Uno Dei “Figli Di…” Migliori In Circolazione! AJ Croce – By Request

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AJ Croce – By Request – Compass Records

Nell’ampia categoria che include i “figli di” AJ Croce è sicuramente uno dei più validi ed interessanti (senza fare la lista della spesa, lo metterei più o meno a livello di Jeff Buckley, Jakob Dylan, Adam Cohen, i primi che mi vengono in mente): una vita ricca di tragedie, orfano a meno di due anni per la morte del padre Jim Croce, a quattro anni cieco completamente, anche se poi ha riacquistato parte della visione dell’occhio sinistro, a quindici anni l’incendio della casa in cui aveva sempre vissuto con la madre Ingrid, con la quale ha avuto un rapporto complesso e turbolento, nel 2018 la moglie Marlo, con lui da 24 anni, è morta di una rara malattia cardiaca, lasciandolo con due figli. Nonostante la pesante eredità del padre Jim ha saputo creare un suo approccio alla musica, non seguendo pedissequamente lo stile del babbo, ma ispirandosi al blues, al soul (punti di riferimento Ray Charles e Stevie Wonder), ma con elementi rock, a tratti country, e anche di pop raffinato, grazie all’uso costante del piano di cui AJ è una sorta di virtuoso, ma suona anche tastiere assortite e chitarre: ha realizzato una serie di 10 album, incluso questo By Request, più un disco di rarità dai primi anni di carrierahttps://discoclub.myblog.it/2017/08/20/di-padri-in-figli-aj-croce-just-like-medicine/.

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Dopo la morte della moglie Croce ha voluto rientrare, come suggerisce il titolo, con un disco di cover, realizzate con garbo, classe e ottimi risultati, un album veramente godibilissimo: aiutato da una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spiccano Gary Mallaber alla batteria, Jim Hoke a sax vari, armonica e pedal steel, David Barard al basso, Bill Harvey e Garrett Stoner alle chitarre, Scotty Huff alla tromba e Josh Scaff al trombone, più un terzetto di backing vocalist, in pratica la sua touring band e con la presenza di Robben Ford in un brano, AJ sceglie una serie di canzoni molte adatte al suo stile, in base alla formula “a gentile richiesta” che si applica nei concerti più intimi. E così ecco scorrere Nothing From Nothing, un vecchio brano di Billy Preston, con i fiati molto in evidenza, in questo classico e mosso R&B dove Croce si disbriga con classe al piano https://www.youtube.com/watch?v=dp2sd7IhGsg , la molto più nota Only Love Can Break Your Heart di Neil Young, una delle ballate più belle del canadese, resa molto fedelmente da AJ e soci che però aggiungono un retrogusto da blue eyed soul o country got soul, con la voce sottile di Croce che ricorda quelle dei Bee Gees degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=SKy_PcSEyR0 ; scatenata la versione di Have You Seen My Baby di Randy Newman, un’altra delle maggiori influenze del nostro https://www.youtube.com/watch?v=K-Ec5Od0WsI , Nothing Can Change This Love è un oscuro ma delizioso brano di Sam Cooke, con elementi doo-wop, e il piano che viaggia sempre spedito https://www.youtube.com/watch?v=FmeCGbt7glE , Better Day è un country-blues-swing di Brownie McGhee, con Robben Ford alla slide che contrappunta in modo elegante il lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=nQuHTW7viVc . O-O-H Child è il vecchio brano soul dei Five Stairsteps che ultimamente pare tornato di moda, visto che appare anche nel recente disco Paul Stanley con i Soul Station https://discoclub.myblog.it/2021/03/20/ebbene-si-e-proprio-lui-si-e-dato-al-funky-soul-con-profitto-paul-stanleys-soul-station-now-and-then/ , versione adorabile e delicata. https://www.youtube.com/watch?v=56btlAqRZLY 

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A seguire una robusta rilettura di Stay With Me il classico R&R di Rod Stewart con i Faces, con AJ al piano elettrico e una ficcante slide, Harvey per l’occasione. a ricreare lo spirito ribaldo del brano originale, e non manca neppure il New Orleans soul di Brickyard Blues una canzone di Allen Toussaint, qui resa in una versione a metà strada tra Dr. John e i Little Feat, grazie all’uso del bottleneck del chitarrista Garrett Stoner che interagisce con il piano di Croce, ricreando il dualismo Lowell George/Bill Payne https://www.youtube.com/watch?v=mH-dKTFOfbU . Incantevole anche la versione di San Diego Serenade di Tom Waits, con un arrangiamento che ricorda lo stile dei brani “sudisti” della Band, con tanto di pedal steel sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=CinzazO7Ti8 , e che dire di una versione barrelhouse blues di Sail On Sailor dei Beach Boys? Geniale e sorprendente! Tra i brani poco noti anche Can’t Nobody Love You di Solomon Burke: non potendo competere con la voce del “Bishop of Soul” AJ opta per un approccio gentile e minimale, con l’organo a guidare e con le coriste che danno il tocco in più, e per completare un disco di sostanza arriva infine Ain’t No Justice un esaltante funky-soul strumentale di Shorty Long targato Motown 1969.

Bruno Conti

Dopo La Scorpacciata Elettrica Coi Crazy Horse, Ecco Il “Giovane Nello” In Beata Solitudine, Esce Il 26 Marzo! Neil Young – Young Shakespeare

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Neil Young – Young Shakespeare – Reprise/Warner CD – CD/LP/DVD Box Set

Ho ancora nelle orecchie il magnifico live del 1990 Way Down In The Rust Bucket, registrato insieme ai Crazy Horse, che già Neil Young pubblica un altro album dal vivo tratto dai suoi sterminati archivi: Young Shakespeare è però l’esatto opposto di Rust Bucket per quanto riguarda il suono, in quanto vede il nostro da solo sul palco armato unicamente di chitarra ed occasionalmente pianoforte. L’album (pubblicato in CD, LP e cofanetto che comprende entrambe le configurazioni aggiungendo un DVD con le riprese video della serata, *NDB al solito prezzo assurdo)) presenta tredici canzoni tratte dal concerto del 22 gennaio 1971 allo Shakespeare Theatre di Stratford, Connecticut, uno spettacolo che si tenne appena tre giorni dopo il famoso show alla Massey Hall di Toronto già pubblicato nel 2007 nell’ambito degli archivi younghiani (ed infatti la setlist di Stratford ricalca per dodici tredicesimi quella canadese).

