L’Angolo Del Jazz. Parte Prima: Thelonious Monk – Palo Alto

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Thelonious Monk – Palo Alto – Impulse/Universal CD

Oggi inauguriamo una mini-rubrica di tre post che hanno in comune la trattazione di altrettanti album a sfondo jazz usciti di recente, due inerenti a concerti inediti del passato ed un disco in studio nuovo di zecca. Entro due mesi saremo chiamati ad esprimere le nostre preferenze musicali per questo strano 2020, e se esistesse una categoria “miglior album dal vivo che documenta un concerto storico del passato che si credeva perduto”, il CD di cui mi accingo a parlare potrebbe aspirare tranquillamente al primo posto (ma anche il prossimo di cui scriverò non scherza). Nel 1968 Thelonious Monk, uno dei più grandi ed influenti pianisti jazz di sempre, era ad un punto morto della carriera: ai ferri corti con la Columbia per la quale incideva all’epoca, Monk era pieno di debiti (pare anche con la stessa etichetta discografica) e doveva pure dei soldi alla temibile IRS per tasse arretrate non pagate. Da un’altra parte dell’America Danny Scher, studente alla Palo Alto High School in California e grande appassionato di jazz dall’età di dieci anni, avendo saputo che Monk aveva avuto un ingaggio di due settimane per esibirsi a San Francisco, decise di cogliere la palla al balzo e provare a realizzare il suo sogno: portare il grande musicista a suonare nella scuola da lui frequentata per un concerto benefico.

Erano altri tempi, e Scher (al quale non faceva difetto la tenacia) riuscì a mettersi in contatto con il manager di Monk, il quale convinse il suo assistito a prendere parte allo show anche per un ingaggio ridotto rispetto al solito, sfruttando sicuramente il bisogno di soldi da parte dell’artista. Un altro potenziale problema erano le grandi tensioni politiche e razziali presenti all’epoca in America, che avevano portato ai recenti omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy: la Palo Alto High School era un istituto antico ed esclusivo frequentato in maggioranza da studenti bianchi , e chiamare ad esibirsi un artista di colore non sembrava un’idea brillante dal punto di vista della sicurezza, ma per fortuna tutto si svolse nella più assoluta tranquillità. Così il pomeriggio del 27 ottobre del 1968 si scrisse una pagina di leggenda del jazz, con Monk che si esibì davanti ad un’aula magna gremitissima a capo di un formidabile quartetto che vedeva oltre a lui Charlie Rouse al sax tenore, Larry Gales al basso e Ben Riley alla batteria, un trio di musicisti che è stato anche quello con il quale Monk ha collaborato più a lungo in carriera. Nonostante qualche scetticismo sul suo stato di forma, Monk fornì una prestazione leggendaria, uno show incredibile di soli 47 minuti ma di un’intensità clamorosa, uno di quei rari momenti nei quali l’ispirazione sembra quasi potersi toccare con mano.

L’altro miracolo è il fatto che il concerto fosse stato registrato (pare dal custode della scuola, appassionato di tecnologia) e che sia sopravvissuto fino ad oggi, in più con una qualità di incisione da paura, che ritroviamo oggi in questo CD curato dallo stesso Scher ed intitolato appunto Palo Alto: in certi momenti vi sembrerà di avere il quartetto nel vostro salotto. Spesso Monk è stato accusato di essere troppo cerebrale e poco immediato, difficile non solo di carattere (pare che fosse uno che parlava pochissimo) ma anche per il suo improvvisare melodie complesse e dissonanti, ma qui a Palo Alto sembra quasi voler compiacere il pubblico offrendo una performance assolutamente godibile dalla prima all’ultima nota. Sei brani in tutto, che partono con Ruby, My Dear, una soffusa jazz ballad che inizialmente vede il nostro fare da sideman per Rouse, mentre la sezione ritmica accarezza in sottofondo: la sala è subito inondata da sonorità calde ed il pubblico ascolta in rigoroso silenzio. Al quarto minuto Monk si prende il centro della scena con una serie di fraseggi sublimi, fino a quando il sax riprende in mano il pezzo e lo porta fino allo scadere. Lo show entra subito nel vivo con i 13 fantastici minuti di Well, You Needn’t, un brano pimpante e ritmicamente ricco, durante il quale gli interventi strumentali si susseguono senza soluzione di continuità: il sax parte ancora da protagonista, basso e batteria non perdono un colpo (verso la fine c’è anche un lungo assolo di Gales con l’utilizzo dell’archetto) e Monk fa viaggiare le dita sulla tastiera alla sua maniera.

L’intesa del quartetto è superlativa ed il brano si ascolta tutto d’un fiato nonostante la lunghezza. Don’t Blame Me è uno standard degli anni 30 reso popolare nel 1948 da Nat King Cole, un lento raffinatissimo che vede il nostro esibirsi in totale solitudine, una performance formidabile che potrebbe scoraggiare chiunque volesse imparare a suonare il piano. E veniamo al momento centrale dello spettacolo, cioè una eccezionale ripresa del classico Blue Monk, una delle signature songs del nostro, 14 minuti strepitosi e fruibili al tempo stesso, in cui i quattro improvvisano alla grande senza però mai perdere il filo della melodia: da applausi la prestazione di Rouse, grande protagonista della serata quasi alla pari del suo leader. Da qui in poi il concerto è in discesa: ascoltiamo ancora una vibrante Epistrophy, il cui il piedino del sottoscritto si muove autonomamente, ed una soave I Love You Sweetheart Of All My Dreams, appena due minuti ancora per piano solo, suonato in punta di dita. Un concerto assolutamente imperdibile quindi, anche se siete tra quelli che comprano un disco di jazz all’anno.

Marco Verdi

Lassù Qualcuno Lo Ama! Ronnie Wood – Somebody Up There Likes Me

ronnie wood somebody up there likes me

Ronnie Wood – Somebody Up There Likes Me – Eagle Vision/Universal DVD – Blu-Ray

Lassù Qualcuno Mi Ama era un grande film del 1956, vincitore di 3 premi Oscar, regia di Robert Wise, con Paul Newman nei panni di Rocky Graziano. Ma è quanto esclamò anche Ronnie Wood in una conversazione che appare nel film: “Quando mi hanno operato il cancro, mi hanno tolto l’enfisema. Hanno detto che i miei polmoni erano come se non avessi mai fumato. Ho pensato che fosse un jolly piovuto dal cielo: lassù qualcuno mi ama, e anche qualcuno quaggiù”. A parte che spesso è difficile capire il suo cockney stretto da londinese purosangue, senza sottotitoli, il docufilm è estremamente interessante. Regia di Mike Figgis, anche lui inglese, candidato all’Oscar per Via Da Las Vegas, la presentazione del DVD recita: un film che ripercorre 50 anni di un tour non solo musicale, una storia onesta e R&R, poi a ben vedere, gli anni, almeno nel percorso musica, sono ben più di 50, visto che già nel 1964 Wood era nei Birds, a fine ‘67 entra nel Jeff Beck Group come bassista, poi dopo due anni, con l’amico Rod Stewart, a seguito della dissoluzione degli Small Faces, torna alla chitarra e fonda i Faces, con i quali rimarrà fin quasi al 1975, anno nel quale entra negli Stones, sodalizio che prosegue a tutt’oggi.

Nel documentario c’è tutto questo, come pure la sua passione per disegno e pittura, i suoi lunghi anni tra droga e alcol, l’amore per il blues e il Rock’n’Roll, soprattutto per le 12 battute, estrinsecato anche da diversi di interventi di Ronnie impegnato a chitarra ed armonica. In sequenza anche interviste inedite realizzate per l’occasione con la sua collega Imelda May, la moglie Sally Wood, i suoi “soci” Mick Jagger, Keith Richards e Charlie Watts, oltre al vecchio amico Rod Stewart. Ricordi della storia della sua famiglia, raccolti dal regista, intervallati da brani musicali, per esempio la sua band alle prese con una sanguigna In The Wee Wee Hours cantata dalla May, con grande lavoro della solista di Ron, ovviamente anche il suo amore per l’arte riceve un giusto spazio, con una intervista, diciamo più un colloquio a due voci con l’amico artista Damien Hirst, dove si parla anche degli Stones, in b/n d’epoca e pure di problemi di rehab. Un breve vecchio filmato a colori dei Birds nel 1964 alle prese con That’s All I Need You For, con Wood che dimostra già 40 anni, scherzo, un altro b/n del Jeff Beck Group in Plynth, con Rod che ricorda quando lui e Woody aprirono al Fillmore peri Grateful Dead.

