con grande garbo e classe, in omaggio a quella “vecchia” Nashville citata nel titolo dell’abum, ma cionondimeno molto godibile, come conferma That’s That, altro brano estremamente raffinato di Prestwood che illustra i paesaggi e i panorami della natura americana “There’s a weeping willow on the outskirts of town/Where I took a pocket knife and carved out our names/In the morning I am gonna cut that tree down/Gonna build a fire and watch us go up in flames.”, mentre Buchanan rilascia uno splendido assolo di chitarra elettrica che incornicia il brano. Solenne e malinconica anche la pianistica Here You Are, mentre la squisita Learning How To Love si libra ancora una volta sulle corde vocali vellutate di questa cantante che rimane consigliata soprattutto a chi ama anche le interpreti lontane dal rock e comunque portatrici sane di un pop, magari demodé, affinato e senza tempo.

Bruno Conti

Doors – Morrison Hotel. Edizione Del 50° Anniversario: Purtroppo Sempre Formato Misto, 2 CD + LP

doors morrison hotel box

Doors – Morrison Hotel 50th Anniversary Deluxe Edition 2CD/1LP Elektra Rhino – 09-10-2020

Tornano le ristampe dei Doors per il 50° Anniversario degli album originali (siamo quasi alla fine del percorso, poi manca solo L.A. Woman), e riprendono le vecchie brutte abitudini della Rhino di pubblicare queste versioni dove CD e vinile convivono nella stessa confezione, scontentando così gli appassionati di entrambi i formati. Ovviamente il fatto di inserire il LP fa lievitare il prezzo, ben oltre i 50 euro, oltre a tutto riproponendo l’identico contenuto musicale per due volte.

Fortunatamente c’è il secondo CD, quello del materiale “inedito”, che anche questa volta pare interessante (e differente da quello pubblicato nella edizione uscita per il 40° dell’album), benché 9 diverse versioni di Queen Of The Highway e 5 di Roadhouse Blues sono decisamente indirizzate verso i fans sfegatati e i “completisti”. Ci sono anche le cover di Money (That’s What I Want), il vecchio brano Motown di Barrett Strong e mille altri, tra cui pure i Beatles, e Rock Me di Muddy Waters, e poi come Rock Me Baby, di B.B. King, oltre a due alternate takes di Peace Frog e I Will Never Be Untrue, già apparsa in versione live nel box quadruplo del 1997.

Comunque, al solito, ecco il contenuto completo del cofanetto.

Tracklist
[CD1]
1. Roadhouse Blues
2. Waiting For The Sun
3. You Make Me Real
4. Peace Frog
5. Blue Sunday
6. Ship Of Fools
7. Land Ho!
8. The Spy
9. Queen Of The Highway
10. Indian Summer
11. Maggie M’Gill

[CD2]
1. Queen Of The Highway (Take 1) [She Was A Princess]
2. Queen Of The Highway (Various Takes)
3. Queen Of The Highway (Take 44) [He Was A Monster]
4. Queen Of The Highway (Take 12) [No One Could Save Her]
5. Queen Of The Highway (Take 14) [Save The Blind Tiger] [With
6. Queen Of The Highway (Take 1) [American Boy – American Girl]
7. Queen Of The Highway (Takes 5, 6 & 9) [Dancing Through The M
8. Queen Of The Highway (Take 14) [Start It All Over]
9. I Will Never Be Untrue
10. Queen Of The Highway (Take Unknown)
11. Roadhouse Blues (Take 14) [Keep Your Eyes On The Road]
12. Money (That’s What I Want)
13. Rock Me Baby
14. Roadhouse Blues (Takes 6 & 7) [Your Hands Upon The Wheel]
15. Roadhouse Blues (Take 8) [We’re Goin’ To The Roadhouse]
16. Roadhouse Blues (Takes 1 & 2) [We’re Gonna Have A Real Good
17. Roadhouse Blues (Takes 5, 6 & 14) [Let It Roll, Baby, Roll]
18. Peace Frog/Blue Sunday (Take 4)
19. Peace Frog (Take 12)

[LP]
1. Roadhouse Blues
2. Waiting For The Sun
3. You Make Me Real
4. Peace Frog
5. Blue Sunday
6. Ship Of Fools
7. Land Ho!
8. The Spy
9. Queen Of The Highway
10. Indian Summer
11. Maggie M’Gill

Come detto, in uscita per il 9 ottobre.