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Nel presentare Young Shakespeare il nostro non ha nascosto la sua personale preferenza per questo show rispetto a quello di tre giorni prima, a suo dire troppo autocelebrativo e meno spontaneo: io sinceramente dopo aver ascoltato Young Shakespeare non so decidermi, in quanto siamo comunque di fronte a due eccellenti performance. D’altronde stiamo parlando di uno dei grandi della nostra musica in uno dei periodi più creativi della sua carriera, un songwriter di livello sopraffino e performer nato, in grado, ed in questo è uno dei pochi al mondo, di tenere alta l’attenzione del pubblico per un intero concerto anche stando da solo sul palco. Young Shakespeare offre quindi una performance splendida da parte di un artista eccezionalmente ispirato, il tutto di fronte ad un pubblico attento e preparato, e se Way Down In The Rust Bucket è la quintessenza del Neil Young rocker, questo live acustico non è certo inferiore in quanto ad intensità e capacità di emozionare; tra l’altro il suono è stato meticolosamente ripulito e rimasterizzato, ed il risultato è tale da farlo sembrare un concerto registrato un mese fa. E poi i titoli in scaletta parlano da soli, con Neil che già all’epoca era avvezzo a sorprendere il pubblico presentando, su tredici pezzi totali (ma il concerto completo era di sedici), ben sei canzoni all’epoca ancora inedite su disco.

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E non siamo parlando di brani secondari: quattro sono anteprime da Harvest (che uscirà dopo un anno), e cioè le splendide The Needle And The Damage Done e Old Man, la drammatica A Man Needs A Maid, eseguita al pianoforte ed in medley con la sempre formidabile Heart Of Gold (anch’essa al piano, e questa è una rarità), mentre l’oscura Journey Through The Past uscirà nel 1973 sul live Time Fades Away e Dance Dance Dance sarà ceduta ai Crazy Horse per il loro omonimo debut album (ma Neil ne riutilizzerà più avanti la melodia per Love Is A Rose). Il resto del CD è una superba full immersion nel meglio del songbook younghiano dell’epoca, con versioni intime ma allo stesso tempo coinvolgenti di capolavori del calibro di Tell Me Why https://www.youtube.com/watch?v=X_dWqfmPfU8 , Don’t Let It Bring You Down, Helpless, l’arrabbiata (ed applauditissima) Ohio, la conclusiva Sugar Mountain e due imperdibili Cowgirl In The Sand e Down By The River https://www.youtube.com/watch?v=Up0dI-QpqF8 . Dopo un 2020 ricco di pubblicazioni, il 2021 di Neil Young si annuncia ancora più interessante, e se le future uscite saranno del livello di Way Down In The Rust Bucket e di Young Shakespeare il godimento musicale è assicurato.

Marco Verdi

Una Etnomusicologa Canadese Dalla Voce Sopraffina Per Un Album Eclettico E Di Grande Spessore. Kat Danser – One Eye Open

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Kat Danser – One Eye Open – Black Hen Music

Accidempoli, ma questi canadesi non finiscono mai di stupirci: d’altronde qualcosa devono pur fare per scaldarsi da quel freddo “sbarbino” che imperversa dalle loro parti. Prendiamo Kat Danser da Edmonton, stato di Alberta, nel momento in cui sto scrivendo questa recensione la temperatura lassù è a  -12, ma questo non preclude agli indaffarati abitanti della città di indulgere nelle loro attività: per esempio Kat Danser, anzi la dottoressa Danser, visto che ha un master in etnomusicologia e lavori sociali, insegna pure, è una esperta di musica latina, cubana in particolare, grazie ai suoi viaggi in loco, ha realizzato già sei album, vincitrici di svariati premi nelle più disparate categorie e anche candidata ai Juno Awards. Ma quello che conta al di là del CV è la musica che si sprigiona da questi album, il nuovo One Eye Open incluso: un mèlange, un frullato di stili, che includono Mississippi Delta blues da cui si parte. che sfuma in quello di New Orleans, soul e gumbo locali inclusi, profumati ed arricchiti da sfumature molto evidenti di musica cubana e per non farsi mancare nulla anche un po’ di sano R&R https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Se aggiungiamo che la produzione del tutto è stata affidata a Steve Dawson, che da Nashville ha assemblato tutto quello che gli arrivava da Edmonton, Vancouver e Toronto, visto che durante la pandemia non ci si poteva muovere, facendo sembrare il risultato organico e vitale, e regalando anche la sua maestria alle chitarre, spesso in modalità slide, come un novello Ry Cooder, alle tastiere il grande Kevin McKendree, una sezione fiati composta da Dominic Conway, Jeremy Cooke e Malcolm Aiken, ai quali si aggiunge Daniel Lapp, che suona violino, tromba e tenor guitar, e la sezione ritmica con Jeremy Holmes al basso e il bravissimo Gary Craig alla batteria, che ricordiamo con Blackie And The Rodeo Kings e Bruce Cockburn, giusto per citarne un paio.

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Il risultato finale, se non prodigioso, per non fare le solite inutili esagerazioni, è comunque eccellente, con materiale in gran parte originale, con un paio di cover scelte con cura. Way I Like It Done, è un midtempo delizioso, con McKendree che con il suo pianino intrigante, dà poi stura alla slide di Dawson, mentre i fiati imperversano tra blues e moderato R&R e lei canta in assoluta souplesse, come se passasse di lì per caso, ma non fatevi ingannare https://www.youtube.com/watch?v=gqYHEM1mWu4 . E siamo solo all’inizio: Lonely And The Dragon è un “lentone”malinconico, un blues intriso di umori sudisti, con chitarre, organo e fiati che sorreggono in modo robusto il cantato quasi sussurrato di Kat, che porge le 12 battute con garbo e classe senza forzare il suo timbro vocale comunque affascinante https://www.youtube.com/watch?v=dsUeiNJoXCw , poi ci trasporta con la cover di Bring It With You When You Come di Gus Cannon nel blues arcano degli anni ‘20, però quelli del secolo scorso, con chitarrine accarezzate, fiati e ritmi discreti, lei che gigioneggia appena il giusto, perché il brano lo richiede, ma è pronta a tuffarsi nel R&B ribaldo di Frenchman Street Shake, quando i suoi musicisti alzano i ritmi, la voce si fa più limpida e scherzosa, la solita chitarra slide di Dawson volteggia, la ritmica si fa più complessa e coinvolgente, i fiati sempre più coinvolti e non mancano dei tocchi latini https://www.youtube.com/watch?v=GJ_cFtJ5Abk .

