Recuperi Di Inizio Anno 5: Il Disco Peggiore del 2015? Country A Cappella? Ma Fatemi Il Piacere! Home Free – Country Evolution

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Home Free – Country Evolution – Columbia/Sony CD

Gli Home Free sono un quintetto vocale del Minnesota che, anche se è in giro da una decina d’anni, ha iniziato ad incidere professionalmente e con una distribuzione capillare dal 2014, quando ha pubblicato ben due album (Crazy Life e Full Of Cheer), ma in tutto sono otto i dischi: formato da Austin Brown (voce tenorile), Rob Lundquist e Chris Rupp (armonie), Tim Foust (voce bassa) e Adam Rupp (voce e percussioni), il gruppo si propone come una “originale” miscela di country e musica a cappella (anche se l’accompagnamento strumentale è presente), ma, aldilà delle indubbie capacità canore dei ragazzi, Country Evolution mi lascia perplesso per vari motivi. Intanto non è country, ma pop da classifica mascherato: non basta infatti proporre cover di brani famosi a tema country (ma ci sono anche diversi pezzi originali) per essere definiti tali, e poi anche gli arrangiamenti delle voci sono pop in tutto e per tutto, ed inoltre sono piatti, mancano completamente di mordente e di spessore.

A tutto aggiungiamo l’accompagnamento strumentale plastificato, dove mancano quasi completamente sia le chitarre che gli altri strumenti che troviamo di solito sui dischi di country music (violini, steel, banjo, dove siete?), un suono finto che dà un’idea di musica fatta per ragazzini imbelli o per gente che pensa che basti saper armonizzare su una serie più o meno eterogenea di canzoni per essere definiti dei talenti. Eppure la classifica sembra dar ragione ai cinque, in quanto, al momento di scrivere queste righe, Country Evolution è quarto nella Country Hot 100 di Billboard, il che mi fa riflettere sulla reale competenza del pubblico americano. Anche la stampa USA li porta in palmo di mano, e quasi mi viene da pensare che sono io quello che non capisce più niente: eppure ad un certo punto del mio ascolto ho perfino pensato che si trattasse di un disco-scherzo, quasi una parodia (poco riuscita tra l’altro).

Il CD parte già zoppicando con la corale Summer In The Country, dominata dalle armonie vocali, ma per me è pop, non country, qualcosa che assomiglia agli Alabama o a Ronnie Milsap. Good Ol’ Country Harmony può anche risultare divertente, con elementi quasi doo-wop, anche se l’accompagnamento strumentale non è proprio il massimo, diciamo non al livello delle voci; 9 To 5 non mi faceva impazzire neanche nella versione originale di Dolly Parton, e questa mi piace anche meno, i suoni fanno parte del più becero pop da classifica (country? Ma per favore!), Elvira, di e con gli Oak Ridge Boys, sembra nelle mani dei Neri Per Caso che cantano in inglese (giuro), non ce la faccio a prenderli sul serio. Don’t Feel Good dà grande spazio alle voci e poco agli strumenti, è quasi un vero brano a cappella, e quindi risulta abbastanza gradevole, ma Honey, I’m Good sembra quasi una canzone parodistica dei Rednex (vi ricordate quel gruppo svedese di dance-country-pop responsabile della versione da ballo di Cotton Eyed Joe?), e non è un gran complimento. Qualcuno sentiva il bisogno di una cover di Garth Brooks? Io no, anche se Friends In Low Places è uno dei brani migliori di Garth, ma in questa versione alla Bobby McFerrin fa solo ridere; Fishin’ In The Dark/Down In The Boondocks mette insieme Nitty Gritty Dirt Band con Joe South, e gli originali erano ben altro, qui c’è solo da rabbrividire.

Spiace che uno come Charlie Daniels si sia lasciato coinvolgere in questa pagliacciata, e per di più con il suo superclassico The Devil Went Down To Georgia: altro che cantare e portare il mio violino, io li avrei querelati; la tragica House Party, al limite degli One Direction, e California Country chiudono un disco che per fortuna dura poco. Anche la musica just for fun è roba seria, specie con quello che costano oggi i CD: gli Home Free sono ridicoli e basta.

Marco Verdi

*NDB Perché due copertine vi chiederete voi? Per la serie non c’è fine al peggio, il disco viene ristampato il 15 gennaio anche in edizione Deluxe. Quindi due ragioni per starne alla larga!

Forse Un Po’ Estrema Come Strategia Di Marketing! – Se Ne E’ Andato Anche David Bowie 1947-2016!

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E’ passata meno di una settimana dalla mia recensione per questo blog dell’ultimo disco di David Bowie, Blackstar http://discoclub.myblog.it/tag/david-bowie/ , che devo tornare ad occuparmi del “Duca Bianco”, ma stavolta ne avrei fatto volentieri a meno: è infatti giunta stamattina la notizia, come il classico fulmine a ciel sereno, della sua scomparsa, in pace come scrive il suo entourage su Facebook, dopo una battaglia di 18 mesi contro il cancro, una malattia tenuta nascosta fino all’ultimo (ma David, specie ultimamente, aveva fatto della privacy quasi una seconda arte), all’età di 69 anni compiuti da tre giorni.

Bowie (nato David Robert Jones) ha avuto, specie negli anni settanta, una grande importanza sia a livello musicale che soprattutto di immagine, reinventandosi in continuazione e spiazzando più volte pubblico e critica: dopo gli esordi folk-rock londinesi, nei quali palesava l’influenza di Bob Dylan (da lui definito “come una mamma” ed omaggiato nell’album Hunky Dory con Song For Bob Dylan), divenne uno degli artisti di punta del movimento glam con la creazione del suo alter ego Ziggy Stardust e l’album The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, iniziando una serie di trasformazioni a livello di look che lo affermarono come uno degli artisti più avanti nella gestione della propria immagine (ben prima dei Kiss, tanto per fare un esempio), oltre a rivelare al mondo un interprete dallo spiccato gusto per la teatralità, che lo porteranno in seguito a diventare anche un apprezzato attore cinematografico.

Nel prosieguo della decade, Bowie lascerà presto il mondo del glam, passando con disinvoltura dal pop-soul e funk (gli album Diamond Dogs e Young Americans), sfiorando il krautrock con Station To Station (dove creerà l’algido personaggio del Thin White Duke) e soprattutto con la trilogia berlinese di Low, Heroes e Lodger, realizzata in collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp e che gli diede l’immortalità con la title track del secondo dei tre album.

Gli anni ottanta saranno contraddistinti soprattutto dal successo di Let’s Dance (album e singolo), dove alla chitarra troviamo nientemeno che Stevie Ray Vaughan, diversi duetti che voleranno alto nelle hit parade (tra cui Under Pressure coi Queen e la cover di Dancing In The Streets con Mick Jagger, eseguita al Live Aid in versione video), oltre che la bellissima Absolute Beginners (più dylaniana che mai), colonna sonora del film omonimo.

Negli anni novanta, dopo la parentesi hard rock con i Tin Machine (che personalmente ho sempre trovato un po’ indigesta), Bowie sperimenterà sonorità elettroniche, hip-hop e drum’n’bass con l’elegante Black Tie White Noise ed i terribili (per me, ma per qualcuno sono capolavori) Outside e Earthling, tornando finalmente ad un sound più classico e rassicurante nel nuovo millennio con Hours (del 1999), Heathen (2002) e Reality (2003), fino ai dieci anni di silenzio totale  interrotti nel 2013 dal più che buono The Next Day.

