Ormai E’ Tra Le Più Brave Songwriters In Circolazione! Tift Merritt – Stitch Of The World

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Tift Merritt – Stitch Of The World – Yep Roc CD

Graditissimo ritorno per Tift Merritt, cantautrice e rocker nativa del Texas, ma trapiantata in North Carolina, che mi aveva piacevolmente impressionato con i suoi due album d’esordio all’inizio della scorsa decade, Bramble Rose e soprattutto l’ottimo Tambourine, due riusciti lavori di rock cantautorale, con le giuste dosi di country, che vedevano all’opera due produttori di vaglia come Ethan Johns e George Drakoulias, e musicisti del calibro di Mike Campbell, Benmont Tench e Neal Casal. I due lavori seguenti, Another Country e See You On The Moon, pur validi, erano secondo me un gradino sotto, ma Traveling Alone del 2012 era certamente il suo disco migliore (insieme a Tambourine), un eccellente album di roots-rock d’autore con la produzione di Tucker Martine (l’uomo dietro gli ultimi album dei Decemberists).

Poi, ben cinque anni di silenzio, un periodo lunghissimo se hai una carriera in pieno sviluppo: ma Tift non si è persa d’animo, ed in questi cinque anni è ulteriormente maturata, prendendosi tutto il tempo necessario per portare a termine quello che a mio parere è il lavoro della sua completa maturità, oltre che probabilmente il suo più riuscito. Stitch Of The World è infatti un disco molto bello, a tratti addirittura splendido, che ci mostra un’artista che ha completato un percorso creativo ed ora si presenta in tutte le sue sfaccettature; la bionda (e carina) songwriter non rinuncia al rock, ma lo mette un attimo in secondo piano in favore di canzoni più profonde, sentite, a volte intime: una prova da vera songwriter, con una serie di fulgide ballate ed un suono perfetto, merito del produttore Sam Beam (che altri non è che Iron & Wine) e di un ristretto combo di musicisti con i contro baffi, tra i quali spiccano il chitarrista Marc Ribot (uno dei preferiti da gente del calibro di Tom Waits ed Elvis Costello, ma ha suonato anche con il nostro Vinicio Capossela) e ed il batterista Jay Bellerose (tra i più utilizzati da T-Bone Burnett), ma anche la bassista Jennifer Condos, un’altra con un bel curriculum (era anche sull’ultimo di Graham Nash, This Path Tonight) e lo steel guitarist Eric Heywood, mentre la Merritt si occupa di chitarra acustica e pianoforte.

L’album si apre con un’impronta decisamente rock: Dusty Old Man è un vibrante brano elettrico, che l’uso della slide di Ribot rende leggermente blues, e contraddistinto da un drumming potente in netto contrasto con la voce gentile di Tift. Grinta ed energia, anche se il pezzo non entra in circolo immediatamente, ed è abbastanza diverso dal resto del CD. Heartache Is An Uphill Climb, per contro, è splendida, una toccante ballata pianistica cantata alla grande ed arrangiata in maniera sopraffina, con gli strumenti che si uniscono ad uno ad uno in un crescendo strepitoso, uno dei brani più belli che ho ascoltato finora in questo ancora giovane 2017; My Boat, adattata da una poesia di Raymond Carver, è un’altra canzone di grande intensità, una ballad profonda, lunga e distesa, tra folk e rock, mentre Love Soldiers On è una moderna country song, sul genere della Emmylou Harris degli ultimi vent’anni (quella più sofisticata), anche questa decisamente godibile e suonata come Dio comanda.

Molto bella anche la title track, anzi direi deliziosa, una folk song gentile ma con un motivo ricco di pathos e reminiscenze irlandesi, altra grande canzone, con quel tocco di elettricità che funge da ciliegina; Icarus è lenta, profonda, suggestiva, con un leggero accompagnamento di piano, chitarra elettrica e steel, un’altra perla da aggiungere ad una collana sempre più preziosa (bellissimo anche qui il crescendo nel bridge). Proclamation Bones è più rock, con la ritmica pressante ed ancora la slide a lavorare di fino sullo sfondo, mentre Something Came Over Me è uno struggente slow dal sapore bucolico, puro e cristallino, così come la squisita Eastern Light, altro brano di grande impatto ed intensità, tra folk e country; chiusura con Wait For Me, altra ballata elettroacustica di notevole livello (ma esiste anche la solita edizione con tre brani in più, Day He Died e due riprese acustiche di Something Came Over Me e Stitch Of The World con Sam Beam). Diamo quindi volentieri la bentornata a Tift Merritt, che ci ha regalato uno dei dischi migliori di questo inizio 2017.

Marco Verdi

E Questi Sono Giovanotti Veri, Molto Promettenti! Chase Walker Band – Not Quite Legal

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Chase Walker Band – Not Quite Legal – Revved Up Records

Già lo dichiarano fin dal titolo (e guardando la foto di copertina qualche dubbio sorge subito): ma quanti anni avranno? Chase Walker, California del Nord, data di nascita 16 agosto 1998, chitarrista, cantante ed autore, Randon Davitt, basso e voce e Matt Fyke, batteria, faticano davvero ad arrivare alla maggiore età. Ma sono già al secondo album, il primo Unleashed era uscito nel 2014: nel frattempo il nostro amico ha partecipato anche a The Voice, versione americana. Per fortuna sembra che negli ultimi anni molti baldi giovanotti (mai abbastanza comunque, contro una massa di “fenomeni da baraccone” che appaiono nei cosiddetti talent show) abbiano deciso di tornare al rock, e alla buona musica in generale. Certo sarebbe importante se oltre a gente che la suona, ci fossero anche molti altri giovani che la ascoltano, ma su queste pagine, anche nella nostra funzione di “diversamente giovani” cerchiamo di spargere la buona novella. Proprio di recente vi parlavo della Austin Young Band http://discoclub.myblog.it/2016/11/02/altro-talento-azione-giovane-nome-fatto-austin-young-band-not-so-simple/ , in Inghilterra, anzi Irlanda, sono sbucati gli Strypes, gente che campa a pane Yardbirds, Stones. Dr. Feelgood per gli ultimi, o Albert King, Hubert Sumlin, ma anche Bonamassa e Stevie Ray Vaughan per Austin Young.