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steve dawson photo

steve dawson photo

Get Right Church è l’altra cover, dal repertorio di Jessie Mae Hemphill, una delle regine pellerossa del blues del secolo scorso, grande brano, cantato con passione e “anima”, nel quale lentamente andiamo sulle rive del Mississippi, sempre grazie al lavoro essenziale delle chitarre di Dawson, doppiato anche da un assolo di trombone https://www.youtube.com/watch?v=buW1IoxqpKI ; non dico che One Eye Closed viri addirittura verso il punk come qualcuno ha detto, ma la Danser in questa canzone si infervora e si arrochisce, il rock’n’roll raggiunge quasi una intensità alla Patti Smith dei tempi che furono, assolo tiratissimo della solista incluso, si chiude un occhio ma l’altro è decisamente aperto https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Ottima anche Trainwreck, altra canzone dai tempi mossi dove rock (delle radici) e blues, incrociano le loro traiettorie, con Dawson che aggiunge il solito tappeto sonoro per le evoluzioni vocali, misurate ma impetuose della brava Kat https://www.youtube.com/watch?v=dtkLZZ7dh4Y ; Please Don’t Cry è una struggente ballata, con qualche tocco country, grazie all’uso del violino di Lapp, ma senza mai dimenticare blues e anche un pizzico di jazz notturno e demodé https://www.youtube.com/watch?v=gXkI1ggLKW0 . Molto bella anche End Of Days, dove blues e canzone d’autore convergono sulla melodia superba del brano, con assolo di organo strappamutande di McKendree che sottolinea il cantato soave della Danser, che mi ha ricordato quasi la Christine McVie dei tempi d’oro https://www.youtube.com/watch?v=7RsUAa-AONM . E last but not least Mi Corazon, convoglia pulsioni cubane, tex-mex, dolci trasporti amorosi a tempo di valzer e carezzevoli sentimenti tutti insiti nella voce leggiadra di Kat https://www.youtube.com/watch?v=kjbIOehnz2Q . Well Done Mrs, Danser.

Bruno Conti

Sempre Tra Blues E Soul, E La Voce Non Ha Bisogno Di “Controllo Dei Danni”! Curtis Salgado – Damage Control

curtis salgado damage control

Curtis Salgado – Damage Control – Alligator Records/Ird

Già detto, ma repetita iuvant e quindi ricordiamolo di nuovo: Curtis Salgado è il “Blues Brother” originale, quello sul quale Belushi e Aykroyd hanno basato i loro due personaggi, ma condensati in uno, un eccellente armonicista e un formidabile cantante che il successo ha eluso, rimanendo un fantastico artista di culto, inanellando in una quarantina di anni abbondanti di carriera una serie di album di grande qualità, con alcune punte di eccellenza, Nonostante i molteplici problemi di salute (penso che il titolo del disco venga da lì)  che definire tali è quantomeno minimizzare (due tumori, un quadruplo bypass coronarico) ha continuato pervicacemente a sfornare nuova musica: l’ultimo CD era Rough Cut, un album principalmente acustico, in coppia con Alan Hager, pubblicato dalla Alligator (sempre garanzia di qualità) https://discoclub.myblog.it/2018/02/26/sempre-il-blues-brother-originale-anche-in-versione-piu-intima-curtis-salgado-alan-hager-rough-cut/ ,che dal 2012 lo ha messo sotto contratto. A due anni di distanza arriva ora questo Damage Control e ancora una volta Salgado centra l’obiettivo: forse, ma forse, la voce non è più così potente e devastante come qualche anno fa, ma ha acquistato una patina di vissuta maturità e francamente è ancora una delle migliori in assoluto in quell’ambito tra blues, soul e rock’n’roll dove Curtis ha pochi rivali.

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E come Dustin Hoffman (lui una volta) non sbaglia un colpo: il disco è stato registrato tra la California e il Tennessee, con la produzione dello stesso Salgado e con l’aiuto di una nutrita pattuglia di formidabili musicisti. Dodici canzoni nuove e una cover, per un album che ancora una volta farà godere come ricci gli appassionati di questa musica senza tempo: si parte subito bene con la “provocatoria” The Longer That I Live, una robusta apertura dove Curtis è accompagnato da Kid Andersen alla chitarra solista, Mike Finnigan all’organo, Jim Pugh al piano, con la sezione ritmica di Jerry Jemmott al basso e Kevin Hayes alla batteria, con Salgado che canta con il solito impeto e la classe del cantante soul che sono sempre insite in lui e incantano l’ascoltatore, oltre  a “testimoniare” https://www.youtube.com/watch?v=ikRzUBWoUIY . In What Did Me In Did Me Well, sfodera anche l’armonica e ci regala una blues ballad incantevole, sempre con quella voce ancora magnifica capace ci convogliare lo spirito delle 12 battute (e che assolo Kid Andersen), ma anche retrogusti gospel e soul, una meraviglia, specie quando si “incazza” nel finale. Nella ironica You’re Going To Miss My Sorry Ass arriva l’altra pattuglia di collaboratori, George Marinelli alla chitarra, Kevin McKendree ad un piano quasi barrelhouse, Johnny Lee Schell alla seconda voce, Mark Winchester al contrabbasso e Jack Bruno alla batteria, per un’altra eccellente canzone tra R&R e blues.

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Precious Time, con Marinelli alla slide ha un che di stonesiano (in effetti lo stesso Salgado ha parlato di un “Rock’n’roll Record”), e Wendy Moten alle armonie vocali attizza come si deve il buon Curtis https://www.youtube.com/watch?v=3uYEWzjW1g4 . La deliziosa e saltellante Count Of Three ci introduce alle delizie della doppia chitarra di Schell e Dave Gross, oltre alla batteria di Tony Braunagel, mentre il nostro amico guida la truppa con la solita verve, ma poi non può esimersi dal regalarci una di quelle sue superbe ballate accorate dove eccelle e Always Say I Love You, con organo gospel scivolante di Finnigan e il piano di Jackie Miclau, sono sicuro che avrebbe incontrato l’approvazione di Solomon Burke, un altro che aveva una big voice come Salgado, simile nel timbro, la Moten emoziona sullo sfondo. Per la lezione di storia di Hail Might Caesar, arriva una piccola sezione fiati e si va di errebì scandito con il nostro che un po’ gigioneggia, ma ci piace proprio per quello https://www.youtube.com/watch?v=gnQTttAgiL0 ; in I Don’t Do That No More siamo a metà strada tra Fabulous Thunderbirds e Blasters, e la band tira alla grande, con McKendree che va di boogie piano con passione e pure il nostro ci mette il solito impegno.

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Anche Oh For The Cry Eye è condotta con la la souplesse che solo i grandi hanno, un tocco di Dr. John o Allen Toussaint qui, un tocco sexy della Moten là, e Curtis che sovraintende al tutto https://www.youtube.com/watch?v=e37RK80kOFQ , prima di rituffarsi nel blues per una notturna e raffinata title-track, che cita anche coloriture jazzy e R&B https://www.youtube.com/watch?v=aU7Pd06DV-A , Truth Be Told, con Wayne Toups a fisa squeezebox e seconda voce, ci regala anche un bel tocco di allegro cajun che non guasta https://www.youtube.com/watch?v=fK5M9qBQm44 , e nella minacciosa e funky The Fix Is In, di nuovo con armonica d’ordinanza pronta alla bisogna, ci istruisce sulle virtù della buona musica blues, con Andersen, Finnigan e Pugh a spalleggiarlo in questa lezione sulle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=42jOLh5b7b8 , prima di congedarci con una travolgente e rauca versione della classica Slow Down di Larry Williams (la cantava anche Paul McCartney nei Beatles), che è puro R&R con fiati come raramente si ascolta ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=X8JJFixLwsQ . Curtis Salgado ha colpito di nuovo!