C’è anche una intervista di Malcolm McLaren con il manager Peter Grant dei “nemici” del punk, i Led Zeppelin, che parla anche di Gene Vincent, e cerca di introdurre l’argomento dei risvolti gangsteristici dei vecchi manager di quell’epoca. Non manca una bella ed intima performance di “Breathe On Me” dal suo album solista del 1975 New Look e un filmato del 1971 dei grandi Faces con Stay With Me, la rivalità con Keith di quel periodo, e qui appare Richards, mentre scorrono altre immagini dei Faces e un grande filmato di Ronnie impegnato alla lap steel con bottleneck, mentre arriva sulla scena anche Mick Jagger e a questo punto non manca un filmatino degli Stones alle prese con When The Whip Comes Down… Comunque non ve lo racconto tutto, se volete l’8 ottobre sono usciti sia il DVD che il Blu-Ray e ve lo comprate, perché c’è anche altro, soprattutto negli extra di DVD e Blu-Ray, che però non ho visto neppure io. Avviso per i naviganti, niente sottotitoli in italiano: portoghese, olandese e spagnolo, ma nulla per noi.

Comunque rimane un gran bel documentario.

Bruno Conti

Non E’ Un Bel Momento Per I Musicisti Texani: Dopo Jerry Jeff Walker Se Ne E’ Andato Anche Billy Joe Shaver.

billy joe shaver

Per la serie “se fossi Willie Nelson o Kris Kristofferson inizierei a fare gli scongiuri”, a soli cinque giorni dalla scomparsa di Jerry Jeff Walker https://discoclub.myblog.it/2020/10/25/purtroppo-e-arrivato-quel-tempo-da-venerdi-scorso-il-texas-e-un-po-piu-povero-a-78-anni-se-ne-e-andato-mr-bojangles-jerry-jeff-walker/ , tra i più validi esponenti del country texano d’autore pur essendo newyorkese d’origine, se ne è andato a causa di un ictus anche il grande Billy Joe Shaver, lui sì texano purosangue essendo nato a Corsicana 81 anni fa. Associato spesso al movimento Outlaw Country, Shaver è stato tra gli esponenti più autorevoli ed influenti della musica texana degli anni settanta, autore di grandissime canzoni che sono diventate veri e propri evergreen del genere, titoli come You Asked Me To, Honky Tonk Heroes, I’m Just An Old Chunk Of Coal, Black Rose (strepitosa, tra le più belle country songs di sempre), Old Five And Dimers Like Me, Willy The Wandering Gypsy And Me, I Been To Georgia On A Fast Train, Ride Me Down Easy, fino alla più recente Live Forever.

Allevato dalla madre in quanto il padre se ne andrà di casa prima della sua nascita, il giovane Billy svolge diversi lavori (tra i quali il mugnaio, occupazione che gli causa la perdita di due dita a causa di un incidente ma non gli impedirà di imparare a suonare la chitarra) prima di trovare la sua vena artistica in campo musicale: viaggiando in autostop per gli Stati Uniti arriva fino a Nashville, dove all’inizio degli anni 70 trova lavoro come songwriter a 50 dollari a settimana. La svolta arriva quando viene notato da un già famoso Waylon Jennings che, rimasto colpito dalla qualità delle sue canzoni, ne incide otto scrivendone una nona con lui (la già citata You Asked Me To) e pubblicandole tutte sul suo album del 1973 Honky Tonk Heroes, una cosa mai vista prima che inizia a far circolare il nome di Billy Joe all’interno dell’ambiente facendogli guadagnare anche un contratto discografico con la Monument per il suo esordio Old Five And Dimers Like Me. In poco tempo Shaver diventa uno dei nomi principali del cantautorato country di quegli anni, grazie sia alle sue esibizioni dal vivo, sia per il fatto che molti suoi brani vengono registrati da colleghi del calibro di Nelson, Kristofferson, David Allan Coe, George Jones ed addirittura Elvis Presley (ancora You Aksed Me To), mentre Johnny Cash una volta arriverà a definirlo il suo cantautore preferito.

Negli anni seguenti al suo esordio non inciderà moltissimo, mantenendo però una qualità media molto alta: due soli album per la Capricorn nei seventies, entrambi ottimi (When I Get My Wings e Gypsy Boy), e tre per la Columbia negli anni 80, gli splendidi I’m Just An Old Chunk Of Coal e Salt Of The Earth ed il discreto Billy Joe Shaver. Poi dagli anni novanta il nostro ritrova la vena e comincia ad incidere con buona cadenza e con risultati eccellenti, mischiando il suo solito country texano ad abbondanti dosi di rock, grazie anche all’apporto del talentuoso figlio Eddy Shaver alla chitarra elettrica: Tramp On Your Street del 1993 e Highway Of Life del 1996 sono tra i suoi dischi più belli, ma non sono di molto inferiori neppure i seguenti Victory e Electric Shaver; in mezzo, un live album formidabile (Unshaven: Live At Smith’s Olde Bar, 1995), in cui il country è quasi messo da parte a favore di un rock’n’roll decisamente elettrico e trascinante. Ma le tragedie familiari sono dietro l’angolo: nel 1999 scompaiono per cancro sia la madre di Billy Joe che la moglie Brenda (che il nostro aveva sposato per ben tre volte!), ed il 31 dicembre del 2000 se ne va per overdose di eroina a soli 38 anni anche Eddy.

Billy rimane comprensibilmente devastato (subisce anche un’operazione al cuore nel 2001 per un infarto occorsogli on stage che quasi lo uccide), ma essendo un texano dal pelo duro non si dà per vinto e continua a fare musica di alto livello, pubblicando ottimi album come Freedom’s Child, Try And Try Again, Billy And The Kid (in cui recupera incisioni inedite fatte con Eddy) ed il gospel-oriented Everybody’s Brother del 2007, anno in cui il nostro ha anche problemi con la giustizia per uno scontro a fuoco avvenuto in un bar di Lorena, Texas, durante il quale Billy spara in faccia ad un tizio (che ne uscirà miracolosamente ferito non gravemente) invocando poi la legittima difesa, che gli verrà riconosciuta al processo avvenuto nel 2010 (anche se la frase che Billy viene udito pronunciare prima di sparare, “Dove vuoi che ti colpisca?”, lascia qualche dubbio in merito). I continui problemi di salute che affliggeranno Shaver negli anni a venire gli consentiranno di pubblicare solo più un album, il peraltro bellissimo Long In The Tooth del 2014: ed è proprio con la prima canzone di quel disco, un duetto con Willie Nelson dal titolo emblematico di Hard To Be An Outlaw, che vorrei ricordarlo.

Riposa in pace, vecchio Honky Tonk Hero.

Marco Verdi

Rock Alternativo Tra Rabbia E Dolore. Sophia – Holding On / Letting Go

sophia holding on letting go

Sophia – Holding On / Letting Go – Flower Shop Recordings – CD – LP

Chi conosce i Sophia sa benissimo che l’unica costante di questo piccolo grande collettivo è Robin Proper-Sheppard, la mente, nonché cantante, autore dei brani e polistrumentista, e quindi tutto l’insieme è fortemente dipendente dagli stati d’animo fluttuanti dello stesso, peraltro fin dalla fondazione della band nel lontano ’95. In questo specifico caso l’uscita di Holding On / Letting Go era originariamente prevista per il giorno 24 Aprile, poi per la ben nota pandemia era stata rinviata al 21 Agosto, per poi slittare ulteriormente e vedere la luce finalmente a fine Settembre, con buona pace di tutti gli operatori del settore musicale. La formazione del gruppo è quella completamente rinnovata dopo l’ultimo album di studio As We Wake Our Way (16) seguito due anni dopo da https://discoclub.myblog.it/2018/05/25/perle-di-una-carriera-di-culto-risuonate-dal-vivo-sophia-as-we-make-our-way-the-live-recordings/  , quindi una line-up composta ora oltre da Robin, che suona come detto di tutto e da Jeff Townsin alla batteria, con l’innesto di tre validi musicisti come Sander Verstraete al basso, Jesse Maes alle chitarre, Bert Vliegen alle tastiere, e tra gli ospiti il sassofonista Terry Edwards (giro Nick Cave e Tom Waits), Renato Marquez al violino e Neil Leiter alla viola, che comunque nello sviluppo delle dieci canzoni (tutte composte da Proper-Sheppard) si presentano coma una vera e propria band, una situazione che era dai tempi lontani dell’esordio di Fixed Water (96) che non si riproponeva.

Il brano d’apertura Strange Attractor a una classica ed epica introduzione in stile Sophia, a base di synth e chitarre assordanti, su un tessuto sonoro in crescendo per una sorta di moderna “new wave”, seguita da una melodica Undone, Again, una vera e propria dichiarazione d’amore di Robin per la sua nuova fiamma, la cantautrice scozzese Astrid Williamson (si sono conosciuti nei vari tour dei Sophia), e il pop dolce e accattivante di Wait. Con la deliziosa Alive si tocca il punto più alto del disco, una canzone emozionante, bella e commovente, che mostra ancora una volta il modo geniale e unico di Robin Proper-Sheppard di scrivere grandi canzoni, nel caso specifico con il contributo del leggendario Terry Edwards al sax (sicuramente uno dei punti più alti del loro songbook fino ad oggi), per poi passare alle atmosfere notturne di Gathering The Pieces e Avalon, mentre Days è un brano accattivante, esempio perfetto e intrigante di “indie-pop”. La parte finale inizia con la tambureggiante Road Song, brano dai sapori antichi che per certi versi rimanda ai mai dimenticati Talking Heads, per poi passare al rock selvaggio che sfiora l’hard-rock di We See You (Taking Aim) https://www.youtube.com/watch?v=GrKHM4j0Ye4,  e per terminare un lavoro decisamente ispirato ecco i suoni dolcemente “progressivi” della strumentale Prog Rock Arp (I Know), dove ci mette di nuovo lo zampino (questa volta al flauto traverso) Terry Edwards.