Chase Walker e soci si rifanno moltissimo a gente come i Black Crowes, o tornando nel passato i grandi Humble Pie di Steve Marriott, senza dimenticare il nume tutelare di tutti i chitarristi, tale Jimi Hendrix da Seattle, di cui la Chase Walker Band propone una inconsueta versione di Red House. Il brano è un blues lento, lancinante, ispirato dalle 12 battute più classiche, rivisto nell’ottica unica del grande Jimi. Il terzetto di Chase Walker rivisita il brano con un arrangiamento diverso: l’incipit si avvale di una resonator acustica dal corpo d’acciaio (quella che appare nella copertina) e il battito di un piede, quindi proprio blues primigenio che ci permette di apprezzare una voce matura ben oltre i propri anni, poi entra la forza elettrica del brano, anche se la voce filtrata e distorta forse non rende la carica dirompente della canzone, ma l’idea di accelerare il tempo e trasformarlo in un power rock-blues duro e tirato, è vincente, il nostro amico è un chitarrista dal tocco ruvido ma ricco di feeling, innervato da anni di ascolti di rock classico. Già l’apertura di Done Loving You, con l’organo di Drake Murkihaid Shining ad irrobustire ulteriormente il sound sudista che esce dagli ampli, ricorda moltissimo i Black Crowes degli inizi (che non so se già a questa età erano così bravi, forse sì), e non è un brutto punto di partenza. Alcuni brani, quattro, sono prodotti da Gino Matteo, il chitarrista della Sugaray Rayford Blues Band, e l’uso massiccio di armonie vocali spesso è vincente. Il rock grintoso e ad alta densità i riff, ci riporta al sound degli Humble Pie citati all’inizio, Chase Walker ha una voce potente e con la giusta dose di negritudine, e un brano come la rocciosa The Walk sta a testimoniarlo, la chitarra urla e strepita in risposta alla voce e l’atmosfera è quella giusta,  magari sentita mille volte! Pazienza ce ne faremo una ragione.

New State Of Mind, di nuovo prodotta da Matteo, ha un bel suono, ricco di tastiere, anche chitarre acustiche, ottime armonie vocali, una bella melodia, il tutto per una ballata mid-tempo di notevole valore. Pure I Warned You mantiene la stessa pattuglia di musicisti e conferma questo suono tra “roots” ed “Americana”, con i fratelli Robinson come punto di riferimento sonoro e una bella attitudine rock che non tralascia però le melodie. Niente male anche Cold Hearted, altro brano che mescola rock classico e un linguaggio crudo e senza peli sulla lingua nei testi, oltre ad un bel solo nella parte centrale, cosa ribadita nella esplicita Don’t F*** It Up, di nuovo con una bella melodia avvolgente e vincente, niente per cui strapparsi le vesti, ma che denota una buona frequentazione con una musicalità vicina ai “Corvi Neri”, e l’assolo non manca mai. 54- 46 è una cover che non mi sarei aspettato, un brano di Toots And The Maytals, tra reggae e rock, che sinceramente non mi fa impazzire; meglio la riffata Changed cantata dal bassista Randon Davitt, fin troppo basica, mentre It’ll Pass è l’ultimo brano prodotto da Matteo, di nuovo con acustiche e organo ad ampliare lo spettro sonoro verso un southern rock di buona fattura. E l’ultima cover Honey Jar è un pezzo di una formazione, i Wood Brothers, che mi piace moltissimo, anche se questa versione è un po’ irrisolta, e denota le idee a tratti non ancora definite del trio di Chase Walker; anche Living On Thin Ice è un buon pezzo rock, ma irrita l’uso ancora una volta della voce distorta e filtrata, visto che il nostro ha una bella voce e l’assolo di chitarra non risolve il tutto. La hidden track finale Yabba Dabba è una strumentale con voiceover della band, e si salva giusto per l’ottimo lavoro della solista. Insomma i ragazzi sono bravi, ma devono lavorare sulle proprie idee e migliorarsi.

Bruno Conti

Un Tuffo Nella Folk Music Più Pura Da Parte Di Un Arzillo “Giovanotto” In Gran Forma! Tom Paxton – Boat In The Water

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Tom Paxton – Boat In The Water – Pax CD

Tom Paxton, grande cantautore appartenente alla golden age del folk revival (i primi anni sessanta), alla bella età di 79 anni non ha ancora voglia di appendere la chitarra al chiodo: anzi, dal 2015, anno in cui è uscito il discreto Redemption Road, ha ripreso ad incidere con continuità, e non rifacendo vecchi standard, bensì scrivendo nuove canzoni. Songwriter da sempre puro e dalla vena gentile, Paxton non ha avuto una popolarità longeva, ma ha vissuto il suo momento di gloria attorno al 1964, anno in cui ha inciso The Last Thing On My Mind, in assoluto il suo brano più celebre, diventato negli anni un vero e proprio standard folk, ripreso da decine di artisti di varia estrazione (da Joan Baez a Johnny Cash, passando per i Move, Willie Nelson, Sandy Denny e Marianne Faithfull). Comunque Tom nel corso della sua carriera ha scritto diverse altre belle canzoni, e non ha mai smesso di inciderle, pur fregandosene dei dati di vendita, ma solo per il piacere di fare musica e di poterla suonare in pubblico. Boat In The Water arriva sorprendentemente vicino a Redemption Road, e ad un primo attento ascolto è anche meglio: Tom è in ottima forma, sia dal punto di vista vocale che da quello della scrittura, e ci presenta dieci brani nuovi di zecca scritti da solo o con alcuni partner fidati (Jon Vezner, Pat Alger e Don Henry), aggiungendo tre rifacimenti presi dal suo vastissimo catalogo (tra studio e live questo è il suo sessantatreesimo album, quindi il materiale non gli manca di certo).

Per far risaltare al meglio la purezza delle melodie, Tom ha scelto arrangiamenti essenziali e diretti: niente batteria (solo una percussione in un pezzo), e solo lui e Vezner con le loro chitarre, il basso di Ralph Gordon e ben due signore, Marcy Marxer e Cathy Fink, che oltre a produrre il lavoro impreziosiscono le canzoni con una bella serie di strumenti a corda, aggiungendo le loro voci in sottofondo. Puro folk quindi, con qualche accenno di country e bluegrass, quasi una pickin’ session dal sapore tradizionale, anche se con tutti brani originali. La title track dà subito la misura di quello che è il disco, un delizioso folk-grass dalla melodia pura ed immediata, con il banjo a fungere da solista e la voce del nostro in palla nonostante le molte primavere. Con The Last Hobo, se non fosse per il timbro vocale comunque invecchiato e per la limpidezza della registrazione, sembrerebbe un salto indietro di più di cinquant’anni, quando la folk music muoveva le masse (ed entrava anche in classifica), mentre The First Thing I Think Of è una toccante ballata con accompagnamento scarno ma dalla grande intensità; molto bella anche Life, leggermente più strumentata (c’è anche una percussione discreta) e con un motivo limpido e solare, che testimonia la voglia di Paxton di fare ancora musica di spessore.