Personaggio di grande carisma e dalla personalità decisamente sfaccettata, è sempre stato restio alle classificazioni ed alle banalità, Bowie ha passato tutta la carriera a sperimentare diversi stili, dando molto raramente al suo pubblico quello che si aspettava (e Blackstar è solo l’ultimo esempio in tal senso): per il sottoscritto una discografia bowiana consigliata per neofiti potrebbe essere composta dai seguenti album: Space Oddity, Hunky Dory, Ziggy Stardust, Young Americans, Heroes, Let’s Dance e The Next Day (ma anche Aladdin Sane, Scary Monsters e Tonight andrebbero considerati). Oppure il bellissimo box Five Years 1969-1973 (pubblicato pochi mesi fa), che comprende tutti i dischi di David del primo periodo, compresi live, colonne sonore, singoli e rarità, che però ha il difetto di non costare poco (anche l’antologia tripla del 2014 Nothing Has Changed è perfetta per chi non dovesse conoscere il nostro).

david bowie five years

Voglio chiudere ricordando Bowie con le sue due canzoni che forse preferisco, appartenenti entrambe al periodo “spaziale”.

 

Riposa in Pace, vecchio Ziggy, e scusa per il titolo del post (ma da ironico english man quale eri, so che non ti sei offeso).

Marco Verdi

*NDB Visto che il buon David amava molto sia le stelle che lo spazio, direi che come omaggio non poteva mancare anche la canzone che lo ha lanciato negli spazi profondi, dove sta per ritornare.

Questo E’ Quasi Indispensabile! Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Bottom Line New York City ’77

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Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Bottom Line New York City ’77 – 2CD Echoes 

Nel 2015 Southside Johnny ha pubblicato Soultime!, uno dei dischi migliori dell’ultimo periodo della sua carriera (ma anche Going To Jukesville, Pills & Ammo e Grapefruit Moon, quello dei brani di Tom Waits, non erano per niente male): diciamo che più diventano difficili da reperire, distribuiti dalla Leroy Records tramite sito o ai concerti, più ci si riavvicina al periodo di grande splendore dell’era springsteeniana, a cavallo anni ’70/anni ’80. Ma in quegli anni la band era veramente formidabile dal vivo, nella versione con sezione fiati  una soul revue allo stato puro, con una con forte componente rock, l’altra faccia della E Street Band, con cui spesso si scambiavano musicisti e canzoni. Johnny Lyon ha tutt’ora una gran voce, ai tempi era uno dei “negri bianchi” migliori in circolazione: i primi album, I Don’t Want To Go Home, This Time It’s For Real e Hearts Of Stone sono dei mezzi capolavori, e il gruppo, sulla scia di Springsteen, era anche molto popolare (pur se il successo commerciale era moderato, infatti vennero mollati dalla Epic) . Proprio da quel periodo d’oro viene questo concerto al Bottom Line di New York: non è la serata immortalata nel mini album Live At The Bottom Line, pubblicato come promo nel 1976, ma una serata del giugno 1977, organizzata per lanciare, via broadcast radiofonico, l’appena uscito This Time It’s For Real.

Puro Asbury Sound, con in più la chicca della presenza di Ronnie Spector, in ben cinque brani, uno dei quali presente anche nel Very Best Of pubblicato di recente dalla ex cantante della Ronettes, ed ex di Phil Spector http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/ . Ma la serata è incentrata tutta sulla esplosiva miscela di R&B, blue-eyed soul e rock che era il menu del gruppo all’epoca: le note del doppio CD della Echoes sono molto scarne, ma nella formazione c’erano anche i quattro Miami Horns, guidati da Richie “LaBamba” Rosenberg, con Billy Rush alla chitarra e Kevin Kavanaugh al piano, oltre allo stesso Lyon che suonava anche l’armonica. Qualità sonora molto buona e repertorio al fulmicotone: si parte subito fortissimo con This Time It’s For Real, la title track del nuovo album dell’epoca, scritta da Little Steven, poi è un tripudio di soul, Got To Get You Off On My Mind era un grande brano di Solomon Burke con l’ottimo Billy Rush alla chitarra ed il resto del gruppo in evidenza, Without Love, scritta da Carolyn Franklin, la sorella di Aretha e Ivory Joe Hunter, sempre tratta dal secondo album, è puro Jukes sound, per non parlare di Love On The Wrong Side Of Town, altra perla del duo Springsteen/Van Zandt, sincopata e spectoriana come si conviene.

Little By Little, un pezzo scritto da Mel London, mai inciso su dischi ufficiali dalla band, ma pescato dal repertorio di Junior Wells, è un bel blues & soul tirato con Southside in tiro all’armonica e Billy Rush alla solista, mentre She Got Me Where She Wants Me, sempre dalla penna di Steven Van Zandt (che firma ben otto brani del secondo album) è una sorta di soul ballad con la band che spalleggia Southside Johnny a livello vocale. It Ain’t The Meat (It’s The Motion), dal primo album, era uno dei brani salaci di Henry Glover, un musicista nero poco noto ai non addetti (ma tanto per dirne una ha scritto Drown in my own tears), e anche I Choose To Sing The Blues, che era nel repertorio di Ray Charles (e Billie Holiday). A questo punto sale sul palco Ronnie Spector per un ripasso del “Wall Of Sound”: quattro pezzi in sequenza, con la “Queen Of Rock’N’Roll” come viene presentata, Baby I Love You, e qui finisce il primo CD. Si riprende subito con Walkin’ In The Rain, una splendida versione di Say Goodbye To Hollywood, il pezzo di Billy Joel, che per me in questa versione è anche più bello dell’originale e una grandissima Be My Baby, una delle canzoni più belle di sempre.

Poi si prosegue con The Fever, l’inedito di Bruce che li aveva lanciati sul mercato discografico, gran bella versione con lunga intro di armonica, e ancora I Don’t Want To Go Home, il pezzo che comprende il famoso verso Reach Up And Touch The Sky che sarebbe stato il titolo del loro Live ufficiale. E per celebrare la festa una chilometrica (oltre tredici minuti) e fenomenale Havin’ A Party, uno dei capolavori assoluti della soul music, legata indissolubilmente a Sam Cooke, ma che non manca mai di entusiasmare il pubblico. Mancano ancora un altro brano con Ronnie Spector, questa volta a duettare con Southside Johnny per la bellissima You Mean So Much To Me, e per concludere un’altra formidabile canzone come You Don’t Know Like I Know, un pezzo di Isaac Hayes e David Porter, ma che tutti conosciamo nella versione di Sam & Dave, soul all’ennesima potenza per finire in gloria una magnifica serata. Forse si meriterebbe anche quattro stellette questo doppio CD!

Bruno Conti

Il Supplemento Della Domenica Di Disco Club. Per Non Dimenticare: Una Cantante Sublime! Eva Cassidy – Nightbird

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Eva Cassidy – Nightbird – Blix Street Records/Warner 2CD/DVD

Quella di Eva Cassidy è una delle storie più tristi dell’intero panorama musicale mondiale, e non solo musicale: interprete sopraffina (non era una songwriter), con una formidabile voce in grado di adattarsi a qualunque genere, ha goduto tra la fine del secolo scorso e la prima decade del nuovo millennio di una grande popolarità, che l’ha portata spesso e volentieri (specie in Inghilterra) nelle prime posizioni delle charts. Peccato però che la quasi totalità dei suoi dischi sia uscita postuma, in quanto Eva morì alla fine del 1996 per un terribile melanoma, all’età di soli 33 anni, non potendo così vivere in prima persona il meritato successo, e privando il mondo di un talento che avrebbe potuto portarla chissà a quali vette.