Robin Proper-Sheppard è sempre stato un nomade della musica, partito dalla sua città natale di San Diego, comprando un biglietto di solo andata per New York (dove fondò i God Machine), si è poi trasferito a Londra per incidere due album da solista e terminare questa parte della sua vicenda musicale alla morte del suo amico e chitarrista Jimmy Fernandez per un’emorragia celebrale. Sulla scia di questa tragedia e con anni non certo facili, Robin in seguito fonda una propria etichetta discografica la Flower Shop Recordings, da lì iniziando il progetto collettivo dei Sophia, per poi approdare a Bruxelles e da da alcuni anni a Berlino nella sua casa-studio di Kreuzberg dove ha preso forma anche questo ultimo lavoro che forse porta a termine, per ora, il suo “personale” giro del mondo. Con questo Holding On / Letting Go Robin Proper-Sheppard e i suoi Sophia si collocano in uno spazio nuovo, tra suoni di synth anni ’80, ai confini tra indie-rock, new wave e post-punk, però senza tralasciare come al solito le sue ballate prevalentemente acustiche e intimiste, inserite nel contesto di una rock-band, dove da sempre è anche artefice di un approccio poetico all’interno della propria musica, quindi con il coraggio di mostrare un lato più intimo, riflessivo e dolente. Per il sottoscritto ancora una volta i Sophia sono stati all’altezza delle aspettative, per chi invece non li conoscesse e volesse approfondire, potrebbero essere una lieta sorpresa.

Tino Montanari

Un Live Di Importanza Storica Ed Un Altro “Solo” Strepitoso! The Allman Brothers Band – The Final Note/Warner Theatre, Erie, Pa 7-19-05

allman brothers band the final note

The Allman Brothers Band – The Final Note – ABB Recording Company CD

The Allman Brothers Band – Warner Theatre, Erie, PA 7-19-05 – Peach Records 2CD

Il bellissimo cofanetto uscito a inizio anno dal titolo Trouble No More, atto a celebrare la fantastica epopea della Allman Brothers Band, era quasi più un’operazione per neofiti che per fans, dal momento che su 61 pezzi totali gli inediti erano appena sette (*NDB Perà circa 90 minuti di musica) https://discoclub.myblog.it/2020/03/12/il-tipico-cofanetto-da-isola-deserta-the-allman-brothers-band-trouble-no-more/ . La doppia uscita di cui mi accingo a parlare è invece chiaramente indirizzata agli estimatori dello storico gruppo di Macon: trattasi infatti di due album live inediti provenienti dagli archivi della band e realizzati dalle loro etichette personali (la seconda incentrata sul materiale del periodo 2003-2014 gestito dalla Peach Records), due pubblicazioni diverse sia nei contenuti che nella data di registrazione ma decisamente interessanti, seppur per motivi differenti.

Il primo CD, singolo, si intitola The Final Note e, come lascia intuire la copertina che raffigura il grande Duane Allman, appartiene al periodo d’oro del gruppo: si tratta infatti di parte di un concerto (otto canzoni) che i nostri tennero il 17 ottobre del 1971 ad Owing Mills, nel Maryland, uno show a modo suo storico per un triste motivo: si tratta infatti dell’ultimo spettacolo della ABB con Duane nella lineup, dato che dopo soli 12 giorni il chitarrista morirà tragicamente nel famoso incidente motociclistico a soli 24 anni. La storia di come è avvenuta la pubblicazione di questo concerto è piuttosto curiosa, dal momento che per decenni si pensava che non esistesse alcuna testimonianza sonora: tutto nacque grazie all’iniziativa di tale Sam Idas, uno studente che nel 1971 aveva 18 anni e che per arrotondare lavorava part-time in una radio indipendente dell’area di Baltimora. Sam era un fan del gruppo, ed in occasione della serata del 17 ottobre ad Owing Mills era stato incaricato addirittura di intervistare Gregg Allman, il quale si era gentilmente concesso per un breve scambio di battute: siccome l’intervista sarebbe avvenuta dopo il concerto, Idas aveva pensato bene di usare il suo registratore portatile per registrare parte dello show, stando però attento a non occupare tutto lo spazio dato che il nastro durava solo 60 minuti.

Ebbene, quella cassetta è miracolosamente sopravvissuta fino ad oggi, ed i tecnici del suono alle dipendenze della ABB Recording Company sono stati incaricati di ripulire il tutto e rimasterizzarlo al fine di tirare fuori un CD che fosse commerciabile. A questo punto la leggenda deve però far spazio alla cronaca, e devo quindi affermare che, nonostante The Final Note sia indubbiamente un documento eccezionale dal punto di vista storico, la sua resa sonora è ai limiti dell’accettabilità. Infatti, siccome i miracoli non li fa nessuno, il dischetto paga la precarietà della registrazione originale e nonostante l’indiscutibile lavoro certosino che è stato fatto presenta un suono fangoso e poco limpido tipico dei bootleg, e neppure di buona qualità. E’ un peccato, in quanto la performance è tosta e solidissima, con un set tipico dell’epoca e la ABB (al gran completo e con l’aggiunta di Juicy Carter al sax in tre pezzi) che è la solita macchina da guerra. Il CD si apre in maniera potente con Statesboro Blues (con Idas che all’inizio ripete insistentemente “testing, testing”, il nostro “prova, prova”), con il suono che va e viene ed una superba prestazione chitarristica di Duane e Dickey Betts che purtroppo si intuisce soltanto.

Il sound non migliora molto strada facendo, ed è un peccato perché la serata è di quelle giuste: diciamo che l’orecchio dopo un po’ si abitua e così possiamo “ascoltare” una diretta e ficcante Trouble No More seguita da due lucide e sanguigne riletture di Don’t Keep Me Wondering e Done Somebody Wrong, in cui si capisce comunque che i nostri erano in forma nonostante la stanchezza di fine tour, con la voce di Gregg che si staglia sopra il sound piuttosto confuso (ma chi conosce bene il gruppo saprà in ogni caso cogliere le sfumature). Dopo una breve One Way Out abbiamo una sempre calda e sinuosa In Memory Of Elizabeth Reed che però è incompleta e si interrompe dopo sei minuti, ma il finale rimette le cose a posto grazie alle formidabili Hot’Lanta e Whipping Post, venti minuti totali che chiudono il CD, se non dal punto di vista del suono almeno da quello della performance, alla grande.

allman brothers band warner theatre erie 7-19-05

Facciamo invece un salto in avanti di 34 anni per parlare di Warner Theatre, Erie, PA 7-19-05, un doppio CD che documenta uno spettacolo che stavolta non ha risvolti tragici, ma che semplicemente, almeno a detta dei fans, è stata una delle migliori esibizioni del nuovo millennio da parte della band al punto da essere stato ribattezzato “the best show you never heard”. Rispetto al concerto di The Final Note troviamo ancora saldamente al loro posto Gregg Allman (ovviamente) ed i batteristi Butch Trucks e Jaimoe, ai quali si è aggiunto dal 1991 il percussionista Marc Quinones, mentre al basso il posto di Berry Oakley (che nel 1972 ha subito lo stesso destino di Duane) è stato preso da Oteil Burbridge ed i due chitarristi sono Derek Trucks e Warren Haynes, il quale si divide con Gregg anche le parti da lead vocalist. Personalmente non ho mai collezionato bootleg o instant live della ABB, ma se i fans dicono che questa è stata una delle migliori serate del periodo non sarò certo io a smentirli: quello che so è che dopo avere ascoltato fino in fondo questo doppio CD sono rimasto letteralmente tramortito sul divano, dato che mi sono trovato di fronte ad un concerto di livello altissimo e di notevole potenza, due ore e mezza di grandissimo rock sudista come solo Gregg e soci sapevano fare, con la sezione ritmica che non ha mai perso un colpo, le due chitarre che si sono rincorse senza stancarsi per tutta la durata dello show ed il suono caldo dell’organo di Allman (ottimo anche al piano) che ha completato il suono insieme al suo vocione, il tutto con una qualità di registrazione stavolta davvero perfetta e professionale.