Eleanor’s Song ha un approccio più cantautorale, ma torniamo subito su territori più prettamente folk con la squisita Hitch To My Gitalong (sembra davvero un brano della tradizione) e con Outward Bound, la prima ed anche la più nota tra i pezzi rifatti, splendida e con il sapore dell’epoca d’oro del folk, quando la Folkways e la Vanguard erano le etichette discografiche più cool. A Daughter In Denver è invece nuova, ma lo stile e l’atmosfera sono decisamente vintage, l’intensa Ev’ry Time è forse fra tutti il pezzo che più profuma d’antico (e lo è, essendo del 1965), mentre It’s Too Soon è semplicemente bellissima, pura ed incontaminata (a me ricorda vagamente Four Strong Winds, il classico di Ian Tyson). Il CD si chiude con il vivace bluegrass Home To Me, il più recente dei brani riletti (è del 1979), con la Fink alla voce solista, la pianistica Christmas In Shelter, al limite del commovente, e la dolcissima ninna nanna folk Dream On Sweet Dreamer. Un disco che rispecchia in pieno quella che è stata la carriera di Tom Paxton: gentile, raffinato, piacevole, ma anche intenso e profondo.

Marco Verdi

Jimmy Ragazzon Intervista E Concerto: Una Valigia Piena Di Canzoni!

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Una veloce premessa, questa è una intervista che ho realizzato insieme a Jimmy per il Buscadero, e quindi la potete leggere anche sul numero di Febbraio della rivista, in edicola e nei punti vendita in questi giorni. Aggiungo anche che in virtù dell’amicizia (spero) che mi lega al musicista di Voghera gli ho chiesto se avrà voglia in futuro, tra un impegno e l’altro, di tornare a scrivere qualcosa per il Blog. Considerando che proprio per le sue collaborazioni avevo aperto una categoria specifica di Post sul Blog, ovvero “Da Musicista A Musicista”, mi ha dato la sua disponibilità senza impegno, per cui quando avrò qualche parto del suo inegegno ve la proporrò sul Blog ( e scrivendolo qui lo inchiodo alle sue responsabilità, scherzo!). Alla fine dell’intervista trovate anche il resoconto del concerto di Milano del 13 gennaio scorso. Quindi buona lettura!

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Quasi sul finire dell’anno scorso un paio di musicisti italiani dell’area pavese (l’altro è Ed Abbiati) hanno dato alle stampe dei dischi di musica chiaramente ispirati dalle loro passioni per il suono che siamo soliti definire Americana, roots music, ma anche i più tradizionali folk e country, senza dimenticare il blues ed il bluegrass, soprattutto nel caso del primo disco solista di Jimmy Ragazzon, quel Songbag che esce dopo oltre 35 anni (diciamo 37, quasi 38) di onorata carriera con la sua band dei Mandolin’ Brothers (ecco la recensione http://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/. Visto che il prima lo conosciamo bene, siamo andati a chiedergli con alcune domande la genesi del disco e i futuri eventuali sviluppi.

Allora, Jimmy, immagino che il disco, molto bello, uno dei migliori di questo scorcio finale di anno, non sia nato come una improvvisa Epifania, ma venga da un desiderio di esplorare anche cammini contigui a quelli della musica del gruppo, cercando di usare un suono “più austero” ma sempre ricco di sonorità brillanti e ben definito nei particolari. Quale è stato , se c’è stato, il fattore scatenante, oppure si è trattato di un processo lento e ponderato? Insomma ti sei svegliato una mattina, e invece di farti una shampoo (come diceva Gaber) hai deciso di lanciarti in un disco solista o è stato un desiderio covato per anni e portato a compimento?

Pensavo ad un album totalmente acustico da molto tempo, che contenesse alcune canzoni nate per essere suonate in quel modo, senza troppe elucubrazioni ed arrangiate in modo scarno ma spontaneo. La mia idea era quella di suonare i pezzi, correggere eventuali pecche e poi registrare, senza pensarci troppo e senza rivedere gli arrangiamenti più volte. Volevo anche registrare ogni singolo brano con tutti, o quasi, i musicisti contemporaneamente in studio, per ottenere un feeling unico e seguire il flusso del momento. Il risultato finale è molto vicino a questa mia idea di base e ne sono contento.

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 Della “tua” band appare solo Marco Rovino, che peraltro ha un ruolo decisivo, sia come autore che musicista nell’album. Gli altri ottimi musicisti italiani come li hai scelti?

Ho conosciuto Paolo Ercoli, Rino Garzia e Luca Bartolini, cioè i musicisti con cui suono dal vivo Songbag, nel corso degli anni. Conoscendo le loro indubbie qualità tecniche e la loro predilezione per la musica acustica, li ho coinvolti nel progetto, lasciando che ognuno di loro si esprimesse e portasse idee e suggerimenti. Il loro apporto è stato fondamentale, anche nei rapporti interpersonali, basati sull’amicizia ed il rispetto reciproco. Comunque in un paio di brani ci sono altri due Mandolins, cioè Joe Barreca e Riccardo Maccabruni. Senza dimenticare Chiara Giacobbe, Roberto Diana, Maurizio Gnola e tutti quelli che hanno collaborato, non ultimo Stefano Bertolotti, della Ultra Suond, che mi ha offerto la possibilità di realizzare questo mio progetto.

Ed al tuo fianco, anche questa volta c’è l’immancabile Jono Manson. Quale è stata questa volta la sua funzione nell’economia del disco?

Jono ha mixato e masterizzato l’album, dando anche preziosi suggerimenti, con tutta la sua esperienza e la sua cultura musicale. Ha evidenziato al meglio il suono del legno degli strumenti, che era quello che cercavo, rendendolo il più caldo e naturale possibile. Inoltre mi ha ancora una volta stupito, inserendo un banjo tenore in 24 Weeks, che trovo molto bello e diverso rispetto al suono del resto delle canzoni.

E ancora, come sei arrivato alla scelta delle due cover inserite nell’album? Due dei tuoi preferiti assoluti: Dylan quasi inevitabile, ma perché quella canzone e Guy Clark, immagino altro punto di riferimento anche nei tuoi ascolti come appassionato di musica?

Ho sempre amato Dylan, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Ho pensato a come avrebbe potuto suonare Spanish Is The Loving Tongue, diciamo nel periodo inizio anni ‘70 e di conseguenza ho creato un arrangiamento che si potesse avvicinare a questa mia fantasticheria. Anche per Guy Clark ho sempre avuto una grande ammirazione e The Cape è una delle sue perfect songs, in cui testo e linea melodica si coniugano magistralmente. E poi che il ragazzino con il suo logoro mantello riuscisse finalmente a volare, malgrado la dura realtà e contro il parere di tutti…beh… è una gran bella storia.

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Torniamo alla creazione delle canzoni contenute nel disco. Sono tutte nuove, scritte in tempi recenti o ce ne sono alcune che “covavi” da tempo e non avevi mai utilizzato negli album dei Mandolin’ Brothers perché non le ritenevi adatte allo stile del gruppo?

Sono tutti brani nati nel corso di questi ultimi anni, diciamo post Far Out. Come MB abbiamo suonato parecchie volte con la line up acustica e certe sonorità, la rilassatezza delle esecuzioni, il loro soft mood, mi hanno definitivamente convinto ad iniziare il progetto Songbag, visti anche gli impegni personali del resto della band, che avrebbero comportato poco tempo a disposizione per pensare ad un nuovo disco dei MB. Comunque penso che certe canzoni e soprattutto certi testi, dovessero essere proposti in maniera più personale e diretta anche per i temi trattati, spesso autobiografici.