Bruno Conti

Il (Doppio) Springsteen Della Domenica: Le Due Facce Del Boss, Rocker E Folksinger. Bruce Springsteen – St. Paul, MN Nov. 12, 2012/Nice, France 1997

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Bruce Springsteen & The E Street Band – St. Paul, MN Nov. 12, 2012 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Bruce Springsteen – Nice, France 1997 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

A differenza del solito questa volta ho deciso di raggruppare in un’unica recensione le due ultime uscite degli archivi live di Bruce Springsteen (a dire il vero è appena stato annunciato un altro episodio, registrato nel 2000 al Madison Square Garden nel corso del Reunion Tour), in quanto offrono una esauriente contrapposizione tra le due anime del nostro: lo Springsteen rocker a 360 gradi insieme alla E Street Band in St. Paul, MN Nov. 12, 2012 e quello folksinger da solo sul palco in Nice, France 1997. Lo show di St. Paul, un CD triplo (il quinto del 2012 ed il terzo registrato in suolo americano), è stato indicato da molti come uno dei migliori del tour, e se ho parlato del lato rocker di Bruce non l’ho fatto a caso, in quanto il concerto è decisamente spostato verso i brani più elettrici e mossi e limita al minimo sindacale le ballate. Già uno spettacolo che inizia con I’m A Rocker (tra l’altro è la prima volta che il Boss comincia con questa canzone) lascia ben sperare per il seguito https://www.youtube.com/watch?v=FJrLh6Uomt8 , che infatti mette in fila una sequenza senza respiro con il “crowd-pleaser” Hungry Heart e le epiche No Surrender, Night https://www.youtube.com/watch?v=9RkJDkPJkOc  e Loose Ends https://www.youtube.com/watch?v=pLnx1nz36f0 .

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Dopo due ottimi pezzi dal mood più rilassato (Something In The Night ed una splendida Stolen Car, uno dei brani più oscuri di The River che in quella serata Bruce propose solo per la seconda volta dal 1985) https://www.youtube.com/watch?v=THqSKKv1_yw  lo show riprende a vibrare con tre dei migliori momenti di Wrecking Ball (la title track, We Take Care Of Our Own e Death To My Hometown), per poi arrivare ad una monumentale My City Of Ruins di 17 minuti, piena di anima e con un crescendo notevole, ed una pimpante e ritmata The E Street Shuffle. La parte centrale del concerto forse è ancora meglio, in quanto i nostri alternano coinvolgenti pezzi che non mancano quasi mai come Shackled And Drawn https://www.youtube.com/watch?v=HRpU9HzQHsg , Waitin’ On A Sunny Day, The Rising e Badlands ad altri più rari come una stupenda Devils And Dust dall’insolito arrangiamento rock full band https://www.youtube.com/watch?v=hTIUZvMxLJc , la tesa Youngstown, affilata come una mannaia, una Murder Incorporated resa ancora più potente dai fiati e con una grande sfida finale a base di assoli tra il Boss, Little Steven e Nils Lofgren, e l’irresistibile Pay Me My Money Down che è forse il momento più trascinante della serata. Tra i bis spiccano la solita inimitabile Jungleland (undici minuti con, inutile dirlo, Roy Bittan grande protagonista) ed un finale tra il commovente (Tenth Avenue Freeze-Out, con annesso tributo allo scomparso Clarence Clemons) e l’esagitato (American Land).

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E veniamo al doppio Nice, France 1997, quarto volume della serie ad essere estrapolato dai concerti seguiti alla pubblicazione di The Ghost Of Tom Joad ma primo a provenire dalla parte finale del tour (18 maggio 1997). Una versione intima e pacata del Boss, solo voce, chitarra e armonica (e le tastiere “offstage” di Kevin Buell), un concerto che forse non farà saltare sulla sedia l’ascoltatore ma di certo è in grado di provocare più di un brivido, anche perché vede un Bruce decisamente ispirato e “sul pezzo”. Le canzoni tratte da The Ghost Of Tom Joad occupano un terzo circa della setlist con ben nove selezioni (splendide la title track, durante la quale non si sente volare una mosca, Sinaloa Cowboys, The Line e Across The Border), ma poi ci sono altri brani perfetti per questa veste acustica, come Atlantic City, Highway Patrolman (molto intensa) https://www.youtube.com/watch?v=7XImAedciX0 , l’ironica Red Headed Woman, This Hard Land, l’antica Growin’ Up, l’allora inedita Brothers Under The Bridge, che sarebbe uscita l’anno seguente sul box Tracks https://www.youtube.com/watch?v=Zh9ejlgNsm0 , e It’s The Little Things That Count, una outtake di Tom Joad che a tutt’oggi giace ancora negli archivi  . Il trattamento voce-chitarra funziona anche con pezzi all’apparenza meno adatti, in particolare con It’s Hard To Be A Saint In The City https://www.youtube.com/watch?v=znqV14v7dbY , Two Hearts e l’ancora sconosciuta Long Time Comin’ (in anticipo di otto anni su Devils And Dusthttps://www.youtube.com/watch?v=fMxivCE8wbo , ed in maniera del tutto inaspettata anche brani originariamente rock’n’roll come Murder Incorporated https://www.youtube.com/watch?v=Av1n3isTar0 , You Can Look (But You Better Not Touch) e Working On The Highway.

E’ chiaro, come ho già affermato in passato, che continuo a ritenere il Bruce Springsteen rocker nettamente superiore al suo alter ego folksinger, ma anche armato di sola chitarra e armonica il Boss è tra i pochi al mondo che riesce a suonare per più di due ore senza annoiare.

Marco Verdi

Ebbene Sì E’ Proprio Lui, Si E’ Dato Al Funky-Soul Con Profitto! Paul Stanley’s Soul Station – Now And Then

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Paul Stanley’s Soul Station – Now And Then – Universal

Chi sia Paul Stanley è cosa abbastanza nota: per i più distratti ricordiamo che è uno dei quattro Kiss, membro fondatore, chitarra ritmica e voce solista. E allora perché ne stiamo parlando? Già il nome della formazione aiuta, Paul Stanley’s Soul Station, ad indicare che il musicista di New York City per certi versi è uno dei “nostri”, inteso come amante della soul music, ma quella più genuina, non incrociata e contaminata da altri generi musicali, come lascia intendere il titolo del disco Now And Then, canzoni pescate sia da nuove composizioni firmate dallo stesso Stanley, cinque, quanto da una serie di classici del repertorio Motown e Philly Sound. E a scanso di equivoci, diciamolo subito, il disco è piuttosto riuscito, secondo il sottoscritto anche meglio di gran parte del cosidetto “nu soul” che circola al momento (per esempio, per non fare nomi, è meglio di quello del quasi osannatao dalla critica Aaron Frazer). Accompagnato appunto dai suoi Soul Station, una band con cui girava per piccoli club e locali di NYC prima del Covid, spargendo il verbo della musica nera, come ricorda lui stesso quella appresa in gioventù ascoltando le canzoni del Philly Soul e della Motown, e, non essendo un giovinetto, per avere visto dal vivo gente come Otis Redding e Solomon Burke (beato lui!).