Un disco che se fosse uscito nel 2005 sarebbe probabilmente stato eletto da molti come live dell’anno. Che non è un concerto “normale” si capisce sin dal fatto che inizi subito con una superlativa Mountain Jam di quasi 22 minuti (divisi in due, 12 prima ed altri 9 e mezzo sette canzoni dopo): partenza quasi attendista, poi il ritmo prende il sopravvento ed i due chitarristi suonano prima all’unisono e poi alternandosi con una serie di assoli strepitosi, un avvio che fa capire immediatamente che tipo di serata sarà. Rispetto allo show di The Final Note ci sono quattro brani in comune (Statesboro Blues, Trouble No More, Don’t Keep Me Womdering e la conclusiva One Way Out), tutte in trascinanti versioni che non fanno certo rimpiangere quelle del ’71, anzi, forse One Way Out è pure meglio. All’epoca i nostri stavano ancora promuovendo il loro ultimo album di studio Hittin’ The Note del 2003, e da quel disco possiamo ascoltare il solido e cadenzato rock-blues Firing Line e soprattutto l’ottima High Cost Of Low Living, una calda e fluida ballata di nove minuti degna dei loro momenti migliori. Tra gli altri classici abbiamo una straordinaria rilettura di 12 minuti dell’evergreen di Sonny Boy Williamson Good Morning Little Schoolgirl, con Warren e Derek letteralmente trasfigurati e la band che li segue come un treno lanciato, la grintosa e raramente suonata Leave My Blues At Home (con in mezzo un lungo assolo di batteria, forse troppo lungo – 16 minuti – intitolato Jabuma, dalle iniziali dei nomi dei tre percussionisti Jaimoe, Butch e Marc), e tre pezzi da novanta, tre ballate fantastiche come Melissa, Dreams e Jessica (unica concessione ai brani scritti da Betts, tra l’altro in una versione semplicemente fenomenale di un quarto d’ora abbondante, tra le più belle mai sentite), che rappresentano la quintessenza del suono Allman.

Una particolarità dei concerti della ABB negli anni duemila era infine l’introduzione in scaletta di cover diciamo “mainstream”, ovvero non strettamente legate alle influenze blues di Gregg e compagni: in questo doppio possiamo ascoltare, suonate alla loro maniera (quindi alla grande) tre capolavori come The Night They Drove Old Dixie Down di The Band, Into The Mystic di Van Morrison ed una stupenda e decisamente soulful Don’t Think Twice It’s All Right di Bob Dylan, affidata alla voce (e chitarra) dell’ospite d’onore Susan Tedeschi, all’epoca già sposata con Derek Trucks. Una doppia uscita da non ignorare quindi: diciamo che se non siete fans accaniti della Allman Brothers Band potete anche bypassare The Final Note a causa del suono un po’ deficitario, ma con Warner Theatre, Erie, 7-19-05 c’è da godere come ricci.

Marco Verdi

Da Cat Stevens A Yusuf E Ritorno, Parte II

cat stevens carly simonyusuf 1979

Seconda Parte.

Tra il 1971 e il 1972 ha una relazione con Carly Simon, che poi opterà per James Taylor, e quindi per consolarsi decide di registrare il suo settimo album

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Catch Bull At Four – 1972 Island/A&M****

Ormai Cat Stevens è una superstar mondiale, ma la qualità dei suoi dischi rimane elevatissima, e quindi prosegue il filotto con un altro disco molto bello, per quanto leggermente inferiore ai due che lo hanno preceduto, arrivando al 1° posto delle classifiche americane, con più di un milione di copie vendute. Squadra vincente non si cambia: solo qualche piccolo ritocco, Jean Russell entra in pianta stabile alle tastiere, come Gerry Conway alla batteria, nuovo bassista Alan James, rimangono il produttore Paul Samwell-Smith, mai citato abbastanza come grande alchimista del suono del nostro, stesso discorso per Alun Davies e per l’arrangiatore Del Newman. Magari non tutte le canzoni sono bellissime, ma alcune sono veramente splendide e tra le mie preferite assolute di Stevens: la dichiarazione di intenti di Sitting, con un sound esplosivo che coniuga lo stile abituale al rock, grazie all’uso delle tastiere di Russell e della batteria di Conway, con lo stesso Cat che nel disco suona una decina di strumenti, chitarre elettriche incluse.

La magnifica Boy with a Moon & Star on His Head, che forse non ha un ritornello vincente come Morning Has Broken, ma una costruzione sonora avvincente di stampo folk, con le consuete improvvise e tipiche esplosioni della sua musica. Angelsea, con un intrigante synth suonato dallo stesso Stevens, ha un andamento incalzante e un suono più moderno, con Conway che impazza alla batteria, e i preziosi coretti di Linda Lewis, con il tutto che non manca del consueto fascino. Silent Sunlight è una seducente ballata pianistica cantata in falsetto, anche se è leggermente inferiore a quanto ascoltato fin qui, Can’t Keep It In, nella consueta alternanza, è un brano più mosso e brillante, quasi impaziente nella sua esuberanza ed impazienza, sostenuto da un mirabile arrangiamento corale, dove brilla tutta la band, seguita da un’altra ballata come 18th Avenue (Kansas City Nightmare), dove piano e tastiere rimpiazzano le consuete chitarre acustiche, e con una bella parte centrale strumentale.

Anche Freezing Steel non soddisfa del tutto, anticipando una certa modernità di suoni che si farà più evidente nei dischi successivi, ma nella successiva O Caritas ci si lancia di nuovo nella musica popolare greca, addirittura cantata in latino, con il ritorno del bouzouki di Andreas Toumazis e la chitarra classica di Jeremy Taylor a dettare i tempi, mentre un coro sottolinea l’arrangiamento affascinante, forse un filo pomposo. Sweet Scarlet è un’altra buona ma non memorabile ballata pianistica, lasciando alla conclusiva Ruins il compito di alzare la qualità complessiva dell’album, un ennesimo esempio della maestria di Stevens nel maneggiare le situazioni elettroacustiche.

Anche per questo album è stata annunciata una versione Deluxe che al momento non conosco. Nel 1973 si trasferisce a Rio De Janeiro, anche lui per sfuggire alle tasse inglesi, benché poi donerà il denaro risparmiato all’Unesco: però a questo punto inizia anche il suo lento declino, con dischi che vendono sempre piuttosto bene, anche se le critiche non sono più costanti e benevole, ma i fans rimangono comunque fedeli, e negli album ci sono comunque motivi di interesse, non a caso per il disco successivo, registrato tra Kingston, Giamaica e New York, il nostro amico si separa da Samwell-Smith per incidere

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Foreigner – 1973 Island/A&M ***

Il problema è che lo fa in un album dove il suono è principalmente basato sulle tastiere, via Alun Davies, dentro vari sessionmen e il suono si fa turgido e “carico”, forse vicino a certo rock progressivo che imperava all’epoca, e fin qui nulla di male, anch’io apprezzo il genere quando è fatto bene, ma come dice un detto lombardo Ofelè fa el to mesté”, ovvero “Pasticciere, fai il tuo mestiere”: mi sono riascoltato il CD dopo anni che non lo facevo e devo dire che continua a non piacermi, intendiamoci non è un brutto album, suonato benissimo, la voce è sempre affascinante, ma la musica meno, la lunga Foreigner Suite, 18 minuti che occupavano la prima facciata del vinile, ha i suoi momenti, ma se devo ascoltare questo tipo di musica, preferisco gli Yes, gli Utopia, i King Crimson e via andare.

Le quattro canzoni brevi mi piacciono anche meno, pur se la tra le coriste impiegate c’è la bravissima Patti Austin e non disdegno certo funky-rock e blue eyed soul, ma forse non fatto da Cat Stevens, magari sbaglio io, comunque tre stellette di stima. Per il successivo album, dopo essere stato uno “Straniero”, in esilio per motivi fiscali, Stevens torna a Londra per registrare, e richiama Paul Samwell-Smith, Alun Davies, Gerry Conway, Jean Roussel, e il risultato è

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Buddha And The Chocolate Box – 1974 Island/A&M ***

Disco che torna in parte alle vecchie sonorità, anche se c’è l’impiego esagerato di decine di backing vocalist di supporto e l’orchestra è molto presente, e la qualità delle canzoni non è la stessa del passato, c’è una maggiore spiritualità ma il sound è fin troppo turgido e tronfio a tratti, prendete l’iniziale Bad Penny, ma anche la successiva, comunque piacevole Ghost Town, che tra armonica, piano, le solite chitarre e la batteria di Conway pare comunque una canzoncina; forse salverei la spirituale Jesus, la conclusiva brillante Sun C-79 e soprattutto Oh Very Young, un ritorno agli splendori del passato, che non dico valga da sola tutto l’album, ma quasi, con un ritornello e una melodia deliziose.

Ma è un fuoco di paglia, perché per il successivo album Stevens parte per il Canada per inciderlo e, come contenuti per una galassia di nome Polygor per realizzare un concept-album, ovvero

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Numbers – 1975 Island/A&M ***

Di cui, anche se ci suonano gli stessi fedeli musicisti del precedente, mi chiedete se mi ricordo una canzone, la risposta è no: però, per dovere di cronaca, sono andato a riascoltarlo, e almeno un paio di canzoni, forse non mi sono dispiaciute, Novim’s Nightmare e Jzero, quindi mezza stelletta in più, è pur sempre Cat Stevens.