L’unico album pubblicato dalla bionda cantante del Maryland quando era in vita fu il Live At Blues Alley, un disco dal vivo registrato nell’omonimo locale di Washington il 2 e 3 Gennaio dello stesso anno che si sarebbe chiuso con la sua tragica scomparsa, un lavoro che, nelle sue dodici canzoni, rivelava un’interprete raffinatissima, che cantava con innata naturalezza, toccante nelle ballate, grintosa nei pezzi più mossi, con una voce che veniva dal profondo dell’anima ed un feeling mastodontico. Nel corso degli anni altri sette brani di quella performance vennero pubblicati nei vari dischi postumi (composti principalmente di incisioni in studio), ed ora, sempre per la Blix Street Records (l’etichetta di Washington che si è occupata di tutti i suoi album), esce questo splendido Nightbird, che in due CD raccoglie tutte le 31 canzoni (più una in studio) di quella magica esibizione, allegando anche un DVD con dodici pezzi (di qualità amatoriale: bianco e nero, telecamera fissa, teste del pubblico ogni tanto in primo piano, qualità video un po’ sgranata): è però la parte audio quella che più ci interessa e, complice anche una rimasterizzazione impeccabile, possiamo finalmente assaporarla dal principio alla fine.

Eva era in grado di affrontare con la massima nonchalance qualsiasi tipo di repertorio, e Nightbird ne è la prova lampante: si passa dal jazz al blues al rock al gospel, unendo classici contemporanei e non, il tutto con una classe incredibile ed interpretazioni quasi sempre da pelle d’oca; un plauso va senza dubbio anche alla band di quattro elementi, nella quale spicca lo straordinario pianista Lenny Williams, il bravissimo chitarrista elettrico Keith Grimes (Eva invece suona l’acustica e la ritmica elettrica), il bassista Chris Biondo, che è anche il produttore dell’album, ed il batterista Raice McLeod, che suona con un evidente stile influenzato dal jazz.

L’album si apre con la raffinata Blue Skies di Irving Berlin, nella quale Eva Cassidy dà subito un assaggio della sua classe purissima, seguita dal blues di Ain’t Doin’ Too Bad (James Cotton) che, a parte la performance favolosa di Eva, vede un grande assolo di Grimes; che dire poi di Ain’t No Sunshine, proprio il classico di Bill Withers, con l’acustica appena pizzicata, doppiata in maniera discreta dell’elettrica, qualche nota di piano e la voce che si staglia sicura: una goduria unica. O Sting, che personalmente non ho mai potuto soffrire molto, ma nelle mani di Eva sembra un grande della musica mondiale (Fields Of Gold è la canzone, comunque uno dei brani migliori dell’ex Police), o ancora la mitica Bridge Over Troubled Water di Paul Simon (del quale propone anche una vivace Late In The Evening), dove la resa vocale non è di certo inferiore a quella di Garfunkel; e della versione jazz afterhours di Fever (Peggy Lee, ma anche Elvis) non vogliamo parlarne? Michael Bublé dovrebbe ascoltare questo disco alla nausea e poi…cambiare mestiere! Il gospel/soul è rappresentato da una meravigliosa Chain Of Fools (Aretha Franklin, of course), e c’è anche una magica Autumn Leaves: ora, tutti (me compreso) hanno magnificato le interpretazioni di Bob Dylan di classici americani (tra cui proprio Autumn Leaves) più o meno legati a Frank Sinatra, un anno fa su Shadows In The Night, ma nel modo in cui la cantava Eva c’erano giusto The Voice e Charles Aznavour. Ed Eva arriva anche a misurarsi con Mrs. Billie Holiday, ovvero, forse la più grande cantante donna di tutti i tempi, un confronto che farebbe tremare le gambe (e l’ugola) a chiunque, ma la Cassidy se la cava in maniera secondo me entusiasmante (Fine And Mellow è la canzone).

E tutto ciò è solo nel primo CD (e non le ho citate tutte, ma avrebbero meritato): nel secondo, tra i molti highlights, troviamo un’irresistibile Take Me To The River (Al Green), nella quale Eva e la band fanno veramente venire giù il Blues Alley, una calda People Get Ready di Curtis Mayfield, una versione rallentata ma splendida del classico dei Box Tops The Letter, un’intensa Son Of A Preacher Man, che riesce a tener testa all’originale di Dusty Springfield, una resa incredibile di Stormy Monday di T-Bone Walker, che supera di slancio anche la versione dei Them e proietta idealmente il gruppo in un fumoso club di Chicago, una superba Something’s Got A Hold On Me (Etta James), ed una Time After Time acustica che fa sembrare l’originale di Cyndi Lauper un’altra canzone. Dopo il bis finale (una rallentata, ma che pathos, What A Wonderful World di Louis Armstrong) abbiamo una bonus track in studio, una versione di Oh, Had I A Golden Thread di Pete Seeger, che Eva spoglia delle sue caratteristiche folk e trasforma in un gustoso southern-soul, grazie anche all’organo hammond di Hilton Felton.

Una ristampa imperdibile, che ci fa ricordare quanto può essere ingiusto il fato che ci ha portato via troppo presto una cantante meravigliosa, uno dei prototipi della “beautiful loser”!

Con tutto il rispetto, altro che Adele.

Marco Verdi

Eccone Un Altro! Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Rude Mood

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Rude Mood – FMIC 

I giudizi continuano ad essere positivi, però è già il quarto live broadcast di Stevie Ray Vaughan che esce negli ultimi mesi, solita etichetta di fantasia e via pedalare. Però diciamo che finché la qualità rimane buona i fans del chitarrista texano possono fare un altro sacrificio e in questo caso ci siamo. Il concerto è registrato il 30 giugno del 1987 a Philadelphia al Mann Music Center e trasmesso ai tempi dall’emittente locale WMMR: siamo ancora nel tour per supportare il doppio ufficiale Alive, come nel caso del recente doppio Live…Texas 1987 http://discoclub.myblog.it/2015/11/13/se-fosse-anche-inciso-bene-sarebbe-perfetto-2-stevie-ray-vaughan-double-trouble-livetexas-87/ , con cui ha in comune buona parte del repertorio della serata, in una differente sequenza e con Rude Mood, l’ultimo bis, che nel concerto texano non c’era.

Anche in questo caso alcuni brani, tre per la precisione, erano presenti nel cofanetto ufficiale della Sony SRV che raccoglie parecchio materiale live inciso da Vaughan e mai pubblicato nella sua interezza. Anche questo CD non riporta tutto il concerto, ma solo la parte che è andata in onda alla radio e comunque come gli altri usciti ha i suoi momenti di notevole interesse: se la registrazione al Bumbershoot Arts Festival dell’85 aveva la particolarità della partecipazione di Bonnie Raitt nei due brani conclusivi http://discoclub.myblog.it/2015/11/07/preservato-i-posteri-stevie-ray-vaughan-featuring-bonnie-raitt-bumbershoot-arts-festival-1985/ , quello in Texas il fatto di essere il concerto completo, questo Rude Mood ha alcuni versioni di classici di SRV notevoli, oltre ad una eccellente qualità sonora, forse la migliore di quelli pubblicati finora. Il solito travolgente strumentale Scuttle Buttin’ posto in apertura, l’immancabile e vorticosa orgia di wah-wah Say what, una poderosa Look At Litte Sister, tutto l’armamentario è schierato in gran pompa con Vaughan e i compari dei Double Trouble che paiono in gran serata, concentrati e vogliosi di improvvisare come rare volte è dato di ascoltare.