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Poi come abbiamo visto è stato “traviato” da altri generi più rutilanti, ma evidentemente la vecchia passione non sì è spenta. Come evidenzia la foto di copertina, insieme ad un elegante Paul, ci sono ben dieci altri musicisti nel gruppo: il chitarrista e corista Rafael “Hoffa” Moreira, il bassista Sean Hurley, il tastierista Alex Alessandroni, la tastierista Ely Rise, il batterista e corista Eric Singer (sempre dei Kiss), il percussionista RayYslas, i coristi Gavyn Rhone, Crystal Starr e Laurhan Beato, il trombettista Pappenbrook, e anche una piccola sezione archi ed altri due fiatisti, quindi suono ricco mi ci ficco! Could It Be I’m Falling In Love, brano del 1973 degli Spinners, registrato ai Sigma Sound Studios di Philadelphia, indica subito la direzione della musica, quel soul/R&B che poi verrà definito Philly Sound, più morbido e mellifluo del suono della Stax e della prima Motown, cionondimeno molto godibile e piacevole, anche se anticipa l’avvento della Disco Music, archi, cori e fiati imperversano, Stanley ha una bella voce che può spaziare da un sicuro timbro tenorile al falsetto, non manca la tipica chitarrina maliziosa ingrediente immancabile di questo stile. I Do, cantata in un falsetto non esagerato, dimostra che il sound lussurioso è replicabile anche nei brani “originali” di Stanley, come nella successiva mossa I Oh I, tipico brano da dancefloor, con la sezione fiati che si prende i suoi spazi, ma quando è applicata alle cover risplende maggiormente https://www.youtube.com/watch?v=40gsFY0fnu0 .

Paul Stanley @ The Roxy (9.11.2015)

Paul Stanley @ The Roxy
(9.11.2015)

Per esempio nella malinconica ballata Ooh Baby Baby, brano di Smokey Robinson, anche nel repertorio di Linda Ronstadt, dove il nostro può indulgere di nuovo nell’amato falsetto, e il tasso zuccherino potrebbe essere pericoloso per i diabetici, ma si evita nella frizzante ed estiva O-o-h Child, pezzo di Chicago Soul del 1970 dei Five Stairsteps, anticipatori dei Jackson 5 https://www.youtube.com/watch?v=sBEULgmjnWk . Tra i brani migliori del CD, che forse ogni tanto esagera nel dancefloor sound, anche una ottima Just My Imagination (Running Away With Me), cavallo di battaglia del classico Motown sound dei Temptations, dove Stanley si conferma eccellente soul singer https://www.youtube.com/watch?v=2CKWxln5kgE , come ribadisce in The Tracks Of My Tears del maestro Smokey Robinson, e anche in una notevole Let’s Stay Together del grande Al Green https://www.youtube.com/watch?v=yXUBqc1qGuI . Eccellente pure la ripresa di La-La – Means I Love You dei Delfonics, alfieri di quel soul più morbido e sognante, niente male anche l’originale di Stanley Lorelei, spensierato scacciapensieri in questi tempi bui e tempestosi, ma anche la ballatona strappalacrime You Are Everything degli Stylistics, per non dire della splendida ed euforica Baby I Need Your Loving, uno dei capolavori scritti da Holland/Dozier/Holland per i Four Tops. Non un capolavoro quindi, ma tutto estremamente godibile e piacevole https://www.youtube.com/watch?v=kX8KUF6BPk8 . File under Soul Music.

Bruno Conti

Un Bell’Omaggio Ad Un Autentico “Cult Artist”. VV.AA. – The Years: A Musicfest Tribute To Cody Canada

The Years A Musicfest Tribute To Cody Canada

VV.AA. – The Years: A MusicFest Tribute To Cody Canada – Right Ave/Thirty Tigers CD

Ho ancora nelle orecchie i due splendidi tributi a Merle Haggard e Willie Nelson che già mi ritrovo per le mani un altro concerto dal vivo in omaggio ad un songwriter di derivazione country-rock. Ma se Merle e Willie sono due vere e proprie leggende, il texano Cody Canada (fondatore e leader dei Cross Canadian Ragweed e da qualche anno solista con i Departed come backing band) è un musicista ancora giovane e con molti anni davanti a sè. Accostato più volte ad inizio carriera al movimento Red Dirt, Canada è uno di quelli che sia a capo dei CCR (vi ricorda qualcosa questo acronimo?) sia con i Departed non ha mai sbagliato un disco, e la sua miscela di country e rock è sempre stata sostenuta da una indubbia abilità nel songwriting. In tutto questo non pensavo che Cody fosse stimato a tal punto dai suoi colleghi dal diventare il soggetto di un concerto-tributo: The Years è infatti la trasposizione in CD di uno show registrato tra il 7 e l’8 gennaio 2020 al MusicFest di Steamboat Springs, in Colorado, e nel corso di 18 canzoni per circa 75 minuti di musica offre un’ampia e valida retrospettiva sul songbook di Canada.

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Il disco risulta quindi molto godibile, con una serie di performance acustiche ed elettriche ed un elenco di partecipanti in alcuni casi abbastanza noti ed in altri meno (tutti provenienti da Texas, Oklahoma e dintorni, ma niente superstars), e con la ciliegina della presenza del festeggiato in tre episodi. Apre la serata Parker McCollum con l’arioso country-rock Constantly, subito ritmo spiegato e chitarre al vento https://www.youtube.com/watch?v=43SWB-M6CzE , seguito dalla boogie band texana Copper Chief che rocca alla grande con Bang My Head e viene raggiunta sul palco dallo stesso Canada per una dimostrazione di puro southern rock. La Read Southall Band prosegue all’insegna dell’elettricità con la potente Don’t Need You, tra punk e garage music, e gli ottimi Reckless Kelly si prendono il centro della scena con la ruspante Fightin’ For, coinvolgente rockin’ country chitarristico che ricorda il primo Steve Earle https://www.youtube.com/watch?v=REMSQFRwE5w ; la bella 17 è decisamente più country e Jamie Lin Wilson la canta molto bene, e pure Randy Rogers ci delizia con una This Time Around intensa nonostante la veste sonora spoglia, voce e chitarra. Casey Donahew porta un po’ di spirito folk eseguendo 42 Miles con il solo ausilio di due chitarre ed un violino,