Interludio 1

CatStevensGreatestHits

Però nello stesso anno esce anche il fantastico Greatest Hits – 1975 Island/A&M *****, quattro “zilioni” di copie vendute nel mondo e di cui ricordo ancora il numero di catalogo del disco ILPS 9310. Nel 1974 era uscito, solo per il mercato giapponese, dove il disco era stato registrato a Tokyo, l’eccellente Saturnight – 1974 A&M Japan ****, anche questo non lo ascoltavo da anni, ma devo dire che è veramente bello, con la chicca della cover di Another Saturday Night di Sam Cooke, poi inserita nel Greatest Hits.

Nel 1976 il nostro amico fa un tour mondiale e nelle date americane viene registrato un altro disco dal vivo Majikat2004 Eagle ***1/2, che però verrà pubblicato solo circa 40 anni dopo. Dopo la parentesi concertistica Cat Stevens decide di incidere un nuovo disco, registrato in giro per il mondo tra settembre del 1976 e marzo del 1977, con la partecipazione di una miriade di musicisti, e il risultato è

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Izitso – 1977 Island/A&M ***

Peggio di Numbers non si poteva fare, ma non è che questo disco rimarrà negli annali della musica: tra sintetizzatori a go-go e un suono tra rock elettronico e synthpop, nel disco si salvano il blue eyed soul del duetto con Elkie Brooks (Remember the Days of the) Old Schoolyard e l’autobiografica (I Never Wanted) To Be a Star, tre stellette, ma solo di stima. Alla fine dell’album prende una decisione che stava meditando da tempo e decide di convertirsi all’Islam e nel luglio del 1978 Steven Georgiou cambia il suo nome in Yusuf Islam, ma prima pubblica ancora un album come Cat Stevens, che esce a dicembre del 1978

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Back To Earth – 1978 Island/A&M ***

Di cui in questo periodo, estate 2020, dopo una lunga e travagliata vicenda è stato pubblicato un cofanetto commemorativo su etichetta BMG Rights Management, di cui in altra parte potete leggere la recensione dell’amico Marco Verdi e che quindi trovate qui https://discoclub.myblog.it/2020/08/08/e-finalmente-uscito-il-cofanetto-piu-rimandato-della-storia-cat-stevens-back-to-earth-super-deluxe-edition/

Inteludio 2 1979-2020 Da Cat Stevens a Yusuf/Cat Stevens

Discograficamente salterei la produzione religiosa e anche le canzoni per bambini, perché sinceramte non ho mai sentito i dischi. Del periodo ricorderei alcune infelici dichiarazioni su Salman Rushdie, poi riabilitate, in seguito all’attacco alle Torri Gemelle del 2001, in cui apparve al Concert For New York City, condannando il tragico evento e cantando accapella dal vivo, per la prima volta dopo oltre venti anni, la sua Peace Train. Nel 2004 gli viene negato il visto per entrare negli Stati Uniti, dove però torna nel 2006 per alcuni eventi radiofonici e nello stesso anno, a marzo registra il suo primo album dopo la lunga pausa e il dodicesimo della carriera.

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Yusuf – An Other Cup – 2006 Polydor/Atlantic*** un album discreto, dove si apprezza la sua voce, rimasta sempre uguale, in una serie di canzoni estremamente piacevoli; disco replicato tre anni dopo con Roadsinger – 2009 Island/A&M ***1/2 una sorta di ritorno alle sonorità migliori del passato, cosa che gli vale una mezza stelletta in più, tra i brani spicca Everytime I Dream, canzone in cui rievoca i fatti della vicenda di Rushdie.

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Nel 2007 era uscito in DVD anche Yusuf’s Cafe Session ***1/2 dove appare alle prese con un misto ci canzoni nuove e classici del passato, e nel 2010 Roadsinger Live In Australia. Come Yusuf/Cat Stevens pubblica Tell ‘Em I’m Gone – 2014 Legacy Recordings***, un discreto disco prodotto da Rick Rubin, con parecchie cover, e infine

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The Laughing Apple – 2017 Decca ***1/2, probabilmente il miglior disco dopo il ritorno, non a caso co-prodotto da Cat Stevens (mi è scappato) con Paul Samwell-Smith (e la presenza di Alun Davies), anche con alcune nuove versioni di canzoni apparse su New Masters il disco del 1967.

Per chiudere il cerchio, sempre con Samwell-Smith e Davies, in questi giorni esce la già ricordata nuova versione per il 50° Anniversario di Tea For The Tillerman2.. Per ora è tutto, ma non si esclude un To Be Continued…proprio con l’Appendice che vi poporrò a breve con i due cofanetti per i 50 anni di Mona Bone Jakon e Tea For The Tillerman.

Bruno Conti

Da Cat Stevens A Yusuf E Ritorno, Parte I.

cat stevens 1970

Anzi a volere essere ancora più precisi: da Steven Demetre Georgiou a Cat Stevens fino al 1978, poi dopo la sua conversione alla religione musulmana, prima Yusuf Islam, e poi in una concessione al suo passato Yusuf/Cat Stevens. Per me, ad essere sinceri, rimarrà sempre Cat Stevens, almeno a livello musicale: quel ragazzo di origine greco-cipriota che nella Swingin’ London degli anni ‘60 inizia una carriera (e proprio a voler essere addirittura pignoli, quando inizia ad esibirsi nel 1965, sceglie il nome d’arte Steve Adams). E già in quell’anno deposita il suo primo demo come autore, ovvero The First Cut Is The Deepest. Nel contempo, diventato Cat Stevens, inizia ad esibirsi nei pub e nelle coffee houses: e sviluppa anche questa passione, magari un po’ interessata per l’uso di nomignoli e poi titoli di canzoni, e infine dischi, che hanno a che fare con gli animali. Viene notato a 18 anni, nel 1966, dal manager Mike Hurst (ex degli Springfields, il gruppo della sorella Dusty), che gli fa avere un contratto la Deram, sussidiaria della Decca, che all’inizio aveva rifiutato i Beatles, ma poi non poteva continuare così, prima i Rolling Stones, e poi altri talenti del nascente panorama pop (e rock) britannico firmano con loro.

1967-1969 Le origini.

cat stevens 1967

Già a fine settembre del 1966 pubblica il primo singolo I Love My Dog (era già ecumenico sin dall’inizio). In seguito ammetterà che aveva solo aggiunto il testo ad un brano del jazzista Yuseef Lateef The Plum Blossom, musicista a cui poi pagherà sempre le royalties e che apparirà anche come coautore della canzone; il lato B Portobello Road viceversa ha il testo di Kim Fowley e musica di Stevens. Comunque il 45 giri è un successo che entra al 28° posto delle classifiche. Entrambi i brani vengono inseriti in

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Matthew And Son – 1967 Deram ***

Il primo album, prodotto proprio da Hurst, si avvale dell’utilizzo di orchestrali vari e musicisti di studio, tra cui spiccano John Paul Jones al basso e Nicky Hopkins alle tastiere nella title track Matthew And Son, che addirittura raggiunge il 2° posto nelle charts, e l’album complessivamente al n°7. Mica male per un debutto. Ovviamente negli anni il disco è uscito anche in CD, aggiungendo di volta in volta parecchi brani nelle varie riedizioni, quella del 2003 arriva a 22 pezzi. Niente per cui strapparsi le vesti, gli arrangiamenti con archi e fiati sono a tratti invadenti, però il singolo di Matthew And Son ha una bella grinta R&B con il marcato groove del basso di JP Jones, la voce di Cat Stevens che è già quella profonda e risonante che conosciamo, un tipico buon 45 giri dell’epoca, come pure I Love My Dog, arrangiamenti, ridondanti ma non irritanti, a parte, ha una bella melodia, arpeggi di chitarra acustica, a cura dello stesso Cat.

Anche Here Comes My Baby (un successo per i Tremeloes sui due lati dell’oceano) è un gradevole esempio di pop britannico dell’epoca, mentre in altre canzoni ci sono influenze sudamericane ed in altre di cantautori americani ammirati come Dylan e Paul Simon, per esempio, fischiettata a parte, nelle chitarre arpeggiate di Portobello Road. A marzo, esce un altro singolo non incluso nell’album, ma nella riedizione in CD, I’m Gonna Get Me A Gun ,che raggiunge il sesto posto delle classifiche: un buon esordio, è nata una stella. Stevens gira l’Inghilterra con Engelbert Humperdinck e Jimi Hendrix, e la casa discografica lo spedisce in studio a registrare un seguito

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New Masters -1967 Deram **1/2

Che però si rivela un clamoroso flop commerciale, anche se contiene The First Cut Is The Deepest, che sarà un grande successo per P.P. Arnold e qualche anno dopo per Rod Stewart. La canzone obiettivamente è bella, anche nella versione di Cat Stevens, un pezzo folk-pop con una melodia immediata, anche se al solito molto orchestrata: lo stesso non si può dire del resto dell’album, registrato ai Decca Studios e pubblicato a dicembre 1967. Il singolo Kitty è allegrotto, ma non particolarmente memorabile, appena meglio A Bad Night aggiunto all’edizione in CD, ma anche questo fa molto Eurovision Song Contest, insomma si fatica a ricordare qualche canzone, forse la delicata Blackness Of The Night, e nonostante il costante touring anche durante tutto il 1968, nulla succede.