Mary Had A Little Lamb è super funky e lo slow blues Ain’t Gone ‘N’Give Up On Love in una delle più intense versioni mai sentite con il mancino texano quasi trasfigurato dal suo rapporto con la chitarra solista. Ma tutto il concerto è ancora una volta fantastico, a conferma del fatto che Stevie Ray Vaughan è stato uno dei più grandi performer live della storia, quando i suoi problemi con droga e alcol non collidevano con la sua voglia di fare musica. Musica che scorre fluida e travolgente anche nella super hendrixiana Couldn’t Stand The Weather e in una versione monstre, oltre 14 minuti, di Life Without You, una delle vette dell’arte di improvvisare il blues del nostro, una slow ballad in crescendo, liquida e limpida come l’acqua, con la chitarra che raggiunge vette di eccellenza assoluta. Il trittico finale, Come On, Love Struck Baby e la citata Rude Mood conclude in gloria una serata per certi versi memorabile. Hendrix è stato il Maestro assoluto della chitarra elettrica (con Clapton, Page e Beck quasi suoi pari), Stevie Ray Vaughan uno dei suoi discepoli più grandi.

Bruno Conti

Un Evidente Caso Di Megalomania: Strano Era Vent’Anni Fa E Strano Rimane Oggi! Alan Vega/Alex Chilton/Ben Vaughn – Cubist Blues

cubist blues

*NDB La piccola aggiunta al titolo l’ho fatta io, è riferita all’autore dell’articolo ed è ovviamente ironica ed affettuosa, ma ci sta! La parola a Marco.

Alan Vega/Alex Chilton/Ben Vaughn – Cubist Blues – Light In The Attic CD

State per assistere ad una operazione di “auto-riciclaggio”. Approfittando della ristampa a distanza di quasi vent’anni (da parte della Light In The Attic, etichetta di Seattle specializzata nel recupero di dischi oscuri, già responsabile in passato delle ristampe per la prima volta in suolo americano dei due mitici album di Sixto Rodriguez) di questo disco inciso dall’ex Suicide Alan Vega insieme all’ex Box Tops e Big Star Alex Chilton (nel frattempo passato a miglior vita) ed al rocker Ben Vaughn, un vero outsider di cui si sono un po’ perse le tracce (anche se incide ancora), e dato che nel 1996 per il Buscadero lo avevo ascoltato io, ho pensato di riproporre pari pari la mia recensione di allora, anche perché anche a distanza di cinque lustri (*NDB Facciamo quattro?) il mio parere è rimasto tale e dunque non cambierei una virgola.

Ma andiamo quindi con Cubist Blues 2.0.

Un supergruppo strano per un disco ancora più strano.

Che Ben Vaughn e l’ex Big Star e Box Tops Alex Chilton (due nostri beniamini) si siano messi insieme per fare un disco non sorprende più di tanto: lo strano è che il terzo invitato sia Alan Vega, musicista newyorkese che, in duo con Martin Rev negli anni settanta e sporadicamente negli ottanta, era l’autore di una musica elettronica d’avanguardia, allucinata e comunque poco digeribile sotto il moniker di Suicide (anche se Springsteen è un fan). Ebbene, non si sa come, i tre si sono trovati in uno studio nella lower Manhattan e, canzone dopo canzone, hanno messo a punto un intero album in presa diretta (le sovrincisioni sono pochissime, niente sessionmen, ed in alcuni brani non c’è neppure il basso), dandogli poi l’enigmatico titolo di Cubist Blues. La parte del leone la fa comunque Vega, in quanto Vaughn e Chilton si limitano ad accompagnare la strana voce del newyorkese, mentre la musica non è proprio come quella dei Suicide…ma quasi!

L’opening track, la lunga Fat City, è il manifesto dell’album: una ritmica incalzante, con la voce malata di Vega che sussurra, parla, ogni tanto si ricorda di cantare, grida, il tutto con il rumore del traffico cittadino sullo sfondo, e la chitarra di Chilton che assume tonalità quasi alla Link Wray. Fly Away prosegue sugli stessi toni, ma è più involuta e fin troppo cerebrale; in Freedom finalmente Vega canta, e la melodia è gradevolissima (anche se costruita intorno al synth) e molto sixties, grazie anche ai ricami chitarristici di Alex.

Il disco continua così, tra canzoni di difficile assimilazione (Too Late è quasi musica minimale alla La Monte Young) e momenti di folle lucidità (Sister, un quasi-blues ipnotico), con la voce di Alan che fa il bello ed il cattivo tempo, ed il duo Chilton-Vaughn che si muove in territori non certo abituali. Qualcuno leggendo queste righe potrebbe avvicinare questo disco a quello degli Eels (NDM: all’epoca della recensione originale era appena uscito l’ottimo esordio Beautiful Freak del gruppo di Mark Everett, un disco a mio parere mai più eguagliato), ma a torto, in quanto il trio EButchTommy, in mezzo ad una grande quantità di suoni obliqui, valorizza la melodia pura, mentre in Cubist Blues le melodie vengono sistematicamente fatte a pezzi da Vega.

Quindi un disco strano, non brutto, ma di sicuro non facilmente assimilabile e, visto i prezzi correnti dei CD, non da acquistare a scatola chiusa.

Marco Verdi

Il Più Grande Bassista Della Storia Del Rock, E Anche Il Chitarrista Non Era Male! Jack Bruce And Robin Trower – Songs From The Road

jack bruce robin trower songs from the road

Jack Bruce And Robin Trower – Songs From The Road – Ruf/Ird CD+DVD 

Jack Bruce è stato il più grande bassista della storia del rock: e questa è una cosa nota e anche piuttosto condivisa. E qui potrei fermarmi. Meno noto è il fatto che questo concerto sia la riproposizione da casa Ruf di Seven Moons Live, l’album dal vivo del 2009 che uscì sia in versione CD che DVD, divise. Ora l’etichetta tedesca (ri)pubblica questa nuova edizione del concerto in versione doppia, con l’aggiunta di un brano, She’s Not The One, nella parte video. Quelli erano stati anni turbolenti e dolorosi per Bruce: nel 2003, dopo anni di eccessi, gli fu diagnosticato un tumore al fegato, e nel 2004 subì un trapianto totale, che agli inizi gli diede problemi di rigetto, poi risolti, tanto che nel 2005 fu presente alla famosa reunion dei Cream alla Royal Albert Hall.. Poi il musicista proseguì la sua frenetica serie di impegni e nel 2007 rinnovò anche la collaborazione con Robin Trower, grande chitarrista londinese, noto ai più per la sua militanza nei Procol Harum, ma autore anche di una lunga serie di album solisti, che gli valsero l’epiteto di “erede” di Jimi Hendrix, per il suo stile “sognante” e ricco di tecnica, ammirato moltissimo da Robert Fripp, che lo considerava un maestro e ha addirittura preso delle lezioni da lui.

Come dicevo un attimo fa, Trower e Bruce si erano già incontrati una prima volta tra il 1981 e il 1982, quando registrarono due album in coppia, B.L.T. e Truce. Nel 2007 esce Seven Moons, disco che li vede affiancati dal grande batterista (ma anche tastierista) Gary Husband, uno che abitualmente suona nei 4Th Dimension di John Mclaughlin, ma ha collaborato anche con Allan Holdsworth, Mike Stern, i Level 42 (?!?) e tantissimi altri che sarebbe lunghissimo elencare. Quindi per tutti e tre i musicisti, l’arte della collaborazione è un fattore importante nel proprio fare musica, come pure la capacità di fondere vari generi: Bruce ha iniziato nel gruppo di Graham Bond, tra jazz e blues, poi brevemente nei Manfred Mann e nei Bluesbreakers di Mayall, l’avventura dei Cream dove ha rivoluzionato il modo di fare rock, introducendo l’improvvisazione del jazz, e inventando di fatto il power trio, di nuovo jazz con Tony Williams Lifetime, Carla Bley, Kip Hanrahan, in mezzo una carriera solista eccelsa, con mille rivoli e deviazioni che lo hanno portato a riprovare il trio rock-blues con West, Bruce & Laing e il quintetto con Carla Bley, Ronnie Lehay e Mick Taylor, ma anche lo stile big band, le contaminazioni con la world music e mille altre avventure.