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A differenza del bravissimo Wade Bowen che con l’elettrica ballad di stampo younghiano Sick And Tired ci offre uno dei momenti migliori dello show, mentre sia Mike McClure che Bruce Robison scelgono di presentarsi da soli, riuscendo comunque ad emozionare con le belle Carney Man e Breakdown https://www.youtube.com/watch?v=P4UWrMSNspY . Courtney Patton ha una buona voce e fornisce una valida rilettura di Alabama (anche lei in acustico), ed in “splendid isolation” sono pure William Clark Green con la tenue Johnny’s Song, Bri Bagwell con Run To Me e soprattutto l’ottimo Stoney LaRue che ospita ancora Cody per duettare in maniera decisamente intensa su Broken https://www.youtube.com/watch?v=jhdVkluU_nM , mentre Doug Moreland ci regala uno degli highlights con una splendida e struggente ripresa di On A Cloud, puro folk con elementi irlandesi. Finale ancora acustico con Jade Marie Patek alle prese con la bluesata Dead Man e BJ Barham degli American Aquarium con la toccante The Years, ai quali si aggiunge il bonus finale di Canada che chiude la serata coinvolgendo da par suo il pubblico con una sentita Boys From Oklahoma. Un bel tributo quindi, non certo ai livelli di quelli a Nelson e Haggard ma neppure da ignorare a priori.

Marco Verdi

Si E’ Fatto Quel Momento: 50° (+1) Anniversario Anche Per C S N & Y – Déjà Vu. Esce Il 14 Maggio Il Box

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Crosby, Stills, Nash And Young “Deja Vu (50th Anniversary Deluxe Edition)” 4CD/1LP set – Atlantic/Rhino 14-05-2021

Se ne parlava da diverso tempo, visto che il 50° anniversario dell’uscita di questo album storico di Crosby, Stills, Nash & Young avrebbe dovuto essere nel 2020, poi ovviamente per i ben noti motivi della pandemia l”uscita era stata silenziata e rinviata, ma oggi è stata annunciata la data ufficiale della ristampa potenziata che sarà il 14 maggio. Personalmente avrei preferito che le uscite in CD e in vinile fossero divise, ma la Rhino del gruppo Warner agisce così per cui bisogna farsene una ragione e vedere i lati positivi, tra i quali pare non ci sia il prezzo, annunciato per ora, molto indicativamente, tra i 65 e gli 80 euro.

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Tra le cose positive ci sono ben 38 brani aggiunti all’album originale, tra demo, outtakes e versioni alternative, di cui 29 inediti, per un totale di 2 ore e mezza di musica extra in totale rispetto al disco originale che uscì l’11 marzo del 1970. Tra le chicche annunciate Know You Got To Run, la prima canzone in assoluto registrata nel luglio dell’anno precedente da CSN&Y durante la session nella casa che Stephen Stills aveva affittato a Studio City da Peter Tork dei Monkees, il demo di Almost Cut My Hair di David Crosby, la outtake di Bluebird Revisited di Stills, la versione con armonica aggiunta di Helpless di Neil Young e quella di Our House di Graham Nash cantata insieme a Joni Mitchell, oltre al demo di Birds cantato da Neil Young e Graham Nash https://www.youtube.com/watch?v=I4zSLoMCvfg . Le note del cofanetto sono state curate dal regista ed ex giornalista di Rolling Stone Cameron Crowe.

Crosby Stills Nash and Young perform on stage at Wembley Stadium, London, 14th September 1974, L-R Stephen Stills, David Crosby, Graham Nash, Neil Young. (Photo by Michael Putland/Getty Images)

Crosby Stills Nash and Young perform on stage at Wembley Stadium, London, 14th September 1974, L-R Stephen Stills, David Crosby, Graham Nash, Neil Young. (Photo by Michael Putland/Getty Images)

Comunque, come al solito, ecco la lista completa dei contenuti del box.

[CD1: Original Album]
1. Carry On
2. Teach Your Children
3. Almost Cut My Hair
4. Helpless
5. Woodstock
6. Déjà Vu
7. Our House
8. 4 + 20
9. Country Girl
a. Whiskey Boot Hill
b. Down, Down, Down
c. Country Girl (I Think You’re Pretty)
10. Everybody I Love You

[CD2: Demos]
1. Our House – Graham Nash *
2. 4 + 20 – Stephen Stills *
3. Song With No Words (Tree With No Leaves) – David Crosby & Graham Nash
4. Birds – Neil Young & Graham Nash *
5. So Begins The Task/Hold On Tight – Stephen Stills *
6. Right Between The Eyes – Graham Nash
7. Almost Cut My Hair – David Crosby *
8. Teach Your Children – Graham Nash & David Crosby
9. How Have You Been – Crosby, Stills & Nash
10. Triad – David Crosby
11. Horses Through A Rainstorm – Graham Nash
12. Know You Got To Run – Stephen Stills *
13. Question Why – Graham Nash *
14. Laughing – David Crosby *
15. She Can’t Handle It – Stephen Stills *
16. Sleep Song – Graham Nash
17. Déjà Vu – David Crosby & Graham Nash *
18. Our House – Graham Nash & Joni Mitchell *

[CD3: Outtakes]
1. Everyday We Live *
2. The Lee Shore – 1969 Vocal *
3. I’ll Be There *
4. Bluebird Revisited *
5. Horses Through A Rainstorm
6. 30 Dollar Fine *
7. Ivory Tower *
8. Same Old Song *
9. Hold On Tight/Change Partners *
10. Laughing *
11. Right On Rock ’n’ Roll *

[CD4: Alternates]
1. Carry On – Early Alternate Mix *
2. Teach Your Children – Early Version *
3. Almost Cut My Hair – Early Version *
4. Helpless – Harmonica Version
5. Woodstock – Alternate Vocals *
6. Déjà Vu – Early Alternate Mix *
7. Our House – Early Version *
8. 4 + 20 – Alternate Take 2 *
9. Know You Got To Run *

[LP: Original Album]
1. Carry On
2. Teach Your Children
3. Almost Cut My Hair
4. Helpless
5. Woodstock
6. Déjà Vu
7. Our House
8. 4 + 20
9. Country Girl
a. Whiskey Boot Hill
b. Down, Down, Down
c. Country Girl (I Think You’re Pretty)
10. Everybody I Love You

* Previously Unreleased

Per il momento è tutto, ovviamente dopo l’uscita ci ritorneremo per la recensione, visto che si tratta di uno dei dischi più belli del 1970, ma direi anche di sempre.