1970-1978 Gli Anni Del Grande Successo

All’inizio del 1969 Stevens contrae la tubercolosi, va vicino alla morte, rimane a lungo in ospedale e poi durante una lunga convalescenza si dà alla meditazione, allo yoga, agli studi di metafisica e di altre religioni, diventa vegetariano, ed avendo molto tempo a disposizione scrive circa 40 canzoni, che poi appariranno sui suoi album nel corso degli anni successivi, e decide per un cambio totale del suo stile musicale e dei contenuti letterari dei testi: dopo una audizione con Chris Blackwell viene messo sotto contratto per la Island, che lo affida al produttore Paul Samwell-Smith, ex bassista degli Yardbirds, che per lui avrà la stessa importanza di Chas Chandler per Jimi Hendrix, e gli cuce addosso uno stile folk-rock, affiancandogli il chitarrista acustico Alun Davies, che sarebbe dovuto rimanere per un solo album, ma sarà fedele compagno ed amico in tutta la prima parte della carriera di Cat: registrato a gennaio e febbraio del 1970 tra Olympic Studios e Abbey Road arriva

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Mona Bone Jakon – 1970 Island/A&M ****

L’ho già ricordato nella recensione dell’ultimo album https://discoclub.myblog.it/2020/10/19/anche-questo-disco-compie-50-anni-facciamolo-di-nuovo-cat-stevensyusuf-tea-for-the-tillerman2/ , ma così ci togliamo il pensiero sullo strano titolo dell’album, lo ha detto lui stesso, era un nomignolo per il suo pene, che ci vogliamo fare? Venendo a cose più serie Cat Stevens firma un contratto per pubblicare i suoi album anche negli Usa con la A&M: la prima canzone del disco, e il primo singolo a uscire è Lady D’Arbanville, dedicata alla sua “vecchia” fidanzata, la modella e attrice Patty D’Arbanville, si tratta di una delicata e sognante ballata, tutta giocata sulla chitarra acustica arpeggiata in fingerpicking di Davies, ma anche sulle percussioni di Harvey Burns e il contrabbasso di John Ryan, oltre alle tastiere e alla chitarra suonate dallo stesso Stevens che inaugura quello stile particolare dove la sua voce ora sussurra, ora si arrampica, mantenendo comunque quel timbro profondo e risonante, tipico del suo stile vocale.

Come ribadisce la bellissima Maybe You’re Right dove le improvvise esplosioni della voce ben si amalgamano anche con i sobri arrangiamenti orchestrali di Del Newman, nulla a che vedere con quelli pomposi del periodo Deram. In Pop Star ci sono anche retrogusti vagamente white soul con la voce che sale e scende di continuo, sottolineata dal basso e dall’acustica e da improvvisi coretti. Nella mossa e pianistica I Think I See The Light il ritmo si fa più incalzante, con improvvise accelerazioni che ricordano come arrangiamenti quello che sull’altro lato dell’oceano stavano facendo Carole King e altri cantautori e cantautrici allora nascenti come movimento.

Altra canzone splendida di questo album è Trouble, sempre con un arrangiamento complesso e ricercato, senza rinunciare alla immediatezza delle melodie del nostro. Mona Bone Jakon, con la voce raddoppiata e minacciosa, e sapendo ora il significato del termine, potrebbe essere anche triviale, ma d’altronde pure Chuck Berry ha dedicato un brano al suo Ding-A-Ling e i bluesmem ci sguazzavano nei doppi sensi. Tre brani del disco tra l’altro vennero inseriti nella colonna sonora della commedia nera Harold e Maude, due appena ricordate e la terza, l’altrettanto bella I Wish, I Wish, una ennesima prova dell’ispirazione che lo sorreggeva in quel periodo, altro pezzo affascinante anche a livello strumentale con la chitarra di Alun Davies e il piano del nostro in bella evidenza, oltre ad intricati passaggi vocali.

La soffusa Katmandu prevede la presenza di un giovane Peter Gabriel al flauto, la breveTime, con la classiche pennate dell’acustica in primo piano, precede Fill My Eyes, un altro classico esempio del folk cantautorale sviluppato da Stevens e soci per questo album, che si chiude sulle note di Lillywhite, un’altra delle sue eteree canzoni d’amore dove gli archi di Newman sono protagonisti di un superbo lavoro di coloritura. Proprio in questi giorni è annunciata una nuova Deluxe Edition in 2 CD, di cui però non so i contenuti (ma li troverete nell’appendice di questo articolo). All’inizio l’album non sfonda subito a livello commerciale ma poi lentamente diventa disco di platino in tutto il mondo e spiana la strada per

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Tea For The Tillerman – 1970 Island/A&M *****

Il classico disco da 5 stellette, a parte per il critico del Village Voice Robert Christgau che lo definì monotono, ma il giornalista di New York era uno specialista nello stroncare i dischi (non sempre). I musicisti sono gli stessi del disco precedente, ma l’album contiene alcune canzoni che sono diventate degli standard assoluti della canzone d’autore, a partire da Father And Son una canzone sui conflitti generazionali che ancora oggi rimane il brano più popolare della discografia di Cat Stevens, come peraltro tutto l’album, tanto che come Yusuf/Cat Stevens lo ha voluto re-incidere in una nuova versione targata 2020 (ma la versione originale rimane insuperata) e la cui recensione avete letto in altre pagine virtuali del Blog.

Per cui, visto che le canzoni sono tutte famosissime e molto belle, qui le indico: Where Do The Children Play?, un capolavoro di equilibri sonori, con un testo splendido dove Stevens si interroga sul progresso e il futuro della tecnologia, il tutto cantato in modo impeccabile da Cat, che poi si supera in Hard Headed Woman dove la sua voce raggiunge vette incredibili di bellezza, mentre gli archi, la batteria, la chitarra, si intrecciano ai limiti della perfezione, molto bella Wild World la storia di un amore fallito che viene coniugata ad una musica struggente ed ad una parte cantata sempre superba, oltre che ad una melodia indimenticabile.

 E anche Sad Lisa potrebbe trattare della stessa ragazza che lo ha lasciato, ma il tema sonoro, sottolineato dal pianoforte, è più malinconico, addirittura triste a tratti, con la voce sempre più espressiva del nostro amico a sottolineare il pathos del brano. Miles From Nowhere ancora magnifica con un crescendo superbo, la voce che si erge autoritaria sull’arrangiamento avvolgente da moderno gospel, seguita dalla breve But I Might Die Tonight dove tratta il tema del futuro e del lavoro mal pagato, con un impeto e una rabbia quasi incredula. Longer Boats parte con un fade-in degno dell’afflato di certi brani di Harry Belafonte e poi si sviluppa in un’altra solenne melodia, che lascia spazio nella successiva Into White ad arditi versi porti con una musicalitàpiù intima e profonda sulle ali di un violino solista.

On The Road To Find Out con i consueti arpeggi iniziali di Davies rimandano alle origini della musica greca, sempre presente nel vocabolario sonoro della musica di Stevens, qui unite all’uso delle voci sullo sfondo per sottolineare le improvvise esplosioni della musica attraverso la batteria di Burns, di Father And Son abbiamo detto, magari vorrei sottolineare le due tonalità usate da Cat per il padre, più maturo e saggio, ed il figlio, più impetuoso ed impaziente, con un registro più alto, fino all’ingresso a metà brano anche di quella di Alun Davies, che sottolinea il testo, superba. Chiude la breve title track, la pianistica Tea For The Tillerman dedicata al “Timoniere”, effigiato anche nella copertina dell’album, disegnata dallo stesso Cat. Dell’album esiste anche una versione doppia Deluxe in CD, che vi consiglio vivamente, visto che riporta anche un paio di demo e molto materiale dal vivo (in ttesa di quell nuova in uscita al 4 dicembre). Ad ottobre del 1971, quindi sempre sulla spinta ispirativa che lo percorre senza requie, ma già registrato a partire da luglio 1970, fino a marzo dell’anno successivo, una parte in Inghilterra e parte in California, viene pubblicato, sulle ali dell’enorme successo, il terzo album di questa ideale trilogia

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Teaser And The Firecat – 1971 Island/A&M****1/2

Forse mezza stelletta in meno, ma un altro album favoloso. Oltre a Davies e Burns che rimangono, si aggiungono il bassista Larry Steele e il batterista Gerry Conway, oltre al tastierista Jean Roussel, originario delle isole Mauritius, in tre brani, e tre o quattro ospiti solo in un brano ciascuno, rimane anche Del Newman per la parte orchestrale.