Ma secondo me il genere dove eccelleva è sempre stato il rock-blues, il suo saper improvvisare in libertà, confrontarsi con un chitarrista e un batterista, all’interno anche di brani dalla struttura classica, ovvero belle canzoni, per poi improvvisamente partire verso la stratosfera del rock, quando incontrava dei musicisti ai suoi livelli tecnici. E Trower e Husband lo sono entrambi; in questo concerto registrato nella bella sala da teatro De Vereeniging di Nijmegen in Olanda, il 28 febbraio del 2009, una delle ultime occasioni per ascoltare Jack Bruce (che come ricorda lui stesso nel corso del concerto, aveva avuto di nuovo dei problemi di salute tanto da fargli esclamare che non solo era contento di essere in quel teatro a suonare, ma lo era in assoluto, per il fatto di essere ancora vivo) al massimo delle sue capacità: i brani vengono in gran parte da Seven Moons, 10 in totale, tutti meno uno, firmati, da Bruce e Trower, più Carmen da B.L.T. e tre pezzi dei Cream, che sono le chicche assolute del concerto.

Robin Trower non è Clapton, ma è assolutamente un suo pari, molto statico sul palco, a causa del suo continuo uso della pedaliera quasi costantemente in modalità wah-wah, ma anche con altri effetti che gli consentono quel suo stile sognante ed energico al tempo stesso, approccia i soli di Sunshine Of Your Love (con un Jack Bruce prodigioso al basso), White Room e Politician in modo originale, ma anche rispettoso degli originali, se mi passate il bisticcio. Bruce canta in tutto il concerto, ed è in gran forma vocale, a dispetto dei problemi di salute, tra blues, rock, musica d’autore e grandi canzoni, con punte di eccellenza nell’iniziale Seven Moons, nella sincopata Lives Of Clay, che ricorda moltissimo i pezzi dei Cream, nella sospesa Distant Places Of The Heart, quasi jazzata, in Carmen, una delle tipiche “ballate” di Jack, in Just Another Day, con un grande Trower, ai vertici del suo hendrixismo (se mi passate il termine), come pure in Perfect Place, dove il wah-wah fluisce in modo magnifico, e ancora nello slow blues di Bad Case of Celebrity e nella minacciosa e potente Come To Me. Praticamente in tutto il concerto dove i tre (anche Husband è formidabile) dimostrano che il rock è ancora un’arte viva e vegeta, se suonata da grandi interpreti.                  

Bruno Conti   

Le Altre Novità Di Gennaio, Parte I. Raspberries, Bob Welch, Mamas And Papas, John David Souther, Villagers, Magic Sam, Bob Margolin.

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Giorni fa vi abbiamo presentato la recensione in anteprima del nuovo David Bowie Blackstar, ma scorrendo la lista delle novità di gennaio mi sono accorto che c’erano molti più titoli in uscita di quanto pensassi, in un mese che di solito è abbastanza tranquillo a livello di pubblicazioni discografiche, per cui ripristiniamo la rubrica delle anticipazioni, divisa in tre parti, senza trascurare comunque altri possibili recuperi (anzi probabili) di uscite 2015, infatti partiamo proprio con due cofanetti che, usciti sul mercato internazionale a metà novembre, vedranno la luce anche in Italia solo a partire dal 15 gennaio.

Per iniziare i Raspberries, la storica band power pop/rock di Eric Carmen (esatto quello di All By Myself, che spudoratamente citava il concerto n°2 per piano e orchestra di Rachmaninov). ma allora, inizi anni ’70, era tutta un’altra storia, il nostro veniva da Cleveland, che come ricorda una famosa canzone di Ian Hunter, “rocks”, e la sua band, “I Lamponi” (apro un’altra parentesi, per ricordare che questo blog nasce come prosecuzione del negozio di cui vedete il logo proprio in apertura di Blog, e quindi ricordo che all’uscita di uno dei dischi Raspberries, del cui profumo l’album era imbevuto, il negozio profumò di quel frutto per diversi giorni) erano un eccellente gruppo, con influenze british invasion che andavano dai Beatles agli Who, gli Hollies, gli Small Faces, ma anche Beach Boys Big Star, influenzando a loro volta band e solisti che sarebbero venuti in seguito in questo ambito power pop, Sweet e il primo Costello nel Regno Unito, Cheap Trick, Knack, Shoes, The Babys, Romantics, e in seguito Dwight Twilley, Plimsouls, Smithereens dB’s, tanto per ricordarne alcuni altri di provenienza americana.

Questo box di 4 CD, pubblicato dalla Caroline Records del gruppo Universal a prezzo speciale, contiene i quattro album della band, tutta la loro produzione tra il 1970 e il 1974, ovvero questi:

[CD1: Raspberries]
1. Go All The Way
2. Come Around And See Me
3. I Saw The Light
4. Rock & Roll Mama
5. Waiting
6. Don’t Want To Say Goodbye
7. With You In My Life
8. Get It Moving
9. I Can Remember

[CD2: Fresh]
1. I Wanna Be With You
2. Goin’ Nowhere Tonight
3. Let’s Pretend
4. Every Way I Can
5. I Reach For The Light
6. Nobody Knows
7. It Seemed So Easy
8. Might As Well
9. If You Change Your Mind
10. Drivin’ Around

[CD3: Side 3]
1. Tonight
2. Last Dance
3. Making It Easy
4. On The Beach
5. Hard To Get Over A Heartbreak
6. I’m A Rocker
7. Should I Wait
8. Ecstasy
9. Money Down

[CD4: Starting Over]
1. Overnight Sensation (Hit Record)
2. Play On
3. Party’s Over
4. I Don’t Know What I Want
5. Rose Coloured Glasses
6. All Through The Night
7. Crusin’ Music
8. I Can Hardly Believe You’re Mine
9. Cry
10. Hands On You
11. Starting Over

Come potete sentire nei video, ballate zuccherine, ma anche rock con power chords e pop di eccellente qualità.

Stesso discorso si potrebbe fare anche per Hot Love, Cold World, il box dedicato, sempre dalla Caroline, a Bob Welch, il chitarrista americano che, prima dell’avvento della coppia Buckingham-Nicks si incaricò di traghettare gli inglesi Fleetwood Mac verso quel rock californiano che ne avrebbe fatto la fortuna nella seconda metà degli anni ’70. Di lui avevo parlato brevemente sul Blog, in occasione della sua morte avvenuta, in seguito a suicidio, nel giugno del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/06/08/un-fleetwood-mac-minore-se-ne-e-andato-bob-welch-1946-2012/Bob Welch non era un “genio” della musica, ma i quattro album solisti pubblicati per la Capitol a cavallo tra anni ’70 ed ’80 rimangono buoni esempi di pop-rock tipico dell’epoca, e ovviamente contengono il suo unico grande successo, Sentimental Lady, che nei Fleetwood Mac cantava Christine McVie:

CD1: French Kiss]
1. Sentimental Lady
2. Easy To Fall
3. Hot Love, Cold World
4. Mystery Train
5. Lose My Heart
6. Outskirts
7. Ebony Eyes
8. Lose Your…
9. Carolene
10. Dancin’ Eyes
11. Danchiva
12. Lose Your Heart

[CD2: Three Hearts]
1. 3 Hearts
2. Oh Jenny
3. I Saw Her Standing There
4. Here Comes The Night
5. China
6. The Ghost Of Flight 401
7. Precious Love
8. Church
9. Come Softly To Me
10. Devil Wind
11. Don’t Wait Too Long
12. Little Star
Bonus Tracks:
13. 3 Hearts (Alternate Version)
14. Une Fille Comme Toi
15. Something Strong
16. Precious Love (Mono)

[CD3: The Other One]
1. Rebel Rouser
2. Love Came 2X
3. Watch The Animals
4. Straight Up
5. Hideaway
6. Future Games
7. Oneonone
8. Don’t Let Me Fall
9. Spanish Dancers
10. Old Man Of 17

[CD4: Man Overboard]
1. Man Overboard
2. Justine
3. Nightmare
4. B666
5. Don’t Rush The Good Things
6. The Girl Can’t Stop
7. Jealous
8. Fate Decides
9. Reason
10. Those Days Are Gone

Sempre in 4 CD e a prezzo speciale anche questo.