E, domanda collaterale, che si aggancia agli eventuali futuri sviluppi citati all’inizio: ne avete incise altre poi non usate nel disco, magari ci sono state altre cover papabili che poi non sono state utilizzate?

 Sono rimasti fuori sostanzialmente solo un paio di pezzo miei ed altrettante cover, come Friend Of The Devil dei Grateful Dead, che comunque eseguiamo in concerto.

 L’idea di fare un disco acustico era prevista fin dall’inizio oppure era solo una delle opzioni a disposizione? Magari un bel disco di blues elettrico o da cantautore “impegnato” non sarebbero stati male?

 No, doveva essere fin dall’inizio un disco acustico con le mie canzoni. Credo che Dirty Dark Hands, Sold (ispirata da una poesia di P. B. Shelley) e Evening Rain, si possano considerare canzoni impegnate a sfondo sociale e/o quantomeno piuttosto esplicite del mio modo di pensare, almeno nel testo. Di certo mi piacerebbe molto fare un album di blues elettrico rigorosamente old style, come il bellissimo ultimo Stones, con suoni sporchi e ruvidi. Non è detto che prima o poi non si riesca a realizzare anche questo progetto.

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Dicevi che alcuni testi dei brani contenuti nel disco hanno anche connotati autobiografici, vuoi elaborare questo tuo pensiero e raccontare di quali canzoni si tratta?

D Tox Song, che parla di un periodo oscuro e pesante della mia vita. 24 Weeks ovvero “della risoluzione del caso” cura & salute…In A Better Life, su quello che ci rimane verso la fine, nel mio caso la musica, la strada percorsa e le persone importanti che non posso assolutamente dimenticare. Ci sono comunque altri riferimenti in altri pezzi, ma sarebbero troppi da spiegare. Credo comunque che sia sempre meglio scrivere di quello che conosci, che provi o che pensi.

Ho visto una delle date del tuo tour solista a Milano e devo dire che suonate veramente in modo splendido, questo può voler dire che ci saranno altri sviluppi futuri anche in questa tua carriera come solista o i Mandolin’ Brothers rimangono comunque il progetto primario?

I MB rimangono ovviamente il mio progetto principale, con l’apertura del cantiere per il nuovo album a breve, anche se ci vorrà un bel po di tempo prima di chiuderlo. Per quanto riguarda Songbag e la collaborazione con The Rebels, intendo portarla avanti diciamo in parallelo, visti i riscontri molto positivi dell’album, dei primi concerti ed il fatto che stiamo bene insieme e ci divertiamo, soprattutto quando ci lanciamo in “inusuali” idee di arrangiamenti per brani nuovi o per cover non proprio ortodosse nel nostro genere musicale.

Tra l’altro chiacchierando fra di noi ad un certo punto era saltata fuori anche la faccenda che una canzone di Songbag “Evening Rain” era stata scelta come Track Of The Week della versione on line della rivista Classic Rock UK, in lizza anche contro i Rolling Stones. E poi la settimana successiva è stata scelta come prima classificata dal voto dei lettori. Quando hai visto che avevi battuto gli amati Stones cosa hai pensato?

Che c’era qualcosa che non andava, che non aveva alcun senso. Siamo sinceri: ma quando mai? Di certo molti amici mi avranno aiutato votandomi dall’Italia e diciamo che gli Stones o Iggy Pop non avessero tutto quell’interesse per questa classifica settimanale…per usare un eufemismo… Rimane comunque il piacere e la grande soddisfazione di aver vinto un contest di una delle riviste musicali più prestigiose d’Europa, non solo con un mio brano, ma anche tratto dal mio primo album solo.

E infine domanda classica: quali sono i tuoi dischi da isola deserta. Almeno quelli di oggi, perché poi si sa che le preferenze cambiano di continuo?

Eccone alcuni, ed è molto difficile che io possa cambiare idea su questi capolavori…

Bob Dylan: Highway 61 Revisited. Rolling Stones: Exile On Main Street

David Crosby: If I Could Only Remember My Name. The Beatles: White Album

The Clash: London Calling. Bob Dylan: The Freewheelin’. Muddy Waters: Hard Again.

Tom Waits: Rain Dogs. Mississippi John Hurt: The Best Of. Little Feat: Waiting For Columbus. Neil Young: Tonight’s The Night and so on…

Il Concerto

La sera del 13 gennaio al Nidaba di Via Gola 12 a Milano (un piccolo accogliente locale dove si ascolta musica gratis, spesso ottima, a due passi dai Navigli, di recente è stato insignito dell’Ambrogino D’Oro, benemerenza civica milanese, per vent’anni di onorata carriera nelle serate musicali della città meneghina) si tiene la prima data del 2017 del tour di Jimmy Ragazzon & The Rebels: per presentare l’album Songbag di cui si parla diffusamente nell’intervista. Gran bel concerto con una serie di ottimi “pickers” italiani che non hanno da invidiare ai migliori musicisti americani: a guidare le danze Jimmy Ragazzon, voce solista e armonica, con Marco Rovino, anche lui dei Mandolin’ Brothers, chitarra acustica, mandolino e armonie vocali (molto funzionali all’atmosfera musicale che si viene a creare), Paolo Ercoli al dobro, un vero virtuoso dello strumento che non ha nulla da invidiare (secondo me) a Mike Auldridge dei Seldom Scene o a Jerry Douglas, alla chitarra acustica e voce Luca Bartolini, al contrabbasso, con e senza archetto, Rino Garzia Ospiti speciali della serata Edward Abbiati dei Lowlands che duetta con Jimmy in una bellissima versione a due voci di Don’t Think Twice Is Alright dell’amato Bob Dylan e al mandolino aggiunto Paolo Monesi, vero protagonista, con gli altri, di una versione fantastica, lunga e molto improvvisata, di E.M.D. del David Grisman Quintet.

Tra le altre chicche della serata, in apertura, una rilettura acustica eccellente di Friend Of The Devil, che genera la gag del “presunto zio” di Garzia, Jerry Garcia, autore del pezzo, una Fortunate Son dei Creedence che diventa quasi un pezzo dei Dillards o dei Country Gazette, a tutto bluegrass. E ancora, sul lato blues, Bye Bye Blackbird di Sonny Boy Williamson II, solo voce, armonica e contrabbasso, una When I Paint My Masterpiece, il pezzo di Dylan interpretato dalla Band su Cahoots. Non mancano nei bis finali anche Swing ’42 di Django Reinhardt via David Grisman, ancora bluegrass “progressivo” o Dawg Music se preferite, con Monesi di nuovo aggiunto al mandolino, e un altro gagliardo blues Key To Highway di Big Bill Broonzy, che molti ricordano nelle versioni ripetute di Eric Clapton. In mezzo molte, forse tutte, meno una, le canzoni di Songbag, in eccellenti versioni, e anche riletture in questa veste brillante acustica di alcuni brani del repertorio dei Mandolin’ Brothers. Più di due ore di ottima musica eseguita con classe, nonchalance, sense of humor e grande partecipazione del pubblico, tra cui si aggiravano anche Mandolin’ Brothers assortiti, mogli e fidanzate. Se riuscite ad andare a vederli in concerto non fatevi sfuggire l’occasione, ci saranno ulteriori date dal vivo anche a febbraio, marzo ed aprile, inframmezzate a quelle con il gruppo.