Bruno Conti

Uno Straordinario Viaggio Musicale Nel Tempo. Tony Trischka – Shall We Hope

tony trischka shall we hope

Tony Trischka – Shall We Hope – Shefa

Annunciato da tempo, ecco finalmente il CD di Shall We Hope un progetto al quale Tony Trischka stava lavorando da più di 12 anni: quello che comunemente si definisce un concept album, incentrato sulle vicende della Civil War americana di due secoli fa, per il quale lo stesso Trischka ha composto, musica e parole, un ciclo di brani che, partendo dalla battaglia di Gettysburg del luglio 1863, e andando avanti e indietro nel tempo, per esempio la foto di un ritrovo di veterani in occasione del 75° Anniversario dell’avvenimento nello studio del presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1938, in una sorta di fiction storica di fantasia ricostruisce le traversie di alcuni personaggi che avrebbero potuto partecipare a quelle vicende. Il nostro amico ha poi coinvolto diversi musicisti e attori per interpretare i personaggi di questo acquarello, utilizzando gli stilemi sonori del bluegrass, del country, della old time music, del gospel, in definitiva della musica popolare americana, anche del blues e qualche elemento orchestrale, per questo progetto che ha subito un drammatica accelerazione dopo gli eventi a Capitol Hill, in quel di Washington, dell’inizio di gennaio del 2021, che si sono intrecciati proprio con le tematiche della Guerra Civile.

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Trischka, molto succintamente, è una sorta di leggenda del bluegrass americano, una carriera che discograficamente inizia 50 anni fa quando Tony pubblica il primo disco con i Country Cooking, ma già in precedenza era considerato uno dei banjoisti più influenti delle nuove generazioni con i Down City Ramblers, tra gli eredi dei nomi storici del bluegrass, influenzato dai grandi dello strumento, da Earl Scruggs in giù, ma soprattutto dal Kingston Trio e a sua volta una influenza su Bela Fleck, con compagni di avventura come Richard Greene, David Grisman, Kenny Kosek, Andy Statman e via dicendo. Il nostro amico è stato molto prolifico negli anni ‘70, ‘80 e ‘90, e nella prima decade degli anni 2000, poi ha rallentato l’attività, ma ha comunque realizzato, sempre per la Rounder, sua etichetta storica, un album come Great Big World nel 2014, ricco di ospiti e tra i migliori della decade scorsa, mentre già lavorava a questo nuovo progetto, dove, come detto, ha coinvolto molti “amici”. Il risultato è un disco dove il bluegrass non è forse preminente come uno potrebbe pensare, benché il banjo di Trischka sia abbastanza presente nei brani che attraverso diversi intrecci, raccontano le storie di amore, morte, guerra, dissidi, schiavismo, che portano alla battaglia di Gettysburg, raffigurata nella copertina dell’album.

michael daves

michael daves

Con i protagonisti che si alternano al proscenio nei 18 brani, attraverso le figure dei vari artisti che li impersonano, con una scelta di stili musicali impiegati quantomai eclettica: nel breve preludio Clouds Of War, tra rumori di battaglia, l’attore John Lithgow recita alcuni versi con una orchestra sullo sfondo, il primo brano, This Favored Land, ambientato nel cimitero di Gettysburg nel 1938, con il banjo protagonista, assieme a mandolino e violino, con Phoebe Hunt che è la voce solista nella canzone, saltando altri interludi ricorrenti nella narrazione https://www.youtube.com/watch?v=Jvm70KIqYds , On The Mississippi (Gambler’s Song), una mossa ed intricata bluegrass tune che ci introduce al personaggio di Cyrus, un soldato, la cui storia d’amore con Maura è il trait d’union della vicenda, interpretato dall’ottimo Michael Daves, voce squillante e chitarra, uno dei musicisti più interessanti della nuova scena acustica americana https://www.youtube.com/watch?v=k5DHQlqUdUg , Maura, manco a farlo apposta è interpretata dalla bravissima Maura O’Connell, irlandese, ma da anni trasferita a Nashville, che purtroppo nel 2013 ha annunciato il suo ritiro dalla carriera solista, ma che ogni tanto ci regala la sua splendida voce, come nella superba ed evocativa ballata Carry Me Over The Sea dove il bluegrass si intreccia con la musica celtica https://www.youtube.com/watch?v=lZcC0w5Za4E .

maura o'connell

maura o’connell

La successiva The General, cantata ancora da Daves, racconta la storia della famosa locomotiva impiegata durante la guerra, altro limpido esempio del bluegrass complesso impiegato nell’album https://www.youtube.com/watch?v=SgsHrY80lS0 , I Know Moon-Rise, cantata dalla brava Catherine Russell, è un gospel a cappella con coro, che narra la sepoltura di una schiava morta durante il conflitto e il cui corpo torna in Africa https://www.youtube.com/watch?v=GOYSSisH27I . Leaving This Lonesome Land è cantata con pathos dal grande bluesman Guy Davis, anche all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=QcFfW52gddQ , che poi legge la lettera all’amata inviata da John Boston, uno schiavo scampato alla guerra, ma non si è mai saputo se riuscì a ricongiungersi con la moglie, mentre Gotta Get Myself Right Back To You conclude il segmento di brani cantati da Davis. A seguire troviamo Big Round Top March/Drummer Boys un brano fiatistico ed eccentrico scritto da Van Dyke Parks, e dedicato ai tamburini impiegati nel conflitto, con la seconda parte, quella che annuncia l’arrivo della battaglia cantata da Brian O’Donovan, il papà di Aoife, e sembra quasi un pezzo dei Pogues https://www.youtube.com/watch?v=c_20ALj5N2I .

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Torna Daves per Christmas Cheer (This Weary Year), una deliziosa ballata folk, sempre con violino, mandolino e il banjo guizzante di Trischka https://www.youtube.com/watch?v=XYn0zQddryo , e poi si unisce a Maura O’Connell nella bellissima e struggente Dearest Friend And Only Lover che racconta l’incontro dei due amanti, brano orchestrale accompagnato da una sezione archi https://www.youtube.com/watch?v=1zQT_p6PAQc , e ancora la breve Soldier’s Song cantata a cappella dai Violent Femmes, un altro breve interludio narrato da Lithgow relativo a John Boston, e infine i due brani che concludono la vicenda, entrambi cantanti da Michael Davis, la sospesa e sognante Clouds Still Drift Across The Sky, ricca di archi e la mossa Captain, Oh My Captain, ancora dai chiari contorni sonori bluegrass ,con il banjo di Tony in evidenza e anche gli ottimi Dominick Leslie al mandolino e Brittany Haas al violino, eccellenti in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=bCh0hxQygqk , che termina con il postludio F.D.R, In Gettysburg, 1938, che è il discorso di Roosevelt letto da John Litghow. Veramente un disco mirabile realizzato in modo perfetto.