Mamas And Papas viceversa di successi ne hanno avuti tantissimi e sono tutti raccolti in questa bellissima antologia doppia pubblicata domani 8 gennaio dalla Real Gone Music, intitolata The Complete Singles 50th Anniversary Collection, riporta tutti i singoli, lati A e B, i successi e i pezzi più belli poi presenti anche negli album del gruppo e da quelli solisti di Mama Cass, Denny Doherty John Phillips, tutti brani pubblicati per la ABC-Dunhill dall’8 gennaio 1966 (50 anni fa esatti), il giorno in cui California Dreamin’ entrava nelle classifiche americane e la storia di The Mamas And The Papas, per chiamarli con la loro esatta “ragione sociale”, iniziava in tutto il suo splendore, fino al 1972, anno in cui usciva l’ultimo singolo, dopo la reunion avvenuta quell’anno. Anche se per essere precisi, come è facilmente rilevabile leggendo la tracklist qui sotto, il primo singolo Go Where You Wanna Go era già uscito nel 1965, come pure California Dreamin’ che pero entrava in classifica in quel fatidico giorno:

CD 1

  1. Go Where You Wanna Go (Dunhill 4018, 1965)
  2. Somebody Groovy (Dunhill 4018/4020, 1965)
  3. California Dreamin’ (Dunhill 4020, 1965)
  4. Monday, Monday (Dunhill 4026, 1966)   https://www.youtube.com/watch?v=h81Ojd3d2rY
  5. Got a Feelin’ (Dunhill 4026, 1966)
  6. I Saw Her Again (Dunhill 4031, 1966)
  7. Even If I Could (Dunhill 4031, 1966)
  8. Look Through My Window (Dunhill 4050, 1966)
  9. Once Was a Time I Thought (Dunhill 4050, 1966)
  10. Words of Love (Dunhill 4057, 1966)
  11. Dancing in the Street (Dunhill 4057, 1966)
  12. Dedicated to the One I Love (Dunhill 4077, 1967)   https://www.youtube.com/watch?v=4M7gKZqgHn4
  13. Free Advice (Dunhill 4077, 1967)
  14. Creeque Alley (Dunhill 4083, 1967)
  15. Did You Ever Want to Cry (Dunhill 4083, 1967)
  16. Twelve Thirty (Young Girls Are Coming) (Dunhill 4099. 1967)
  17. Straight Shooter (Dunhill 4099, 1967)
  18. Glad to Be Unhappy (Dunhill 4107, 1967)
  19. Hey Girl (Dunhill 4107, 1967)
  20. Dancing Bear (Dunhill 4113, 1967)
  21. John’s Music Box (Dunhill 4113, 1967)
  22. Safe in My Garden (Dunhill 4125, 1968)
  23. Too Late (Dunhill 4125, 1968)
  24. Dream a Little Dream of Me (ABC/Dunhill 4145, 1968)  https://www.youtube.com/watch?v=ajwnmkEqYpo
  25. Midnight Voyage (ABC/Dunhill 4145, 1968)
  26. For the Love of Ivy (ABC/Dunhill 4150, 1968)
  27. Strange Young Girls (ABC/Dunhill 4150. 1968)

CD 2

  1. Do You Wanna Dance (ABC/Dunhill 4171, 1968)
  2. My Girl (ABC/Dunhill 4171, 1968)
  3. Step Out (ABC/Dunhill 4301, 1972)
  4. Shooting Star (ABC/Dunhill 4301, 1972)
  5. California Earthquake (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4166, 1968)
  6. Talkin’ to Your Toothbrush (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4166, 1968)
  7. Move In a Little Closer, Baby (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4184, 1969)
  8. All for Me (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4184, 1969)
  9. It’s Getting Better (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4195, 1969)
  10. Who’s to Blame (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4195, 1969)
  11. Make Your Own Kind of Music (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4214, 1969)
  12. Lady Love (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4214, 1969)
  13. New World Coming (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4225, 1970)
  14. Blow Me a Kiss (Mama Cass Elliott) (ABC/Dunhill 4225, 1970)
  15. A Song That Never Comes (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4244, 1970)
  16. I Can Dream, Can’t I (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4244, 1970)
  17. The Good Times Are Coming (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4253, 1970)
  18. Welcome to the World (Mama Cass) (ABC/Dunhill 4253, 1970)
  19. Don’t Let the Good Life Pass You By (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill 4264, 1970)
  20. The Costume Ball (Mama Cass Elliot) (ABC/Dunhill SPD 15, 1971)
  21. Watcha Gonna Do (Denny Doherty) (ABC/Dunhill 4270, 1970)
  22. Gathering the Words (Denny Doherty) (ABC/Dunhill 4270, 1970)
  23. To Claudia on Thursday (Denny Doherty) (ABC 13318, 1971)
  24. Tuesday Morning (Denny Doherty) (ABC 13318, 1971)
  25. Mississippi (John Phillips) (ABC/Dunhill 4236, 1970)
  26. April Anne (John Phillips) (ABC/Dunhill 3236, 1970)

53 canzoni, spesso meravigliose, che raccontano la storia di uno dei gruppi leggendari di quell’epoca, anche tra gli inventori del primo Festival della storia della nostra musica, quel Monterey Pop, che nel 1967 cambiò completamente le prospettive della musica dell’epoca. Penso che sicuramente ci torneremo, per il momento ve ne segnalo l’uscita.

john david souther

Nel 1971 John David Souther venne messo sotto contratto dalla Aylum di David Geffen e nel 1972 pubblicò il suo album di debutto, questo omonimo John David Souther che conteneva dieci perle di puro country-rock californiano distillato. Souther era stato compagno di camera e di gruppo nei Longbranch/Pennywhistle del futuro Eagles Glenn Frey, e al piano di sotto abitava Jackson Browne che portò Souther al colloquio con Geffen.

Il nostro amico scriverà per, e con, gli Eagles, canzoni come Best Of My Love, New Kid In Town Heartache Tonight, e nel suo disco d’esordio, prodotto da Fred Catero, c’era la crema dei musicisti dell’epoca, anche alcuni antesignani del futuro blue-eyes soul westcostiano come Ned Doheny, ma anche Johnny Barbata, Mike Bowden, Glenn Frey, Bryan Garofalo, Gib Guilbeau del giro Flying Burrito, Gary Mallaber, Wayne Perkins Joel Tepp, collaboratore di Bonnie Raitt per cui Souther scriverà alcuni brani negli anni a venire. La ristampa Omnivore contiene sette bonus, tra alternates e demos ed è in uscita l’8 gennaio in USA e il 15 gennaio in Europa, via Warner. mentre i due album successivi, Black Rose Home By Dawn (in mezzo c’era stato You’re Only Lonely, quello di maggior successo, che pero era uscito per la Columbia)verranno ripubblicati, sempre rimasterizzati e potenziati il prossimo 12 febbario.