Bruno Conti

Sempre Dall’Australia, Una “Libellula” Di Prima Grandezza. Kasey Chambers – Dragonfly

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Kasey Chambers – Dragonfly – Warner Music Australia – 2 CD

Da quando è tornata “signorina” Kasey Chambers (con il suo ex marito Shane Nicholson aveva inciso due ottimi lavori Rattlin’ Bones (08) e Wreck & Ruin (12)), non sbaglia più un colpo. A distanza di due anni da Bittersweet, al solito puntualmente recensito su queste pagine, ritorna con questo nuovo Dragonfly, il suo undicesimo album di studio, composto da venti canzoni suddivise in due CD, e con la particolarità che i due dischetti sono prodotti,  il primo dal noto cantautore Paul Kelly (abituale cliente di questo blog), e il secondo dal fratello Nash Chambers, il tutto ulteriormente valorizzato dalla partecipazione come ospiti in vari  “duetti” di artisti noti, come lo stesso Kelly, Foy Vance, Ed Sheeran, Keith Urban, e i meno noti Harry Hookey, Grizzlee Train, oltre alle immancabili coriste Vika e Linda Bull.

Questo nuovo lavoro, Dragonfly, quindi prosegue sulle certezze del passato, e il primo battito d’ali avviene con le Sing Sing sessions. Prodotte, come detto, da Paul Kelly, con l’iniziale Pompeii che è la perfetta introduzione con il suono tradizionale del banjo a guidare la melodia; pezzo a cui fanno seguito una splendida ballata come Ain’t No Little Girl dove Kasey dà il meglio di se stessa, come pure nelle dolci note di violino che accompagnano la bella Summer Pillow, e ancora nel country-gospel di Golden Rails, e nella cantilena sussurrata di Jonestown. Con Romeo & Juliet (chiariamo subito che non è quella famosa dei Dire Straits) arriva il primo duetto, con il cantautore irlandese Foy Vance (musicista di cui abbiamo parlato in occasione dello splendido Live At Bangor Abbey), con un abbrivio solo voce, poi la canzone si sviluppa in una ballata che profuma di Irlanda, ed è seguita da una scanzonata e spiritosa Talkin’ Baby Blues, dalla grintosa You Ain’t Worth Suffering For, mentre Behind The Eyes Of Henri Young è un raffinato e delizioso brano acustico, che prelude alla chiusura del primo disco con la ritmata Hey (in duetto con il grande Paul Kelly), e alla tensioni roots-rock di This Is Gonna Be A Long Year, dove la Chambers si riscopre  “rockeuse”.

Il secondo battito d’ali di questo doppio è affidato alle Foggy Mountains Sessions:si parte con il moderno “spiritual” Shackle & Chain, dove un coro quasi da antica piantagione ricorda le profonde tradizioni del sud, mentre la title track Dragonfly è sicuramente il momento più cool e raffinato del disco, seguita dalla rumorosa e intrigante If I Died, dal duetto con Ed Sheeran in una autoironica canzoncina country-pop come Satellite, per poi tornare alla danza quasi popolare di No Ordinary Man con Harry Hookey e le sempre brave sorelle Bull, e ad una dolce e raffinata If We Had A Child con Keith Urban, che fortunatamente per l’occasione è meno “tamarro” del solito. Ci si avvia alla conclusione con il “modern folk” di una galoppante Annabelle, il talk-blues di The Devil’s Wheel con gli emergenti australiani Grizzlee Train, e, infine riproposta in una versione simil “lounge” Ain’t No Little Girl, perfetta da cantare nel famoso The Irish Times Pub di Melbourne.

Kasey Chambers è una stella di prima grandezza del continente Australiano (anche questo disco è arrivato al n°1 delle classifiche down under), fin dal suo esordio con The Captain ed il successo planetario del suo secondo album Barricades & Brickwalls, che vendette più di 7 milioni di copie, avendo comunque buoni riscontri di critica e l’apprezzamento manifestato da molti colleghi, e soprattutto la stima e l’affetto crescente del suo pubblico (anche se per chi scrive sia in parte uno svantaggio il suo passaporto australiano), continua a sfornare ottimi dischi come questo Dragonfly, dove il sound, grazie alle produzioni citate, è semplicemente perfetto, con tracce sia di pop-rock quanto di tradizione (con una vocalità squillante alla Patsy Cline), cosa che farebbe la fortuna di molte altre sue colleghe. Peccato che i suoi dischi non siano facili da reperire e piuttosto costosi per noi europei.

La Chambers non è  mai stata e non sarà mai la Lucinda Williams australiana (troppo alta l’asticella da superare, per chi scrive), ma il suo talento la rende una musicista inconfondibile e anche a distanza di anni, la pone ancora una spanna sopra la media. Accattivante, piacevole e talora struggente!

Tino Montanari

Come Il Buon Vino, Invecchiando Migliora! Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio

elvin bishop's big fun trio

Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio – Alligator/Ird

L’idea di base di partenza è interessante e stimolante: fare un disco di blues in trio, con tre ospiti all’armonica. Ovviamente è la formazione che è “strana”: a fianco di Elvin Bishop, voce e chitarra, ci sono Bob Welsh, pianista, che si disbriga con abilità, quando serve, anche alla chitarra, e Willy Jordan al cajòn, voce solista e armonie vocali (il cajòn è quello strumento a percussione di origine Peruviana, a forma di cassetta, e che si suona sedendoci sopra). I tre armonicisti ospiti, ciascuno presente in un brano, sono Charlie Musselwhite, Rick Estrin e Kim Wilson. Devo dire che il disco, pur non essendo un capolavoro assoluto, ha un suo perché: Elvin Bishop ormai ha una voce da vecchio maestro del blues (quale è diventato), una specie di roco ghigno un po’ sfiatato, ma vissuto e divertito, al quale si accodano i suoi pard per l’occasione, in grado di regalarci un piccolo ripasso del blues, del soul e del R&R, oltre a sette brani a sua firma, tra i quali una ripresa di Ace In The Hole, la title track del suo terzo album per la Alligator, pubblicato nel 1995. Al solito, se volete il mio parere, che vi do comunque, preferisco il Bishop “elettrico” dell’ultimo Can’t Even Do Wrong Right, pubblicato sempre per l’etichetta di Chicago, e che era un ritorno in parte al sound dei suoi dischi targati anni ’70 http://discoclub.myblog.it/2014/08/23/siamo-sulla-stessa-barca-del-blues-elvin-bishop-cant-even-do-wrong-right/ , ma questo Elvin Bishop’s Big Fun Trio non è niente male.