Bruno Conti

Un Degnissimo Tributo Alla Motor City. Alice Cooper – Detroit Stories

alice cooper detroit stories

Alice Cooper – Detroit Stories – EarMusic/Edel CD

Detroit Rock City, cantavano i Kiss nel 1976. Ed è vero: dopo essere stata negli anni sessanta la patria del soul/R&B grazie alla leggendaria Motown, a poco a poco la città più importante del Michigan è diventata il centro della scena rock, con derivazioni hard e quasi punk (termine che peraltro ancora non esisteva). Inizialmente il suono era più rock’n’roll, con gruppi come Mitch Rider & The Detroit Wheels (il loro singolo con Devil With The Blue Dress On sul lato A e Good Golly Miss Molly sul lato B fa la parte del leone nel Detroit Medley di Springsteen) e Question Mark & The Mysterians, ma poi l’approccio è diventato via via più pesante per mano di nomi del calibro di Iggy Pop & The Stooges, MC5, Grand Funk Railroad e Ted Nugent, anche se la quota rock’n’roll era mantenuta da Bob Seger e dalla popolarissima Suzi Quatro. Nativo di Detroit era anche Alice Cooper, che dopo gli incerti esordi sotto la guida di Frank Zappa in breve tempo diventò uno degli acts più famosi in America ed inventore indiscusso del cosiddetto “shock-rock”, grazie anche al fiuto del geniale produttore Bob Ezrin (Lou Reed, Kiss, Pink Floyd e solo recentemente Deep Purple).

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Alice è sempre stato molto legato alla sua città d’origine, ma un vero e proprio omaggio in musica non glielo aveva mai riservato almeno fino a Breadcrumbs, un EP pubblicato solo in vinile nel 2019 in cui riprendeva alcuni pezzi famosi e non di alcuni dei gruppi citati poc’anzi aggiungendo un paio di canzoni sue. Sfruttando l’ottimo momento di forma che negli ultimi anni ha prodotto il buon Paranormal ed i due riusciti album degli Hollywood Vampires, Cooper ha deciso di allargare il discorso iniziato con Breadcrumbs pubblicando Detroit Stories, CD nuovo di zecca che riprende quattro dei sei brani finiti sull’EP del 2019 (ma in versioni incise ex novo) aggiungendo altri undici pezzi, con il risultato finale di avere un disco davvero riuscito e godibile che si muove molto bene tra rock’n’roll, hard rock, blues e perfino funky e pop, ed in definitiva uno dei migliori lavori del nostro nelle ultime decadi. Prodotto ancora da Ezrin, Detroit Stories non è un vero e proprio concept album (alcuni testi non riguardano neppure la Motor City), ma è suonato in gran parte da musicisti locali, un vero e proprio parterre de roi che comprende l’ex chitarrista degli MC5 Wayne Kramer, il bassista Paul Randolph, il chitarrista Steve Hunter dei Detroit di Mitch Rider (e già in passato collaboratore di Alice nonché guitar man di Lou Reed nel mitico Rock’n’Roll Animal), il batterista Johnny Bedanjek degli stessi Detroit, l’ex leader dei Grand Funk Railroad Mark Farner nonché i tre membri superstiti della Alice Cooper Band originale Neil Smith, Michael Bruce e Dennis Dunaway.

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Per la verità il brano iniziale, una cover del classico dei Velvet Underground Rock & Roll (ma ispirata dalla versione dei Detroit, e Steve Hunter appare anche qui), vede alla solista il nostro amico Joe Bonamassa: bella rilettura, decisamente potente e rocciosa, con JoBo che porta in dote un sapore blues con un assolo dei suoi ed Alice che canta bene ed in maniera scorrevole https://www.youtube.com/watch?v=wmkf57yffT0 . Go Man Go è una sventagliata elettrica in pieno volto, un brano duro e massiccio nella tipica tradizione del nostro, con la frase del titolo ripetuta ossessivamente da un coro, un refrain diretto ed un breve ma ficcante guitar solo di Farner; per contro, Our Love Will Change The World (cover di un pezzo del 2005 degli Outrageous Cherry, altro gruppo di Detroit) è il classico brano che non ti aspetti, una pop song gioiosa, solare e beatlesiana che contrasta però con le liriche amare e pessimistiche (riscritte in parte da Alice stesso) https://www.youtube.com/watch?v=C7uakxd4X80 . Una sorpresa inattesa e piacevole. Social Debris propone una reunion “allargata” della Alice Cooper Band, ed è un rock’n’roll sotto steroidi del tipo che il nostro ha cantato mille volte in carriera (ma l’energia e la grinta sono immutate) https://www.youtube.com/watch?v=8U0QhxO2kjQ , $ 1000 High Heel Shoes è invece un funk-rock con tanto di fiati e coro femminile decisamente insolito per Mr. Furnier ma assolutamente accattivante, ritmato e coinvolgente. Hail Mary è puro rock’n’roll, neanche tanto hard, che fa battere il piedino e mostra ancora l’ottimo stato di forma del leader. Detroit City 2021 è il rifacimento da parte di Alice di un suo pezzo del 2003 (invero piuttosto nella media), mentre Drunk And In Love è un godibile bluesaccio elettrico, con il ritorno di Bonamassa che si cala perfettamente in un ambiente sonoro a lui consono e Cooper che aggiunge anche una buona performance all’armonica.

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Con Independence Dave, scritta insieme a Kramer, Alice ci dà dentro con un’altra travolgente rock’n’roll song, I Hate You vede esclusivamente i membri del vecchio gruppo del nostro partecipare anche a livello vocale in una sorta di divertissement tra rap e hard rock, mentre Wonderful World ha un ritmo cadenzato e sinuoso che rimanda al periodo in cui il titolare del disco era il re incontrastato dell’horror-rock. Sister Anne è una eccellente cover degli MC5, ennesima sferzata di energia rock’n’roll di un CD in grado di dare dei punti a tante band giovanili, con Kramer che piazza un assolo mica da ridere https://www.youtube.com/watch?v=r2qkY8f1EpI , Hanging On By A Thread è puro Alice Cooper, una solida rock song dal passo lento ed un testo che invita a non mollare mai neanche nei momenti più bui, la breve Shut Up And Rock (con Larry Mullen Jr. degli U2 alla batteria) è una fucilata di due minuti che, come dicono gli americani, “deliver the goods”. Il disco si chiude con una sanguigna rilettura di East Side Story, antico pezzo dei Last Heard, gruppo sixties in cui militava un giovane Bob Seger. Ad un anno di distanza dal primo lockdown la situazione non è purtroppo cambiata di molto, e può capitare che ogni tanto possiate sentire il bisogno di una scarica di elettricità: in tal caso, Detroit Stories potrà benissimo fare al caso vostro.

Marco Verdi