Dieci brani, ancora tutti di grande spessore: apertura con The Wind, breve canzone delicata sempre costruita intorno all’interplay delle due acustiche di Stevens e Davies, a seguire, nell’alternanza dei temi e dei tempi musicali, la deliziosa Rubylove, registrata a Los Angeles, dove appaiono i due bouzouki di Andreas Toumazis e Angelos Hatzipavli a conferire un frizzante aroma greco alla musica, confermato anche da un verso cantato in lingua ellenica dal nostro, bellissimi anche gli intrecci vocali.

If I Laugh è un’altra di quelle perle acustiche che fluivano senza sforzo dalla penna di Cat, sempre abbellite da piccoli ma suggestivi interventi degli altri musicisti, in questo caso il contrabbasso e le percussioni appena accennate, oltre ai coretti dello stesso Stevens; Changes IV, uno dei brani più mossi, dove alle chitarre strimpellate si alternano le consuete esplosioni percussive della batteria, rafforzate anche dal battito di mani, mentre il testo ha quell’impeto di proselitismo di alcune sue canzoni più impegnate, estrinsecato anche nell’uso corale delle varie voci.

How Can I Tell You viceversa è una delle sue consuete dolci canzoni d’amore, impreziosita dalle armonie vocali della brava Linda Lewis (un po’ di gossip, anche lei una delle sue varie “fidanzate” dell’epoca?), ottima anche Tuesday’s Dead, con il suo sound caraibico, groove di basso irresistibile, percussioni come piovesse, l’organo Hammond di Roussel, una esplosione di pura gioia, Poi arrivano i pezzi forti dell’album (non che gli altri siano brutti): Morning Has Broken, un brano tradizionale, arrangiato ed adattato da Cat, il pianoforte fluente è suonato da Rick Wakeman, non accreditato, è una incantevole ode al giorno che si affaccia, cantata con grande trasporto da un ispirato Stevens.

Incantevole anche l’esuberante Bitterblue dove Cat Stevens ci regala un’altra grande interpretazione vocale, come ha detto qualcuno, e concordo anch’io, forse non poteva competere con la potenza vocale di un Van Morrison o con lo charme di James Taylor tra i suoi concorrenti dell’epoca, ma anche lui aveva un suo perché. Moonshadow è un altro dei grandissimi successi dell’album, oltre ad essere una canzone di notevole fascino, con un crescendo strepitoso, fino al falsetto finale e il terzo ed ultimo singolo estratto dall’album è la superba Peace Train, che traccia l’impegno sociale e spirituale crescente del suo autore, che sul ritmo incalzante della sua band rilascia una ennesima prestazione vocale di prima qualità, sorretta dai coretti gospel avvolgenti, dal lavoro discreto ma fondamentale degli archi, dalle esplosioni della batteria, e dal lavoro immancabile delle chitarre, un piccolo capolavoro.

Come per il disco precedente esiste una versione Deluxe in due CD, con demo e brani dal vivo anche registrati anni dopo, che poi sarebbe quella da avere.

Fine prima parte, segue…

Bruno Conti

Purtroppo E’ Arrivato “Quel Tempo”, Da Venerdì Scorso Il Texas E’ Un Po’ Più Povero. A 78 Anni Se Ne E’ Andato Mr. Bojangles Jerry Jeff Walker.

Jerry+Jeff+Walker+jerryjeff - Copyjerry jeff walker

Oggi purtroppo devo dare la notizia di un altro lutto nel mondo della “nostra” musica, e cioè della scomparsa avvenuta venerdì 23 ottobre all’età di 78 anni del grande Jerry Jeff Walker, dovuta alle complicazioni causate da un cancro alla gola diagnosticatogli nel 2017. Pensavi a Walker e pensavi al Texas, in quanto il nostro è stato fin dalla fine degli anni sessanta uno dei più importanti ed influenti singer-songwriters di stampo country del Lone Star State, e facente parte di un immaginario club esclusivo i cui altri soci sono (ed erano) Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson, Billy Joe Shaver, Guy Clark e Townes Van Zandt. Autore e performer estremamente divertente e coinvolgente, Walker è stato l’inventore e massimo esponente del cosiddetto “gonzo country”, un tipo di musica assolutamente scanzonata e spesso associata a colossali bevute in compagnia, proposta dal nostro sempre con il sorriso sulle labbra ma che dietro una maschera di disimpegno celava una solida capacità nel songwriting, ed i suoi pezzi venivano eseguiti sempre con l’aiuto di musicisti preparatissimi.

Walker era anche un cantautore atipico, dal momento che alcuni dei suoi brani più noti erano stati scritti da altri artisti all’epoca non ancora famosi (come L.A. Freeway di Clark, Up Against The Wall Redneck Mother di Ray Wylie Hubbard e London Homesick Blues di Gary P. Nunn), mentre la sua canzone più famosa in assoluto, ovvero la splendida Mr. Bojangles (che parlava di un ex ballerino di tip-tap alcolista e galeotto, non si sa se inventato o ispirato ad una persona reale), era stata portata al successo nel 1970 dalla Nitty Gritty Dirt Band. Due cose che molti non sanno sono che Walker in realtà si chiamava Ronald Clyde Crosby e che era texano solo d’adozione, essendo di origini newyorkesi. Nella Grande Mela il giovane Crosby (il nome d’arte lo prenderà solo nel 1966) mosse anche i primi passi artistici dopo una breve parentesi a Philadelphia con un gruppo chiamato The Tones, esibendosi nel Greenwich Village prima come folksinger e poi a capo di una band chiamata Circus Maximus, con la quale pubblicò anche due album.

Stabilistosi ad Austin dopo un pellegrinare che lo aveva portato anche a New Orleans ed in Florida, JJW pubblicò nel 1968 il suo debut album Mr. Bojangles con l’aiuto di David Bromberg ed altri sessionmen di nome, disco che lo fece subito notare come autore di estremo interesse grazie anche alla title track che, oltre che della Nitty Gritty, attirerà le attenzioni anche di un certo Bob Dylan che la inciderà durante le sessions di Self Portrait (e la Columbia la pubblicherà nel 1973 all’interno dell’album-rappresaglia Dylan). In pochi anni Walker divenne una leggenda texana, in parte grazie alle sue imperdibili esibizioni dal vivo con la Lost Gonzo Band (il live Viva Terlingua! del 1973 è ancora oggi il suo disco più famoso) ed in parte per merito di album splendidi come Jerry Jeff Walker, Ridin’ High, A Man Must Carry On, It’s A Good Night For Singin’ e Contrary To Ordinary, tutti usciti all’epoca per la MCA e ristampati di recente dall’australiana Raven.

Dopo un paio di buoni lavori per la Elektra (Jerry Jeff, 1978, e Too Old To Change, 1979) ed il ritorno alla MCA, a metà anni ottanta Jerry fondò una sua etichetta, la Tried & True, mettendo a capo la moglie Susan Streit. Diventato ormai un artista di riferimento per molti musicisti venuti dopo di lui (Todd Snider, che ha pure inciso un intero album con le sue canzoni, credo che abbia una sua foto sul comodino vicino al letto https://www.youtube.com/watch?v=5QdWpab_kFg ), Walker continuerà a pubblicare ottimi dischi di puro country-rock texano, titoli come Viva Lukenbach (1994, seguito ideale di Viva Terlingua ed altro splendido live), Night After Night, Scamp, Gonzo Stew, Jerry Jeff Jazz, il solare e “buffettiano” Cowboy Boots And Bathing Suits (concepito dal nostro nella sua casa di villeggiatura in Belize), fino all’inatteso ritorno It’s About Time di due anni fa, a ben nove anni dall’album precedente https://discoclub.myblog.it/2018/07/21/come-da-titolo-era-ora-jerry-jeff-walker-its-about-time/ .

Il prossimo disco di Jerry Jeff Walker sarà quindi ad esclusivo beneficio di angeli e santi, anche se ho già idea di quale sarà il titolo: Gonzo’s Paradise.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Un’Altra Roboante Serata…A Pochi Passi Da Casa! Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena, August 6, 1984

bruce springsteen brendan byrne 1984

Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena, August 6, 1984 –live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Il Bruce Springsteen del periodo di Born In The U.S.A. non sarà forse la migliore versione del grande rocker del New Jersey ma è quella a cui sono personalmente più legato, in quanto mi ricorda il momento della mia adolescenza durante il quale ho scoperto la musica “adulta”, ed il primo disco rock che ho comprato (anzi, musicassetta) è stato proprio l’album del Boss citato poc’anzi. Detto questo, sinceramente non capisco perché i curatori delle uscite mensili degli archivi live del nostro insistano con i concerti pur splendidi del 1984 alla Brendan Byrne Arena di East Rutherford, in New Jersey, una residency di ben dieci serate consecutive che in questa serie ha già visto pubblicate la prima del 5 agosto e l’ultima del 20, mentre per esempio abbiamo avuto solo un concerto sempre americano del 1985 (peraltro da cinque stelle, al Los Angeles Coliseum) e nessuno dal “leg” europeo del tour, per esempio il mitico show del 21 giugno a San Siro (non è per campanilismo, ma perché pare che sia stato davvero uno dei migliori in assoluto, io non posso né confermare né smentire dato che non c’ero).