Per il momento:

Tracklist
1. The Fast One
2. Run Like A Thief
3. Jesus In 3/4 Time
4. Kite Woman
5. Some People Call It Music
6. White Wing
7. It’s The Same
8. How Long
9. Out To Sea
10. Lullaby
Bonus Tracks:
11. Kite Woman (Alternate Version)
12. Jesus In 3/4 Time (Demo)
13. The Fast One (Demo)
14. Run Like A Thief (Demo)
15. How Long (Demo)
16. One In The Middle (Demo)
17. Silver Blue (Demo)

villagers where have you been

Villagers è il nome d’arte che ha scelto il musicista irlandese Conor O’Brien per pubblicare la propria musica, con l’aiuto di alcuni altri musicisti ma spesso anche in solitaria, suonando tutti gli strumenti. Fino ad oggi ha pubblicato tre album Becoming a Jackal del 2010, forse fino ad ora il migliore http://discoclub.myblog.it/2010/06/18/anche-lui-di-nome-fa-conor-the-villagers-becoming-a-jackal/, poi Awayland nel 2013 e nella primavera del 2015 il recente Darling Arithmetic, tutti ottimi esempi di raffinato e complesso pop-rock. Ora l’8 gennaio, su etichetta Domino, esce questo Where Have You Been All My Life? dove Conor O’Brien rivisita molti brani dei suoi tre album precedenti in una nuova veste sonora, più articolata e vicina al sound del primo album, quello con gli arrangiamenti più complessi.

Grazie all’aiuto di Cormac Curran grand piano e analogue synthesizer, Danny Snow contabbasso, Mali Llywelyn arpa, mellotron e voce, e Gwion Llewelyn batteria, flicorno e voce, oltre allo stesso O’Brien che suona tutto il resto, in un solo giorno nel luglio del 2015, sono stati registrati 18 brani di cui 12 quelli pubblicati nell’album, tra cui una cover di Wichita Lineman Memoir che era apparsa solo su un album di Charlotte Gainsbourg, per cui era stata scritta la canzone. Quindi una sorta di live in studio, ma con una strumentazione ricca e variegata che ci porta ad apprezzare la bravura e il talento di questo musicista, tra i più interessanti in circolazione sul lato britannico dell’Atlantico.

magic sam blues band black nagic with bonus bob margolin my road

Sempre in questi giorni escono anche due album che gravitano nell’area blues (e che quindi non escludo di recensire per esteso a breve, sempre se trovo il tempo). Il primo è la ristampa potenziata del classico album Black Magic, attribuito alla Magic Sam Blues Band, uscito per la Delmark nel 1969 proprio pochi giorni prima della sua prematura scomparsa a soli 32 anni, il 1° dicembre di quell’anno. Ai 10 brani dell’album originale sono state aggiunte 7 tracce con versioni alternative o brani inediti:

I Just Want a Little Bit
What Have I Done Wrong
Easy, Baby
You Belong to Me
It’s All Your Fault
Same Old Blues  https://www.youtube.com/watch?v=0ScsUUNiuoQ
You Don’t Love Me, Baby
San-Ho-Zay
Stop! You’re Hurting Me
Keep on Loving Me Baby
What Have I Done Wrong (Alternate)
I Just Want a Little Bit (Alternate)
Everythings Gonna Be All Right
Keep on Doin’ What You’re Doin’
Blues for Odie Payne
Same Old Blues (Alternate)
What Have I done Wrong (Alternate)
Keep on Loving Me Baby

Sempre grazie all’etichetta di Chicago sul finire del 2014 era uscito un CD inedito registrato dal vivo ai tempi dal grande chitarrista blues, di cui vi avevo parlato su queste pagine virtuali, Live At The Avant Garde.

Mentre per la Vizztone esce il nuovo album di Bob Margolin, storico chitarrista di Muddy Waters negli ultimi anni di carriera del vecchio McKinley Morganfield. La Vizztone è una benemerita etichetta indipendente americana che lo stesso Margolin ha contribuito a fondare e che periodicamente pubblica i suoi dischi ( in tempi relativamente recenti, tra i tanti, il Live di Brandon Santini, il disco inedito bellissimo di Sean Costello e l’ultimo Cathy Lemons, tutti dischi recensiti da chi scrive, anche sul Buscadero). My road dovrebbe essere, se non ho fatto male i conti l’11° della serie, il primo dopo Blues Around The World pubblicato nel 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/03/12/incontri-blues-bob-margolin-with-mike-sponza-band-blues-aro/, e nello stesso anno era uscito anche Not Alone in coppia con Ann Rabson.

Per oggi è tutto, nei prossimi giorni si continua con le altre uscite del mese, seguendo, ove possibile, una sorta di sequenza più o meno cronologica, ma senza tralasciare le consuete recensioni ed eventuali “recuperi”!

Bruno Conti

Di Nuovo Musicisti In Crociera! Mitch Woods – Jammin’ On The High Cs Live

mitch woods jammin' on the high cs

Mitch Woods – Jammin’ On The High Cs  Live – Club 88 Records 

Tornano i dischi registrati nella famosa Legendary Rhythm & Blues Cruise, ovvero un gruppo di musicisti, in questo caso blues, che si divertono come disperati mentre sono in crociera. E allo stesso tempo i passeggeri di queste “Love Boat” dei giorni nostri, e noi che li ascoltiamo a distanza di qualche mese su disco, ci divertiamo moltissimo ad ascoltare l’interscambio e la voglia di jammare che traspare da queste esibizioni. Ricordo CD di Tommy Castro http://discoclub.myblog.it/2011/06/15/ma-allora-e-un-vizio-quelle-delle-crociere-tommy-castro-pres/ , Joe Louis Walker e Elvin Bishop http://discoclub.myblog.it/2011/05/21/tutti-in-crociera-elvin-bishop-raisin-hell-revue/ registrati in queste occasioni, ai quali si aggiunge ora questo Jammin’ On The High Cs del cantante e pianista newyorkese Mitch Woods con i suoi Club 88.

Woods, nel suo fluido e fluente boogie woogie misto a jump blues ha sempre inserito anche elementi di New Orleans style e di r&B e soul di Memphis, che non mancano anche in questa nuova avventura dove il nostro è circondato da una truppa di amici di grande valore: Billy Branch, Tommy Castro, Popa Chubby, Coco Montoya, Lucky Peterson, Victor Wainwright, membri sparsi dei Roomful Of Blues e Dwayne Dopsie, forse il meno noto del gruppo. Il risultato è ovviamente estremamente godibile e piacevole: si parte con una Big Mamou, boogie fiatistico e scatenato dove Mitch Woods è accompagnato da alcuni Roomful Of Blues e sembra di ascoltare il miglior Fats Domino con tromba, sax e piano che si alternano alla guida delle danze. Tain’t Nobody’s Bizness vira su atmosfere swing notturne e calde, con Victor Wainwright e Julia Magness (non credo sia parente di Janiva, questa è una cantante gospel-blues texana) accompagnati solo dal piano si rievocano addirittura tinte sonore alla Bessie Smith; Rip It Up è proprio quella di Little Richard, grande R&R con la voce e la chitarra di Tommy Castro, titillate di nuovo dai fiati dei Roomful e dal piano di Woods.

Tra un intermezzo e una rimembranza sulla nascita del Club 88, fondato dallo stesso Mitch nelle sue prime crociere, si arriva ad un grande blues come Brights Lights, Big City dove l’ospite è l’ottimo Lucky Peterson, mentre Dwayne Dopsie con la sua fisarmonica aggiunge una abbondante quota zydeco ad una vorticosa versione di Jambalaya. Eccellente la torrida rilettura di Eyesight To The Blind, uno dei classici assoluti del blues di Chicago, con Billy Branch all’armonica, Woods al piano e una chitarra di supporto, non serve altro. A questo punto arriva un inconsueto Popa Chubby in veste jump blues per una frizzante I Want You To Be My Baby e a seguire Coco Montoya con Rock Me Baby, in omaggio al grande B.B. King Di nuovo Victor Wainwright in modalità boogie/rockabilly con gli 88 tasti in festa per una brillante Wine Spoo Dee O Dee e Woods che risponde da par suo con una vellutata Broke, prima di richiamare sul palco Billy Branch e Coco Montoya per un terzetto in onore di Boom Boom del grande Hook. E di nuovo un rilassato e divertito Popa Chubby alle prese con Wee Wee Hours, prima di lasciare microfono e proscenio al padrone di casa che accompagnato nuovamente da Dwayne Dopsie alla fisa si cimenta con uno dei classici assoluti del R&R come Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, dove le mani volano sulla tastiera.