Bruno Conti

Nonostante La Lunga Assenza E’ Ancora Una Songwriter Coi Fiocchi! Kathleen Edwards – Total Freedom

kathleen edwards

Kathleen Edwards – Total Freedom – Dualtone CD

L’album di cui mi accingo a scrivere è una specie di piccolo evento, in quanto si tratta del quinto lavoro di Kathleen Edwards, cantautrice canadese tra le più interessanti ad aver esordito nel nuovo millennio che però era ferma discograficamente da ben otto anni. Dopo tre ottimi dischi pubblicati tra il 2003 ed il 2008 (Failer, Back To Me e Asking For Flowers, tutti molto apprezzati sia dalla critica che dal pubblico) la Edwards si era presa cinque anni di pausa prima di tornare nel 2012 con il valido Voyageur https://discoclub.myblog.it/2012/01/26/una-viaggiatrice-particolare-kathleen-edwards-voyageur/ , ma da allora le notizie che la riguardavano erano uscite con il contagocce. Oltre ad aver aperto una coffee house a Stittsville (sobborgo della natia Ottawa), pare infatti che Kathleen abbia sofferto di una seria forma di depressione e che solo in tempi recenti sia riuscita a venirne fuori: una parte del merito è da attribuire a Maren Morris, la quale ha chiesto alla Edwards di scrivere una canzone per il suo album del 2019 Girl (il brano in questione è Good Woman), spronandola in maniera decisa a riprendere in mano la sua carriera musicale.

Il risultato di questo ritorno è Total Freedom, un album che fin dal primo ascolto si rivela davvero bello e riuscito, e che ci mostra un’autrice che non ha perso lo smalto nonostante la lunga assenza dalle scene. I dieci brani del disco sono perfettamente bilanciati tra folk, rock e pop come di consueto, ma è la vena compositiva della protagonista che fa la differenza, insieme alla sua classe interpretativa che non è peraltro mai stata in discussione. Ballate profonde che si alternano a brani più movimentati, il tutto eseguito con grande feeling ed eleganza: molti hanno paragonato Kathleen a Suzanne Vega, ed il parallelo secondo me calza anche se la Edwards ha comunque un suo stile ed una sua personalità che in questo lavoro la porta anche verso atmosfere quasi californiane. Prendete lo splendido brano d’aperura, cioè la mossa Glenfern, una raffinata ed elegante ballata dal ritmo cadenzato, background pianistico ed un motivo pulito e diretto, quasi come se la Vega si fosse ritrovata in studio con i Fleetwood Mac. L’album è prodotto da Jim Bryson e Ian Fitchuk, che collaborano con la Edwards anche in veste di musicisti (rispettivamente a chitarra e piano il primo ed al basso il secondo) insieme ad un collaudato gruppo che vede come elementi di spicco i chitarristi Blair Hogan e Gord Tough, il batterista Peter Von Althen, lo steel guitarist Aaron Goldstein e, alle backing vocals in un brano, la brava “collega” Courtney Marie Andrews.

Dopo la già citata Glenfern l’album prosegue con Hard On Everyone, caratterizzata da un tempo veloce ed un bel lavoro chitarristico che entra sottopelle, il tutto nobilitato dalla voce limpida di Kathleen che sciorina un’altra melodia discorsiva e decisamente gradevole nonostante una leggera malinconia di fondo; la gentile Birds On A Feeder è una squisita ballata di stampo acustico con al centro la voce cristallina della Edwards ed un accompagnamento scarno ma di classe, mentre Simple Math è uno slow elettroacustico dal tono crepuscolare e dotato di una linea melodica purissima, eseguito anch’esso con notevole finezza. Il ritmo torna a salire nell’orecchiabile Options Opens, primo singolo dell’album che può contare su un refrain delizioso ed una strumentazione perfetta in cui le chitarre dicono la loro con misura, un pezzo in aperto contrasto con la seguente Feelings Fade, folk song dall’atmosfera rarefatta ma con un motivo che non manca di provocare qualche brivido grazie anche ad una leggera orchestrazione che aggiunge altro pathos.

Fools Ride è intimista, con gli strumenti che a poco a poco fanno crescere l’intensità lasciando però sotto i riflettori la voce di Kathleen, Ashes To Ashes è un altro incantevole bozzetto per voce, chitarra acustica e poco altro, la breve Who Rescued Who è invece una piacevole e solare pop song ancora “veghiana”, che ci porta alla conclusiva Take It With You When You Go, toccante e bellissima ballatona pianistica che mette la parola fine con grazia e feeling ad un disco che conferma la bravura di Kathleen Edwards e la sua voglia ancora intatta di fare ottima musica.

Marco Verdi