Questa volta il sound è più intimo e raccolto, peraltro non privo di brillantezza e suonato con la giusta forza, insomma non si corre il rischio di appisolarsi. Fin dall’iniziale vorticoso boogie, per piano e chitarra, Keep On Rollin’, i tre si divertono, con la chitarra di Bishop che svolge anche un supporto ritmico al lavoro di Jordan (che ha pure una ottima voce, cosa che non guasta), oltre a ritagliarsi i suoi spazi solisti. A seguire una ripresa di Honey Babe, un vecchio brano di Lightnin’ Hopkins, sempre caratterizzato da questo suono elettroacustico ma vibrante; It’s You è il brano con Kim Wilson all’armonica, classico Chicago blues, con l’ottimo Welsh al piano e uno scatenato Jordan che oltre a tenere il tempo con brio, come detto poc’anzi, ha una voce da gran cantante. Ace In The Hole, più lenta e sorniona, è cantata da Elvin, mentre Let’s Go, con un bel groove R&R, è un brano mezzo strumentale e mezzo parlato, con retrogusti alla Bo Diddley prima maniera. Delta Lowdown, con Rick Estrin all’armonica, come da titolo, è di nuovo blues puro della più bell’acqua, uno strumentale brillante dove si apprezza l’interscambio dei vari solisti; It’s All Over Now è una ripresa del vecchio classico di Bobby Womack (e degli Stones), che nonostante l’approccio sonoro raccolto del trio, non perde nulla del vigore delle versioni più conosciute, con Jordan che canta alla grande e Bishop che si inventa un assolo di gran classe anche in questa dimensione semi-unplugged.

100 Years of Blues vede la presenza di Charlie Musselwhite all’armonica e voce solista, il classico blues lento e cadenzato che si suona da almeno 100 anni, a giudicare dal titolo, con Bishop che lancia l’assist vocale con un talkin’ blues e Musselwhite che raccoglie e rilancia; Let The Four Winds Blow non avrà 100 anni (solo 55) ma il classico di Fats Domino viaggia a tutto ritmo sulle ali del piano di Welsh e della slide di Bishop, per una versione di gran classe. Il trittico finale di brani firmati da Bishop forse (ma forse) non ha la forza di quanto ascoltato finora, però la divertente That’s What I’m Talkin’ About si lancia anche su derive R&B e gospel, senza dimenticare l’immancabile blues misto a R&R, con Jordan che si conferma non solo percussionista di pregio, ma anche vocalist di talento, forgiato da lunghi anni di militanza sui palchi di New Orleans e dintorni. E pure il blues sanguigno di Can’t Take No More, dove Jordan si lancia in un ardito falsetto, non manca di entusiasmare, più di quanto mi sarei aspettato da un disco così particolare. Il finale, manco a dirlo, è affidato a una Southside Slide, uno strumentale dove Elvin Bishop ci delizia con la sua abilità alla bottleneck guitar. Lo dico di nuovo? Meglio di quanto mi aspettassi, viste le premesse: ancora una volta, 74 anni e non sentirli! Esce ufficialmente il 10 febbraio.

Bruno Conti

Gli Anni Novanta Di Un Grandissimo Musicista! Bert Jansch – Living In The Shadows

bert jansch living in the shadows

Bert Jansch – Living In The Shadows – Earth 4CD (4LP) Box Set

Bert Jansch, leggendario cantautore e chitarrista scozzese scomparso nel 2011, è stato ultimamente soggetto di una rinnovata attenzione da parte delle case discografiche, che hanno ristampato alcuni dei suoi lavori da solista, oltre che, pochi mesi fa, lo splendido Finale, cronaca in due CD dell’ultima reunion della formazione originale dei Pentangle (lo storico gruppo folk inglese che gli ha dato la fama), avvenuta nel 2008 http://discoclub.myblog.it/2016/11/06/supplemento-della-domenica-lultimo-atto-straordinaria-carriera-pentangle-finale/ . Da pochi giorni è uscito questo bellissimo box di quattro CD (ma esiste anche in quadruplo vinile) intitolato Living In The Shadows, che prende in esame quasi tutto ciò che fu inciso da Bert negli anni novanta, aggiungendo un ghiotto dischetto completamente inedito. (NDM: la benemerita Earth, responsabile del cofanetto, ha in uscita anche Live In Australia, ristampa di un eccellente concerto già uscito qualche anno fa con il titolo di Downunder, mentre circolano voci insistenti che più avanti nel 2017 dovrebbe uscire un box con tutti gli album del periodo “classico” dei Pentangle, con più di due ore di musica inedita, staremo a vedere).

bert jansch living in the shadows frontbert jansch live in australia

Gli anni novanta videro un ritorno di interesse verso la figura di Jansch, dopo che gli ottanta erano stati parecchio difficili (Bert, oltre a soffrire del disinteresse tipico di quella decade nei confronti dei musicisti che avevano fatto la storia, ebbe anche vari e serissimi problemi di salute), non certo sottoforma di vendite milionarie, in quanto il nostro è sempre stato un artista di culto, ma un parziale riscatto questo sì, ed anche i suoi album venivano promossi e distribuiti in maniera più professionale. Lui, per contro, non cambiò una virgola del suo suono, continuando a proporre le sue canzoni folk acustiche e raffinate, contraddistinte da una capacità chitarristica fuori dal comune (è stato uno dei virtuosi dello strumento tra i più influenti) ed una ritrovata ispirazione. I tre dischi inclusi in questo box, The Ornament Tree (1990), When The Circus Comes To Town (1995) e Toy Balloon (1998), non sono tutto ciò che il nostro ha prodotto nella decade (manca stranamente un altro album del 1990, Sketches, inciso in Germania con musicisti locali e prodotto dall’ex compagno nei Pentangle Danny Thompson, oltre a tre album, due studio e un live, con una versione riformata della sua vecchia band nella quale però gli unici membri originali erano lui e Jacqui McShee), ma direi che è più che sufficiente per lasciarsi deliziare dalla sua musica.