A conclusione di quanto detto sopra, ecco pubblicato ufficialmente il terzo concerto svoltosi nella location poco distante da casa del Boss, ed in particolare quello del 6 giugno (quindi la seconda delle dieci date), una serata con otto cambi in scaletta rispetto alla precedente, e che a detta dei fans è stata una delle migliori performance del periodo, cosa che mi sento di avvalorare dopo aver ascoltato il triplo CD. Uno show magico, coinvolgente e adrenalinico, con un Bruce in forma vocale strepitosa ed una band che gira a meraviglia (ma questo capita sempre), tra l’altro con un suono forte, pulito e mixato alla perfezione, meglio ancora che nelle uscite riguardanti gli spettacoli del 5 e del 20. Da Born In The U.S.A. i nostri suonano “solo” sei pezzi su dodici (una potente versione della title track posta in apertura, tre riprese festaiole e caciarone di Glory Days, Dancing In The Dark e Bobby Jean, la toccante My Hometown che non può mancare in New Jersey, e la rilettura acustica di No Surrender tipica di quel tour), lasciando spazio a classici del passato e diverse chicche.

Tra gli evergreen non mancano pezzi che ognuno si aspetterebbe di ascoltare, tutti riproposti in maniera decisamente coinvolgente: Out In The Street, Spirit In The Night, Prove It All Night (versione poderosa), The Promised Land, Because The Night, Badlands, Thunder Road, il consueto singalong di Hungry Heart, una Cadillac Ranch che fa ballare tutta l’arena, Tenth Avenue Freeze-Out, Born To Run ed una travolgente Rosalita di sedici minuti. Una delle chicche della serata è l’intermezzo dedicato a Nebraska, con l’esecuzione una in fila all’altra di Atlantic City, di Open All Night che Bruce riesce a rendere trascinante nonostante sia da solo sul palco e della stessa Nebraska (e, più avanti in scaletta, anche di Used Cars). Non manca un’ottima rilettura del classico di Jimmy Cliff Trapped (che già all’epoca era più nota nella versione del Boss, e questa è una delle versioni migliori che abbia mai sentito) e dei due “crowd-pleasers” Fire e Pink Cadillac, mentre lo straordinario pianismo di Roy Bittan viene fuori alla grande nella struggente Racing In The Street e soprattutto in una spettacolare Jungleland di dodici minuti, suonata nei bis.

A proposito di bis in questo show troviamo due rarità, una che riguarda le abituali scalette del tour (I’m A Rocker, che però forse era l’unico punto debole di un album perfetto come The River) ed una assoluta, vale a dire una sanguigna e dirompente ripresa di Street Fighting Man dei Rolling Stones, che sostituisce Travellin’ Band dei Creedence eseguita la sera prima. Chiusura all’insegna della festa totale, con un mix debordante (altri undici minuti) tra Twist And Shout ed il classico dei Contours Do You Love Me. Serata splendida quindi, e pure la prossima uscita promette bene, con uno show del 1978 non famoso come quelli di Cleveland e Passaic ma, pare, altrettanto fragoroso.

Marco Verdi

Saluti Da Londra, Abbey Road. Joe Bonamassa – Royal Tea

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Joe Bonamassa – Royal Tea – Mascot/JR Adventures/Provogue

E’ passato pochissimo dall’uscita di A New Day Now, la riproposizione riveduta e corretta del suo album del 200https://discoclub.myblog.it/2020/08/29/una-edizione-riveduta-e-corretta-del-suo-primo-album-joe-bonamassa-a-new-day-now-20th-anniversary-edition/ , ma, come ormai tutti sanno, Joe Bonamassa una ne pensa e cento ne fa: bisogna trovare sempre qualche idea nuova, un “progetto” come dicono quelli che parlano bene. L’ultima pensata è stata quella di realizzare un disco ideato e concepito in Gran Bretagna, a Londra in particolare, l’estate scorsa, dedicato ai British Guitar Heroes (qualcuno dirà, ma non era già uscito British Blues Explosionhttps://discoclub.myblog.it/2018/05/13/uno-strepitoso-omaggio-ai-tre-re-inglesi-della-chitarra-joe-bonamassa-british-blues-explosion-live/ ).

Vero, ma ci sono neppure tanto  sottili differenze: quello era un disco dal vivo dedicato a cover di brani del repertorio di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, questa volta Joe si è recato a Londra per respirarne l’aria e soprattutto collaborare con alcuni “luminari” come Bernie Marsden dei Whitesnake (ma prima anche negli UFO), il paroliere dei Cream Pete Brown, e il pianista Jools Holland (Squeeze, ma anche una leggenda della TV e radio inglese), per scrivere una serie di canzoni ispirate da quel mondo, e Bonamassa cita alcuni dei suoi idoli dell’epoca, i Bluesbreakers di Mayall con Eric Clapton, il primo Jeff Beck Group e i Cream. Ovviamente trovandosi a Londra si è pensato bene con il suo produttore Kevin Shirley di incidere l’album a Abbey Road, nel famoso Studio Uno, da dove partì la Mondovisione di All You Need Is Love dei Beatles, il tutto è stato completato a gennaio 2020, prima della partenza della pandemia, dieci canzoni nuove, registrate soprattutto con il nucleo della sua band, Anton Fig batteria, Michael Rhodes basso e Reese Wynans tastiere, visto che Bonamassa ha detto che per l’occasione si è privilegiato principalmente un sound più duro a tutto volume, con la musica che ha invaso anche gli altri studios di Abbey Road, pure quelli più austeri, dedicati alla musica classica.

Al solito ho recensito il disco molto prima dell’uscita prevista per il 23 ottobre, non avendo ancora tutte le notizie, ma le più importanti sì, e quindi sono andato anche a orecchio, come si dovrebbe. When One Door Opens è il primo pezzo dell’album, ma il secondo video uscito, già in circolazione da alcuni mesi: apertura con orchestra sinfonica, perché non approfittare delle facilities della location, poi una epica blues ballad lenta e scandita, maestosa, con l’orchestra che rimane, una voce femminile di supporto, presumo la solita Mahalia Barnes, con Joe che intona una bella melodia “classicamente” britannica, quasi da tema per un film di 007, in leggero crescendo, la chitarra che prima sottolinea il tema e poi rende omaggio ai musicisti che ascoltava nei vecchi dischi della collezione del padre, con un assolo che parte su un crescendo “boleriano” direttamente ispirato dal vecchio brano di Jeff Beck e poi vola in overdrive verso i lidi del rock più classico con un wah-wah di una potenza inusitata e ulteriore citazione zeppeliniana nel finale.

La title track Royal Tea è un rock-blues, sempre con voci femminili di supporto, l’organo di Wynans in evidenza e una atmosfera sonora tipica dei primi anni ‘70, con l’immancabile esuberante assolo di Bonamassa, mentre Why Does It Take So Long To Say Goodbye, il terzo singolo/video, è un altro bel lento, duro e scandito, con un lavoro raffinato della band, in supporto del cantato di Joe, sempre più sicuro ed appassionato, anche in questo caso con accelerazione finale e vigoroso finale chitarristico con la seconda solista di Marsden di supporto. Lookoout Man introdotta da un giro di basso fuzz, è decisamente più dura e vibrante, hard rock di buona fattura, con le coriste ed una armonica aggiunte per variare il repertorio, in attesa delle folate della solista. High Class Girl ci sarebbe stata benissimo in un disco di Mayall o dei Cream, un hard shuffle tipico del British Blues, con passate dell’organo di Wynans, un tocco di errebì nei coretti femminili e assolo di ordinanza.

A Conversation With Alice era stato il primo singolo ad uscire ad aprile, un travolgente rock and roll con uso di slide dall’eccellente impatto sonoro, seguita dall’orgia wah-wah di una veemente I Din’t Think She Would Do It, ritmo scandito ed impiego di differenti chitarre per dargli un tessuto sonoro avvolgente e accattivante. L’inquietante Beyond The Silence, introdotta dagli arpeggi di chitarre acustiche ed elettriche, poi si sviluppa in una canzone più gentile e ricercata, si può dire folk-prog? Seguita dalla fiatistica e swingante Lonely Boy, atmosfere tra jazz e R&B, divertente e scanzonata, anche grazie al piano di Wynans., e a chiudere la countryeggiante e deliziosa Savannah, con mandolino e slide accarezzata e una chiara variazione sulle tematiche principali del disco, preludio a Bonamassa Goes Country?

Si vedrà: per ora un ennesimo buon album dell’uomo di New York, An American In London!

Bruno Conti