Disco divertente e senza grandi pretese: a fine mese si replica con un nuovo capitolo dedicato a Buddy Miller e ai suoi amici. Lo trovate nei prossimi giorni nelle anticipazioni sulle uscite di gennaio, penso a partire da domani.

Bruno Conti

Il Primo Disco “Importante” del 2016…Ma Non E’ Per Tutti! – David Bowie – Blackstar

david bowie blackstar david bowie blackstar 2

David Bowie – Blackstar – ISO/RCA CD – LP – 08-01-2016

Quando poco meno di tre anni or sono David Bowie tornò a sorpresa dopo dieci anni di silenzio assoluto con l’album The Next Day http://discoclub.myblog.it/2013/03/12/ancora-tu-ma-non-dovevamo-vederci-piu-david-bowie-the-next-t/ , fece quello che non molto spesso ha fatto nella sua carriera, ovvero dare al suo pubblico esattamente ciò che si aspettava, cioè un disco di puro e classico Bowie-sound, mossa abbastanza comprensibile in quanto, dopo un periodo di assenza così prolungato, era vitale per lui affermare al mondo di essere ancora in perfetta forma ed in grado di intrattenere come, con alti e bassi, aveva sempre fatto.

Con Blackstar (che esce, altrettanto a sorpresa, l’8 di questo mese, in coincidenza del suo sessantanovesimo compleanno) il discorso è diverso, in quanto David, essendo tornato tra noi in tutto e per tutto (anche se di concerti non se ne parla), si sente in pieno diritto di fare la musica che vuole e con chi vuole. E, nel caso di Blackstar, in una maniera che non accontenterà proprio tutti. Le prime recensioni online, tutte ugualmente entusiastiche (ma ormai Bowie è entrato a far parte della categoria degli intoccabili), parlano di un disco sperimentale e modernista, senza strizzate d’occhio pop al grande pubblico: tutto vero, anche se il musicista inglese ci ha spesso abituato a mosse spiazzanti (la trilogia berlinese degli anni settanta, le distorsioni hard dei Tin Machine, l’hip-hop presente su alcuni brani di Black Tie, White Noise, per non parlare dei due famigerati dischi di musica industrial e drum’n’bass Outside e Earthling), ma siccome io sono come San Tommaso volevo sapere se, a monte di tutto, il disco è bello o no.

Beh, sicuramente strano lo è, ed in certi punti anche parecchio, ma devo dire che al primo ascolto, benché piuttosto ostico in molti momenti, non mi è dispiaciuto affatto, anche se confido in futuri ascolti per migliorare ulteriormente il giudizio: certamente Blackstar non è un disco per tutti (e forse nemmeno per tutti i fan di Bowie), non è musica da mettere in sottofondo o da ascoltare in macchina, ma è prodotto benissimo (da David col fedele Tony Visconti), suonato alla grande ed il tanto temuto modernismo è quasi sempre tenuto a bada e dosato con gusto e misura. L’album (che non ha versioni deluxe particolari, ma non si sa mai dato che The Next Day era uscito di nuovo dopo pochi mesi con un intero CD in più, per la gioia di chi se lo era comprato subito) vede la presenza, insieme a Bowie che suona la chitarra acustica, di una sezione ritmica composta da Tim Lefebvre al basso e Mark Guiliana alla batteria, e di vari musicisti di estrazione jazz, un genere dal quale David ha sempre amato essere contaminato (l’ottimo Donny McCaslin, grande protagonista del disco con il suo sassofono, Ben Monder alla chitarra, con uno stile decisamente à la Robert Fripp, Jason Lindner alle tastiere), oltre al tanto temuto (da me) James Murphy, ovvero il DJ dietro il progetto elettronico LCD Soundsystem, che per fortuna limita il suo intervento alle percussioni in un paio di pezzi.

Blackstar, solo sette canzoni, si apre con la lunga title track (quasi dieci minuti), una mini-suite preceduta in rete da un video che definire inquietante è dir poco: una partenza obliqua, con una melodia ipnotica, le tanto temute sonorità “moderne”, una ritmica complessa ed il sax che è l’unica cosa suonata in maniera normale, anche se il tutto non fa certo pensare ad un singolo radiofonico. Poi al quarto minuto l’atmosfera si fa tetra, il ritmo cessa, arriva un coro che sembra provenire dall’aldilà, mentre David intona un motivo quasi normale (almeno per i suoi standard), anche se le stranezze non mancano, ed un finale straniante in cui spunta anche un flauto (anch’esso suonato da McCaslin). Un brano tutto sommato affascinante, anche se di difficile assimilazione. ‘Tis A Pity She Was A Whore non è del tutto sconosciuta (era sul lato B del singolo Sue (Or In A Season Or Crime uscito nel 2014), anche se per Blackstar è stata reincisa da capo a piedi: inizia con una batteria secca ed un sax che sembra cercare l’accordo giusto, poi Bowie comincia a cantare una melodia tipica delle sue (cioè non convenzionale), il ritmo si fa pressante ed il brano, nonostante qualche voluta dissonanza, non risulta affatto spiacevole, anche se non è esattamente la canzone da mettere ad un appuntamento galante.

Lazarus è il singolo corrente in radio in questi giorni (* NDB. Ed è anche la title-track del nuovo musical di Broadway scritto da Bowie https://www.youtube.com/watch?v=B_3mEWx2e_8): introdotta da basso e batteria, è più lenta della precedente brano, l’uso dei fiati e la melodia abbastanza lineare la rendono la canzone più fruibile finora, anche se i riff quasi distorti di chitarra tendono volutamente a rompere gli equilibri. Molto bello l’assolo di sax ed il lungo finale strumentale (ripeto, piaccia o non piaccia il genere, qui ci sono dei musicisti con le contropalle). Ed ecco proprio Sue (Or In A Season Of Crime), anch’essa in versione diversa da quella apparsa sull’antologia Nothing Has Changed: quella di due anni fa mi piaceva poco, e anche se questa rilettura più elettrica e “rock” (termine da prendere con le molle in questo disco) migliora le cose, io continuo a considerarlo un brano minore; Girl Loves Me inizia come una filastrocca allucinata, con la ritmica sghemba ed un synth sullo sfondo, siamo di nuovo sul versante “strano”, ma se finora tutto è stato abbastanza coeso e con un’idea di progetto, questo mi sembra fra tutti il pezzo più fine a sé stesso. Dollar Days è invece una sorprendente ballata pianistica dall’andamento canonico, con un sax soffuso, la chitarra acustica che finalmente si sente e la voce che tesse una melodia decisamente classica (e pure riuscita), finalmente il Bowie meno ostico, che ci regala una boccata d’aria fresca; I Can’t Give Everything Away, che chiude l’album a 41 minuti, torna solo parzialmente alle atmosfere del resto del disco, nel senso che la base è moderna (pur senza esagerare), ma il motivo risulta abbastanza orecchiabile, seppur nei canoni bowiani.

Quindi un lavoro volutamente spiazzante, nel quale però Bowie non arriva a punte di modernismo esasperato stile Earthling: non mi sento comunque di consigliarlo a chiunque, anche se, come ho già detto, ripetuti ascolti potrebbero far aprire qualche porta in più.

Marco Verdi