Il box, curato in collaborazione con il figlio di Bert, Adam, è elegante, in forma di libro (sullo stile delle ristampe dei Jethro Tull), con una sorta di cronistoria del periodo trattato a cura del noto giornalista irlandese Colin Harper, anche se mancano completamente, e questa è una pecca, informazioni su musicisti, sessions di registrazione, testi, e perfino foto del nostro: riguardo a chi suonava, posso dire che troviamo gente magari non famosissima, ma di sicura capacità, come il bassista Nigel Portman Smith, la compianta cantante e flautista Maggie Boyle, il di lei marito songwriter e anche lui chitarrista Steve Tilston e, unici un po’ più noti, il sassofonista Pee Wee Ellis, già al servizio di James Brown e Van Morrison, e l’ex batterista dei Dire Straits, Pick Withers, oltre a Liam Genockey, ex degli Steeleye Span, sempre alla batteria. The Ornament Tree, se si esclude la deliziosa ballata Three Dreamers, è esclusivamente composto da brani tradizionali irlandesi e scozzesi, un disco puro e raffinato che parte con la title track, che vede solo Bert in compagnia della sua splendida chitarra e della sua voce particolare, seguita a ruota da The Banks O’Sicily, con un drumming quasi marziale ed un bellissimo flauto. L’album ha punte di eccellenza assoluta, come la delicata The Rambling Boys Of Pleasure, una folk song purissima suonata con classe eccelsa, la popolare The Rocky Road To Dublin, eseguita in maniera strepitosa, un piccolo capolavoro, la notevole Ladyfair, una goduria per le orecchie, grazie alla fusione di chitarra, violino e whistle, per finire con la stupenda (siamo al primo CD e sono già a corto di aggettivi) Tramps & Hawkers, altro brano folk in purezza.

When The Circus Comes To Town, che invece vede quasi solo pezzi originali (ma Jansch aveva la capacità di scrivere una canzone e farla sembrare un traditional vecchio di secoli), è ancora meglio del suo predecessore, con lo stile del nostro che non cambia di una virgola ma che lo vede ispirato quasi ai livelli degli anni sessanta. Un album formidabile, difficile citare un brano piuttosto che un altro, ma come non menzionare la splendida Open Road, con una performance chitarristica da urlo ed un’atmosfera di grande pathos, o la cristallina Back Home, pura poesia folk (qui con l’aiuto di una sezione ritmica discreta), o ancora la guizzante Summer Heat, dove Bert è l’unico chitarrista ma sembrano in tre. E troviamo perfino un blues elettrico intitolato Steal The Night Away, una meraviglia, quasi come se lo scozzese fosse in realtà un bluesman del Delta in incognito.

Anche Toy Balloon è un gran bel disco, quasi ai livelli del precedente, e con alcune soluzioni ritmiche diverse dal solito e qualche brano più arrangiato. Tutti i pezzi sono di Bert, a parte una magistrale rilettura del noto traditional She Moved Through The Fair: Carnival ha un pathos eccezionale pur nella sua essenzialità, All I Got è un folk-blues strepitoso, con la sezione ritmica che fa addirittura muovere il piedino, mentre Bett’s Dance è un formidabile strumentale per sola chitarra (forse solo John Fahey era a questi livelli, e forse anche Leo Kottke). E poi la raffinata Hey Doc, ancora sfiorata dal blues, la sorprendente ed elettrica Sweet Talking Lady, quanto di più vicino al rock’n’roll il nostro abbia inciso (e con Ellis protagonista al sax), subito bilanciata dalla pura e tersa Paper House.

E veniamo al quarto CD, quello di inediti, sotto intitolato Picking Up The Leaves: ci sono diversi demos ed alternate takes dai tre dischi precedenti (soprattutto dal secondo), non di certo inferiori ai brani effettivamente pubblicati, ma anche canzoni mai sentite prima, come la complessa (con qualche falsa partenza) Another Star, la fluida Little Max, l’intima Merry Priest (decisamente bella) e l’intensissima Lily Of The West, un traditional molto popolare (l’ha fatta anche Dylan). Ma l’highlight assoluto del CD, e forse del cofanetto, sono i due strumentali senza titolo posti in chiusura, nei quali Bert ritrova l’antico compagno di chitarra John Renbourn, per un duetto straordinario nel quale i due pickers (termine riduttivo) danno il meglio di loro stessi, in un’atmosfera rilassata e distesa: non dico che questi due pezzi da soli valgono la spesa del box, ma una buona percentuale forse sì.

A meno che non abbiate già i tre dischi usciti all’epoca, un cofanetto imperdibile, disponibile tra l’altro ad un prezzo “umano”.

Marco Verdi

Peccato Sia Difficile Da Trovare! Marc Broussard – S.O.S. II: Save Our Soul – Soul On A Mission

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Marc Broussard – S.O.S. II: Save Our Soul – Soul On A Mission – G-Man Records         

Marc Broussard è un bianco con la voce e il cuore da nero, viene da Carencro, Louisiana, e nonostante abbia solo 34 anni, ha già alle spalle una consistente carriera solista, con ben otto album di studio (compreso questo) pubblicati in una quindicina di anni: anche lui ha fatto tutta la trafila, partito “indipendente” nel 2002, poi ha inciso per la Island, la Vanguard e la Atlantic, salvo poi approdare di nuovo alla autodistribuzione con la propria etichetta G-Man Records, per la quale pubblica questo S.O.S. 2 Save Our Soul, un disco di cover di brani soul celebri, che, manco a dirlo, nonostante i fini nobili, il 50% dei proventi viene devoluto in beneficenza per poveri e senza tetto, non è di facile reperibilità, per usare un eufemismo, e per noi europei anche costoso (potete scaricarlo o comprarlo qui http://shop.bandwear.com/collections/marc-broussard-shop, occhio alle tasse) Comunque il disco rimane molto bello e vale la pena di provare a cercarlo: l’apertura è affidata ad una splendida e fedelissima versione di Cry To Me, il super classico di Solomon Burke, dove si apprezza la bellissima voce di Broussard, ricca di mille nuances, ma anche il sound vintage e di grande fascino applicato nell’arrangiamento del brano, direi che siamo sui livelli dello splendido disco di Jimmy Barnes di qualche mese fa, il magico Soul Searchin’, http://discoclub.myblog.it/2016/07/10/supplemento-della-domenica-favoloso-vero-soul-australiano-jimmy-barnes-soul-searchin/

Emozionante anche la versione di Do Right Woman, che se non raggiunge i vertici di quella di Aretha Franklin poco ci manca, veramente deep soul senza tempo. Baby Workout è meno conosciuta, era un brano di quelli scatenati usciti dalla penna di Jackie Wilson, a tutto fiati e con deliziose armonie vocali, mentre Broussard mette la sua ugola in primo piano. E che dire di Twistin’ The Night Away di Sam Cooke? Uno dei capolavori assoluti di uno dei maestri assoluti della soul music, in una versione splendida. E se Sam Cooke era il “Maestro”, sicuramente Otis Redding è stato uno dei suoi migliori discepoli, come dimostra la splendida These Arms Of Mine, qui eseguita in una notevole versione a due voci, con Broussard che divide il microfono con un altro grande appassionato della materia, Huey Lewis. Non manca naturalmente neppure il repertorio Motown, What Becomes Of The Brokenhearted era una intensa ballata di Jimmy Ruffin, il fratello maggiore di David dei Temptations, altra versione di grande impatto emotivo, e deliziosa la cover di I Was Made To Love Her di Stevie Wonder, con tanto di armonica a bocca e Broussard che sfodera una tonalità che ricorda in modo impressionante quella di Wonder.

Altro duetto notevole è quello con JJ Grey per una potentissima In The Midnight Hour di Wilson Pickett, i due si sfidano a colpi di soul e chi ne gode è l’ascoltatore, avvolto da una calda “coperta” di sweet soul music. Non ti sei ancora ripreso che arriva subito anche Hold On I’m Comin’ altro magnifico esempio di musica dal catalogo Stax, con fiati e sezione ritmica che impazzano sotto la scintillante voce del nostro amico. It’s Your Thing arrivò in origine nel 1969, uno dei primi esempi dell’irresistibile funky degli Isley Brothers, e Broussard e i musicisti impegnati in questo Save Our Soul II gli rendono pienamente giustizia. Sarà anche musica fatta con la carta carbone, ma devono averne trovato un modello che si era nascosto in qualche macchina del tempo, la copia è quasi meglio dell’originale, o comunque difficilmente distinguibile, c’è ancora gente che è capace di scrivere con bella calligrafia. E a  dimostrarlo Fool For Your Love, scritta dallo stesso Marc Broussard, sembra in tutto e per tutto un qualche classico perduto di Sam Cooke. Broussard poi ci propone una versione intima e raccolta, acustica di Cry To Me, solo voce e un paio di chitarre (una del babbo Ted, vecchio chitarrista dei Muscle Shoals studios), ma tanto feeling.

Sunday Kind Of Love è uno dei capolavori assoluti di Etta James, una ballata incantevole, cantata con il cuore il mano, e Marc fa di tutto per catturare lo spirito dell’originale, direi riuscendoci in pieno. David Egan da Lafayette, Louisiana è stato un cantante ed autore di brani per Tab Benoit, Irma Thomas, Marcia Ball e Tracy Nelson, scomparso di recente, e Marc Broussard gli rende omaggio con Every Tear, in una penetrante ed intensa versione, di nuovo per voce e una solitaria chitarra elettrica, un distillato della soul music più profonda.

Bruno Conti

L’ Ennesimo Capitolo Di Una Band “Storica” Australiana. Black Sorrows – Faithful Satellite

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Black Sorrows – Faithful Satellite – Rootsy Music / IRD

Chi ci segue su questo blog avrà notato il mio “innamoramento musicale” per gli artisti irlandesi in generale, e anche altrettanta “passione” per tutto quello che ci arriva dal continente australiano: per cui in un ipotetico podio composto dai migliori gruppi Down Under di sempre (a mio parere personale) ci metto in primis i Triffids, i Cold Chisel di Jimmy Barnes, e sicuramente i Black Sorrows di Joe Camilleri (ne ho parlato ampiamente e più volte su queste pagine recensendo sia Crooked Little Thoughts che Certified Blue, e Endless Sleep/One More Time  http://discoclub.myblog.it/2015/10/04/il-jukebox-personale-joe-camilleri-black-sorrows-endless-sleep/). Questo nuovo lavoro Faithful Satellie è il ventesimo album dei Black Sorrows, e come al solito il buon Joe (chitarre e sax, oltre naturalmente alla voce)) porta nei Woodstock Studios di Melbourne il solito cast stellare di musicisti Aussie, composto da Claude Carranza alle chitarre, John McAll alle tastiere, Mark Gray al basso, Angus Burchall alla batteria, con l’aggiunta di validi “turnisti” del posto a comporre una eccellente sezione fiati, con l’abituale supporto di strumenti come violino, fisarmonica, mandolino e banjo, e non potevano certo mancare le bravissime coriste storiche Vika e Linda Bull, mentre tutte le canzoni sono state composte da Camilleri con il suo paroliere di fiducia Nick Smith.

Per chi non conoscesse il gruppo, la musica dei Black Sorrows attraversa vari generi, a partire dal rock, ma anche bluegrass e country in questo disco, blues, rockabilly, reggae, gospel, soul, e negli ultimi album pure leggere impronte jazz, comunque l’iniziale Cold Grey Moon è davvero spiazzante, si apre con un introduzione di violini da camera, e passa più di un minuto prima che la calda voce di Camilleri si apra in una solenne ballata (marchio di fabbrica del gruppo) con l’accompagnamento della tromba di Travis Woods, per poi passare subito ad atmosfere anni sessanta grazie al rockabilly-jazz di Raise Your Hands (dove è impossibile non muovere il piedino), a cui fa seguito un’altra dolcissima ballata in perfetto stile “messicano” come You Were Never Mine (dove Joe non fa rimpiangere il suo “mentore” Van Morrison).

La bravura dei musicisti si manifesta nel country-honky-tonk di Fix My Bail (con la partecipazione dei Davidson Brothers), mentre la seguente It Ain’t Ever Gonna Happen è un brano blues (con la voce seducente di Sandii Keenan) degno del miglior Willy DeVille; passando poi per le cadenze danzanti a tempo di valzer di una “agreste” Winter Rose, di nuovo con i Davidson Brothers. La seconda parte del disco riparte in modo brillante con l’intrigante “swinging rock” di I Love You Anyhow, mentre Into Twilight mette in evidenza i violini ed anche il supporto delle coriste, ed è seguita da una buona canzone rock come Carolina https://www.youtube.com/watch?v=nVbJcXLQQHk , mentre un brano quasi reggae come Love Is On Its Way, porta l’ascoltatore verso suoni cari ai dimenticati Kid Creole And The Coconuts, ma non ci fa impazzire, andando infine  a chiudere con la musicabilità rocciosa di Land Of The Dead, e una acida e spettrale Beat Nightmare.

Joe Camilleri e i suoi Black Sorrows nonostante vari cambi di line-up avvenuti nei loro 30 anni di vita, hanno conquistato un posto speciale nel cuore di molti amanti della buona musica, con brani che sono diventati dei piccoli classici nel panorama musicale australiano, e anche in questo ultimo Faithful Satellite (dove è difficile trovare un difetto, forse il pezzo reggae), passano con disinvoltura e grande bravura (come detto in precedenza) dal folk al blues, dal funky, appunto al reggae, dal soul al gospel, fino ad arrivare alle ballate sognanti e seducenti che sono sempre state il valore aggiunto del gruppo. Dopo una carriera lunga più di 50 anni, Camilleri continua semplicemente a fare quello che gli riesce meglio, scrivere e far conoscere la sua musica, una musica di qualità che lo consacra una “icona” al pari, a mio parere, di Nick Cave, Paul Kelly, Jimmy Barnes, Archie Roach, e altri musicisti del continente australiano. Consigliato.!

Tino Montanari

*NDB Per la cronaca, la versione australiana del CD, uscita a settembre dello scorso anno, ha una sequenza dei brani completamente diversa dalla edizione europea.